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L’INTERVISTA

L’INTERVISTA

Foto Antonio Milesi

Il sindaco ripercorre i mesi del lockdown e analizza i punti critici della gestione dell’emergenza sanitaria, e quelli da cui ripartire 18

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GIORGIO GORI In corsa per il World Major 2020, ma lui frena: «Ho fatto solo il mio dovere»

Bergamo appare ancora assopita a dieci giorni dalla fine del lockdown. Non c’è più l’atmosfera surreale, da film postapocalittico, delle strade vuote e silenziose; ma certo il traffico automobilistico, percorrendo la circonvallazione, viale Papa Giovanni, e le vie del centro che portano verso il Municipio, potrebbe essere quello di una sonnacchiosa giornata di pieno agosto, più che di un normale giorno lavorativo in cui tutti si muovono per ripartire al 100%. Giorgio Gori ha presidiato Palazzo Frizzoni in questi due mesi e mezzo abbondanti, scegliendo di recarsi in ufficio ogni giorno, nonostante uno staff ridotto ai minimi termini, per far sentire ai cittadini la propria presenza al posto di combattimento. Oltre a dover gestire la stampa, anche internazionale, che per settimane ha preso d’assalto il palazzo comunale in cerca di dichiarazioni, il sindaco è riuscito a reggere il timone, talvolta costretto a navigare a vista a causa delle complicanze e incomprensioni tra le varie istituzioni, ed è stato candidato dal World Mayor Project al riconoscimento di miglior sindaco a livello mondiale, per la sua gestione della tempesta Covid19. Ma cerca di contenere l’entusiasmo. «Trovo questo riconoscimento un po’ esagerato. Sono sinceramente onorato di essere stato inserito in questa lista insieme ad altri due ottimi colleghi italiani (Sala di Milano e Argenti di Villa del Conte, ndr), ma credo di non aver fatto nulla che non rientrasse nel mio dovere. Semplicemente, sono stato maggiormente coinvolto e messo alla prova rispetto a colleghi che hanno avuto maggiore fortuna, perché da noi il virus ha colpito duramente e per settimane Bergamo è d i ve n t a t a , epidemiologicamente parlando, il centro del mondo, quindi siamo stati sotto la lente di ingrandimento. Sono stati fatti degli errori, è fisiologico in una situazione completamente nuova, ma se sono in questa selezionatissima lista si deve maggiormente alle circostanze che ai miei meriti, e onestamente rimane un’esperienza che avrei preferito non fare».

La chiave di volta, adesso, è la mappatura epidemiologica data dall’abbinamento di test sierologici e tamponi: a che punto siamo? «La situazione è di grande confusione, derivante da orientamenti contraddittori da parte della Regione, che per quanto riguarda i tamponi non si è ancora dotata di una capacità produttiva adeguata. Chiunque abbia il minimo sintomo dovrebbe essere sottoposto a tampone, e a cascata i suoi familiari e contatti anche asintomatici, e sarebbe buona cosa prevedere l’isolamento per chi non può effettuarlo in maniera efficace nella propria abitazione. Questo è l’unico modo di evitare che si riparta daccapo. La Lombardia in questo momento non è in grado di applicare queste procedure con la tempestività e la capillarità che il monitoraggio della situazione richiederebbe. Le cose sono migliorate, ci aggiriamo attualmente sui 12-13.000 tamponi al giorno rispetto ai circa 5.000 della fase di picco, ma sono sempre insufficienti. Parliamo dei test sierologici: presentati dal Presidente della Regione come il viatico per la patente di immunità, ad oggi sappiamo che non lo sono, che ci dicono se una persona, essendo venuta a contatto con la malattia, ha sviluppato gli anticorpi, ma se non abbinati al tampone non sono utili dal punto di vista diagnostico, non ci dicono se il paziente è contagioso o la malattia è in corso. Addirittura, si è arrivati a proclamare l’opposto, cioè che che i test siano inutili e che sia superfluo farli, tutto questo dopo essere stati l’unica Regione al mondo ad averli pubblicamente avallati. Gli istituti di analisi privati sono stati prima frenati, poi gli è stato detto di partire con i test, infine sono stati nuovamente bloccati. Noi, in questi giorni, abbiamo pensato di fare da soli, grazie a tanti partner del nostro territorio: 50mila test sierologici e tamponi per coloro che saranno positivi agli anticorpi, per sapere davvero come sta il nostro territorio a qualche settimana dal COVID19».

Cosa non ha funzionato, a livello generale, nella nostra regione? «Non mi sento di attribuire responsabilità a questa o quella istituzione: penso che semplicemente il virus abbia colpito maggiormente in Lombardia perché qui abbiamo avuto i primi

focolai e, ormai appare certo, l’epidemia era già in fase molto avanzata nel momento in cui abbiamo individuato il Covid 19. Non conosciamo il momento preciso in cui è approdato da noi, ma si parla addirittura di fine 2019, e da lì a febbraio il virus ha avuto mesi per colonizzare indisturbato il territorio. Sul perché non lo si sia riconosciuto prima, le responsabilità sono diverse. Credo si sia sbagliato, in una prima fase, nel monitorare solo ed esclusivamente chi avesse avuto contatti diretti con la Cina, senza calcolare che i contatti indiretti erano già stati veicolo di diffusione. Sono stati sicuramente commessi degli errori: per quanto riguarda, nello specifico, Bergamo e la Val Seriana, la mancata istituzione della zona rossa; per mesi, sono stati fatti tamponi - e ritorniamo alla questione della scarsa disponibilità degli stessi - solo a chi

arrivava in pronto soccorso già in gravi condizioni, quando avremmo dovuto farli al domicilio sin dai primi sintomi; poi la Regione ha reso obbligatorio l’uso delle mascherine, ma queste non si trovavano da nessuna parte. Qui il virus si è manifestato con violenza inaudita e ci ha colto impreparati, ma questa non vuole e non deve essere un’attenuante».

È intervenuto un team di specialisti russi per aiutare nella disinfezione delle strutture ospedaliere e residenziali, come si è creato questo contatto? «È stato la conseguenza di un primo contatto avvenuto a fine marzo tra il Presidente Conte e il Presidente Putin, che poi ha portato a una trattativa tra i rispettivi Ministri degli Esteri e all’intervento di questo team, composto in parte da medici e infermieri molto preparati, che hanno lavorato in otto squadre da quattro membri ciascuna presso l’ospedale da campo in fiera, e in parte da professionisti della sanificazione già esperti di teatri di guerra batteriologica. Hanno svolto un lavoro prezioso».

Sono trascorsi una decina di giorni dalla fine del lockdown e il rischio maggiore è quello degli assembramenti; è complicato garantire la sicurezza in città in questo senso? È di questi giorni la polemica sull’ipotesi di istituire una guardia civica in tal senso. «Trovo piuttosto assurda l’idea delle guardie civiche anti-assembramento dato che, grazie a Dio, non mancano volontari sul territorio con cui esiste un rapporto di collaborazione duraturo e consolidato, senza bisogno che la Protezione Civile debba assumere altro personale a livello nazionale. Detto questo, garantire l’ordine nel primo weekend di libertà non è stato semplice. Il sentimento di sollievo è eccessivo specialmente tra i giovani che, dopo i mesi difficili che abbiamo trascorso, sentono prepotentemente il bisogno di uscire, socializzare, tornare alla vita di sempre, e questo li porta ad agire con una certa leggerezza: si sono viste mascherine abbassate o totalmente assenti, distanze troppo ridotte, folle nei locali. Rinnoviamo l’invito ad essere prudenti. In questo momento, non stiamo chiedendo cose trascendentali, come restare ancora a casa. Chiediamo semplicemente di indossare la mascherina e mantenere le distanze. I giovani, anche se si sentono invulnerabili, sono contagiabili come chiunque altro. Il fatto che, per loro, l’esito non sia praticamente mai letale, ma si risolva nella maggior parte dei casi in una banale tosse o addirittura in una forma asintomatica, li fa sentire onnipotenti; ma questo è sbagliato e

Piazza Vecchia deserta durante il lockdown

pericoloso per chi gli sta attorno e per tutta la comunità. È in previsione una seconda ondata di contagi per questo autunno, che, per quanto tutti ci auguriamo che non sia devastante come la prima, anche alla luce dell’esperienza che abbiamo maturato, non va sottovalutata. Il risultato sarà la somma di tanti nostri comportamenti, responsabili o meno».

Dal punto di vista economico, ha una stima delle attività cittadine e del territorio che hanno subito ripercussioni, anche permanenti? «Ho un dato parziale, per quanto riguarda Bergamo, e nello specifico le attività commerciali, circa 1400, che sono rimaste ferme. Le attività artigianali colpite si attestano sulle 3000 unità. Anche ora che tutto è riaperto, ho la sensazione che non sia finita, che ci saranno difficoltà perché il potere d’acquisto di famiglie e imprenditori si è drasticamente contratto. Serve a poco tenere tutto aperto se la gente non esce e non consuma. E abbiamo, ovviamente, un problema altrettanto significativo per quanto riguarda il turismo, letteralmente annullato. Tra i più colpiti ci sono i commercianti, che stiamo cercando di aiutare concretamente tramite lo sgravio di alcuni contributi fiscali e il Programma Rinascimento, tramite il quale, con la collaborazione di Banca Intesa, abbiamo messo a disposizione ben 30 milioni di euro per le microimprese di Bergamo, per aiutarle nella ripartenza e per attrezzarsi con i dispositivi necessari a garantire la sicurezza. Nessun’altra città ha concepito nulla del genere, ci siamo mossi più rapidamente del governo centrale e spero che questo aiuti, oltre che concretamente, a recuperare un po’ di fiducia».

L’arrivo del convoglio a Bergamo di specialisti russi

A livello sociale, sono state o saranno attivate iniziative di sostegno per chi ha particolarmente risentito della situazione di reclusione, ad esempio bambini e ragazzi che hanno visto stravolto il proprio mondo? «La reclusione della quarantena è stata molto difficile per tutti, ma oserei dire che la considero superabile, o quanto meno non è la mia principale preoccupazione. Mi allarma molto di più, in proporzione, il fatto che siamo a fine maggio e ancora non abbiamo linee guida per la riapertura delle scuole a settembre, in quanto questo è il nodo fondamentale. Diamo pure per “perso” questo anno scolastico, ma a settembre si deve tassativamente ricominciare, con modalità ancora non chiare. Se ammettiamo che, per evitare la presenza di un numero elevato di studenti in aula, possiamo ragionare su una didattica parzialmente in presenza e parzialmente online per i ragazzi più grandi, questo non vale per i bambini, alle cui famiglie e alle cui mamme, lavoratrici e non, sono già stati chiesti grandi sacrifici. Le attività educative ripartiranno già a partire da quest’estate, ma urgono indicazioni chiare su come organizzarsi».

È legittimo aspettarsi in futuro altre emergenze del genere, conseguenza dello sfruttamento ambientale o di altri fattori? Cosa dobbiamo imparare da questa esperienza, ora che sappiamo che una pandemia mondiale non è fantascienza e può accadere? «Non sono tra quelli che mettono il Coronavirus sul conto dello sfruttamento, effettivamente dissennato, delle risorse del pianeta. So che qualcuno ha fatto questa equazione, si è anche ipotizzato che il virus abbia proliferato maggiormente in aree maggiormente industrializzate e quindi inquinate, ma semplicemente i dati che abbiamo a disposizione, proprio in quanto incompleti, non sono sufficienti a suffragare questa ipotesi. Il virus è partito da una pratica assai lontana dalla nostra moderna sensibilità, quella dei wet market, e a questo punto mi auguro che la Cina abbia imparato la lezione e li bandisca quanto prima. La possibilità che un’emergenza simile si ripeta esiste, e d’altronde Bill Gates (e non solo lui), in un TED del 2015, aveva anticipato esattamente questo tipo di situazione. Dobbiamo tenere presente, per il futuro, che i posti in terapia intensiva servono: poco importa che in un momento di quiete restino inutilizzati, devono esserci al momento del bisogno. Oltre ai posti in intensiva, la Regione aveva tagliato molto anche sul personale. Ben prima dell’emergenza, sapevamo benissimo di avere un problema con la mancanza di personale medico specializzato e medici di famiglia, in quanto la politica di risparmio aveva portato prima all’istituzione del numero chiuso in facoltà e successivamente a ulteriori tagli. Spero che queste decisioni vengano riviste, così come anche la scelta di puntare tutto sulla sanità ospedaliera regionale, anche in caso di una situazione fuori misura come questa. Non avevamo la sanità territoriale sufficiente ad affrontare questa battaglia». Arianna Mossali

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