Visione Franciscana della Vita

P. EFREM BETTONI O. F. M.

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA PREFAZIONE DI MONS. ARCANGELO MAZZONI, O F. M. ARCIVESCOVO DI SASSARI

MORCELLIANA BRESCIA - 1948

Nifiil obstat quominus imprimatur P. Camillus Merazzi Min. Prov.

Mediolani 17 septembris 1948 Brlxiae die festo S. Francisci 4 octobris 1948 Vision: nielli obstat quominus imprimatur Can. Paulus Guerrini censor. deleg.

Brlxiae 5 Octobris 1948 Imprimatur Can. Angelus Bertelli Vicarius Generalis

Diritti di riproduzione riservati per tutti i paesi Copyright by Morcelliana 1948 Printed in Italy

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PREFAZIONE

Un nuovo libro su S. Francesco c il francescane­ simo? Non è cerio cosa facile oggi, dopo che lauto se n’è scritto e parlalo da competenti e da dilet­ tanti, scrivere di S. Francesco e di quel movimento che da lui proviene, per quanto vasto e profondo, senza correre il l'ischio di dire e ripetere, sia pure in forma e da punti di vista diversi, ciò che altri ha già detto o scritto.

Per questo quando P. Efrem mi disse che aveva in corso di stampa un lavoro su S. Francesco e la sua spiritualità rimasi un po' scettico e pensai tra me, che il giovane Autore non avrebbe probabil­ mente fatto altro che darci, sotto una forma nuova, ciò che sostanzialmente era già detto o scritto da altri.

Ora che ho letta Vintroduzione e dato lino sguar­ do alla trattazione e svolgimento del soggetto che

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VAutore si è prefìsso: « Visione francescana della vita » debbo, e lo faccio volentieri e con gioia, ri­ credermi da> quel giudizio preconcetto e riconosce­ re che P. E freni ha saputo darci qualche cosa di sostanzialmente nuovo e non privo di interesse per gli studiosi di S. Francesco e del Francescanesimo e di grande utilità per quanti desiderano di com­ prendere più e meglio Vanima e la concezione del­ la vita nel pensiero e nella tirassi francescana.

Nuovo Vargomento preso a trattare, giacche se di visione e concezione della vita dal punto di vi­ sta. francescano ne abbiano qua e là trattato anche altri che si sono occupati di spiritualità france­ scana, nessuno che io sappia, ha trattato tale argo­ mento di proposito e a fondo come P. E freni. Nuo­ va Vini-postazione c la trattazione in quanto VAuto­ re non si ferma a studiarlo in S. Francesco e nei suoi primi discepoli, ma estende il suo studio al pensiero dei suoi più dotti e più autentici inter­ preti e, primo fra questi, il Serafico Dottore S. Bo­ naventura.

Sono pertanto d'accordo con fautore quando af­ ferma che « la lettura e lo studio delle opere dei pensatori francescani è un mezzo efficacissimo per far rivivere nelle anime Videale e la vita france­ scana » e sono pure d'accordo con lui nel ricono­ scere « che terziari e direttori hanno troppo poca confidenza con le fonti della spiritualità francesca­ na: lo spirito francescano è un qualche cosa di troppo vago nella loro mente perchè possa agire efficacemente sul loro cuore e deciderli all'azione » (Introduzione). E che dire di coloro, terziari e di­ rettori di Congregazioni, che non hanno mai letto

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neppure le fonti principali, quali il Celanor lo Spec­ chio di Perfezione, ecc.i P. Efrem non ai è assunto il compito di esporre il pensiero di lutti gli scrittori francescani: occor­ rerebbe un libro di ben jriù vasta mole, via tocca ed espone con competenza e chiarezza la dottrina francescana su quei principii e questioni che pos­ sono considerarsi come la chiave di volta per ca­ pire in tutta la sua ampiezza e profondità Vanirne francescana e che sono la base sulla quale deve im­ postarsi una spiritualità che intenda e voglia se­ riamente camminare sulle orme del Serafico d'As­ sisi. Senza tali basi si potrà fare della letteratura e della poesia francescana, ma un insegnamento e una predicazione formativa, no. Ammiratori di S. Francesco, di quel tale S. Francesco che parla agli uccelli e che cani a con frate usignolo e sorella cicala, se ne avranno e ce ne sono anche troppi, ma seguaci di colui che Pio XI affermava essere il più perfetto imitatore del Cristo crocefisso, no. Ma il messaggio francescano vuole di questi; degli altri non sa che farne. « Visione francescana della vita» non è un libro alla portata di tutti. Per quanto VAutore sia riu­ scito ad essere chiaro e facile nella esposizione del­ la dottrina, tuttavia le questioni stesse sono tali che richiedono, per essere capite, un minimum di filosofìa e di teologia, e perciò il libro non può es­ sere letto con profitto che da Sacerdoti e da una categoi'ia non molto vasta di laici. Ma questo VAu­ tore Vha già previsto. Lo scopo è formare maestri che sappiano parlare di francescanesimo da com­ petenti e non da orecchianti.

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Di gran cuore mi rallegro col giovane Autore per il suo nobile e ben riuscito lavoro che viene a portare un contributo di non lieve importanza alla pur tanto copiosa e vasta letteratura francescana, e mi auguro che il libro, come ben se lo merita, abbia a trovare lettori attenti e non distratti, de­ siderosi di allargare e approfondire la loro cultura, francescana e pih che tutto lettori appassionati delVideale francescano. A questi lettori il libro fa­ rà del bene e se non riuscirà a far prendere in ma­ no i volumi del Dottore Serafico, come vorrebbe l'Autore, dato che i grossi volumi « in folio » a troppi fanno paura, servirà a dar loro idee chiare su certi punti della dottrina francescana, che sono completamente ignorati o conosciuti attraverso manuali di fdosofìa e di teologìa, i cui autori, non avendoli mai studiati nelle loro fonti genuine, li impostano male, ne capiscono poco o nulla e tro­ vano molto comodo relegarli tra le questioni di lana caprina. E se, coinè non ho a dubitarne, ot­ terrà questo, l'autore sarà ben compensato della sua fatica.

Milano, 1° Ottobre 1948

Mons. Arcangelo Mazzotti O.F.M. Arcivescovo di Sassari

INTRODUZIONE Queste pagine vogliono essere una introduzione ed un*ambientazione per le anime che desiderano ispirarsi, nei loro pensieri e ìlei loro sentimenti, al francescanesimo.

Di solito quelli che aspirano a penetrare lo spi­ rito francescano sia per curiosità storica, sia con propositi di realizzazioni pratiche, si fermano al­ lo studio della vita di S. Francesco d'Assisi, o, al massimo, si interessano della stona dell*Ordine Francescano, così ricca e appassionata, specie nel primo secolo. È un metodo buono certamente, ma insufficien­ te, a mio parere, per le considerazioni che verrò svolgendo.

Il Francescanesimo, come il cristianesimo, è sta­ io prima di tutto una vita, un'esperienza fatta da S. Francesco e dai suoi pumi discepoli. Alla sua base 72071 c'era una dottrina, unai visione filosofica del mondo, ?na iuta serie di intuizioni amorose: il francescanesimo è 7iato dall'amore del Poverel­ lo d'Assisi per il Cristo e per il suo Vangelo.

Ma come il cì'istianesimo quando entrò nei cen-

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tri della coltura greca e conquistò anime abituate alla speculazione, divenne anche una filosofia ed un sistema di pensiero, così il francescanesimo, quando arrivò aWUniversìtà di Parigi ed entrò in contatto con uomini che avevano la passione di teorizzare e di dare una base speculativa agli slanci del cuore, ànch'esso divenne una filosofia e una teologia.

In questa capacità del francescanesimo, ardore c devozione di anime semplici, di conquistare men­ ti colme di sapienza umana e divina, e di rivela­ re quindi la sua consistenza e fecondità di fronte aWindagine profonda di nobili pensatoli, S. Bo­ naventura trovava, e giustamente. una conferma e un suggello della sua origine divina, analoga­ mente a quello che avviene per la Chiesa di Crisfo. « Confesso davanti a Dio, che la cosci che so­ pra tutto mi fece amare VOrdine francescano è questa: i suoi inizi e il suo sviluppo sono simili a quelli della Chiesa, la quale appunto iniziata da rudi pescatori guadagnò poi studiosi fra i più fa­ mosi ed eruditi. La stessa cosa puoi osservarla nelVOrdine francescano e con questo Dio dimostra che non è opei'a umana, ma di Cristo. Siccome le opere di Cristo non vengono meno, ma progredi­ scono, così si dimostra essere detto Ordine opera divina dal momento che anche uomini pieni di sapienza non hanno sdegnato di entrarvi metten­ dosi insieme ad uomini privi di cultura » (1). È certamente un segno di perfezione questo, che una (1) Epistola de tribus (juao$tionibust n. 13: VITI, 33G. TI numero romano indicn il volume dell’Opera Omnia li S. Ronaventura edita a Quaracchi.

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esperienza, uno slancio del cuore possa trovare la sua giustificazione in una filosofia e in una teo­ logia: è la prova, per un lato, della sua profonda umanità e, per l'altro, del suo accordo con la ri­ velazione divina.

Ed è anche un vantaggio: questa esperienza, questa vita infatti, per il fatto stesso di essere stata giustificata in linea teorica, è stata messa nella condizione di essere insegnala.

Maestro ideale di francescanesimo sarebbe sta­ lo S. Francesco, se di persona avesse potuto for­ mare tutti i suoi figli, trasfondendo in essi con l'esempio della sua vita, Ventusiasmo e il calore dei suoi affetti: in questo caso i concetti e le pa­ role diventavano quasi superflui.

Dal momento che questo era impossibile, Vere­ dità francescana minacciava di andare dispersa, mano mano che si allontanava da Lui nello spazio e nel tempo.

A conservarle intatta la sua seduzione e la sua forza persuasiva non poteva certo bastare nò il racconto della sua vita, nò la tradizione orale de' suoi insegnamenti.

Un mezzo efficacissimo per far rivivere nelle anime conquistate dall'ideale francescano l'animo e gli ardori del Poverello era quello di consacrare in opere immortali le ragioni profonde che spie­ gano e giustificano quell'atteggiamento e quella pratica spirituale e mistica nata dal suo cuore e dalla sua intuizione. A questo si soìio accinti, e per un bisogno spontaneo di far conoscere ciò che amavano, e per lina necessità pedagogica, i peiisatori francescani, e primo fra tutti S. Bonaven-

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tura. L’ispirazione profonda di tutte le opere bonaven Inviane è proprio questa, la sua rivaluta­ zione del sapere in seno all’Ordine francescano e guidata da questa preoccupazione: condurre al punto di S. Francesco anche quelle anime che avevano temperamento ed esigenze e che si trova­ vano in condizioni diverse dai primi discepoli del Poverello. In questo sen^so 2nono si deve intendere l’affermazione che il Dottore Serafico è la coscien­ za filosofica di S. Francesco.

Come Gesù, anche S. Francesco ha avuto in S. Bonaventura il suo evangelista S. Giovanni.

Possiamo dinique convenire che la lettura e lo studio delle opere dei pensatori francescani è un mezzo efficacissimo per far rivivere nelle anime l’ideale e la vita francescana.

Per persone abituate allo studio e che hanno perciò l’esigenza di rendersi conto e di convincersi per via di ragionamento di ciò che debbono ama­ re ed abbracciare (è questo il caso di lutti i Sa­ cerdoti e di molti Terziari) questa lettura è anzi un mezzo mdisj)ensabile per alimentare e rende re adeguatamente jyrofondo l’entusiasmo per la propria vocazione.

La mia non è poi un’opinione tanto nuova e pe­ regrina. Dipelo con parole mie un 2pensiero del grande stìidioso di cose francescane, P. Luca Vaddirigo, il quale è arrivato a scrivere queste parole: * Io penso che bisogna: lottare con forza in favore di Scoio, difenderlo accanitamente e scrivere con ardore impavido: nel suo nome si decide la sorte di tutto l'Ordine Francescano »; a cui P. Balie di rincalzo aggiunge: « Benissimo, la storia ci fa te-

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sthnonianza, che l’Ordine dei Minori fioriva, quan­ do la Scuola: scotista fioriva, e viceversa» (1).

A queste affermazioni sottoscrivo con tutta l’a­ nima. quanto allo studio di Scoto io ci'eda più opportuno in lìnea pratica sostituire lo studio di S. Bonaventura: primo, perche scrittore più fa­ cile e di efficacia più immediata; secondo, perche Duns Scoto non aggiunge nulla di sostanziale al­ la sintesi bonaventurìana; in essa c’è già tutto esplicitamente o implicitamente (avremo occasione di constatarlo) quello che Duns Scoto svolgerà e formulerà con maggior precisione e rigore scien­ tifico.

Se un francescano, cui non manchi Vindispen­ sabile preparazione di una cultura generale, non ha confidenza, almeno con le opere di S. Bona­ ventura, <?#Zi si priva di un elemento sostanziale per la sua vita. « Per mantenersi a questa altezza — scrive au­ torevolmente il Rcv.mo P. Generale (2) — occor­ re un nutrimento forte, assiduo e costante di teo­ logia, e teologia francescana. 67// //a la capacità, il tempo e una adeguata preparazione, deve stu­ diare le opere dei nostri Maestri, specialmente di S. Bonaventura e dello Scolo, allo scopo di pei'meare le sue meditazioni. le sue parole, le sue azioni... ».

Questo studio non è necessario solo per ragioni (1) Tolgo lo duo citazioni dui volume: Ratio criticae editionis operum omnium I. D. Scoti. Annua Relatio, Roma, 1939, p. 92.

(2) Fr. Pacifico Piicrantoni, La vita dei Frati Minori (Let­ tera enciclica), Roma, 19-17. pag. 10.

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visioni: it.a.\ckscaxa

IIKIXA VITA

di edificazione personale, ma è ima. condizione in­ dispensabile per restituire all’apostolato france­ scano la sua piena efficacia.

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Un fallo che suscita preoccupazioni in ogni francescano convinto ccl entusiasta, è la scarsa vitalità che si noia in seno alle falangi del Terzo Ordine Francescano: troppi Terziari non si ren­ dono conio di quello che importa nella vita con­ creta la loro vestizione e la loro professione fran­ cescana.

Da qualche anno in qua in Italia si compiono lodevoli sforzi per ridare impulso a questa graìide istituzione, vecchia, ma insieme attuale, come tutto ciò che affonda le sue radici nelle parole elerne del Vangelo.

A mio sommesso parere però la vitalità del TerzOrdine non è solo un problema di organizza­ zione solerte, ma anche e soprattutto un problema di formazione interiore.

Terziari e Direttori hanno troppo poca confidenza con le fonti della spiritualità francescana: lo spirilo francescano è un qualche cosa di troppo vago nella loro mente, perchè possa agire effica­ cemente sul loro citare e deciderli alVazione.

Ascoltale le istruzioni e le meditazioni che di solito si tengono ai terziari: sono istruzioni e me­ ditazioni che riflettono la comune spiritualità cri­ stiana c mancano di una spiccata ispirazione francescana.

Il riferirsi a questo o a quell9episodio della vita di S. Francesco o di qualche altro Santo dei tre Ordini non basta a dare alle nostre parole una

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efficacia formativa sostanzialmente francescana.

Soltanto nel conoscere e nel far conoscere per mezzo di istruzioni adatte ai Terziari, la maniera francescana di intendere la vita, troveremo il mezzo più sicuro e più spedito per trasfondere nelle anime uno slancio spirituale e un ardore di devozione operosa che è il riflesso pratico del Francescanesimo gai itino. *

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« Saint Francois d’Assise a laissé un’esprit bien e plus qu’une doctrinc, mais il a, par cet esprìt, « influé plus profondement sur la spirituali té que « beaueoup d'auteurs qui ont vcrit des livres » (1).

Queste parole che il Pourrat scrìve a. proposito dell’influenza della vita di S. Francesco sulle dot­ trine spirìtuali del Medio Evo si possono ripetere a proposito di altri seltoi'i della cultura umana.

Si è messo in rilievo, per esempio, l’influsso di S. Francesco sull’arte, sulle dottrine sociali, sulla liturgia, sulla pietà. In queste pagine noi mette­ remo in rilievo l’influsso del Poverello sulla filo­ sofìa e sulla teologia, influsso che si concreta ap­ punto in quella visione particolare della realtà, in quella « weltanschauung ■> francescana elaborata dai pensatori della Scuola Francescana. Soltanto cosi saremo in grado di valutare fino in fondo la originalità del Francescanesimo e di mettere in rilievo la sua attualità, e tutta la sua capacità di inserirsi ed irrompere nel travaglio spirituale di (1) PouriRAT, La spiritualità chrcticnnc, Voi. II, pag. 231.

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oggi ver rigenerare le anime e le istituzioni negli splendori di una nuova primavera cristiana.

I mali moderni hanno una comune radice: al­ lontanamento dal Cristo e il tentativo di scindere i desimi dell9uomo da quelli di Cristo. I danni di questa sacrilega dissociamone sono proclama­ ti a gran'voce non solo da scrittori cristiani. « Se « gli uomini guardano con indifferenza coloro che «predicano la fede cristiana, dovrebbero almeno « osservare attentamente la tragedia dei non cri­ nisii ani, degli atei, che hanno perduto la loro fe« de. Essi proclamano a gran voce nel mondo in« tero il fallimento di tutti gli ideali della pura «immanenza, dell9umanesimo autonomo e stretta­ ci mente naturale, della vita priva di Dio e di Cri«sio. Con voce rauca, tremante di sprezzo e d'ira, « dieci volte più fanatici dì un fanatico cristiano, « maledicono l'orribile pazzia del mondo. È difalli « una pazzia inseguire per secoli tutte quelle chi­ ni mere che si chiamano scienza pura, redenzione « attraverso l'arte, tecnica capace di superare lo « spazio e il tempo e di legare i popoli, programmi «culturali di ricostruzione c nuove fondamenta « della vita, per ritrovarsi poi nel caos universale, « nello stretto e sudicio carcere del mondo, in una « così penosa■ nudità e miseria dell'anima da ver« gognarsi d'essere un uomo. Davvero Dostoiev« skij, un cristiano, era meno esasperato9 quando «scopriva che ”senza Cristo tutto è bassezza e « fango E Pascal, un altro cristiano, che per­ niando del mondo assumeva volentieri un tono «sprezzante, deve, al confronto, sembrare un giu « dice largo, quando osserva quasi casualmente,

INTRODUZIONE

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« che noi senza Cristo non comprendiamo più nul« la, nè della nostra vita, nò dell'uomo, nè di « Dio ». (1) La constatazione che Pfleger faceva qualche anno fa conserva anche oggi tutta la sua dramma­ ticità.

Ebbene, quale dottrina, quale visione metafìsica della realtà e dei destini umani come quella fran­ cescana, mette in rilievo l’identità di destini fra Cristo e l’umanità? la posizione necessaria di Gesù nei confronti dell’uomo?

Lo vedremo bene quando parleremo della teolo­ gia cristologica francescana.

Mi è caro constatare, in proposito, una conver­ genza di dottrine, convergenza che se non si deve esagerare, non si deve neppure trascurare, per­ chè non è senza significato, fra il pensiero france­ scano e il pensiero dei rappresentanti più autore­ voli e moderni del cristianesimo orientale, sopravissuto al naufragio comunista.

Non è mia intenzione fermarmi a documentare delta convergenza: sarebbe fuor di luogo. Trascri­ vo solo un’altra pagina dello Pfleger, nella quale riassume il pensiero fìlosofìco-teologico di S. Soloviev (2): « Abbiamo dovuto fare un lungo cern­ ii mino per trovare le basi metafìsiche di quella a verità, che per Soloviev è la vera e più alta ri­ ti velazione del Cristianesimo e l'unica chiave del « segreto vitale cosmico ed umano. La Gnosi: ecco « come vien chiamato il mistero primogenito su (1) P. Oatu.n Pfleger, hi lolla per Cristo, pagg. 26-27 (2) L. c., pag. 351.

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« cui si fonda la verità della divinità umana. Solo « nella luce gnostica si rivela tutta l'ampiezza del « suo significalo. Esiste un Cristo eterno, un Dio« Uomo, che è unito* all'umanità, non solo da un «certo momento in poi, ma prima d'ogni tempo. « esiste un uomo eterno che ha una partecipa« .rione essenziale alla divinità, non solo per il fat« to storico dell'incarnazione, ma in seguito ad un « dato precedente alla creazione del mondo. Esiste « una divinità umana e perciò anche un'umanità « divina. L'umanità ò il " Corpus Chris ti mysti« cuvi ” non soltanto temporaneo, ma eterno, e non « in un senso allegorico, ma in un senso assoluta­ le niente realistico, letterale. La verità metafìsica « della divinità umana è naturalmente anche una « verità storica, anzi l’ultima definitiva verità di « ogni vita. Essa è il più alto impulso motore di «.ogni avvenimento cosmico e umano, che viene « avviato da lei su particolari strade verso un fine « particolare: la realizzazione storica della divinità « umana. Solo questo è il senso del processo uni« versale. Ciò che l’umanità eterna aveva perduto « — la sua unione con Dio — essa deve riconqui« starla nel tempo».

Chi non risente in queste dottrine più che gli echi della Cristologia francescana? Il pensiero francescano non offre, per caso, un terreno di più facile intesa con il cristianesimo orientale, intesa a cui tende con tante preghiere e con tante energie la Chiesa Cattolica? I francescani non sono, per­ ciò, ancora oggi, come nei secoli passati, i nego­ ziatori nati, vorrei dire, dell’auspicata conciliazio­ ne fra Oriente e Occidente?

INTKODUZIOXB

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Ma fermiamo il volo ai sogni del cuore. Questo mi pare oramai di poter dire: che la conoscenza della spiritualità francescana, attinta non solo dal­ la vita di San Francesco, ma anche dalle opere de­ gli interpreti del suo spirito, principalmente dalle opere di S. Bonaventura, accessibili a tutti, è un bisogno interiore di ogni francescano, che ami ed apprezzi la sua vocazione; è un mezzo efficacissi­ mo per far rifiorire nei Conventi e nel Terz* Ordine il genuino spirito di S. Francesco; è un contributo preziosissimo che possiamo e dobbiamo portare al­ la ricristianizzazione del mondo moderno.

Capitolo I IL VOLONTARISMO FRANCESCANO

La tradizione francescana è tutta pervasa da motivi volontaristici.

Due pagine per intenderci su questo punto non sono sprecate.

Prima di tutto bisogna guardarsi dal rinchiude­ re il volontarismo francescano nei limiti della que­ stione scolastica, se la potenza più. nobile dell’uo­ mo sia l’intelletto o la volontà. Gli orizzonti del volontarismo sono molto più vasti.

Praticamente la prima espressione di volonta­ rismo francescano è l’atteggiamento di S. Fran­ cesco nei confronti della scienza.

Nella vita quotidiana si incontrano uomini che non si decidono ad agire fino a quando non hanno considerato tutti i prò e i contro della loro azione, uomini clic prima di operare vogliono risolvere tutti i problemi, che la loro azione può suscitare.

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Pare ad essi che quando la teoria ò perfetta, la pratica diventi inevitabile, sicura, esatta. Altri uo­ mini invece si direbbe elio si precipitano all’azione appena ne hanno veduta o intraveduta l’utilità, e la bontà. In questo caso Fagire non nasce dalla teoria, ma la teoria nasce dalFazione.

I primi sono temperamenti razionalisti, i secon­ di temperamenti mistici.

Espressioni di questa diversità di temperamenti ritroviamo in tutte le manifestazioni dello spirito umano: filosofia, arte, politica, economia.

Naturalmente si può esagerare in un senso e nelFallro: il razionalismo, come il pragmatismo, sono, ognuno nel proprio senso, delle esagerazioni.

S. Francesco era certamente un temperamento mistico, era cioè un uomo clic si precipitava al­ l’azione e preferiva la vita alla speculazione. Nes­ suna esagerazione però nel suo atteggiamento, il quale trova la sua giustificazione nella particolare situazione, in cui si trova l’uomo rispetto alle ve­ rità necessarie per dare il giusto orientamento al­ la sua vita.

L’uomo difficilmente riesce a conoscere chiara­ mente tutto quello che è necessario alla sua sal­ vezza: anche ammesso die la sua intelligenza lo possa, in linea di diritto, in via di fatto però quasi sempre gli mancano il tempo e le forze per cam­ minare sicuro fino alle verità supreme. Il suo fine storico poi, soprannaturale, non può assolutamen­ te conoscerlo senza rivelazione.

Dal momento che Gesù ci ha rivelato tutto quan­ to era necessario per la nostra salvezza, S. Fran­ cesco giudica superfluo indugiarsi e mettere sotto

IL VOLONTÀ RI S Mi) FRANCESCANO

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processo, per così dire, gli insegnamenti di Gesù, sottoponendoli al vaglio della ragione umana: per lui, l’atteggiamento più saggio che l’uomo può prendere dinanzi al Vangelo non è quello di spe­ culare, ma di credere, attuare e vivere.

Questa adesione totale, entusiastica, spensiera­ ta, direi, al Vangelo, è, a mio parere, l’aspetto più caratteristico, l’essenza stessa della vocazione francescana.

La vocazione di S. Francesco non è stata una figurazione improvvisa, ma un processo di con­ versione, che maturò lentamente nella sua anima.

La chiarificazione definitiva però squarciò la sua anima soltanto la mattina del 24 febbraio 1209. mentre ascoltava il brano evangelico della S. Messa.

In questo episodio si vuol vedere la vocazione francescana all’apostolato della e nella povertà.

L giusto, ma non e tutto c non è l’aspetto più pro­ fondo della decisione di S. Francesco. Difatti Francesco decise di essere apostolo come voleva Gesù: in primo piano però bisogna mettere non. la volontà di essere apostolo, ma ia volontà di es­ serlo come voleva Gesù.

Il Poverello misura la distanza che c’ò fra l’in­ segnamento del Signore e la vita dei cristiani suoi contemporanei: constata che nessuno o quasi nes­ suno ha il coraggio di prendere alla lettera i co­ mandi e le esortazioni di Cristo e si sente chia­ mato a far vedere a tutti che gli insegnamenti di Cristo non sono impossibili, che si possono vi­ vere integralmente, senza attenuazioni nò adatta­ menti, die anzi la vera libertà, la vera gioia, la

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

vera giustizia, il dominio stesso sulla natura, nes­ suno lo conquista più compiutamente, di chi ha la sapienza di sottomettersi ai consigli di rinun­ cia dati da Cristo.

Da quel momento S. Francesco, come S. Paolo, non vuol conoscere, non vuol credere, non vuol prendere sul serio nulla e nessuno airinfuori di Cristo, anche se Cristo e il Croceiìsso e Tuonio dei dolori.

Gesù non ha voluto fare di noi dei teologi, ma dei santi: (mesta ò la ragione per cui S. France­ sco stima di più la pratica che la speculazione.

Non ò una condanna della scienza, ma solo una preferenza per la fede generosa, per la volontà impaziente di agire e di amare. È l’amore che conta soprattutto, rumore clic ci trasforma nel Cristo; la speculazione ci fa perdere tempo ed energie preziose.

S. Bonaventura, come ò noto, riconosce che la via di S. Francesco è la più diretta; insieme però ammette che la via più lunga, ma più comune, più umana, dirci, è quella, che passa dallo studio per arrivare all’amore. Quindi resta sempre fermo anche per S. Bonaventura e per tutta la Scuola Francescana, che è l’amore che conta soprattutto, e che la scienza ha valore non in se, ma solo in quanto è via alla carità.

L’amore, la volontà, la bontà per il francesca­ nesimo non occupa soltanto il primo posto nella scala dei valori pratici; ma ò anche il punto di vista più fecondo da cui occorre mettersi per comprendere la realtà e le sue leggi misteriose.

Per la Scuola Domenicana l’amore ò una conse-

IL VOI.OXTAm.SMO FRANCESCANO

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guenza del sapere; per i Francescani il sapere è preparazione all’amore, che diventa così il passo decisivo verso Dio e verso la beatitudine e verso la santità, mentre per gli intellettualisti domeni­ cani il passo decisivo non può consistere che nelr« adeptio veritatis ».

La differenza fra le due scuole può parere insi­ gnificante: tutt’e due sostengono che l’uomo arri­ va a Dio, alla sua salvezza con l’intelletto e con la volontà.

Però, mentre gli uni vogliono che la volontà sia subordinata airintdletto, gli altri affermano che Tintelletto è a servizio della volontà. Non e solo una questione di parole, di formule?

Questo a me pare un giudizio superficiale.

Infatti, se ò vera la tesi domenicana, c’ò una sola logica, un solo dinamismo, quello dell’intel­ letto; l’amore non è che una conseguenza, un frut­ to. Al contrario se si accetta la tesi francescana si è costretti a riconoscere che la volontà va oltre l’intelletto, per una legge e un dinamismo che si appoggia su quello dell’intelletto, ma lo supera e lo trascende.

Anzi, in quanto l’intelletto è a servizio dell’a­ more, la stessa logica delTintelletto vive ed ha forza solo perchè penetrata e messa in azione da quella dell’amore, che la ispira, la completa e la conduce alla perfezione.

Insemina, mentre per un intellettualista la fa­ mosa espressione di Pascal: « il cuore lia delle ra­ gioni che Tintelletto non conosce», riesce incom­ prensibile, per un volontarista esprime una verità profonda.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Il lettore avvertilo capisce da sò che mentre il volontarismo di S. Francesco era un atteggia­ mento pratico, il volontarismo della Scuola Fran­ cescana assume l’importanza di una posizione fi­ losofica.

Non si tratta più solo di una preferenza sog­ gettiva per l’azione piuttosto che per la specula­ zione, ma di un vero giudizio di valore sulla pre­ minenza dell’amore rispetto al pensiero. Perciò se per giustificare il volontarismo del Poverello ba­ sta richiamarsi a ragioni psicologiche e mistiche, per chiarire il volontarismo di S. Bonaventura e di tutta la Scuola, occorre far appello a ragioni fi­ losofiche.

Cerchiamo dunque di vedere come si prospetta­ no le cose da un punto di vista metafisico.

L’essere in quanto conosciuto dairintelletto di­ venta verità, in quanto amato dalla volontà di­ venta bontà: verità e bontà, come a tutti ò noto, seno due attributi trascendentali dell’essere insie­ me all’unità.

In quali rapporti sta l’essere con i suoi attri­ buti trascendentali? e in quali la verità e la bon­ tà fra loro?

Mentre l’unità ò un attributo, che ribadisce, per così dire, l’essere nella sua realtà radicale (per Plotino dire essere e unità è la stessa cosa) e lo accompagna in tutte le sue forme, la verità e la bontà sono due diverse manifestazioni dell’esse­ re, due maniere diverse di essere, due forme, co­ me si esprimeva Rosmini, che ripetono in una maniera originale l’essere reale. « L’essere è tutt’intero in ciascuna delle tre for-

IL VOLONTARISMO FRANCESCANO

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« me e in tutt’e tre insieme: anzi non può sussi« stere in una sola forma, ma le suppone tutt’e « tre, ossia è completo in se medesimo mediante « tutt’e tre ». (1) L’essere ò tutto nella verità e nella bontà corno nella realtà: ma nella verità Tessere c’ò, come co­ nosciuto. obicttivato; nella bontà Tessere c’ò come amato, riconquistato.

Nella verità Tessere, in certo senso, esco da sò stesso, pone sò stesso davanti a sò per conoscersi, per contemplarsi attraverso la conoscenza; nella bontà Tessere ritorna a sò stesso, si riconquista, si possiede attraverso l’amore, cioò amandosi.

L’essere come reale ò il punto di partenza; Tes­ sere come buono ò il punto di arrivo di quel di­ namismo interiore e necessario che lo pervade.

«L’unità in cui convergono le tre forme porta « a ciò che si chiama la reciproca insidenza, o « circuminsessione, di esse. Questo consiste nel fat« to che ogni forma dell’essere, appunto perchè « contiene in sò tutto Tessere, contiene anche le « altre forme. Ma le contiene nel proprio modo ». (2) Perciò, da qualunque punto si parta, sia che si parta dall’essere, dall’unità, dalla bontà, si arriva sempre a tutti gli altri. Tuttavia come si ricono­ sce una priorità metafisica all’essere, che ò vera­ mente la radice degli altri trascendentali, analomente bisogna riconoscere che il punto di arrivo naturale di quel processo metafisico che circola attraverso i quattro trascendentali, ciò che con­ fi) G. Bozzetti, lì problema ontologico nella filosofia rosminiana. (Lozioni universitario, pag. SS).

(2) Ibidem.

2fi

VISIONE FILINO US TANA BELLA VITA

chiude la vita metafisica dell’ essere e la rende perfetta, è la bontà. « La forma morale è tutto l’essere nella forma « di unione: essa include le prime due non co­ li me una somma di esse, ma come una perfetta « corrispondenza di sè, come subietto, a sè, come « obietto; corrispondenza in cui tutto l’essere esau« risce, per dir così, la sua. potenza unitiva. Che

« cosa ancora può mancare di essenziale alla eo­ li stituzione ontologica dell’essere? Questa ha rag­ li giunto la sua pienezza, onde esclude qualsiasi « altro modo essenziale, ossia qualsiasi altra tor­ li ma ». (1)

« L’essere non raggiunge la sua piena attualità, « so non nella forma morale ». (2) Orbene, siccome il punto di arrivo, il fine, di ogni processo è sempre in qualche maniera piti perfetto degli altri momenti del processo, possia­ mo affermare con Riccardo di Mediavilla che * l’idea di bene è più ricca che l’idea di essere o di vero, e di ogni altra. Infatti nell’idea di bene « e’ò l’idea di perfetto: la bontà infatti non è che <•. l’essere in quanto perfetto ». (3) Non è qui il luogo di sviluppare sistematicamente queste profonde tesi metafisiche: chi ri­ fletta però con qualche impegno su questi rapidi accenni non tarderà a mettersi in condizione di (i) Ibidem.

(2) Op. cil., pag. 12.

(3) E. IIockdez, Richard de Midlcton, Louvain, Paris, 1925, P^g: 185: <* Melior est ratio bonitatis, quam ratio cntitatis voi « vcritatis... Patio bonitatis nobilior est quam aliqua alia, quia do « ratione bonitatis est ratio cntitatis et ratio perfectionis : bonitas « enim est entitas sub ratione, qua perfecta... t>

II, VOLONTÀ!»ISMO FRANCESCANO

27

comprendere come mai Platone abbia potuto af­ fermare che la bontà è al vertice del processo dialettico clic circola nelle idee e nella realtà; come mai la Scuola Francescana possa insegnare che solo con l’amore clic lui come oggetto l’essere in quanto buono, si perviene al possesso comple­ to e perfetto delTessere: come mai S. Bonaventura e Duns Scoto scelgano come punto più fecondo per farci conoscere il vero significato della realtà, la logica della bontà, che ò poi la logica dell’a­ more; in altre parole, come mai siano riusciti a farci vedere che tutto è ordinato all’amore, per­ chè tutto è disposto dall’amore, cosa che consta­ teremo studiando la ^concezione francescana di Dio, dell’uomo, di Cristo, della natura, della so­ cietà.

D’altra parte appunto perchè la bontà è una forma originale del Tessere, irriducibile alle altre, dobbiamo dire clic la sua legge, la sua logica in­ tima non è riducibile nè alle leggi della realtà, nò a quelle della verità, sebbene di tutte essa si nu­ tra e su di esse succresca. Insomma la bontà non è un corollario della verità, nè l’amore un corol­ lario della conoscenza, ma un passo nuovo oltre la rigorosa logica della ragione.

Mentre « nel campo della mera realtà domina il determinismo del sentire e dell’aeeadere, nel cam­ po della mera idealità domina il determinismo del­ la logica; solo nel campo della moralità c’è posto per la libertà » (1).

In questa originalità della forma dell’essere mo­ li) G. BOZZETTI, op. cit., pag. 13.

28

VISIOXK KKANCKSCANA Dl'LLA VITA

rale, rispetto aH’cssere reale e all’essere ideale, si trova in definitiva la giustificazione e il vero si­ gnificato di un sano volontarismo come quello francescano. Il quale volontarismo non si deve intendere solo come l’affermazione di una premi­ nenza della bontà rispetto alla verità, della volon­ tà rispetto airintelletto, della vita rispetto alla teoria, ma anche come un metodo di pensare, co­ me scelta di un punto di vista che appare più fecondo e più atto di ogni altro a metterci in con­ dizione di comprendere il significato e le leggi di tutta la realtà.

Oggi rumanità ò sazia di razionalismo: lo di­ mostrano nel campo della filosofia tutte le corren­ ti volontaristiche e pragmatiste; nel campo della politica i vari misticismi che sono sorti qua c là; oggi diventa sempre più ovvia la convinzione che non sulla sola ragione (intesa come intelletto spe­ culativo) l’uomo debba appoggiarsi se vuol dav­ vero impadronirsi con la presuasione, che e forza dinamica per la vita interiore, delle verità più grandi e decisive della vita.

La Scuola Francescana è capace di accogliere in se e di correggere tutti questi motivi volonta­ ristici, che possono dare frutti molto amari, se non sono compresi e disciplinati.

La conoscenza non vale nulla se non è via al­ l’amore; il pensiero è per l’azione e si pensa solo perchè si ama — riconoscono volentieri i pensa­ tori francescani —; ma — avvertono — se è inne­ gabile die c’è più pienezza di essere nelfagire che nel pensare, è anche altrettanto evidente che alla bontà si arriva solo attraverso la verità e

IL VOLONTARISMO FRANCESCANO

20

che la volontà, se non vuole degradarsi al livello dclTistintc, deve essere penetrata e alimentata di razionalità. Proprio perche l’intendere è prepa­ razione indispensabile al volere, finiscono di sva­ lutare anche la volontà coloro che denigrano l’intellotto. I difetti della « ragion pura » compro­ mettono, non esaltano, i pregi della « ragion pra­ tica ».

Nella sapienza di questo ammonimento noi sco­ priamo la forza e insieme la misura dei volonta­ rismo francescano.

Capitolo II

IL SOMMO BENE NELLE SUE LEGGI E NELLE SUE COMUNICAZIONI

Dal concetto di Dio prende lo slancio ed il nu­ trimento ogni spiritualità, che trova così in esso la sua misura.

Lo osserviamo nei Santi: quanto più alto s’inar­ ca lo slancio del loro eroismo e della loro pre­ ghiera, tanto più profonda, lucida, focale diventa la loro concezione di Dio. Non avviene altrimenti per S. Francesco. Alla vigilia delle Stimmate, che sono certamente il volo più alto della santità francescana, Frate Leone sente il Padre pregare così: «Chi sei Tu, Signore, c chi sono io? Chi sei Tu, dolcissimo Iddio mio?

Chi sono io, vilissimo verme e disutile servo tuo? »

32

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Del resto ò noto che il motto caratteristico del Serafico Padre era questo: « Deus incus et om­ nia », motto che si può parafrasare così: dalla vi­ sione e dall’amore di Dio parte e trae luce e vi­ gore e misura la mia considerazione e il mio amore per tutte le altre cose.

QuaTò dunque la concezione francescana di Dio? Porsi questa domanda vuol dire chiedersi qua­ le ò l’attributo divino su cui la laude e la pre­ ghiera di S. Francesco insistono di più, e dal qua­ le la filosofia e la teologia francescana traggono conseguenze più feconde e ragioni più efficaci per chiarire le opere divine « ad intra» e « ad extra».

Risponderemo partitamele facendo vedere che l’attributo divino su cui insiste S. Francesco ò la bontà, e che la bontà è l’attributo più fecondo, a parere dei dottori francescani, per spiegare le operazioni di Dio « ad intra » e « ad extra ».

1. La Somma Bontà.

Se le notizie sulla maniera di pregare di San Francesco, così spontanea e filiale, che non si lasciava mai frenare dalle formule e che trovava sempre nuove espressioni e nuovi slanci, come se nascesse da una vena di poesia, più che da una convinzione teorica, non sono scarse, scarsissime sono invece le preghiere scritte a testimonianza del suo animo e del suo fervore: quasi tutte le sue invocazioni, e certo le più ispirate, si possono ri­ sentire soltanto nella chiarità dei cieli umbri e nei silenzi della Verna, tra i sussurri delle fonti e degli alberi.

IL SOMMO BENE

3.3

Qualche cosa ad ogni modo ò rimasto.

Ecco la preghiera scritta nella Carta data a Frate Leone: « Tu sci santo, Signore Dio solo, che operi me­ raviglie. Tu sei forte, Tu sei Grande, Tu sei al« tissimo. Tu sei re onnipotente, Tu Padre santo, « Sovrano del cielo e della terra. Tu sei trino ed «uno, Signore Iddio, ogni bene, Tu sci il bene, « tutto il bene, il sommo bene, il Signore vivo e « vero, Tu sei carità, amore. Tu sei sapienza. Tu « sei quiete. Tu sei gaudio, letizia. Tu sei giusti« zia e temperanza. Tu sei sufficiente ricchezza. « Tu sei bellezza. Tu sei mansuetudine. Tu sei «protettore. Tu sei custode e difensore. Tu sei « fortezza. Tu sei refrigerio. Tu sei la nostra spe« ranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la grande « dolcezza nostra. Tu sei la nostra vita eterna, « grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, « misericordioso Salvatore ». (1) Lo schema logico di questa preghiera si può ridurre a questo: «Tu sei santo, Signore Dio solo, ecc., ma soprattutto Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, soprattutto Tu sei carità, amore.

Infatti Tu sci quiete », ecc. fino in fondo.

Non ò certo una grande prova di quanto ci sia­ mo proposti di far vedere, ma certamente un in­ dizio, un buono, convincente indizio.

Ecco con che « Oremus » conchiude le sue lodi al Signore: « Onnipotente santissimo, altissimo e sommo « Iddio, sommo bene, ogni bene, bene pieno, che (1) Gli scrini di S. Francesco d'Assisi} Vita e Pensiero, 2* ediz.

IO'iO, pag. 1G5.

u

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

« solo sei buono, ti offriamo ogni lode, ogni gloria, « ogni ringraziamento, ogni onore, ogni benedi« zione ed a Te rendiamo sempre ogni bene. Così « sia ». (1) Anche qui la stessa insistenza, la stessa centra­ lità dell’attributo divino della bontà.

Anche nella famosa preghiera « Absorbeat » ò sempre Dio come amore che attira e rapisce ra­ mina di San Francesco: « Rapisca, Ti prego, Signore, l’ardente e dolco « forza dell’amor tuo la mia mente da tutte le « cose terrene, affinchè per amore dell’amor tuo « io muoia, come Tu ti sei degnato morire per a« mor mio ». (2) Anche qui i rapporti fra Dio e l’uomo sono con­ cepiti da San Francesco soprattutto come uno scambio di amore.

Se poi volgiamo lo sguardo alla vita del Pove­ rello non ci sarà difficile constatare che dalle pa­ role pronunciate davanti al Vescovo d’Assisi quando fu rinnegato da Pietro di Bernardone: — Ora dirò con più verità: Padre nostro che sei ne’ cieli — fino alla morte, salutata con un ultimo impeto lirico e fultima strofa del Cantico, è tutto un abbandonarsi gioioso all’abbraccio della pater­ na tenerezza di Dio. Alla radice di tutti gli entusiasmi francescani per la povertà stanno certamente le stupende esortazioni di Gesù a non stare in ansia per il do­ ti) Op. cif., pag. lf>2.

(2) Op. cif., pag. 175.

TL SOMMO BENE

35

mani, ma ad affidarsi alla paterna Provvidenza di Dio. (1) Nò la letizia francescana ha altro significato che quello di essere una certezza incrollabile del­ l’amore di Dio verso di noi, un sentire e vivere di questo amore.

Quando, a parere di San Francesco, si raggiun­ ge la perfetta letizia?

Quando l’uomo, abbandonato da tutte le creatu­ re e da tutti i beni di questo mondo, nello spogliamento di ogni cosa, anche di quello che pare più logico, più indispensabile, com’era, ad esempio la affettuosa accoglienza cui avevano diritto i due frati nell’ipotetico episodio della perfetta letizia, si sente più di Dio, verso il quale appunto si slan­ cia per un dinamismo tutto interiore, che non trova nessun incentivo, nò avvio nelle creature.

Del resto il Vangelo stesso, che per San Fran­ cesco era l’unico libro, come il Crocefìsso l’unico Maestro, gli insegnava a sentire Dio soprattutto come amore. Non è questa la rivelazione centrale di Gesù?

L’uomo, con la sua ragione, era riuscito a con­ cepire Dio come Atto puro, essere supremo, ra­ zionalità perfetta, Pensiero del pensiero, ma non era mai giunto e forse non sarebbe mai giunto a concepire Dio come amore sostanziale, amore che si comunica.

La definizione: «Deus charitas est », c tutta cri­ stiana. La Paternità di Dio poi e la nostra ado­ zione divina ò il mistero per eccellenza, il mistero (i) Cfr. S. MATTEO, cap. 6°, 25-34.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

nascosto — secondo repressione di S. Paolo — nei secoli, che solo Gesù ci ha svelato.

La fecondila filosofica e teologica della defini­ zione: Dio ò amore — che equivale all’altra: Dio ò Somma Bontà — noi possiamo constatarla leg­ gendo le opere dei pensatori francescani da Ales­ sandro d’Alcs a Duns Scoto. (1) 2. La Bontà divina e la Trinità.

Volete capire qualche cosa del Mistero della (1) Torna opportuno qui precisare una volta por sempre corno ò nata quella simbiosi di vita c di teoria fra il Poverello d’Assisi o quello stuolo di Maestri medioevali, che formano la Scuola Francescana. Non si deve pensare di certo, nè a una qualsiasi dipendenza dottrinale del fondatore della Scuola, Alessandro d’Hales, da S. Francesco, nò immaginare che la vita di questi sia stata da qualcuno presa come testo da commento scolastico al posto della S. Scrittura o del Libro delle .Sentenze di Pietro Lom­ bardo.

La Scuola Francescana è nata come « un felice incontro d’ani­ me, una conversione del pensiero nella vita. Mentre S. Francesco, tra il Tevere e l’Arno, chiamava sorelle tutto le creature, sco­ prendo in esse con l’ebrezza della prima intuizione, la paternità creatrice di Dio c i simboli della redenzione, Alessandro d'Ilales, sulle rive della Senna, poneva a fondamento «Iella Teodicea l’idea della bontà; o con questa Bontà foniate, oh è ragione di tutte le cose e si comunica più o meno a tutte, fino alla materia prima, spiegava la distribuzione, la bellezza, l'ordine dell’uni­ verso...

Quando dunque quei poverissimi fraticelli portarono nella roc­ caforte degli stilili la « semplicitade colombina r> del Padre Francosco il maestro parigino, che con acuti ragionari aveva «limostrato la bontà delle cose e la fonte «li ogni cosa nella bontà, provò la gioia «lei pensatore che vede impersonata in uomini vi­ venti la sua filosofia e volle essere «lei loro, c sulla toga magi­ strale mise il saio francescano ». (S. Bonaventura, Opuscoli A//siici, volgarizzati dal latino con introduzione del P. A. Gemelli, Milano, Vita e Pensiero, 192G, pagg. 7, 8).

Da quelPinizio è sempre stato così : la Scuola Francescana ò una teoria che si ritrova in una vita c una vita clic si esalta in una teoria.

9 • •

IL SOMMO BENE

37

Trinità? Mettetevi dal punto di vista della defini­ zione, Dio è Amore, — risponde Alessandro d’Hales — e riuscirete in qualche modo a capacitarvi come in Dio PUnità non escluda, anzi includa la Trinità.

Ecco in una traduzione, libera quanto alla let­ tera, ma fedele quanto al senso, le parole del Doctor Irrefragabilis: «Alla domanda: donde sgorghi la pluralità del­ le persone in Dio, io penso si debba rispondere che essa derivi e dalla perfezione, e dalla potenza, e dalla bontà e dalla carità. Tuttavia, volendo pre­ cisare le cose secondo il nostro modo d’intendere, si deve dire che la radice della pluralità in Dio sta soprattutto nella sua bontà. Infatti lo splen­ dore e la perfezione del bene si dimostra nel co­ municarsi. Ma ogni comunicazione va sempre da un soggetto ad un altro soggetto, per cui ne se­ gue che dovunque c'è comunione c’è sempre altro e altro, e, di conseguenza, moltiplicazione e nu­ mero. La Bontà Somma dunque è in certo modo la causa principale di tale pluralità (di persone) in Dio. Dal momento poi che v’ha un doppio principio di operazione, la natura e la volontà, e che la bontà, più generale di essi, li abbraccia tutt’e due, ne segue che la bontà è duplice e che c’è una bon­ tà di natura e una bontà di volontà, che è appun­ to la carità. Ne risulta che la bontà si comunica per via di natura e per via di volontà o di amore.

Ora si rifletta che la comunicazione del bene per via di natura, solo nell’atto generativo è piena e perfetta c che solo per una imperfezione della

:is

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

natura stessa, nell’atto generativo si può dare co­ municazione non di tutta l’essenza, ma solo di parte di essa. (1) Siccome poi dalla Bontà Suprema bisogna escludere ogni imperfezione c attribuirle ogni perfezione, ò necessario che Dio, suprema bontà, si comunichi per via di natura, cioè per genera­ zione e clic questa generazione sia la comunica­

zione di tutta l’essenza e non solo di una parte.

La comunicazione della Bontà ò dunque in primo luogo ragione della distinzione fra il Padre e il Figlio.

Ma come la bontà si comunica per via di natura, così essa si comunica per via di volontà. Infatti, come abbiamo detto, la comunicazione del bene supremo è comunicazione perfetta e non sarebbe tale, se non avvenisse, sia per via di natura che per via di volontà, cioè di amore e di carità.

Il Bene supremo dunque in quanto sommamen­ te comunicativo, è la ragione della distinzione nu­ merica, in primo luogo tra il Padre e il Figlio, in secondo luogo tra queste due Persone e lo Spirito Santo.

Dal detto risulta evidente che la pluralità in Dio trova la sua radice nella perfezione della so­ vrana Bontà. (i) Così nella generazione umana i ponitori non comunicano ai figli tutta la loro essenza individuale, ma soltanto la natura orpanica. I figli hanno una individualità propria, diversa da quella del padre e della madre.

La generazione è perfetta solo quando tutta la perfezione del generante si trova nel penerato, per cui si distinguono fra loro solo perchè il primo è generante c l’altro generato. È il caso appunto del Padre e del Figlio nel mistero della San­ tissima Trinità.

IL SOMMO BENE

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Infatti nella comunicazione di tutta l'essenza divina (che non ha parti) per via di generazione, trova ragione la distinzione personale fra il Pa­ dre e il Figlio; nella comunicazione per via di volontà la distinzione fra lo Spirito Santo e le altre due Persone. (1) (1) Alessandro d’Ai.es, Stimma Thcol., pag. i, incj. II, tract. unicus, q.3, cap. V, pag. 465, c<l. Quaracchi : * Sohiiio : Dicendum, « cum qucritur un<lc sit numerila vel ratio numeri in divini?, dici<2 nius quod iste numenis est ex parte perfectionis virtutis et « bonitatis et caritatis; tamen appropriando sectindum rationem « intclligcntiae, ratio bonitatis est sicut principali? ratio illius nu« meri : quia laus boni et cius perfectio ostcnditur in comunica« tione, sed conninicatio sempar est unius et alias, et ideo ubi est « communio, semper est alius et ita multiplicatio et numcrus et « honitas stimma est quasi principali? causa istius multiplicationis « in divini?. Sed cum bonitas sit communior quam natura et vo« luntas, sicut est duplex principium unum quod est natura, alte« rum quod est voluntas, sic bonitas duobus modis crii, quia est « bonitas naturae et bonitas voluntatis et liaec est caritatis. Com« municat ergo se bonitas vel per niodum naturae vel per modum « voluntatis sivo affectionis. Communicatio bonitatis, quae est per «niodum naturae, illa piena est perfecta per generationein : quod « tamen sit de parte substantiae vel cssentiac et non de tota es« sentili, islud imperfectionis est in natura. « Quia ergo omnis imperfectio a bonitate stimma removenda est « et omnis ei perfectio tribuemla, ideo necessarium est quod com« municet se per modum naturae, quae communio est per gcnera« tionem, et quod illa generatio non sit de parte cssentiac, sed de «tota essentia; et hacc communio bonitatis est ratio distinctionis « sivo numeri in distinctione determinata, quae est Patris ad Fi« lium. Sed sicut communicat se bonitas per modum naturae, ita «per modum voluntatis, quia summi boni summa est communio; « non esset antem summa nisi communicaret se per modum natu« rae et voluntatis; et ideo communicat se per modum voluntatis, «quae communio est per amoris affectum sivc caritatem; et hacc « communio summi boni est ratio numeri in distinctione determi« nata quae est Patris et Filii ad Spiritum Snnctum. Ratio ergo «numeri sumitur ex parte perfectionis summae bonitatis; sed com« munio totius cssentiac per generationem, cum essentia non ha« beat partem, est ratio numeri Patris ad Filium, communio per « naturain voluntatis ratio numeri et distinctionis Spiritus Saucti « ab utroque ».

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

«Le processioni divine — commenta il De Regnon — (1) non sono dunque semplicemente il giuoco delle facoltà di una natura che intende e che vuole. La loro sorgente ò più profonda. Par­ tono infatti proprio dalla sostanza, nella quale, a nostro modo di vedere si radicano le facoltà d’in­ tendere e di volere. Questa sorgente non è altro elio lo stesso Essere di Dio, in quanto è Buono, e, di conseguenza, nella distribuzione logica delle realtà divine, la Bontà discende con l’Essere e lo accompagna dovunque. Generale come l’Essere dal punto di vista logico, più generale (quindi) della natura e della volontà, la Bontà penetra tutt’e due queste realtà; le impregna, le agita, ciascuna alla sua maniera. Questo vibrare di bontà espansiva, essenziale alTessere stesso del Principio, diviene dunque, nella sua natura, una fecondità di Gene­ razione; nella sua volontà, una liberalità di Amore ».

Concludiamo: la legge clic spiega e regge il rit­ mo infinito ed ineffabile della vita trinitaria ò la legge della bontà: « bonum est diffusivum sui». È nella natura del bene respandersi e il comuni­ carsi in tutte le maniere possibili, cominciando dalla più perfetta: ebbene la Triuità non è che il mistero di un darsi infinitamente perfetto.

S. Bonaventura non parla diversamente.

Al mio scopo basta rimandare il lettore al capo sesto dell’« Itinerario della mente in Dio», di cui (1) Th. De Uro non S. J., titudes de T/iéologic positive sur (a Sdiate Trinitèt Dcuxième St'rie - Théorios Scolastiques, Paris, 1892, pag, 419.

EL SOMMO BEXB

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per sua comodità riporto i passi più importanti ed espliciti. « Dopo di aver considerato Iddio nella sua es« senza, dobbiamo elevare Toccliio della nostra in« telligenza alla contemplazione della Santissima « Trinità... Come V ” essere ” è la sorgente di tutti « gli attributi essenziali e il nome, che ci conduce «alla conoscenza di essi, così il ”bene” ò il fon« damento principalissimo sul quale noi dobbiamo « appoggiarci per contemplare le emanazioni divi« ne. Poni mente, dunque che il Sommo Bene è « talmente perfetto che non si può pensare nulla « di migliore, e come un tale bene è impossibile « concepirlo come non esistente, giacche l'essere ò « meglio che il non essere, così non ne puoi avere « un concetto esatto, se non lo pensi come uno e « trino. « Se infatti — come si dice — il bene è diffusivo « di se stesso, il Sommo Bene tenderà a diffondersi « sommamente. Orbene, tale diffusione non può es« sere somma, se non è attuale e intrinseca, sostan«ziale e ipostatica (1), naturale e volontaria, li« bera e necessaria, indefettibile o perfetta. Quin« di se nel Sommo Bene non ci fosse eternalmente « una produzione attuale e consustanziale, iposta« tica ed in tutto uguale nella perfezione al prin« cipio donde essa procede per via di generazione « e spirazione (d’amore); se questa produzione non « venisse da un principio eterno producente eter« nalmente il suo eguale; se non ci fosse l’Amato « e l’Amato insieme, la Persona procedente per ge(1) Cioè: personale.

Li

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

« nerazione, e la Persona procedente per spi razione « d'Amore; se non vi fossero cioè il Padre, il Fi« glio e lo Spirito Santo, non si potrebbe dire che «Dio e il Sommo Bene, perche non si diffondereb« he sommamente ». (1) Il lettore può per suo conto persuadersi che la Bontà divina, sorgente degli ardori serafici di S. Francesco, è anche fonte delle speculazioui trini­ tarie dei Dottori francescani. .‘1. La creazione opera di amore.

La dottrina creazionista non ò esente da diffi­ coltà: ò significativo del resto il fatto, che la spe­ culazione greca non sia arrivata a formularla.

Sulla scorta di S. Bonaventura tali difficoltà possiamo ridurle alle seguenti: 1) Ad Aristotele legge di ogni agire c di ogni accadere sembrava il principio « ex nihilo nihil fit », dal niente non può venir niente. Principio giusto, se lo si intende nel suo significato genera­ le, che il nulla non può produrre nulla, ma non nel senso che ogni agente presupponga una mate­ ria e un termine su cui agire. È noto come la speculazione cristiana ha avuto (i) Ilo seguito quasi alla lettera la traduzione del P. Scara.muzzi : le variazioni introdotte mi sono sembrate utili a dare mailer risalto al pensiero bonavcnturiano e riguardano soprat­ tutto i nessi sintattici. Il lettore giudicherà da si* se ho fatto bene o male. In questo secondo caso tenga conto della difficoltà del passo latino e della mia retta intenzione.

Il testo latino si trova nel voi. V dcirO/>rr« Omnia, p:qr. SIO; la traduzione de! P. SCARAMUZZI, nciri/iwcrcr/o (fella mente in Dio, traduzione e introduzione e note a cura di P. A. SCARAMUZZI, Cedam, Padova, 10-13, pag. 88-80.

il sommo

ni:ni:

*13

ragione di questa difficoltà: insistendo sulTinfinita perfezione della prima causa efficiente, che richie­ de appunto un agire senza appoggi e senza con­ corsi di altre cause, e quindi perfettamente auto­ nomo e sufficiente per se.

2) Un’altra difficoltà veniva dalla parte della conoscenza. Dio non può creare senza conoscere ciò die crea, e d’altra parte deve creare senza mu­ tazioni di sorta. Ma come si può conoscere ciò che non esiste?

E se conosce dopo che le cose esistono, come escludere ogni mutazione da Dio? Un’altra volta i filosofi cristiani hanno potuto superare Aristotele, appellandosi alla perfezione del conoscere divino. Dio non avrebbe una cono­ scenza perfetta di sò stesso se non conoscesse non solo ciò che ò, ma anche ciò che può fare. La defi­ nizione della verità: « aedequatio rei et intellcclus in Dio acquista un significato inverso da quello che le dava Aristotele: e solo l’intelletto umano che si adegua alle cose, mentre sono pro­ prio le cose che si adeguano all’intelletto divino, che è la misura di tutte. \ Gli archetipi delle cose, che Platone aveva ipostatizzato nel mondo iperuranio, vengono iden­ tificati con le idee divine, regole e modelli eterni di ogni realtà.

3) Le ultime difficoltà nascono da questa con­ siderazione: Dio ò essere perfetto sotto tutti i ri­ spetti, beato in sò e per sò; non si capisce quindi come abbia potuto pensare a creare delle cose che non aggiungono nulla alla sua perfezione.

Già Aristotele, a Platone che faceva derivare il

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

mondo sensibile e imperfetto, dal mondo ideale e perfetto, osservava che è difficile capire come «le idee — sostanze esistenti per se, permanenti, im­ mutabili — possono essere causa delle cose sen­ sibili, del loro generarsi e del loro perire. L’Idea ò principio di fissità e di immobilità, non di mo­ vimento e di mutamento».

Insomma, si capisce come uno agisca per pro­ durre qualche cosa di uguale a se, o per perfezio­ nare se stesso, ma non si comprende come ciò che ò perfetto agisca per produrre l’imperfetto. Riesce logica l’azione che va dalla brutta copia alla bella* copia, ma non quella viceversa.

O Dio ha bisogno di creare, e siamo al pantei­ smo; o non ha bisogno e la creazione diventa incomprensibile.

Queste difficoltà si dissipano subito quando si riflette che Dio è Somma Bontà, Supremo Amore, cioè quando alla logica dell’intelletto si sostituisce la logica della volontà.

Ascoltiamo S. Bonaventura: « ... Diciamo che Dio, in quanto volontà, ò causa « delle cose. La ragione, poi, per cui si attribuisce «proprio alla volontà tale causalità, è questa: per« chò proprio per la sua bontà Dio diventa causa « (delle cose) e questo in ragione di causa efficien« te o in ragione di causa finale. Il bene infatti ha « due qualità essenziali: quella di essere di sua na« tura diffusivo e quella di essere ciò, a cui tendo« no tutte le cose. Solo il fine infatti determina «Vagente ad agire di fatto. Perciò in quella cosa, « che in se aduna la ragione di causa efficiente e «quella di fine, noi troviamo la ragione precisa di

IL SOMMO BENI-}

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« un effettivo agire causale. Ebbene, la volontà è « appunto l’atto, per cui il bene rifletto sul bene o « bontà: essa perciò unisce in se la ragione di cau'< sa efficiente e quella di causa finale. Per questo « diciamo che nella volontà sta la ragione precisa «per cui Dio c causa effettiva (della creazione); « si capisce dunque come noi attribuiamo a Dio « la creazione in quanto ha l’attributo della bontà «e non in quanto possiede altre perfezioni». (1) Per quanto il Dottore Serafico non si sia posto qui la questione nei termini precisi in cui l’abbia­ mo posta noi, non è però difficile trovare in questa .pagina i principi fondamentali per la soluzione che cerchiamo.

Notiamo intanto che S. Bonaventura non si chie­ de se la volontà di Dio sia causa di questa o di quella cosa, ma se sia la causa precisa, determi­ nante delle cose in generale, vale a diro.del suo agire « ad extra ». proprio il punto sostanziale intorno a cui si rivolge la nostra indagine.

Certo anche rintelletto e la potenza di Dio sono necessari per creare; Dio non può volere cieca(i) Ecco le parole precise del Dottore Serafico: « ... Dicimus Dcum, in quantum voluntas est, esse causa rcriim.

«Ratio autem, qilare voluntati attribuitur causalitas, haec est; « quia ratio causandi est bonitas et in rationc efFoctivi et in ra« tione finis. Nani •’ Bonum dicitur- diflusivum ” ” et bonum est « propter quod omnia”. EfTcctivum autem non fit efileiens in « cffcctu nisi propter finem. Illud ergo, quoti dicit coniunctionem « principii elTcctivi cum fino, est ratio causandi in efTectu; seti « voluntas est actus, sccundum queui bonum rctlectitur supra bo« num sive bonitatem : ergo voluntas unit cffeetivnm ctiin fine.

«Et bine est, quod voluntas est ratio causare facicns in cflfcctu; « et ideo altribuimus Deo rationem causalitatis sub rationc vo« luntatis, non sic sub aliis rationibus » {Comm. 1, d. 45, art. 2, q. I, pa£. SO'i).

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

mente, nò volere senza potere; ma ò altrettanto chiaro che il passo decisivo verso la creazione dipende da Dio in quanto volontà.

Ebbene, perchè Dio vuole creare? « Ratio causandi (creandi) est bonitas in ratione « effectivi et in ratione finis». La creazione — scrive S. Bonaventura — trova la sua ragione nel­ la bontà divina la quale si rivela e causa effi­ ciente e causa finale di tutte le cose.

Il Fatto che il bene « est diffusivum sui », il fatto cioè che ò essenziale alla bontà, è nella logica del­ la bontà respandersi, il donarsi, illumina innanzi tutto la vita trinitaria, come abbiamo visto.

Ma oltre a questo donarsi perfetto dal Padre al Figlio c da tutt’e due allo Spirito Santo, è possi­ bile un altro donarsi. TI dinamismo della bontà può espandersi ancora, dal momento che non ò as­ surdo, che oltre all’essere infinito, esistano anche esseri finiti. Con questo la Bontà divina diventa la causa determinante, decisiva della creazione, che trova appunto la sua giustificazione, la sua sor­ gente nel dinamismo generoso del bene. Questa ul­ teriore espansione della bontà però apparirebbe indegna di Dio, perciò impossibile, se le mancasse un termine « ad quem », cioè un fine.

Questo fine è ancora la bontà; il « bonum » in­ fatti — osserva S. Bonaventura — oltre che « dif­ fusivum sui » ò anche « propter quod omnia », c la meta naturale di tutto ciò che ò e può essere, in quanto è degno di essere conosciuto ed amato per se stesso. Nella bontà divina quindi la creazione trova il suo punto di partenza e il suo punto di

IL SOMMO KKXH

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arrivo, e però dalla bontà resta giustificata ed ò resa intelligibile.

Dobbiamo concludere quindi che l’agire « ad ex­ tra », il volere le cose create, non solo non implica alcuna imperfezione da parte di Dio, ma conviene anzi sommamente alla Sua Bontà. Ci siamo aper­ ta così la via per capire come e perche Dio abbia voluto creare.

La volontà infatti non e che una bontà coscien­ te di se stessa: «è un atto — precisa S. Bonaven­ tura — per il quale il bene riflette sul bene » (1) e si riconosce come bene, fì un atto che nasce quindi come espressione della bontà e si compie come amore del bene: ò sintesi fra i due momenti della bontà, per cui questa è centro di espansione e insieme centro di attrazione. La volontà perciò unisce in sò e la ragione di causa efficiente e la ragione di causa finale: « unii cffectivum cimi fine», scrive il Dottore Serafico.

Delle quattro cause in cui si risolve ogni realtà che diviene, due, la causa materiale c la causa formale, possono anche mancare, le altre due, la causa efficiente e la causa finale, mai.

Ora l’infinita perfezione di Dio esige, da una parte, come abbiamo visto, che il suo agire sia un creare, cioè un produrre senza concorso di una causa materiale c formale preesistente; dall’altra però esige, perche il suo agire sia razionale (qua­ lità che non gli può assolutamente mancare), che Dio oltre che causa efficiente, sia anche causa fi­ nale della creazione.

(1) L. c. : « voluntas est adir , sccundum quom bonum rcflectitur super bonum sivc bonitatem ».

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

A queste condizioni soddisfa appunto la volon­ tà di Dio, la quale, in quanto manifestazione del­ lo slancio diffusivo della bontà, è causa efficiente della creazione, in quanto amore, ammirazione del Sommo Bene, creandole, assegna alle cose, il loro line essenziale ed ultimo, che è quello di es­ sere nuovi testimoni e nuovi amatori della gran­ dezza e della Bontà di Dio. È giusto dunque dire che la creazione è da ascriversi principalmen­ te alla bontà di Dio: e che, di conseguenza, ogni cosa è un dono di Dio, una testimonianza del Suo amore. È un obbligo per l’uomo di cercare di scoprire in ogni cosa questo significato d’amore, provvi­ denziale; e solo quando l’uomo giungo a cogliere questo valore di ogni cosa, può dire di avere una conoscenza completa di essa. La scienza ci rivela la struttura chimica, fìsica, anatomica, ecc. delle creature; solo la sapienza ne conosce il loro si­ gnificato d’amore.

Conseguenze pratiche.

Le creature vengono da Dio e non si salvano, cioè non riescono a rimanere fedeli al proprio es­ sere e a ribadirlo, per così dire, nel suo valore, se non tornando a Dio, sorgente e ragione di ogni loro realtà.

A questa prima verità se ne deve aggiungere un’altra: la via del loro venire, dev’essere anche la via del loro tornare.

1) Se dunque le creature procedono da Dio per via d’amore, anche la loro ascesi si compirà so­ pratutto per forza di amore.

IL SOMMO BENI-;

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Il primato francescano della carità non ò solo un atteggiamento spontaneo dello spirito, ma si radica in una profonda e coerente concezione me­ tafisica.

2) D’altra parte ritornare a Dio che cosa vuol dire in definitiva se non indiarsi, cioè diventare Dio, il più possibile a creatura, e far sì che Dio sia in noi nella maniera più perfetta compatibile con la nostra limitatezza di creature? Se quindi Dio 6 Amore, Dio sarà tanto più intimamente unito a noi quanto più in noi regnerà famore.

Alla luce di questa riflessione capiremo benis­ simo perchè la Scuola Francescana identifichi la grazia con la carità.

La grazia non è forse una qualità soprannatu­ rale che rende l’uomo deiforme, secondo l’espres­ sione cara a S. Bonaventura, cioè uguale a Dio, tanto quanto è possibile a una creatura?

E questo non è proprio ciò che tende a compie­ re in noi la carità? È vero, S. Bonaventura non abbraccia questa dottrina e non accetta questa identificazione, di­ fesa invece da Duns Scoto, dottrina che rappre­ senta la massima esaltazione della carità, tutta­ via la dichiara probabile (1).

Anch’egli inoltre afferma: «La carità è radice, forma e fine delle virtù, unendo tutti all’ultimo fine, legando e ordinando tutte le cose fra lo­ ro (2).

(J) III Scnt., (1. 27, a. 1, q. 3; TU, p. f>96.

(2) « Et caritas ipsa est radix, forma et finis virtutum, iungens omnes cura ultimo fine, et ligans omnia simili et ordinata » (Breviloquium, p. V, c. VITI).

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VISIONK FRANCESCANA DELLA VITA

E pi fi che sufficiente per dire che neiramore s’inizia (radix), per l’amore si compie (forma) e nel l’amore si consuma (finis) il ritorno delle cose a Dio. 3) Facciamo un altro passo: l’amore si conosce e si possiede soltanto attraverso l’amore.

Si intende parlare qui non di quella conoscen­ za che si ferma all’aver notizia di una cosa, ma di quella che ci immette nell’intimo della cosa, che ci fa sapore, nel senso rigoroso del termino (aver il sapore), c quindi ci fa apprezzare, cono­ scere per esperienza, e in certo modo, essere la cosa sconosciuta,.

L’amore dunque non ò possibile conoscerlo che vivendolo, che lasciandoci conquistare.

Solo allora so veramente che cos’ò rumore, ne conosco gli impeti, mi diventano chiare le sue leggi, mi inebriano le sue dolcezze, mi rapisce la sua beatitudine, ne so apprezzare le delicatezze.

Di conseguenza, se Dio ò sopratutto Amore, Dio si conosco più che con l’intelligenza, col cuore; più che con la speculazione con la vita; più per intuizione che per ragionamento.

Un’altra volta constatiamo da quale profondi­ tà d’intuizione emerga l’atteggiamento di S. Fran­ cesco nei confronti della scienza.

E siamo anche in grado di capire la propedeu­ tica bonaventuriana descritta in queste parole deH’« Itinerarium »: «Chiunque, perciò vuole ele­ varsi a Dio, ò necessario che, schivata la colpa deformante la natura, eserciti le sopradette po­ tenze naturali (dell’anima) per acquistare, per mezzo della preghiera, la grazia riformante; con

li, sommo ni:ni-;

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una vita santa la giustizia che purifica; con la meditazione la scienza illuminante; con la con­ templazione la sapienza che perfeziona» (1).

Tutte cose queste, elio può fare ogni anima, pro­ pedeutica, clic si può riassumere in questa affer­ mazione: conosce Dio chi lo desidera, chi lo cerca sul serio, insomma chi lo ama.

Al «credo ut intelligam» di S. Anseimo noi possiamo sostituire un «amo ut intelligam» fran­ cescano.

Chi ama di più ò più vicino a Dio di qualsiasi altra anima. Ricordiamo il colloquio fra S. Bo­ naventura e Frate Egidio a Perugia.

Accettarono e praticarono questa pedagogia francescana il P. Ravegnan e il S. Curato d’Àrs, che invece di discutere con gli increduli, li fa­ cevano inginocchiare e confessare; Pascal e Blon­ del, che a chi vuol fare il passo decisivo verso Dio, additano la via della pratica religiosa.

4) Da questa preminenza della carità deriva una condanna radicale di tutte quelle forme di pietà, che non sono fondate sull’amore, non sono filiali.

Purtroppo incontriamo ad ogni passo anime che hanno perso il senso cristiano della religione, e l’hanno abbassata al livello di una pietà pagana o giudaica.

Al fondo di tutti gli atti di culto dei pagani, noi troviamo sempre sentimenti di ordine servi­ ci) Itinerario della mente in Dio. Traduzione, introduzione e note a cura di P. Dio.mkdi: SCaIiaMUZZI. Cedam, Padova, I0 4df pag. 40.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

le: terrore degli dei e desiderio di propiziarseli, timore dei loro castighi, desiderio dei loro be­ nefici.

Nella religione ebraica (quella deteriore, quella condannata da Cristo e in ogni modo superata dal Cristianesimo) accanto all’interesse personale, compare e predomina l’interesse nazionale; il Dio del loro culto è soprattutto il Dio del popolo di Israele.

Non fanno altrettanto moltissimi cristiani?

Si riconosce la grandezza di Dio, si obbedisce ai comandamenti, per mettere dalla nostra parte la onnipotenza di Dio. E non in vista della gloria eterna (cosa ancora compatibile, soprannaturale ad ogni modo), ma proprio in vista del benessere terreno. Questa religione ripugna soprattutto a un’anima francescana, la quale inette a fonda­ mento della sua vita spirituale un grande atto di fede nell’amore, nella bontà essenziale di Dio, e sente in Dio il Padre e perciò procurerà che la sua pietà sia intrinsecamente filiale. Dire filia­ le e dire disinteressata, amorosa ò la stessa cosa.

5) Però anche nell’ambito di una religiosità veramente cristiana, com’è noto, si possono di­ stinguere diverse spiritualità, caratterizzate ognu­ na da un atteggiamento particolare nei confronti di Dio. La spiritualità domenicana, per esempio, vede in Dio soprattutto l’attributo della Verità o orienterà quindi tutta la vita spirituale e i suoi esercizi alla purificazione delFanima, perchè la mente possa slanciarsi alle altezze della conoscen­ za teologica, generatrice di amore.

Ili SOMMO BENH

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La spiritualità gesuitica invece vede in Dio so* pral tutto il Sovrano universale e supremo, che deve regnare in noi e nel mondo; la vita spiri­ tuale quindi sarà intesa come una battaglia con­ tro il male, che dev’essere condotta con una stra­ tegia perfetta e minuziosa (esercizi, meditazioni, esami di coscienza), in cui e molto importante fare un bilancio puntualissimo dei progressi e dei regressi.

Al confronto della spiritualità gesuitica, quella francescana, che trascura quasi totalmente il me­ todo e si affida così volentieri alle improvvisa­ zioni dell’anima, può apparire facilona, troppo spensierata, troppo poetica.

Di fatto ò soltanto più aristocratica; ò per le anime naturalmente generose, capaci di entusia­ smarsi, di commuoversi, e pronte ad agire sotto l’impulso di questi sentimenti. È noto che la pietà francescana si rivolge di preferenza airumanilù del Cristo; vari motivi (e li vedremo) hanno concorso ad orientarla così; uno però è certamente questo: perche nei misteri della vita di Gesù la pietà francescana trova con facilità spunti emotivi, che riaccendono l’amore e spingono all’azione.

Anche la convinzione che sia Tarnore con cui si fa un’azione, ciò che misura il valore ed il me­ rito soprannaturale di ogni opera buona, e que­ sto cominciando da Gesù lino aH’ultimo uomo, è una conseguenza delle considerazioni fatte.

Si capisce come Duns Scoto insegni che l’efficacia meritoria e redentrice della Passiono di Gesù, più che ai dolori in se stessi, si debba far

visioni: fkanokscana dklla vita

risalire airamoro verso Dio e verso le anime, insomma alla carità, con cui Egli li lia sofferti e offerti al Divin Padre.

Il francescano quindi si guarderà da certe for­ me di pietà puntigliose che si incontrano in ani­ me per altro illuminate; anime sempre preoccu­ pate di constatare i progressi nella vita spiritua­ le, e sempre pronte ad avvilirsi dinanzi all’appa­ rente inanità dei loro sforzi.

Vivono per Dio, ma pare siano convinte che per essere accette a Dio debbano presentarsi sempre con un mazzo ben ordinato c inappuntabile di virt/i. Ci tengono troppo a far bella figura di fron­ te a Dio, quasi che Dio avesse bisogno delle nostre virtù.

A queste anime il francescanesimo ricorda che Dio vuole il nostro cuore, e .che quando ci siamo sforzati di dimostrargli il nostro amore, più che ci era possibile, non dobbiamo più preoccuparci d'altro. La virtù non vale per se stessa, ma per l’atto d'amore, con cui c cercata.

In quest'ordine di idee possiamo trovare parole di forza e di pace anche per certe naluracce che paiono fatto per peccare. Il Padre Spirituale deve tendere con tutte le sue forze ad evitare che entri in esse lo scoraggiamento.

Le riflessioni fatte qui sopra si rivelano effica­ cissime.

G) Un altro problema della vita spirituale, ciucilo del valore e dell’importanza che hanno gli stati affettivi, trova la sua soluzione alla luce di queste considerazioni.

Qualche spiritualità li trascura del tutto; quella

IL .SOMMO benk

francescana invece riconosce ad essi un certo va­ lore c vi conduce le anime attraverso la conside­ razione dell’Umanità del Cristo. È un segno anche questo di concretezza.

7) La pietà francescana ò dunque essenzial­ mente filiale. Non per nulla S. Francesco ò il San­ to del «Pater Noster », che ò la preghiera filiale per eccellenza.

L’anima francescana quindi non solo reciterà sempre con grande devozione la preghiera dome­ nicale, ma la farà diventare norma di tutte le suo preghiere; e il direttore di spirito, che vuol rima­ nere fedele all’ispirazione serafica, non sarà sod­ disfatto fino a quando non avrà condotte le anime al dolore e alla carità perfetta.

Capitolo III L’UOMO RISPONDE AL SOMMO AMORE

L’uomo, è stato eletto e ripetuto, è un microco­ smo: in lui si incentrano e si condensano tutti i problemi della realtà, l’uomo ò un groviglio di problemi. Non e’ò una scienza che non abbia qual­ che attinenza con l’uomo.

Ma il problema fondamentale, il più difficile c il più appassionante è certamente quello posto dal fatto, che l’uomo ò un composto sostanziale di materia e spirito e quello, connesso, sulle relazio­ ni fra anima e corpo. È impossibile ridurre l’uomo al solo corpo o alla sola anima.

Se l’uomo fosse solo corpo il problema della sua realtà e del suo destino sarebbe « ipso facto ;> so­ stanzialmente risolto; altrettanto se fosse solo spi­ rito: invece è sintesi di tutti e due.

5S

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Da qui nascono quelle aspirazioni divergenti, clic fenomenologicamente innegabili, la filosofia e la religione cercano di conciliare.

Qua Tè la soluzione che si può ricavare dal Van­ gelo?

Nel Vangelo non c'è una teoria dell’uomo, come non ci sono altre teorie di sorta; questo però non vuol dire che nel Vangelo non ci sia una conce­ zione delFuomo.

Ecco alcuni dati, dalla cui coordinazione risulta una precisa concezione filosofica deH’uomo.

1) Tra anima e corpo quello che vale di più è Fanima: vai la pena di perdere tutto, anche la vita materiale, per salvare l’anima: « Non temete quelli che possono uccidere il corpo, ma chi può mandare l’anima alla geenna ». L'anima è la per­ la preziosa per il cui acquisto vai la pena di sa­ crificare tutto il resto.

2) In che cosa consiste poi di preciso la sal­ vezza dell’anima? Nell’acquisto della vita eterna, che a sua volta si sostanzia nella conoscenza (adesione) di Dio e del Suo inviato, Gesù Cristo.

Il) I beni terreni hanno tutti ragione di mez­ zo: sono cose che Dio ha messo a nostra disposi­ zione, ma delle quali noi dovremo rendere stretto conto. (Parabola del fattore infedele e dei talen­ ti). Sono gli strumenti con cui noi dobbiamo com­ piere il servizio che ci assegna il Padrone celeste.

4) La vita presente infatti non è che una pro­ va, una fatica, un lavoro che dobbiamo compiere bene; è sempre un cammino, mai una meta: la meta è nell’al di là, dove ci aspetta l’immensa

l’uomo risponde al sommo amore

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casa paterna in cui c’è posto per tutti gli uomini, qualunque sia la loro professione, la loro posizio­ ne di fronte al mondo. (Parabola del banchetto).

Dio giudica gli uomini solo dal cuore, insegnan­ doci così che quello che vale nell’uomo è la retti­ tudine della volontà.

5) L’uomo ò oggetto della particolare provvi­ denza di Dio (Discorso della Provvidenza), che pure abbraccia tutte le creature di questa terra: questa Provvidenza diventerà tanto più sensibile e il suo abbraccio tanto più gioioso, quanto più l’uomo si abbandonerà ad essa e si scioglierà dal­ l’amore e perfino dalla preoccupazione per le cose della terra. (Le Beatitudini) In una parola: secondo il Vangelo l’impegno essenziale dell’uomo ò quello di trasformare tutta la sua vita in una risposta d’amore al Padre Ce­ leste.

Se ora confrontiamo la concezione evangelica dell’uomo con quella platonica, che a prima vista possono sembrare così simili, dobbiamo osserva­ re, che su un fondo comune (l’anima ha un desti­ no diverso da quello del corpo e questo destino lo conseguirà in un’altra vita e non in questa) na­ scono differenze, oltre che accidentali, anche so­ stanziali.

Queste ultime possiamo ridurle a due: a) per Platone l’anima ha un destino totalmente diverso da quello del corpo, al quale il corpo non può as­ solutamente partecipare; il Vangelo invece pro­ mette la resurrezione della carne; 6) il divino di Platone è molteplice e impersonale (mondo delle idee) e quindi raggiungibile solo per via conosci-

(IO

visioni:

FHANCKSC’AXA dkixa vita

tiva; il divino del Vangelo ò un Dio personale, che conosce ed ama, e elle vuol essere conosciuto, ma soprattutto amato.

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In S. Francesco anche questi insegnamenti di Gesù, queste idee evangeliche, vengono come ri­ badite, e si arricchiscono di particolari, incarnate come sono nella concretezza della vita; acquistano così una forza di persuasione nuova, più umana, direi, c più sensibile.

San Francesco infatti non è soltanto un uomo che si modella secondo gli insegnamenti di Gesù, secondo quclPumanità evangelica che abbiamo cercato di fissare in poche linee, ma c anche una riprova di fatto, che l’uomo si espande, realizza la sua perfezione c la sua felicità, insomma tiene il posto che gli compete neirinsieme delTuniverso soltanto quando obbedisce alle leggi profonde del­ la sua natura, rivelato dal Vangelo.

1) S. Francesco innanzi tutto prende sul serio la parabola della pietra preziosa: convinto elio l’uomo si salva veramente quando ha salvata l’a­ nima, si stacca da tutto, vende letteralmente ogni cosa terrena e umana, dimentica gli affetti più cari, passa sopra alla sua stessa dignità o buon nome, per assicurarsi il possesso della perla pre­ ziosa.

2) La sua vita diventa uno slanciarsi di ogni momento verso Dio, attraverso il Cristo, senza pentimenti, senza compromessi, con tutte le forze della mente e del cuore (Quadro del Murillo);

1,’rnMo risponde al sommo amoiih

RI

questo slancio, che non si arresta nemmeno con le Stimmate, si consuma nella morte nuda sulla nuda terra.

3) Anche rinsegnamonto evangelico sul valore relativo di tutte le cose di questo mondo, è rea­ lizzato da lui con una Tede, con una coerenza sba­ lorditiva. Nessuna cosa lo interessa se non in vi­ sta di Dio; il cielo diventa la meta spontanea di tutte le sue aspirazioni e di tutti i suoi pensieri.

«Deus meus et omnia » — tanto il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto —; non erano questi i motti abituali, spontanei del Poverello?

«Deus meus et omnia:;: due parole che sinte­ tizzano una vita.

4) La convinzione poi che l’uomo è di Dio e destinato a Dio, convinzione che si concreta nel­ la fiducia verso la Provvidenza divina, porta S. Francesco a quello spogliamento totale che egli chiamava « nozze con Madonna Povertà », e che a tutti è parsa cosa celestiale. Se a fondamento del­ la povertà francescana sta anche la diffidenza verso le ricchezze, che così facilmente invischiano l’uomo in esagerate preoccupazioni terrene, bi­ sogna però dire che essa nasce soprattutto da un atto di fede nella Provvidenza, da un bisogno di dare a tutti la riprova concreta della verità delle parole di Gesù, da un bisogno di fare letteralmen­ te quello che ha insegnato Gesù.

L’esperienza francescana ci obbliga a fare una osservazione importante.

Comunemente si dà agli insegnamenti evange­ lici un valore escatologico e si trascura il loro

<»2

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

valore umanistico. Mi spiego: si è portati a pen­ sare che il Vangelo insegni all'uomo a diventare cittadino del cielo, a scapito però della sua espan­ sione terrena e della sua perfezione umana, inte­ sa nella concretezza di cittadino di questo mondo.

Insomma romanità del Vangelo sarebbe non la vera umanità, ma una umanità trasfigurata, sublimata.

Ebbene, bisogna insistere e dire che la vera umanità ò soltanto quella del Vangelo, che l’uomo acquista la sua vera perfezione, anche a questo mondo, soltanto seguendo il Vangelo.

Lo vediamo in San Francesco: — L’uomo che cosa cerca, se non la felicità?

Ebbene, qual gioia, qual felicità più pura, più co­ stante di quella di S. Francesco?

— L'uomo vuole il dominio del mondo e la co­ munione con le cose per mezzo della scienza; ma S. Francesco Tottienc in una maniera mirabile con Tumore.

— II suo stesso ascetismo si trasfigura in poe­ sia, fonte di letizia continua.

L’uomo con S. Francesco è veramente il Signo­ re del creato. Quei beni o valori umani a cui l’uo1110 rinuncia per attuare il Vangelo egli li ricon­ quista, anche su questa ierra, più puri, più sicuri, integrati in un’armonia di rapporti e di affetti, sconosciuta agli uomini di questo mondo.

II. Psicologia bonaventuriana.

L’uomo nel pensiero di S. Bonaventura è un es­ sere tutto proteso verso Dio col corpo e con Fa-

li' COMO RISPONDE AL SOMMO AMORE)

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nima: essere ima risposta d’amore a Dio, nella quale tutto il creato assommi la sua voce c il suo palpito, ecco la verità che a giudizio del Dot­ tore Serafico chiarisce il mistero della struttura metafìsica dell’uomo. .

Il corpo umano, come tutti gli altri corpi, ap­ partiene a questo mondo materiale e sensibile di cui partecipa in pieno la natura: occupa però un posto di preminenza rispetto a tutte le altre cose.

I principi del mondo corporeo, secondo S. Bo­ naventura, sono due: 1) la materia informe, che porta nel suo seno, in uno stato potenziale, le « rationes seminales » di tutte le cose; 2) la luce, cor­ po perfettissimo e attivissimo.

La luce, penetrando la materia, la stimola, la muove, fa maturare per così dire, le « rationes seminales » provocando così il loro passaggio dal­ la potenza all’atto. Sotto razione della luce la ma­ teria va determinandosi e progredendo di perfe­ zione in perfezione, in forza di un dinamismo e di un travaglio interiore.

«I corpi celesti (sede della luce secondo S. Bo­ naventura) con la loro energia e il loro calore « esercitano sulla produzione di tutte le cose che « risultano da una composizione di elementi, un « influsso efficace, risvegliando, promuovendo o raccordando (la loro attività).

«Influiscono sui minerali, mettendo d’accordo «gli elementi più disparati; sui vegetali spingen« do a comporsi elementi ancora diversi fra loro, «ma non cosi come i primi; promuovendo l’ac« cordo di elementi quasi simili estendono il lo« ro influsso sugli animali, mentre attraverso un

Gl

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

«perfetto equilibrio ed eguaglianza di elementi « concorrono alla formazione del corpo umano, il « quale ò così preparato a unirsi alla forma più «nobile di tutte, che ò l’anima razionale». (1) Il corpo umano dunque è l’ultimo passo di que­ sto dinamismo che pervade e trascina la materia verso determinazioni c organizzazioni sempre più perfette; in esso, più che in tutti gli altri esseri materiali risplende la magnificenza del Creatore.

«Il Primo Principio infatti, producendo le cose « con una potenza, una sapienza e ami bontà sen« za limiti, e manifestando in qualche modo que« ste sue perfezioni in tutte le sue opere, in modo « speciale dovette manifestarle nell’uomo, che ò «Tuli-ima sua opera e la più eccellente: l’uomo in« fatti di tutte le creature fu creato per ultimo « appunto perche in esso si manifestasse e splen« desse in modo particolarissimo la perfezione « consumata delle opere divine ». (2) (1) «Per virtutem autem et calorcin (corpora eclcstia) (clic « sono appunto corpi di luce) influunt ad produciìoiumii cornili « quac ex elemontis jrenerantur, excitando, promovendo, conci<k liairlo : ita quod secumluni coneiliationem contrariorum ab ae« rpialitate remotam influunt in mineralia; sccundum concilialio« nuin al» aequalitate tninus lonpinquain. in vcjretabili.i ; socunduin «coneiliationem acqualitati proxiinantom, in sensibilia; sceundum « veruni coneiliationem aoqualcm, in corpora Humana, quac dispo« sita sunt ad nohilissimam forinam, quac est anima rationalis». (lireviiofjuUuti, p. II, cap. IV', n. 3).

(2) « Cum primuin principium sit in producendo potentissimum, <l sa])ientissimum et optimum, et in oniniHus elTectihus suis hoc « aliquo modo manifestai; potissime dcluiit hoc manifestare in « ultimo efTeetu et nobilissimo, cuiusmondi est homo, quein inter « ceieras crcnturas produxit ultimo ut in lice potissime apparerei « et relueeret divinorum operimi consummatìo ». (L. c.t cap. X, num. 2).

i/ UOMO RISPONDE AL SOMMO AMORE

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«Grande à anche la dignità del corpo umano a « cagione della mirabile armonia e proporziono « delle sue parti, per la quale pur essendo una « creatura terrena si assomiglia alle nature ce« lesti ». (1) Qual’ò lo scopo di questo sforzo, per cui la ma­ teria si organizza in corpi sempre più perfetti, e che nel corpo umano celebra il suo trionfo più bel­ lo e raggiunge il vertice più alto?

Quello di rendersi degna e prepararsi alla vita dello spirito. « I corpi umani sono preparati a ricevere la for« ma più nobile, che c Panima razionale, alla qua« le è ordinata e nella quale tocca la sua meta « l'ansia di tutta la natura sensibile e corporale « di essere, per mezzo di essa, che ò forma, essere « che sente e intende, ricondotta al suo principio « (Dio), per trovare in esso la sua perfezione e « beatitudine ». (2) La concezione bonaventuriana delPanima c ten­ denzialmente platonica: pensa infatti S. Bona­ ventura che la realtà dell’anima non si riduca tutfi) «Magna ctiain est dignità* Immani corporis propter ma« gnam liarmoniam et proportionalem coniunctionem .suaniin paroc tinnì, oh quam in stalli viatori* confnrmis fit natura»; coelestì ».

(Seni., li, <1. 17, art. IT, q. 3; ad. 6).

(2) « Corporei liumana disposta Mint ad nolnlissimain formimi, « quae est anima rationalis ; ad quam ordinainr et ienninatur ap« peti/i/s ornnis untume sensi bit ìs ci corporalist ut per cani (pian « est forma, cns, scntirns et inl**lli«rons. quasi ad ino inni cimili « intelligibili- redm atur ad smini priiieipimn, in quo perficialur «et. bcatificetur ». (lire vilofj ninni, p. II, cap. 'i, n. 3).

GG

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

fa ad essere Torma del corpo: Tannila « non tan­ tum forma est, veruni etiam hoc aliquid ». (I) Prima che forma del corpo, c sostanza spiri­ tuale, razionale, che può esistere anche senza il corpo, uguale alla natura angelica, uguaglianza fondata soprattutto sulTidcntità del fine, che per Tiionio e per l’Angelo e quello di essere destinati a glorificare Dio nell’eterna beatitudine.

«Se confrontiamo l’anima e TAngelo dal punto « di vista del Pine — scrive San Bonaventura — « dico che sono pari fra loro. Infatti e l’anima u« mana e TAngelo sono ordinati direttamente al« l’identico fine, cioè alla felicità eterna; e (sicco« me il fine è la misura della perfezione di un « essere, dobbiamo dire) che la perfezione dell’uo« mo è per questo lato identica a quella dell’An« gelo, poiché nò l’uomo e per TAngelo, nò TAngelo « per Tuonio (ma tutti e due direttamente per « Dio) » (2) Dalla natura angelica Tanima si differenzia per la sua naturale inclinazione ad unirsi al corpo, cosa questa che ha il valore di una vera differen­ za specifica.

«Il fatto — scrive ancora il Dottore Serafico — « che Tanima sia ordinata all’unione col corpo, « rivela in essa una qualità di ordine essenziale, « clic mette in risalto la sua nobilissima natura (1) BrcvUoquììtm, p, II, cap. IX, n. 5.

(2) « Si quantuni ad finem, sic dico quoti sunt parcs. Nani a<ì « flumlem finem, scilieet. :ul aeternam beatiturtinem, immediate or«dinantur; et cationi est mcnstira hoininis, (pine et angeli, nec «homo pmpter anteluni, nec angelus propter hominem» {Seni. II, il. I, p. II, art. 3. q. 1).

l/ UOMO RISPONDE AL SOMMO AMORE

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« e così giustamente si fa consistere in questa in« clinazione la differenza specifica, che la distin« gue dall’Angelo », (1) L’anima dunque appartiene al regno degli spi­ riti ed è essenzialmente una natura razionale e spirituale: a differenza però delle altre naturo spirituali, della natura angelica per esempio, pos­ siede un’inclinazione naturale ad unirsi al corpo.

Come si spiega questa iendenza dello spirito verso la materia?

Non b difficile rispondere.

La creazione, presa nella sua universalità, e cia­ scuna creatura in particolare, hanno una legge costitutiva di cui non bisogna mai dimenticarsi: quella di essere ordinate alla gloria di Dio. È questo il significato ultimo e supremo della realtà, e dimenticarsi di questo nello studio delle cose, vuol dire rinunciare ad afferrare la loro com­ piuta razionalità.

Ebbene, nella natura materiale si constata uno sforzo di organizzazione, che si palesa nella ge­ rarchica perfezione degli esseri, che compongono l’universo; è lo sforzo della natura per avvicinarsi allo spirito, alla ragione; attraverso la quale sol­ tanto, le cose sensibili possono raggiungere il loro fine, che ò quello di dar gloria a Dio. À questo dinamismo alTin sii della materia, viene incontro la natura spirituale, la quale, co­ noscendo ed amando Iddio e le meraviglie della (1) « TI Ilici ergo, quo anima est unihiìis Torpori, tale rlirit quid « essentialo respieiens qund est nolulissinuim in anima : et ita <r penes illud rode sumitur specifica iifTerenlia, secundum quam « differt anima a natura angelica ». (L. c.t q. 2} Conclusio).

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VISIONE rRANCKSf'ANA DKIJ.A vita

sua potenza e della sua sapienza, un turai mento tende a ricondurre ed a sottomettere a Dio tutto il creato, comprese le coso elio da sole sono inca­ paci di raggiungere il trono della maestà divina.

Ecco così spiegato il dinamismo della materia verso lo spirilo, che raggiunge il suo vertice nel corpo umano, miracolo di equilibrio, in cui tutto le leggi e le energie della natura esprimono il loro frutto migliore ed esauriscono, per così dire, le loro possibilità, ed il dinamismo della natura spirituale verso la materia, clic nclPanima umana trova la sua espressione e il suo compimento.

In questa concezione i rapporti fra anima e corpo sono profondamente diversi da quelli che poteva far sospettare la formula generale, che S. Bonaventura ha comune con l’Aristotelismo, es­ sere cioè l’anima forma del corpo.

L’anima umana non è una forma che cerea nel corpo la sua integrazione ontologica in ordine al­ l’essere ed all’agire, ma una forma che si unisce alla materia per partecipare ad essa la perfezione che ella ha a titolo proprio; è una forma che si abbassa per sollevare.

Nello stesso tempo però è profondamente cor­ retta la concezione platonica. Si può certamente dire nel senso preciso della parola che l’anima discende nel corpo; ma siccome vi è destinata per natura e sente quindi una naturale ordinazione al corpo, la sua unione con esso non ò affatto violen­ ta nè mortificante.

Rappresenta anzi per l’anima una perfezione, in quanto, a differenza delle sostanze spirituali separate, l’anima umana, attraverso la sua unione

li* UOMO ÌUKTMIXDK Ali SOMMO AMORI*

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col corpo, ricapitola in se lo slancio di tutte le nature creale e diventa così la più nobile di tutte le forme.

La differenza fra Platone e San Bonaventura è scolpita con stupenda precisione in queste pa­ role: «Il fatto che Paniina si unisca al corpo, « cioè lo vivifichi non è qualche cosa di acciden­ te tale nò di ignobile per l’anima: non ò un qualche « cosa di accidentale, perchè in forza di tale unio« ne l’anima ò forma sostanziale (del corpo), e « neppure un qualche cosa di ignobile percliò pro«prio per tale unione Panima è la più nobile di <c tutte le forme e in essa si compendia l’ansia di « tutta la natura ». (1) NelPuomo si compendia l’ansia di tutta la na­ tura, sintesi di due ansie, che si incontrano e si assommano: affermazione stupenda che predica la grandezza del Tu omo come nessun’aura e sottolinea con una efficacia unica la vocazione divina dell’uomo, sul quale ricade la responsabilità di tutta la creazione, poiché e dalla natura materiale in un senso e dalla natura spirituale in un altro egli riceve l’investi tura di sacerdote del creato.

La vocazione divina dell’uomo, che è scolpila nell’intima costituzione del suo essere fino a iden­ tificarsi con la legge stessa della sua natura, devo imprimere il suo suggello nelle sue attività specifi(1) Seni. TI, il. i, pars. II, art. 3, q. 2, pajr. 30 : « TToc emiri, « quod est anima uni ri corpori Illumino sive vivificare corpus huc inanum, non dicit actum aceidentalem noe dicit actum ignobi« lem : non uccìdcntulom, quia ratinili* illius est anima forma sub«stantialis; non ignobilvm, quia ratione illius est anima nobilis« sima foimarum omnium, et in anima stat appetitila totius na« turae ».

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

che, che sono l’intendere e il volere: l’operazione deve rispecchiare l’essere.

Cioè, se l’uomo è destinato a Dio ed esiste co­ me sintesi ed espressione di quel doppio dinami­ smo (o meglio duplice aspetto di un unico dina­ mismo) per cui tutta la creazione si riporta a Dio, la ricerca di Dio dovrà, logicamente, essere ressenziale forza motiva, Fanima stessa del suo pensiero e della sua volontà.

TI pensiero umano dunque non potrà esistere che come sforzo di conoscere Dio e la volontà che come desiderio del Sommo Bene.

Con perfetta coerenza S. Bonaventura insegna die Dio è l’oggetto primo e proprio del nostro in­ telletto e della nostra volontà.

Questa tesi caratterizza la gnoseologia bonavenluriana e ne c il fulcro e il nerbo.

Nascono cosi le dottrine deH’illuminazione in­ tellettuale e deirilluminazione morale.

Non ò qui il posto di fare un’esposizione scien­ tifica di (juesta dottrina bonaventuriana; al mio scopo basta delincarne i tratti fondamentali, a ti­ tolo di una informazione indispensabile. convinzione di S. Bonaventura che non solo l’essere, ma anche il conoscere dell’uomo sia in­ spiegabile senza radicarlo in Dio: l’essere nel­ l’essere, il conoscere umano nel conoscere divino.

L’uomo conosce le cose non soltanto come sono, ma, fino a un certo punto almeno, come debbono essere. La nostra mente infatti si trova in posses­ so di criteri o regole o principi teoretici e pratici, immutabili, necessarii, eterni, in base ai quali noi giudichiamo le cose e noi stessi.

1/ UOMO RISPONDE AL SOMMO AMORE

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È in forza di questi criterii o principii clic noi non ci fermiamo a constatare le cose come sono nella loro molteplicità quantitativa e qualitativa, ma necessariamente tendiamo ad ordinarle fra lo­ ro e ricondurle ad una unificazione suprema e totale, a ragioni che trascendono il tempo e lo spazio.

Questo è il fatto essenziale della conoscenza ra­ zionale, carattere fondamentale che la distingue dalla conoscenza sensibile, la quale non arriva mai, nè tende ad arrivare, airunificazione della realtà.

Ebbene, com’e possibile clic l’uomo, mutabile e contingente, giudichi se stesso e la realtà esterna mutabile e precaria, come e più di lui, in base a criteri di valore eterno?

Bisogna che la nostra anima sia come radicala neU’eteruo. Se l’uomo si muovesse tutto con le coso, fosse tutto sommerso nel divenire, non si accorgerebbe, non avrebbe nemmeno coscienza del divenire e della sua insufficienza: non potrebbe mai mettersi dal punto di vista dell’unità. Oc­ corre dunque che la nostra mente partecipi in qualche maniera, della conoscenza che Dio ha delle cose.

Soltanto Dio infatti può conoscere necessaria­ mente, immutabilmente, nelle loro ultime ragioni le cose contingenti e mutabili, per il semplice motivo che soltanto Lui, creatore, conosce le cose prima che siano e le trae dal nulla, perchè le co­ nosce e le giudica.

Nell’idea divina eterna, le cose trovano non solo il loro modello, ma l’ordine e la norma direttiva

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visioni:

i RAXCF.srAXA mrjj.A vita

del loro divenire e la spiegazione perfetta del loro essere; li si trovano svelate (incile connessio­ ni ideali di ogni cosa col tutto, nelle quali consi­ ste propriamente l'intelligibilità degli esseri.

Quando Tuomo dalfesperienza sensibile cerea di risalire all’intelligibilità delle coso, dalla molte­ plicità vuol giungere all’unità, tende appunto a conoscere le cose nella loro <; ratio aeterna ».

L’esistenza in noi di questa esigenza e capacità si spiega soltanto, per le ragoni addotte qui so­ pra, ammettendo clic le « rationes aeternae » rilu­ cano in qualche maniera nella nostra mente, e l’assistano, la guidino e la spronino passo passo verso la conoscenza perfetta.

Tutto ciò ci fa concludere clic il conoscere uma­ no non ò clic una imitazione del conoscere divino ed esiste soltanto in quanto tale.

Ma come conosce Dio? La caratteristica fondamentale de! conosce di­ vino c questa: clic Dio conosce tutto nella sua essenza. Tutte le cose reali e possibili stanno eter­ namente dinanzi alla mente di Dio, per il solo fat­ to che dalla eternità Dio ha un’idea perfetta e adeguata della sua essenza. In queirunica idea sono contenute le idee di tutti gli esseri possibili.

Questo si vuol dire appunto quando si afferma che Dio conosce tutte quante le cose in se.

Come l'Essere di Dio b l’essere per eccellenza e di conseguenza non si può dare altro essere se non comò imitazione e partecipazione di quello divino, così il conoscere di Dio b il conoscere per eccel­ lenza e, di conseguenza, non si può parlare di al-

l'uomo

RISPONDE AL SOMMO AMORE

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tro conoscere che non sia una imitazione di quel­ lo divino.

La conoscenza umana non può fare eccezione e (iuindi anche il nostro conoscere non può essere clic un vedere in qualche modo le cose in Dio; la imperfezione della nostra mente e la distanza del nostro conoscere da quello divino, immensa quan­ to si voglia, non possono distruggere la struttura essenziale della razionalità, che ò appunto vedere la molteplicità dal punto di vista dell’unità, l’es­ sere delle cose dal punto di vista del loro dover essere.

Certo nessuno, e tanto meno S. Bonaventura, pretende di attribuire all’uomo una visione diret­ ta, intuitiva dell’essenza divina, visione che non potrebbe essere che totale; e d'altra parte non e neppure necessaria per assicurare all’uomo quella visione delle cose in Dio o della molteplicità dal punto di vista dell’unità, in cui consiste propria­ mente la razionalità.

Basta infatti clic Dio prima di tutte le altre cose sia presente in qualche maniera al nostro in­ telletto, cosa impossibile senza un’aliquale cono­ scenza o nozione, e clic questa qualsiasi nozione di Dio sia la forza propulsiva e insieme la norma di tutto il nostro conoscere.

In altre parole: non occorre, per poter parlare di un vedere le cose in Dio che la nostra scienza sia, non dico un intuire tutta la realtà in Dio, ma nemmeno una deduzione di categorie e di concetti partendo dall’idea di Dio: ò sufficiente che il no­ stro conoscere si riveli in definitiva nient’altro che un andare verso Dio, e un cammino solleci-

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VI SIONK FKANCESCANA DELLA VITA

tato e guidato, passo passo, da questa meta ultima.

Cosa questa die tutti i pensatori cristiani am­ mettono pur rifiutandosi molti di sottoscrivere e accettarne le conseguenze, fra cui la principale ò questa: c nil volitimi quin praecognitum »; è im­ possibile che il nostro conoscere sia un andare così deciso verso Dio, come lo dimostra il fatto che non si acquieta se non dinanzi all’Assoluto, senza che questo Assoluto sia, in una maniera im­ perfetta quanto si vuole, ma pur in qualche ma­ niera, conosciuto prima di tutte le altre cose.

Quello che io ho detto sinteticamente S. Bona­ ventura ce lo dice parte per parte.

Viene innanzi in primo luogo la formula inci­ siva, con cui il Dottore Scralieo caratterizza l’in­ fluenza e la collaborazione della Luce Increata sul nostro conoscere: « requiritur ratio aeterna ut regulans et ratio motiva» (1); l’idea divina, il conoscere di Dio, Dio insomma, promuove ed ò norma del pensiero umano, se questo, almeno, vuol giungere « ad certitudinalem cognitionem », cioè ad una conoscenza clic sia sicura, definitiva, conoscenza insomma c non opinione o immagi­ nazione.

Perchè ciò sia possibile è necessario che punto di partenza, anzi luce stessa del nostro intelletto, sia una primordiale nozione di Dio: « è impossi­ bile che il nostro intelletto conosca con sicurezza qualche verità, senza che in qualche modo conofi) De Scicntia Cliristit q. IV, Conclusici, t. V, pag. 23.

i/ttomo risponde al sommo amore

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sca la verità suprema » (l). E più chiaramente ancora: « ò impossibile, che (l’uomo) conosca qualche cosa, se prima non conoscesse quella Somma Verità ». (2) Tanto è vero che nella nozione dell’Essere senza aggettivi, dell’Essere per eccellenza, si risolvono in definitiva tutti i nostri concetti, che trovano in esso, per così dire, la loro sorgente e la loro mi­ sura. Infatti « se non si avesse la nozione dell’Essere per se, non si potrebbe dare una definizione esauriente di nessuna sostanza » (3) e ci sarebbe impossibile rilevare le condizioni metafisiche e le imperfezioni della realtà, clic ò oggetto della no­ stra esperienza sensibile. (4) Questi pensieri trovano una formulazione an­ che più chiara ed efficace sotto la penna del gran­ de discepolo di S. Bonaventura, Matteo d’Acquasparta. « Per il fatto stesso di essere immagine di Dio (l’anima umana) « si rapporta a Lui come a suo (1) «...impossibile est, quoti intellectus noster certitudinaliter « co^rnoscat aliquod ve rum, quin atlin-rat aliquo modo suimnani « veritutem » (L. c.f n. 20, paje. 20).

(2) «...impossibile est, quoti aliquid cojfnoscat, nisi illa stimma « ventate praeco^nita x> {L. c.f n. 3, pap. 20).

(3) « Nisi igitur coprnoscatur quid est ens per se, non potest « piene sciri definito alicuius specialis substantiae » (Itinerarium, ecc., eap III, t. V, pa£. 30Ì). (/i) « Quomodo sciret intellectus, hoc esse ens dcfectivum et « incompletum, si mi Mani haberet eo^nilionem entis absque omni « defecai ». (lbi;lem).

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

«oggetto; e perciò Dio aiuta la sua operazione in « qualità di oggetto movente ». (1) Dio, in quanto oggetto a cui tende di sua natura il nostro intelletto, lo mette, per cosi dire, in mo­ vimento così se non ci fosse questo avvio divino, non ci sarebbe neppure il nostro conoscere. « Se mi si domanda — prosegue il d’Acquasparta — « se Tanima nostra in quanto razionale può « muoversi da sola, rispondo di no. Ma non ò im« magine di Dio? Certamente. Ma, proprio perche « immagine di Dio, il suo non può non essere un «dirigersi verso di Lui come verso l’oggetto che «la muove; perciò l’attività della nostra anima e « l’aziono di Dio in quanto oggetto movente sono « cose inseparabili ». (2) In un altro passo stupendo, dove tocca la poten­ za espressiva di S. Agostino, Matteo d’Acquasparta scrive: «La mente o 1’intellelto coglie la luce increata e gli archetipi eterni e in certo qual mo­ do li vede, non però a mo’ d’oggetto che gli dà quiete e che lo attira a se come a suo termine, ma a mo’ d’oggetto che lo stimola e lo indirizza ad altre cose; non come oggetto di contemplazione, nel quale si figga lo sguardo di chi ragiona, ma (J) ... « Hoc ipso, quoti imago Dei (natura raliunalis) ordinatur «ad Deum sicut ad objcctum; et ideo Deus cooperatur in eius « opcrationem sicut objcctiun motivimi ». (Mattiiai ab AQUASparta QuacstìOJìcs disputatile de fide et cognitionc - Bibl. F ran­ cide. Scholustica, t. If Quaracehi, ÌOO.'J, Quaest. II de coguitioue, pag. 2G2).

(2) «Si dicutur, utrum natura sibi relieta posse! movcri; dico, « quod non. Et nunquid est imago Dei? Est utique. Sed tamen de « rationc imaginis est, quod in illud feratur sicut in objcctum « motivimi, propterea ista non possimi separari ». 'L, e.r pag. 208).

h* UOMO RISPONDI-: AL SOMMO AMORE

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come un oggetto, che muove a vedere e fa vedere; non pienamente, ma in parte; non nella sua chia­ rezza, ma in una certa oscurità: l’anima infatti non ò ancora del tutto deiforme. E così la luce increata (colta dal nostro intelletto nella maniera descritta), ci fa vedere che non la vediamo, ci fa capire che noi non sentiamo di vederla, se non ci mettiamo a cercare le ragioni supreme, risalendo per gradi dalla conoscenza sensibile fino alla na­ tura della nostra mente e trascendendo anch’essa fino a che giungiamo alle regole immutabili (del­ la verità) ». (1) Che poi Dio, appunto perchè non conoscibile in­ tuitivamente daH’uomo viatore, promuova tutta la nostra vita intellettiva solo per mezzo di una certa notizia di Se, che l’anima reca in se come suggello della sua vocazione divina, è cosa che il Cardinale d’Acquasparta ammette senza difficol­ tà: «Sebbene Dio sia (su un piano metafisico) neirintimo della nostra mente, tuttavia perchè possa essere oggetto movente (per essere presente intellettualmente) è necessaria una certa influen­ za o Timpressione di una nozione da parto sua (1) « Attingi autom mena sivo intcllcetus cognoscens luccm « illam et rationcs ideales et cernit quo lam modo east non ut « objcctum quietane, tcrminans et in se ducens, sod ut objcctum « movens et in al ilici ducens; non ut objcctum visionis, in quo « (le figa tur ratiocinantis aspcotus, sod ut objcctum motivimi et « rationem videndi ; non piene, sed ex parte; non in sua claritato, « sed in quadam obscuritate, quia needum est piene deiformis.

«Et ideo sic videmus per illam, quod illam non videmus; sic vi« demus, quod videro nos non percipimus, nisi cum rcsolvimus, « ascendendo gradatim a corporis sonsilms, usque quo veniatur ad <c naturam mentis rationalis, et tandem transcendcmlo mentem ipsam « porveniatur ad regulas incommutabiles ». (L. c., pag. 254).

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VISION!*: FRANCESCANA DELLA VITA

nella nostra mente; essa infatti non potrebbe es­ sere mossa (a conoscere) se in essa non avvenisse una modificazione (di ordine intenzionale) ». (1) « Ogni uomo — osserva Blondel — ignorante di metafisica quanto si vuole, non finisce mai di innalzare, accanto o al di sopra delle contingenze in cui gli tocca vivere, una visione sia pur vaga di un ordine di realtà distinto e diverso da quello in cui si imbattono i suoi sensi, la sua intelligenza e la sua volontà. Non si vive, non si pensa, non si vuole se non per ciò che non c e che si vorrebbe che fosse; in questo ha le sue radici qucH’irriquietezza congenita, che ò una caratteristica squisita­ mente umana. « A che cosa tende questo bisogno universale, dove sta la sua consistenza se lo si guarda nella radice da cui nasce e nella meta a cui tende? È forse un sogno, che ha un’origine fisiologica o ad­ dirittura patologica, è una libido di piaceri ine­ sauribili, di una curiosità sempre insaziabile.

Sono cose queste che senza dubbio si possono met­ tere in relazione con condizioni vicine e mutabili, con quel bisogno di « evasione » sempre più diffu­ so, con quelTamore per un « approdo più lontano » di cui l’antico poeta non è il solo ad avercene pai'lato. « Ma è proprio ancora questo amore, che ò sor­ gente di un’indigenza continuamente sofferta e insieme testimonianza di una ricchezza, di quella (1) « Etsi sit Deus intimus menti, tamen in rationc moventi? <i necessaria est influentia voi spccies sua, qua mediante movet « quia non posset moveri, nisi aliquid in ea ficret ». {L. c., pagiua 2Gj).

l'uomo rispondi; al sommo amore

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ricchezza eli cui Platone diceva che ogni amore 6 figlio della povertà e delPabhondanza, del quale Pascal ripeteva accennando al principio invisi­ bile, ma intimo e vivo di tale inclinazione fonda­ mentale: «tu non mi cercheresti, se tu non mi avessi già trovato ». Da qui quel carattere strano, ambiguo, incontestabile di questo trascendente, già in qualche modo immanente e tuttavia inac­ cessibile ai nostri slanci ». (1) In conclusione per S. Bonaventura e la sua Scuola Panima umana giunge alla vita intelletti­ va solo in forza di (ìuelPappello intcriore, con cui Dio la chiama a sò nel momento stesso che la crea; perciò Dio ò l’oggetto primo ed ultimo del nostro intelletto e ogni passo della nostra mento non è che uu passo fatto in vista dell’ultima meta: ogni cosa conosciuta ò come una tappa della no­ stra ricerca di Dio ed è misurata dalla nostra an­ sia di Dio. In questo senso, e solo in questo senso, il nostro conoscere non ò che un vedere le cose in Dio e dal punto di vista di Dio, in questo senso b profondamente vera Paffermazione di Blondel: •:< penscr, c’est penser Dicu ». (2) Quello che si ò detto per Pintellelto si può ri­ petere per la volontà.

Parallela e analoga infatti alPilluminazione in­ tellettuale c’ò Pilluminazione morale, che abilita la volontà a dirigersi verso Dio e a raggiungerlo.

L’illuminazione divina raggiunge direttamente la volontà imprimendovi un’inclinazione naturale (1) M. Blondel, La Pensée, voi. T, Paris, 193 (2) Op. c.t pag. 175.

pagg. 171-172.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

e quindi indistruttibile verso il bene, un «peso» che la dirige non verso ciò che ò bene in quanto comodo e piacevole e utile, ma verso il bene per sò stesso.

Questa inclinazione, che S. Bonaventura chiama sinderesi, ha, rispetto alla volontà, la stessa fun­ zione e la stessa efficacia che ha l’idea innata ri­ spetto airintellctto; la costituisce come volontà razionale, dandole come oggetto Dio c diventando così la sorgente alimentatrice di tutti i nostri af­ fetti o di tutti i nostri desideri. È la sinderesi che ci rende avvertiti che i beni, che mano mano conquistiamo, non souo il Bene supremo, il vero bene, e che bisogna cercare più in là.

Come ridea innata di Dio tende a ripetere in noi l’ordine stesso del conoscere divino, così que­ sta inclinazione naturale tende a ripetere nella nostra volontà l’ordine dell’amore di Dio, per cui Egli ama se stesso come lhinico vero Bene, e le creature solo in quanto riflessi o somiglianze vi­ venti della Sua fontale Bontà.

E come il nostro conoscere non giunge alla sta­ bilità della scienza se non attraverso l’illuminazione intellettuale, così la nostra azione giunge allo stabile equilibrio dell’agire virtuoso solo per rinfluenza dell’agiro divino, modello c causa di ogni rettitudine.

L’illuminazione intellettuale si concreta nella impressione dell’idea di Dio nel nostro intelletto; l’illuminazione morale del dono della sinderesi, che orientando la nostra volontà verso Dio la sot­ trae alla mutabilità degli affetti e delle impressio­ ni c le dà modo di capire e di imitare il sapien-

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tissimo, il purissimo, il fortissimo e il giustissimo amore di Dio. Attraverso rilluminazionc intellettuale e mora­ le Dio afferra nel più intimo dell’essere Tuomo e con ruomo tutta quanta la realtà: rilluminazionc pone infatti in esso un richiamo e un’esigenza in­ distruttibili di Dio, per cui intelletto e volontà si volgono a Lui come alla propria perfezione e alla propria forza, anzi alla propria ragione di vita. Per rilluminazionc ruomo è naturalmente preparato a conoscere c amare tutte le cose in Dio, cioè a conoscerle ed amarle come immagini e riflessi della divina essenza.

Chi non vede clic mettere in rilievo queste ve­ rità equivale a sottolineare la vocazione divina dell’uomo, a far vedere che tutto il suo essere, so­ stanza e facoltà, è in un rapporto vitale con Dio, e non 6 costruito che per essere un ponte fra lo cose e Dio? III. Conseguenze.

Nessun ordine umano, evidentemente, può pre­ tendere d’avere quei caratteri di stabilità dina­ mica che non è immobilità, ma costanza e armo­ nia di processi evolutivi, se non è conforme, se non rispetta le leggi inscritte nella natura stessa deiruomo. Perciò binquictczza e la crisi che in­ vestono oggi non soltanto gli ordinamenti e le istituzioni, ma perfino i valori filosofici e cultu­ rali che stanno alla base di quegli ordinamenti e di quelle istituzioni, ci avvertono senza possibili­ tà di equivoci che bordine umano formatosi fa-

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ticosamcnte nell’età moderna, prendendo le primo mosse dal cosidetto umanesimo, di fatto non ri­ sponde alle esigenze fondamentali della nostra natura. « Proporre all’uomo soltanto Tuomo • • • scrive il Maritain — ò tradire l’uomo e voler la sua in­ felicità, perche nella parte principale di se stesso, che ò lo spirito, l’uomo è chiamato a qualche cosa di meglio di una vita puramente umana ». (1) Quello di « proporre all’uomo soltanto rumano » è stato certamente l’errore del preteso umanesimo moderno, errore del quale noi e i nostri contem­ poranei non abbiamo ancora finito di scontare le conseguenze; far vedere al contrario che «l’uomo e chiamato a qualche cosa di meglio di una vita puramente umana » è l’impegno e il compito a cui si accinge con rinnovato ardore il pensiero cri­ stiano.

La sostanza di tutte le accuse che la cultura moderna ha mosso al Cristianesimo ò questa: il Cristianesimo avrebbe dimenticato e disprezzato la natura per volgersi tutto all’esaltazione del so­ prannaturale mortificando la ragione per imporre la rivelazione. In una parola, il Cristianesimo per voler essere troppo sovrumano, avrebbe finito col diventare disumano.

Di conseguenza si finì con il considerare la reli­ gione non come una forza, ma come una debo­ lezza in rapporto al cammino della civiltà. Tutt’al più si può riconoscere alla religione un valore per Tal di là e per la salvezza dell’anima, ma si (1) J. Maritain, Umanesimo integrale, Roma, 1946, p. 11.

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nega che possa dare un apporto alla costruzione della città umana.

Da qui quella diffidenza pregiudiziale verso tutte le interferenze della Chiesa nel campo della

cultura e della politica; da qui queH’esigenza esa­ sperata di laicismo che va dall’assioma liberalo « libera Chiesa e libero Stato » fino all’ateismo marxista.

La controffensiva cristiana che va potenziandosi sotto i nostri occhi, si impernia su due grandi affermazioni contrarie: prima, l'essenza deiruina­ nità non c che un’ansia di Dio c perciò i valori umani si salvano soltanto in rapporto ai valori divini; seconda, il Vangelo aprendoci la strada per diventare cittadini del Cielo e delTeternità, ci addita l’unica via per riuscire ad essere autentici cittadini del mondo.

Solo chi è un autentico cristiano ò anche un au­ tentico uomo.

Perciò a un’arte, a una politica, a una econo­ mia, a una civiltà che si guarda dalla religione, si deve sostituire una cultura e un’azione sociale, che pur distinguendosi dalla religione, trae dal Cristianesimo l’ispirazione e le direttive fondamentali.

Il lettore che ha meditato con qualche attenzio­ ne le pagine che precedono vede da se quali e quanto efficaci argomenti offra la tradizione Francescana a questa rivendicazione della voca­ zione divina dell’uomo.

Non è difficile, mi pare, riconoscere alla conce­ zione francescana dell’uomo, che io sono venuto

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

delineando brevemente, una ispirazione squisita­ mente umanistica.

Se per umanesimo si intende avere un alto con­ cetto della dignità umana, se rumanesimo ò ce­ lebrazione dell’uomo, è giusto parlare di un uma­ nesimo francescano. (1) Infatti nel pensiero di S. Bonaventura, scelto da noi come il più autorevole interprete del fran­ cescanesimo, Tuomo acquista un rilievo straordi­ nario: non è una creatura fra le creature, dalle quali si distingue soltanto in virtù della sua per­ fezione formale; nella gerarchia degli esseri crea­ ti l’uomo ha un posto unico, una funzione cen­ trale, è in certo senso la chiave di volta di tutto runiverso: le sue leggi fondamentali, il suo ulti­ mo significato infatti si chiarificano e si risolvo­ no compiutamente soltanto nella natura umana, la quale così si può, in un senso verissimo, dire misura di tutte le cose.

Insieme però S. Bonaventura ci avverte con una urgenza che trae forza da tutta la sua po­ tente sintesi filosofica, che tutta questa grandezza umana crolla e va dispersa se nell’uomo non si riconosce e si svaluta l’anelito verso Dio. E questo non equivale a proclamare con la gran voce della sua filosofìa che Tuonio è nulla senza Dio e che distrugge l’autentica umanità chi la sconsacra c tenta di spegnere nel pensiero e nel cuore umano queirinquietudine misteriosa, che stimola e appaga, da cui in definitiva pren­ ci) Cfr. P. L. Laurent, O.F.M., Umanismo ri franciscanìsme.

Le problèmc de Vhumanismc chréiienp in « Messago franciscain », 1947, t. II, p. 44 ss,

l’uomo risponde al sommo amore

So

dono slancio tutti gli ordinamenti , della intelli­ genza della volontà, dell’arte, della scienza e della politica?

A questa ispirazione umanistica bisogna far risalire quella preoccupazione costante di non di­ minuire, con dottrine troppo naturalistiche, la dignità deU’uomo, la singolarità dell’attività umana nei confronti con qualsiasi altro genere di attività, clic affiora di continuo nelle pagine dei pensatori francescani.

Questa preoccupazione diventa anzi una diret­ tiva incontrastata, pregiudiziale nello studio del* Tuonio e delle sue operazioni.

Ad ogni passo nelle opere dei Dottori France­ scani si incontrano sdegnosi rifiuti di questa o quella dottrina per la semplice ragione che: « nimis vilificai hominem ».

Anche Duns Scoto, che è pure il più aristotelico dei pensatori francescani, è sempre dominato da questa sollecitudine: basta esaminare la sua dot­ trina sull’attività intellettuale e volitiva del­ l’uomo.

Difendere la dignità dell’uomo vuol dire difen derne la spiritualità.

Questo mette la filosofìa francescana nella con­ dizione di offrire punti di contatto molto più fe coudi con il pensiero moderno.

Prendiamo in considerazione ad esempio il pro­ blema della conoscenza.

Questo problema trova la sua radice nel con­ trasto fra i caratteri delle cose prese nella loro concretezza reale e i concetti con i quali noi pro­ tendiamo di conoscerle.

n;

visioni: fkaxcescaxa della vita

Di soluzioni noi possiamo trovarne quante ne vogliamo nella storia della filosofia: tendenzial­ mente però si riducono tutte a tre. Per antichità e per autorità balza in primo piano la soluzione di Platone c di Aristotele, che io chiamo soluzio­ ne naturalistica. E mi spiego: I due grandi pen­ satori greci esigono una perfetta adeguazione fra idea c cosa, fra essere reale ed essere ideale: da che cosa nasce la metafìsica delle essenze ideali e universali che rimo colloca nel mondo iperuranio e l’altro nasconde sotto le sovrastrutture del­ la materia, se non dall’esigenza di trovare una realtà che corrisponda perfettamente all’idea e possa così giustificarla?

Il conoscere per loro ò puro specchiamento delFcsscre e la conoscenza non è che una fotografìa della realtà.

Il pensiero è ridotto tutto all’essere.

Airestrcmo opposto ò sfociato invece il lento e faticoso corso del pensiero moderno.

Trovandosi neU’impossibilità di seguire le astrazioni del pensiero greco, per quel tanto di em­ pirismo e di amore al concreto, da cui prende le mosse la filosofia moderna, ha creduto di poter sanare il dissidio fra idea e realtà rifondendo Tes­ sere nel pensiero, e facendo della ragione umana la misura della realtà.

TI pensiero è libera creatività, che si dispiega nell’ universo, concedendosi e ritrovandosi nelle cose.

Non ci vuol molto acume per accorgersi che mentre la prima soluzione sacrifica all’oggettività della conoscenza l’originalità del pensiero, la

l'uomo risponde al sommo amore

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seconda pei* rivendicare l’originalità o creatività che spetta a ogni attività spirituale e quindi an­ che al pensiero umano, ha finito col rinnegare queirinncgabile priorità che ha Tessere rispetto al pensiero.

Tra le due soluzioni estreme deve farsi strada lina soluzione, che abbracci e che soddisfi le esi­ genze delTuna e dell’altra.

In metafisica deve tenersi ferma la dottrina compendiata nelTeflato: « ens, veruni, et bonum convertuntur »; si badi però che in esso sono contenute due verità ugualmente importanti. Vi c affermata non solo la priorità radicale dell’es­ sere rispetto al vero c al buono, ma anche quella circolarità di vita per cui Tessere trova la sua espressione e manifesta tutta la sua ricchezza sol­ tanto quando ò diventato verità e bontà.

Perciò anche se non si vuol sottoscrivere alla dottrina rosminiana delle tre forme dell’essere, da me già ricordata in un’altra parte di questo la­ voro, bisogna almeno badare molto bene (e trarne poi le debite conseguenze) alla irriducibilità dell’essere ideale alTessere reale, che costituisce poi la sua originalità di fronte alla realtà.

In coerenza con la priorità radicale dclTessero nei confronti del vero, affermeremo che il pen­ siero coscienza del vero o vita della verità, non può essere che come rivelazione dell’essere e che perciò quando per l’evidenza dei principi e delle conclusioni sono sicuro della rettitudine del mio pensiero (sono sicuro che è veramente pensiero) sono « ipso facto » sicuro della sua oggettività; ricordando però che Tessere ideale è irriducibile,

ss

VISIONI-; FRANCESCANA DELLA VITA

perchè ha qualche cosa di nuovo e di originale, rispetto ad esso, alTesscre reale, diremo che il pensiero, qualsiasi pensiero, non rispecchia Tes­ sere passivamente, ma lo rifa come essere ideale, lo ricrea quindi in una forma nuova.

«Non è possibile ammettere l’assoluta passività « del soggetto nella conoscenza; il soggetto non « può essere di fronte all’oggetto come un sempli« ce specchio. Un realismo di questa forza non « riuscirebbe ad essere coerente con se stesso e «non raggiungerebbe una conclusione; poiché se « il soggetto rimanesse completamente passivo nel« la conoscenza in modo che la conoscenza non « fosse che il passivo riflettersi di un oggetto al « quale verrebbe serbata ogni possibile attività, «non si potrebbe capire come, nel caso che l’og« getto fosse una cosa materiale, potrebbe trasfor« inarsi nel soggetto operante nella coscienza, va« le a dire in un atto intellettuale e spirituale. Il « soggetto e già attivo per il solo fatto di poter «trasformare T oggetto in percezione intellettua­ le le. La conoscenza rivela il senso, l’ordine oltre « il disordine, il cosmo oltre il caos. Essa non può « limitarsi ad aderire alla realtà, ciò non avrebbe « senso nè ragione. Anzi essa deve aumentare la «realtà, allargare il senso del mondo ». (1) Certo i pensatori francescani non hanno avuto una coscienza così chiara del problema. Bisogna riconoscere però che proprio nel loro rispetto istintivo per la natura umana sta la radice di (1) X. HEHIjIAEff, L'io c il mondo, Irad. Paria Banfi Malapuzzi, Bompiani, Milano, Ì0\2t pa". 93.

l/rOMO IH SPONDE AL SOMMO AMORE

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quella insoddisfazione nei confronti della dottrina aristotelica della conoscenza, che caratterizza la gnoseologia di tutta la Scuola Francescana da Alessandro d’Ales a Duns Scoto.

La dottrina deirilluminazione intellettuale di­ fesa con tanto accanimento dai discepoli di San Bonaventura, che cos’è in fondo, se non lo sforzo di far vedere che il pensiero umano ripete e si modella sul pensiero divino, c non sulle cose del­ la nostra esperienza sensibile? E la teoi'ia scotista che assegna come oggetto airintellctto umano P« ens in quantum ens » e non la « quidditas rei materialis» a che cosa vuol approdare se non a una difesa dell’iniziativa e alla rivendicazione di una certa autonomia del pensiero nei confronti di ciò che conosce?

Partendo da queste dottrine ò molto più facile trovare un terreno di intesa con la filosofia mo­ derna, così gelosa appunto dell’autonomia del pensiero umano. Su questa linea di preoccupazio­ ni dobbiamo mettere anche il volontarismo fran­ cescano, che non ò che una difesa dell’originalità del bene e della libertà e spiritualità del volere.

Un’altra conseguenza di questa stima france­ scana dell’uomo sono i motivi antropocentrici che serpeggiano nella filosofìa e nella teologia della Scuola francescana.

I problemi filosofici, come è noto, sono circolari: l’uno rimanda all’altro, e non è possibile scioglier­ ne uno, senza sciogliere implicitamente anche tut­ ti gli altri.

Tuttavia non si può negare che ci sono filosofie

no

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

die incominciano dal mondo, altre dairuomo, al­ tre da Dio. Così, mentre l’aristotelismo è mia metafìsica del mondo, ])erchò la sua speculazione filosofica è so­ prattutto in funzione di una spiegazione del mon­ do, il platonismo e ancor più l’agostinismo è so­ prattutto una metafisica dell’uomo. In primo pia­ no c’e Tuomo con la sua attività: dairuomo si parte per giungere a Dio e alla natura.

La speculazione filosofica dei Francescani anche in questo si mantiene fedele all’ispirazione ago­ stiniana: per S. Bonaventura, come per Duns Scoto e perfino per Occam, il problema centrale della filosofìa ò il problema della verità; non im­ porta la diversità dell’impostazione storica; (in S. Bonaventura diventa problema deirilluminazione intellettuale, in Duns Scoto problema del­ l’oggetto proprio dell’intelletto umano, in Occam problema della conoscenza intuitiva e astrattiva) la preoccupazione ò sempre la stessa, quella cioè di stabilire che cosa può conoscere Tuomo agli effetti di sapere che cosa può e deve amare.

Occorre appena notare che rumanesimo moder­ no si avvia nella stessa direzione, e perciò gli rie­ sce più facile fare la strada insieme al pensiero francescano.

Nella teologia non avviene diversamente.

Per S. Bonaventura come per S. Agostino, l’uomo trova Dio rientrando in sè stesso, cercando di capire le sue attività; e soltanto dopo averlo ritrovato in noi stessi, Dio lo ritroviamo anche in tutte le cose della natura.

Il Francescano che vuol rimaner fedele allo

l’uomo risponde al sommo amore

ni

spirito e alla dottrina del suo Ordine non deve mai dimenticarsi di questa legge fondamentale della nostra ascesa a Dio. Perciò il francescano si trova a suo agio, ò di casa, per usare un’espressione cara allo Hegel, con l’apologetica di Pascal, di Blondel, e del... Car­ dinal Federico.

Ricordate come risponde alla domanda angosciosa delPInnominato: «Dio! Dio! Dio!... Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’ò questo Dio?» — « Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi Hia vicino? Non ve lo sentile in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sa­ rà piena, immensa, subito che voi lo riconoscia­ te, lo confessiate, l’iinploriatc? » (1) Anche il creato ci parla di Dio, ma solo quando Pabbiamo ritrovato in noi stessi; in ogni modo mai in una maniera così immediata, così viva come l’anima nostra.

Nessuna creatura infatti dà a Dio una testi­ monianza così alta come Puomo, che verso Punico Necessario si slancia con tutta la fame della sua intelligenza c della sua volontà.

Tutta la sua vita di creatura ragionevole non è che un’affermazione di Dio. Un’educazione soprannaturale quindi che vuol ispirarsi alla spiritualità francescana insisterà di preferenza su motivi suggeriti da una sobria e sostanziale indagine psicologica: da qui trarrà di (1) A. Manzoni, 1 Promessi Sposi, cap. XXITT.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

preferenza le immagini e le similitudini per illu­ strare i misteri di Dio. Uumanesimo francescano però non si arresta negli orizzonti limitati e torbidi della pura uma­ nità, come fa l’umanesimo moderno, ma si esalta nel Cristoccntrismo, il cui signicato profondo è questo: l’umanità ò tanto piii àlta e perfetta quan­ to più si stringe a Dio. È un umanesimo quindi essenzialmente aperto verso l’infinito e il soprannaturale.

Capitolo IV L’UOMO-DIO, INCONTRO DELL’AMORE INCREATO CON L’AMORE CREATO

I. Gli esempi e gli insegnamenti di San Francesco come avviamento alla dottrina• teologica di Duns Scoto.

Siamo debitori al genio di Duns Scoto di averci dato quella dottrina Cristologica completa e coe­ rente, che fa capire e giustifica, mettendola su una base dogmatica, la spiccata tendenza cristo­ centrica, che tutti riconoscono alla pietà france­ scana.

Però, se ò giusto riconoscere questo fatto, è do­ veroso anche osservare che Duns Scoto non è ar­ rivato, diciamo cosi, di slancio, a questo vertice della speculazione teologica; il Dottor Sottile non ha fatto che porre il fastigio a una costruzione, di cui S. Francesco ha scoperto le fondamenta,

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

S. Bonaventura c la sua Scuola hanno preparato i muri maestri, tutti insieme realizzando un dise­ gno architettonico depositato nel tesoro della Sa­ cra Scrittura e della tradizione. È un dovere quindi ricordare questa prepara­ zione e richiamare i fatti e le dottrine che hanno aperta e costruita, in parte almeno, la strada che doveva condurre alla grande meta.

Gesù è Uomo-Dio; si può quindi considerare come Dio e come Uomo; ma ò chiaro che solo chi considera Gesù nella realtà deirinscindibile unio­ ne ipostatica, solo chi considera il Cristo totale, può sperare di riuscire ad abbracciare, per quan­ to è possibile a mente umana, il mistero di Gesù.

Orbene, se neirunionc ipostatica dobbiamo am­ mirare la misericordia di Dio che si abbassa, dob­ biamo anche stupirci della grandezza, a cui la natura umana viene innalzata.

D’altra parte la funzione del Cristo è legata tanto alla sua divinità, quanto alla sua umanità.

L’umanità quindi di Gesù non può essere dimen­ ticata, perchè la Redenzione passa tanto attra­ verso l’umanità quanto attraverso la Sua divi­ nità. Gesù è Redentore, perchè si è Incarnato; è mediatore fra Dio e gli uomini, non solo perché è Dio, ma perchè è uomo e Dio. Per tutte queste considerazioni l’Umanità del Cristo non solo è adorabile, ma acquista un rilie­ vo e un’importanza clic ci riempiono di meravi­ glia e di stupore.

Ebbene, « S. Francesco ha ricondotto la pietà cristiana a prendere per suo oggetto Gesù Cristo, considerato nei misteri della sua vita umana.

i/uomo-dio

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« Prima di R. Francesco l’Umanità santa era of­ fuscata. se così si può dire, dal fatto che l’atten­ zione era fissata sulla divinità » (1).

Le principali cause di questo fatto sono facil­ mente comprensibili.

Si rifletta innanzi tutto che la lotta contro lo eresie cristologiche aveva obbligato i teologi a porre in rilievo l’eguaglianza e la consustanzialità del Cristo col Padre, mentre, d’altra parte, la vita terrena di Gesù era allora troppo recente perchè fosse necessario richiamarvi con insisten­ za l’attenzione dei fedeli.

L’errore non combatteva la sua umanità, ma la sua divinità: questa bisognava affermare e di­ fendere.

In armonia con queste esigenze storiche e spi­ rituali le immagini del Cristo proposte alla ve­ nerazione del popolo cristiano nelle basiliche, rap­ presentavano un trionfatore, troneggiante impas­ sibile in mezzo a una corte di eletti altrettanto impassibili, molto lontano quindi dalle miserie del suo popolo. Perfino in croce il Salvatore era rap­ presentato glorioso: non ispirava compassione, ma timore.

Inoltre alle popolazioni ancora barbare, di rudi costumi, occorreva inculcare il terrore dei giudizi del Dio vindice, pili che la mansuetudine del Pa­ store divino, e questa fu la prima preoccupazione dei predicatori.

L vero: già in S. Giovanni Crisostomo, in S. A(1) P. V. Biu/roN, Gesù Cristo Mediatorci Milano, Opera della Regalità di X. S. Gesù Cristo, pagg. lì-16.

or,

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gostino c in altri ancora, si trovano commoventi considerazioni sui patimenti dell’Uomo-Dio, ma questo non era un tema ordinario nella predica­ zione popolare, che aveva non lo scopo di com­ muovere, ma di convertire. In tempi più vicini a San Francesco, San Bernardo aveva invitato i suoi uditori monastici a compatire Gesù e Maria negli episodi della loro terrena esistenza. Ma la sua parola, al di là dei chiostri cistercensi, aveva avuto rari e deboli echi nella Chiesa. È S. Francesco che divulga la devozione alla vita umana del Salvatore, la devozione alla Sua infanzia, alla Sua Passione. Ne drammatizza il racconto, la conoscenza, V imitazione, riuscendo così a farli sentire con un’efficacia nuova all’ani­ ma popolare, che si infiamma di una devozione tenera e forte insieme e schiude il suo cuore a una nuova primavera religiosa. « La Chiesa — ò stato scritto — durante tutto il Medioevo ò stata assorta nella contemplazione del Crocefìsso ». Questo avvenne indubbiamente per l’influenza francescana. L’emozione prodotta dal­ la stigmatizzazione del Santo, gli esempi de’ suoi compagni, di Santa Chiara e delle sue figlie, gli scritti di S. Bonaventura e le meditazioni di Fra Giovanni di Calboli, le canzoni di Fr. Jacopone da Todi, le Visioni della B. Angela da Foligno e della B. Battista Varani hanno certamente ali­ mentato la mistica fiamma della compassione. (1) Ebbene, guardare a Gesù non più solo come alla seconda Persona della S.ma Trinità, ma anche co­ ti) Ibidem.

L.' UOMO - IlIO

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me alFUomo-Dio, equivale a mettere in rilievo la sua funzione di Mediatore fra Dio e l’uomo, la terra e il cielo; Gesù apparisce come il Mediatore per eccellenza, il Mediatore por natura, quindi ru­ nico Mediatore nel senso preciso e completo della parola.

Chi non vede, che ci avviamo così, verso la grandiosa concezione scotista nella quale il Cristo appare come il grande e necessario Mediatore fra Dio e la creazione?

Si ò voluto trovare negli scritti di San France­ sco l’affermazione esplicita, dottrinale di questa verità (1).

Più che con le parole però, San Francesco inse­ gna questa dottrina con la sua vita, che è tutta uno sforzo di trasformarsi in Cristo, di unirsi, di stringersi a Lui, proprio come di uno che ò per­ suaso che, secondo Fcspressione di San Pietro, per le creature e prima di tutto per Fuomo non c’è salvezza « in aliquo alio > fuori di Gesù.

II. Dottrine boncinelliariane che preparano la teo­ ria scotista Un buon passo avanti verso la cristologia scotista lo fa S. Bonaventura.

Fra le dottrine, che la contengono « in nuce » e preparano gli animi ad accoglierla, mi accontento di segnalarne due fondamentali.

La prima è la concezione bonaventuriana del­ l’uomo.

La posizione centrale nel piano della creazione (!) P. V. Breto.n, Op. c.t pajr. 17.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

che S. Bonaventura assegna all’uomo, il quale di­ venta il punto di incontro della materia e dello spirito, posizione che gli assicura una preminen­ za di responsabilità di fronte a tutte le altre crea­ ture, non è senza importanza, nè senza significa­ to. Basti fare le riflessioni seguenti.

Se rincarnazione ò in funzione della Redenzio­ ne si capisce come la seconda Persona della Sana Trinità abbia assunto la natura umana: essendo caduto Fuomo, era conveniente che espiasse un uomo.

Se invece lTncarnazione, come vuole la tesi scotista, non è in funzione della Redenzione, viene a mancare questa ragione di convenienza all’unione della divinità con la natura umana. Non era più logico che il Verbo avesse assunto in questo caso la natura più perfetta fra quelle create, la natura angelica? È un’osservazione tutt’altro che trascurabile: il Dottore Serafico raccoglie fra gli argomenti in favore della tesi, che afferma essere la Redenzio­ ne del genere umano la ragione principale della Incarnazione. « Il fatto che Dio abbia assunto proprio la natura umana vuole una ragione: o l’ha fatto in vista della dignità della natura stes­ sa, o l’ha fatto per una certa necessità. Se dici che l’ha fatto in considerazione della dignità, ti faccio riflettere che allora era più logico, che as­ sumesse la natura angelica, più perfetta di quella umana. L’ha fatto dunque per una certa necessi­ tà. la quale non può essere che una « necessitas indigentiae », cioè una necessità derivante da una indigenza portata dal peccato. Anche queste con-

L'UOMO-DIO

no

siderazioni ci fanno concludere perciò, che la ra­ gione principale dell’Incarnazione è la redenzione del genero umano» (1).

Per sfuggire a questa obiezione nulla di meglio che ricordarci di quanto lia insegnato S. Bona­ ventura, sulle prerogative della natura umana nel confronto con quella angelica.

Di fatti S. Bonaventura stesso, trattando espli­ citamente la questione sulla maggior convenienza che il Verbo assumesse la natura umana piutto­ sto che l’angelica, mette in primo piano, non la necessità della Redenzione, ma proprio la posizio­ ne centrale che ha l’uomo rispetto alla creazione. « Il motivo poi di detta convenienza deriva da due capi: cioè e dalla costituzione della natura umana e dalla restaurazione della medesima» (1).

La seconda dottrina bonaventuriana che ci pre­ para a comprendere l’Incarnazione indipendente­ mente dalla necessità della Redenzione, 6 il suo Cristoccntrismo.

Il Verbo non 6 solo centro della vita trinitaria, il « medium » fra il Padre e lo Spirito, ma ò an­ che il « medium » fra Dio e la creazione.

(1) « Itemi, si Deus assumpsit hiiinanam naturarli, aut hoc fuit « propter humanam li^nitatcni, ani necessitatela. Si propter ditrni« tatem, cimi ili^nior sit natura angelica quam liumana, ma^is « debuit assumpsisse angelicali!. Si propter necessitatoti!, et ncces« sitas indiprentiac non sit nisi propter peccatimi; videtur, quod « praecipua ratio fuit, quod hominem assumpsit, rrdemptio ^cnc« ris humani » (S. BOXAVE.YTINA, Scrii. ITT, d. T, art. 2, q. 2, n. 'i, pag. 22).

(1) «Ratio autem convenientiar duplicitcr ampitur, videlieet « sccumlum humanae nnturae institutionem. et senuidum eiusdem « reparationem ». [Scrii. Ili, d. II, art. 1, q. 2. Cfr. tutta la Conclusio.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Dio crea nel Verbo e per mezzo de] Verbo; per natura il Verbo è il Rivelatore del Padre e nes­ suno può arrivare al divino neirordinc naturale e soprannaturale se non passando attraverso il Verbo.

Il Cristo infatti è il Maestro interiore che ci fa arrivare e ei mantiene nella verità. (1) Il pensiero Cristoeentrieo di S. Bonaventura è condensato in poche paginette dal P. Longprc: non resisto alla tentazione di trascriverle ad uti­ lità ed edificazione del lettore: «Seguiamo attentamente il movimento magni« fico del pensiero bona venta riano nel suo sforzo «per centralizzare tutto intorno al Verbo eterno. « Come Verbo eterno, spiega il Santo Dottore, il « Cristo ò al centro della Trinità fra il Padre che « lo produce e lo Spirito Santo che Egli spira. Me« diatore consustanziale c necessario delle persone «divine, ” medium tenebat in trono”, era couve« niente quindi che ne avesse la funzione non solo « nel misteVo della vita divina, ma anche nelle « operazioni di Dio elio hanno un termine nel tem« po, ” medium in officio”. « Per mezzo del suo Verbo, Dio aveva creato il « mondo, per mezzo suo doveva conferirgli quella «nuova creazione» di cui parla S. Paolo. Tutta « l’economia del Cristo sta qui. L’unità della sua «persona unisce i due estremi deH’cssere, la divi« nità e rumanità: come uomo comunica con la « creazione intera, come Cristo realizza l’ideale (1) Cfr. Timvf.lla, Il Cristoccntrismo della cognizione secondo S. Bonaventura t in « Scuola Cattolica », 19 !S, t. I.XXI, pagine 246-254.

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« più alto della sintesi dell’essere e occupa il cen« tro di tutto l’ordine ontologico, ” medium essen« tiae Costituito così, ed illuminato dai tesori « della scienza divina, angelica ed umana, Cristo «sta fra Dio, gli angeli e gli uomini come il cen« tro vitale eli tutto l’ordine soprannaturale, ” me* « clium vitale”, riunendo per mezzo della grazia « sotto lo scettro eli Dio e nell’amore vicendevole « e la pace, tutto ciò che il peccato aveva stacca« lo. La sua influenza vivificante, fine e frutto del« la croce, si irradia sull’umanità intera, ed arriva « fino agli Angeli, benché, in modo accidentale e « ristretto. In tutta questa sfera di diffusione Cri« sto, come il cuore che comunica il proprio moto « al corpo, ” distribuisce la vita della grazia e lo «Spirito Santo ai membri della Chiesa che ò uni« ta a Lui In tutta la realtà, Cristo ” nel quale « Dio ci vivifica ” e dunque il capo e il centro mi« stico dell’ordine soprannaturale. Vi è ancor di « più. Sintesi deH’essere e dei carismi divini, cen« tro vitale della città mistica il Verbo Incarnato «è anche il centro morale, ” medium morale”, nel « quale si ritrovano tutte le virtù in perfetto e« quilibrio, centro che dà la regola e la misura di « ogni vera perfezione. Albero misterioso di vita, « Egli è il ponte di passaggio della vita interiore, « il principio e la fine deH’itinerario che conduco « l’anima alla pace della contemplazione ed al vo« lo dell’estasi. ”11 primo e principale fiore del « paradiso mentale 6 il Verbo Incarnato e croci« fisso”. La via delle ascensioni mistiche è uni« camente quella di un ardente amore al Croce« fisso.

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VISTONE FRANCESCANA DELLA VITA

« Quindi non ò possibile alcun progresso senza «la mediazione di Cristo. Il termine stesso della « unione passiva non è raggiunto che attraverso «una morte mistica nel Cristo. "Gesù ò la via e «la porta, la scala e il carro; è come l'Ostia di « propiziazione posta sulFarca di Dio e il sacra« mento nascosto per tanti secoli. Quegli che vol« ge gli occhi verso questa Ostia di propiziazione « e guarda con fede, speranza e carità, con devo­ zione, ammirazione, trasporti di gioia, venera« zione, lode e giubilo, Gesù Cristo in croce, questi « fa la Pasqua con Lui, cioè il passaggio... Se mi «domandate come ciò avvenga, risponderò: in« tcrrogate la grazia e non la scienza, Dio e non « l’uomo, la luce e non Foscurità, non ciò che bril« la, ma il fuoco che arde in tutto l’essere e tra« sporta in Dio per mezzo di un’azione mirabile «gli affetti più ardenti; questo fuoco ò Dio. Gesù « Cristo lo accende per mezzo del fervore della «sua Passione ardente”. Così parla S. Bona« ventura in quell’aureo libro di mistica cristiana «che e F”Itinerario dell’anima a Dio”. Non si « vide mai nella storia — eccetto nel secolo di Bé« rullo — tanta scienza ed amore per porre il Cri« sto al centro della vita morale e della mistica « cristiana. « Per un teologo ed un mistico così preoccupa« to di porre il Verbo Incarnato come l’alfa e l’o« mega di tutto, era necessario certo che Cristo, « mediatore universale, fosse anche il centro della « metafìsica c delle scienze speculative. S. Bona« ventura non tralascia di aggiungere al diadema « di Nostro Signore quest’altro raggio di onore e

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«di gloria Se taluno vuol giungere alla sapien« za cristiana, ò da Lui che dove cominciare dice: « ”Incipiendum a medio quod est Christus”.

«Infatti, in Cristo sono nascosti tutti i tesori « di sapienza e di scienza di Dio: solo per mezzo «di Lui si può acquistare tutta la scienza: ” ist «medium omnium scicntiarum TI Serafico Dot« toro svolse splendidamente questo tema. ” Non «avete che un Maestro” disse agli studenti dcl« l’Università di Parigi e dinanzi al Concistoro di « Orvieto. ” In cielo e in terra il Cristo è il solo « dottore, è Lui che istruisce tutta la Chiesa trion« fante in Cielo, e quaggiù tutta la Chiesa mili« tante. La sua cattedra è sempre attiva Lui «solo è il principio sorgivo e l’origine di ogni « scienza umana. Come vi è un unico sole ed una « infinità di raggi luminosi, così le scienze multi« formi e diverse emanano da un solo Maestro, il « Cristo che è il sole spirituale. Non è dunque ad « Aristotele, nè a Platone che dobbiamo chiedere « la vita deirintelligenza, ma al Verbo Incarnato. « Egli è infatti, spiega S. Bonaventura, l’oggetto « integrale della teologia, perchè è la sintesi del« Tessere divino ed umano e il centro mistico del« l’ordine soprannaturale. In Lui troviamo altresì « l’ideale morale e la regola viva della giustizia e « della legge che sono i fondamenti dell’etica e « delle scienze politiche: come anche la logica e « la metafisica non possono essere elaborate fuori « del Cristo. « Infatti, l’universo intero è un vasto sacra« mento della divinità: tutti gli esseri sono un « mare di allegorie e di simboli dell’effigie della

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visioni: francescana della vita

«SS. Trinità. Vi è dunque una corrispondenza fra «Dio e il creato: ma questi rapporti di analogia « non sono scoperti dal sillogismo di Aristotele, « bensì da Cristo preso come termine medio di « tutti i nostri ragionamenti. Egli dà alla meta« fisica la chiave di volta, perchè come. Verbo cter« no — c in certo senso anche secondo la sua Urna' « nità santa — è la causa esemplare di tutto. Or-

« bene il vero metafisico è colai che si eleva al « disopra degli accecamenti di Aristotele fino alla « contemplazione della causa esemplare, dell’Arte « iucreata, causa unica di ogni Verità. Così sotto « la penna di S. Bonaventura tutte le scienze, « scienza rivelata e conoscenza umana, si ordina« no logicamente c fanno corona a Cristo.

«Se il Verbo Incarnato è il centro di tutto fino a « tal punto, non ci meraviglieremo che lTncarna« zione venga posta in mezzo a tutti i tempi fra « la serie degli eletti che la precedono e quella «dei predestinati che la seguono: questa posizione « in mezzo ai secoli non solo realizza tutte le spe« ranze, ma sottolinea pure la mediazione univer« sale di Cristo. Sotto questo aspetto il Verbo In« carnato è il ” centro razionale” della storia, « Colui che dà la spiegazione dei due Testamenti « e li avvalora. La croce del Salvatore piantata in «mezzo alla terra significa che Gesù Cristo è, ol« tre alle altre sue prerogative, il centro naturale « deH’univcrso fìsico.

«Dopo tutto ciò nulla di più logico e naturale « clic nella sintesi bonaventuriana, Cristo occupi «invariabilmente il posto centrale; nelle circo« stanze principali della vita terrena, come negli

L* UOMO • DIO

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« splendori del cielo ove l’Apocalisse Lo mostra « ” in mezzo ai candelabri d’oro ”, « fì il mistero stesso di Cristo di essere ovun* «One mediatore, ”tencns medium in omnibus”.

«Se al suo pensiero manca ancora l’alTermazio« ne esplicita del primato assoluto di Cristo nei « disegni divini — S. Bonaventura infatti, diver«samente da Alessandro d’Ales, fa dipendere l’In« carnazione dalla previsione della caduta dell’ilo« mo — dopo lo sforzo di centralizzare intorno al « Verbo fatto carne, la teologia di Cristo-Re era «sulla via delle intuizioni finali e Duns Scoto po« tcva apparire » (1).

Se per S. Bonaventura, come abbiamo visto, non si può essere creature razionali, se non in quanto si ò destinati a conoscere ed amare Dio, come og­ getto proprio del nostro intelletto e della nostra volontà; e se d’altra parte a Dio non possiamo ar­ rivare se non attraverso il Cristo, in quanto Ri­ velatore e Maestro, la creazione senza il Cristo non minaccia di perdere ogni senso e ogni luce?

Non sarà giusto dunque dire, che la creazione e Fuorno sono stati voluti, proprio perchè è stato voluto l’Uomo-Dio? ITI. Il motivo deW Incarnazione secondo S. Bona­ ventura.

Ma che cosa insegna precisamente il Dottore Serafico quando affronta direttamente la questio­ ne sul motivo dell’Incarnazione? Nel suo Com­ mento alle Sentenze egli esamina con una certa (l) 1\ Ki»hiu:.m Lonc.phk 0. F. M., La Regalità di Cristo iri S. Bonaventura e Duns Scoto, Milano, Vita c Pensiero, Collana « La Divina Regalità ».

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visioni: fkaxcescana della vita

ampiezza il problema in una questione speciale dal titolo « Quale sia stato il motivo principale deirincarnazione ». (1) Ligio al metodo scolastico S. Bonaventura, pri­ ma (li esporre la sua opinione personale, fa una ampia esposizione del punto a cui era giunta la controversia ai suoi tempi. Risparmio volontieri al lettore questa parte introduttiva: leggiamo su­ bito la pagina dove S. Bonaventura si accinge a dire tutto il suo pensiero: « Per farci un’idea esatta del problema — scri« ve il Dottore Serafico — bisogna notare che su «questa questione i Maestri propongono gli uni «una sentenza e gli altri un’altra. Alcuni infatti « insegnano che deH’incarnazione si può parlare « in due maniere. L’incarnazione ò assunzione del« la carne; ora della carne si può parlare sotto un «duplice aspetto: o ci si riferisce alla carne come « tale, o alla carne in quanto passibile. Intesa l’in« carnazione come assunzione della carne in quan« to passibile e mortale, allora — dicono —, moti« vo precipuo dell’incarnazione fu la redenzione « del genere umano. Infatti se l’uomo non avesse « peccato e non avesse avuto bisogno di reden« zione, Cristo non avrebbe assunto una carne « mortale. « Se l’incarnazione invece si intende solo come « assunzione della natura umana, semplicemente, « allora costoro affermano, che la ragione princi« pare dell’incarnazione non è la redenzione (Cri« sto nel caso si sarebbe incarnato anche se l’uomo « non avesse peccato), ma la perfezione che sotto (i) Seni. Ili, d. I, uri. 2, q. 2, pagg. 21-2S.

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« molti rispetti risulta dalla grandezza di quel « fatto. « L’incarnazione infatti giova alla perfezione « dell’uomo — c, di conseguenza, alla perfezzione « di tutto l’universo — in quanto è compimento e « dà al genere umano la pienezza della perfezione « e in ordine alla natura e in ordine alla grazia, e « in ordine alla gloria. « In ordine alla natura, perchè nell’incarnazio« ne si esauriscono i modi di venire aH’esistenza « da parte dell’uomo. « Non solo quanto al modo, ma anche quanto al« l’agente, che fa essere l’uomo, l’incarnazione ne «esaurisce la perfezione; l’uomo infatti, ultima « opera di Dio, si ricongiunge al suo Principio con « una unione, della quale, dopo Dio, non c’è nulla « di piu perfetto. « In ordine alla grazia l’incarnazione giova alla « perfezione dcH’uomo; poiché nel l’incarnazione « Cristo assumendo la natura umana, diventa in « senso pieno il capo di tutta la Chiesa, i cui mem* « bri debbono essere uniti nella carità e nella gra« zia. Anche il meritare raggiunge così la sua « perfezione, perchè con l’incarnazione i nostri me« riti traggono forza ed efficacia dai meriti di « Cristo. « In ordine alla gloria l’uomo viene perfezionato « dall’incarnazione in quanto nel suo Dio trova « nutrimento la sua anima e il suo corpo, la sua « parte interiore come la sua parte esteriore, cosa « che non sarebbe avvenuta senza l’incarnazione. « Nell’incarnazione inoltre resta soddisfatta sen« za residui ogni possibilità dell’umana natura,

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

« poiché viene attuata alla perfezione la sua più «sublime capacità, ciucila di potersi unire alla « natura divina. « In questa molteplice perfezione, che ne risili« ta, rincarnazione trova un fondamento di con« venienza sufficiente. Orbene, siccome tale com« pimento di perfezione si riferisce non solo alla « natura decaduta, ma anche alla natura nella « sua integrità primitiva, perciò Dio si sarebbe « incarnato anche senza il peccato, appunto pcr« che era conveniente, che Fuorno raggiungesse « quella perfezione in ordine alla natura, in or« dine alla grazia e in ordine alla gloria, e in cer« to senso anche maggiore, di quella clic (doveva «raggiungere) nello stato di peccatore: e ciò se« concio questa sentenza. I sostenitori di essa, men« tre fanno propri gli argomenti favorevoli ri« portati qui sopra, agli argomenti e alle citazioni « in contrario sfuggono dicendo, che si debbono «intendere riferiti alla incarnazione come assun« zione della carne in quanto mortale e passibile. « La Scrittura e i Santi cioè, parlano dell’in« carnazione come fu dopo il peccato, non di come « sarebbe avvenuta se Tuonio non avesse perduto « lo stato di innocenza. « Altri autori invece sostengono che motivo « principale delFincarnazione fu la redenzione del « genere umano, per quanto ci siano altre ragioni « di convenienza oltre a questa. La redenzione per « importanza è la prima, così che se Fuorno non « avesse peccato, il Verbo di Dio non si sarebbe « incarnato. Il loro ragionamento è questo: Tin« carnazione è da parte di Dio un eccesso di

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« condiscendenza, eccesso, che non sarebbe avve« mito se non ci Fosse stato prima l’eccesso oppo« sto (del peccato), che doveva essere rimediato c « riparato. Se Dio non avesse perduta la sua peco« rella, non sarebbe venuto sulla terra a cercarla. « Quale di queste due opinioni sia la più vera, « lo sa soltanto Colui che si degnò di incarnarsi « per noi. fi! difficile anche dire quale sia da pre« ferirsi, perchè tutt’e due sono ammesse dalla « Chiesa, e tutt’e due sono propugnate da uomini « di fede sicura. L’uua e l’altra poi, ognuna alla « sua maniera, eccita fiamma alla devozione. « Mi pare però che la prima sentenza sia più in « armonia con la ragione; la seconda tuttavia, co« sì almeno mi sembra, favorisce di più la pietà « del fedele; prima di tutto perchè si accorda più « facilmente con l’autorità dei Santi c della Sacra «Scrittura. Infatti tanto il Nuovo che il Vecchio «Testamento, dove si fa parola della venuta del « Figlio di Dio sulla terra, sempre danno come rn« gione di essa la redenzione del genere umano, « come si vede bene nelle citazioni riferite so« pra (1). « Perciò se la rivelazione divina fa conoscere « la ragione più eccellente e precipua e se inoltre « noi non possiamo dire più di quello, che ci ri« sulta dalla Sacra Scrittura, pare chiaro, che è « più consono, al rispetto che dobbiamo alla fede, « pensare che la ragione principale delfiincarna(i) Ragioni clic noi abbiamo tralasciate, ma che il lettore vo­ lonteroso potrà trovare, in latino però, nelle opere di S. BONA­ VENTURA, 1. c.

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visioni: francescana della vita

« zione è la redenzione del genere umano, che non « pensare diversamente. « In secondo luogo questa sentenza favorisce di « più la pietà del fedele, perchè dà più gloria a « Dio che non la precedente. Tale sentenza in« fatti sostiene che Pincarnazionc è conveniente in <c vista della perfezione delPuniverso, e perciò in <c certo modo fa servire Dio alla perfezione delFu« niverso. e quando afferma che senza Fincarna« zione le opere di Dio non sarebbero del tutto « perfette, la rende in certo qual modo necessa« ria. Mentre questa sentenza, affermando che il « mistero dellTnearnazione trascende ogni perfe« zione, viene a dire che Cristo trascende ogni « perfezione delPuniverso sia quanto alla natura, « alla grazia e alla gloria. E fa molto bene, per« che, come dice Aristotele (Metapli., XII, testo «52), Dio si deve porre al di là di ogni ordine « creato, come del generale non si dice che fa par« te dclPescrcito ,ma che è sopra Pesercito. « In terzo luogo questa sentenza mette in mag« gior rilievo la grandezza del mistero delFin« carnazione, dicendo appunto, che esso è tanto « grande, che solo per la causa più grande che si « possa pensare si dovette ricorrere ad esso, cioè « per placare Pira divina e per restaurare ” om« nia, sive quae in coclis sunt, sive quae in terra ” « (Efesini, cap. I, v. 10). Per questo appunto si af« ferma che non si sarebbe ricorso a un mistero « così grande, se non ci fosse stata la caduta della « più nobile fra le creature e l’offesa della maestà « divina. « Per un’altra ragione (questa sentenza) inham-

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«ma di più Tarnore dell’anima fedele. Infatti il « pensiero che Dio si sia incarnato per distrug« gere i suoi peccati, stimola di più la sua devo« zione, che non la convinzione, che Dio si sia in« carnato per dar l’ultimo tocco alla perfezione « delle sue opere. « Concludendo, sebbene questa sentenza non « sembri così sottile come l’altra, tuttavia, poiché « favorisce di più la pietà del fedele, per il fatto, «che è più in armonia con le affermazioni dei « Santi, e onora di più Iddio, ed esalta di più il « mistero dell’Incarnazione e infiamma di più il «nostro amore penso si debba ammettere, corno « vogliono le predette citazioni e i predetti argo« menti, che la ragione principale dell’incarna« zione fu la redenzione del genere umano, per « quanto insieme con questa si possano trovare al« tre ragioni di convenienza ».

I commenti sono superflui: mi si conceda però di fare alcuni rilievi che permettano, a me, di sot­ tolineare i punti che interessano in modo partico­ lare lo scopo di queste pagine, al lettore, di coglie­ re il sugo di quanto S. Bonaventura 6 venuto di­ rettamente spiegandoci.

La prima constatazione è questa: sebbene la te­ si scotista sul motivo dell’ incarnazione sembri quasi uno sviluppo della concezione bonaventuriana dell’uomo e del Cristo, tuttavia il Dottore Serafico non l’insegna esplicitamente, anzi inclina apertamente verso la tesi opposta.

Questo però non vuol dire che ci sia una con­ traddizione profonda e irriducibile fra l’insegna­ mento di S. Bouaventura e di Duns Scoto.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

L’affermazione: « Mi pare che la prima sentenza sia più in armonia con la ragione » è di una elo­ quenza, che non può sfuggire a nessuno.

La lunga e precisa discussione bonaventuriana ci fa vedere inoltre con quanta serietà il Dottore Serafico abbia meditato il problema, e con quanta sensibilità teologica l’abbia valutato. L’argomen­ to precipuo, che fa discendere il piatto della bi­ lancia in favore della tesi comune, è l’autorità della Sacra Scrittura e della tradizione: «La se­ conda sentenza tuttavia — ci ripete San Bona­ ventura — favorisce di più, così almeno mi pare, la pietà del fedele, prima di tutto perchè s’accor­ da più facilmente con l’autorità dei Santi e della Scrittura. Infatti tanto il Nuovo come rAntico Testamento, dove si fa parola della venuta del Figlio di Dio sulla terra, sempre danno come ra­ gione di essa la redenzione del genere umano». ft anche oggi la difficoltà più forte che si muo­ ve alla tesi scotista. Questo non vuol dire corta­ mente che la difficoltà sia insuperabile: avzi, una considerazione più accurata e più armonica dei testi scritturali e soprattutto di molti passi delle lettere di S. Paolo, giunge a persuaderci che non si può sperare di cogliere il senso completo di mol­ ti di essi se non si prospettano nella luce della cristologia scotista; è la conclusione a cui arriva, fra gli altri, l’imparziale volume del Lattanzi (1).

A questa difficoltà S. Bonaventura ne aggiunge un’altra.

Gli argomenti che egli conosce in favore della (1) U. Lattanzi, II Primato Universale di Cristo secondo le S. Scritture, Roma, 1937.

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incarnazione indipendente dal peccato, quasi tutti insistono soprattutto sul fatto che senza l’UomoDio mancherebbe qualche cosa alla perfezione delruniverso. Siamo sulla linea di queirottimismo cosmico, che incontriamo più tardi nel Cusano, in Malebranche, in Leibniz: è proprio questo otti­ mismo che S. Bonaventura respingo una volta di più per le insidie panteistiche che nasconde, in­ sidie che non potevano sfuggire alla sua mente chiara e profonda.

Ho detto che il primo argomento che decide il Dottore Serafico per la tesi comune ò l’autorità dei lesti scrilturistiei; non ò però l’argomento principale. L il primo, ma non ò il più forte, nò l’argomento decisivo. Quello che determina S. Bo­ naventura a preferire la dottrina comune più che il desiderio di non allontanarsi dalla tradizione esegetica e patristica, ò questa intima debolezza degli argomenti di convenienza, i quali sono poco persuasivi, proprio perche vorrebbero dimostrare troppo.

Ad ogni modo l’esame di questa questione bonaventuriana ci permette di affermare clic il Dotto­ re Serafico solo apparentemente, o per dir meglio, soltanto per una considerazione superficiale si può dire contrario alla celebre tesi scotisla: di fatto non l’ha conosciuta nò nella sua formulazione let­ teraria (cosa ovvia), nò nel suo spirito e nelPintima forza dei suoi argomenti.

Più che l’opinione, non ha accettato gli argo­ menti che erano stati proposti per sostenerla: fra essi nessuno che richiami la vera posizione di Scoto, come vedremo nel paragrafo seguente.

HI

visioni: francescana della vita

IV. Il motivo dell'Incarnazione secondo Scoto.

Duns

Como abbiamo fatto per S. Bonaventura, ascol­ tiamo direttamente Duns Scoto: si guadagna sem­ pre da un colloquio diretto con i grandi. (1) « Per risolvere il problema bisogna vedere: « Primo, in clic maniera questa unione (2) possa « essere oggetto di predestinazione. « Secondo, come Cristo è stato predestinato. « Terzo, in che ordine stia la predestinazione di « Cristo rispetto alla predestinazione di altri ».

Per quanto sia oltremodo interessante conoscerò la dottrina di Scoto esposta in questi tre punti, tuttavia mi accontento di proporre al lettore i pensieri contenuti nel terzo punto, che è quello che più direttamente ci riguarda. « Resta in terzo luogo da far vedere in quale « rapporto stia la predestinazione di Cristo rispel« to alla predestinazione degli altri esseri. « In proposito si dice che la caduta dell’ uomo « sia la ragione necessaria della predestinazione « di Cristo. Perchè Dio — dicono — previde che « l’uomo sarebbe caduto, previde anche che egli « l’avrebbe redento per questa via (per Fincarna« zione), e previde, perciò, la assunzione della na« tura umana nella persona del Verbo, assunzione « che avrebbe tanto glorificato Fuomo.

(1) Traduco la seconda questione riveduta criticamente da P. Balie, questione che si trova nell’opera « Joannis Duns Scoti, Thoolojriae Marianae Elementa, quac ad ftdem codd. mss. edidit P. C’arolus Balie O.F.M. x>. Sibenici, 1033, pagg. 110.

(2) della natura divina con la natura umana.

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« Io però dico che la caduta dell’ uomo non ò «la ragione della predestinazione di Cristo; dico « di più: anche se non fosse caduto nò l’Angelo, nè « l’uomo, Cristo sarebbe stato predestinato egual« mente, anzi sarebbe stato predestinato egualmen« te anche se non vi fossero stati altri esseri da « creare.

E lo provo. « a) Chi vuole ordinatamente, vuole prima il « fine c subito dopo le cose più vicine al line. ^\Ia «Dio vuole ordinatissimaniente; quindi bisogna « dire che tutte le cose le ha volute col massimo «ordine. In primo luogo dunque vuole Sò stesso, « e, dopo di Sò, quella che, fra tutte le cose, che «può volere fuori di Sò, ò la più immediatamente «ordinata a Lui, cioè Panima di Cristo.

Dopo la sua gloria intrinseca, Dio, quindi voi« le la gloria di Cristo.

Se ne conclude, che prima di qualunque merito e «demerito, previde che Cristo sarebbe stato uni« ta a Lui nell’unita della persona. « b) Di più, come ò stato stabilito nel primo « libro delle Sentenze trattando della predestina« zione, la preordinazione e la predestinazione de« gli eletti era completa prima che si disponesse «qualche cosa a proposito dei reprobi e questo « perchè nessuno potesse godere della perdizione « di un altro, come di un vantaggio per sò.

Di conseguenza prima della previsione della « caduta e prima di qualunque demerito, fu pre« veduto tutto il processo che riguardava Cristo. c) Di più: se la caduta fosse stata la causa

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visioni: francescana della vita

<: della predestinazione di Cristo, ne seguirebbe c che la più grande opera di Dio è soltanto occa« sionata. (1) « La gloria di tutti (gli eletti) intensivamente « non è così grande quanto lo ò la gloria del Cri« sto; e pertanto Dio avrebbe trascurato un’opera « così eccelsa in vista della buona condotta di A« damo, nel caso appunto che non avesse peccato!

«Chi non vede quanto ciò sia irragionevole?

«Io dunque dico così: Dio ama in primo luogo « Se stesso. In secondo luogo ama Se stesso negli « altri e questo amore ò santo; in terzo luogo vuo« le essere amato da colui che può amarlo in gra« do sommo — parlo, s’intende, dell’amore di un « essere che non sia Dio stesso —; e finalmente «prevede Tunione ipostatica di questa natura u« mana, che doveva amarlo immensamente, anche « se Tuomo non fosse caduto. (2) « Come si devono intendere allora le parole con « le quali i Santi dichiarano, che Dio non si sa« rebbe fatto mediatore (incarnandosi), se non « fosse esistito qualche peccatore (da redimere) e «in generale tutte le affermazioni che suonano «contrarie alla mia teoria?

«Affermo che la gloria (3) spettava tanto all’a« anima come al corpo di Cristo, per quanto esso (1) Cioò voluta da Dio per un avvenimento casuale, il peccato di Adamo, che dipendeva appunto non dalla volontà di Dio, ma da quella del primo uomo.

(2) Fino a questo punto ho avuto sottocchio e sostanzialmente seguita la traduzione che di questi passi ha fatto il P. Se a ha mozzi (Cfr. Duììs Scolo Summula, Scelta di scritti coordinati in dottrina a cura del P. D. Scaramuzzi, Edizione «Testi Cristiani », Firenze, 1932, pagg. 173-175).

(3) di cui si £ parlato qui sopra.

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« ne ò capace c che sia il corpo come l’anima no « avevano diritto nel momento stesso che la na« tura umana fosse stata assunta dal Verbo. Per« ciò la gloria sarebbe stata subito concessa al « corpo di Cristo, se ciò non fosse stato dilazio­ nato in vista di un bene maggiore; affinché fos« se possibile per l’appunto, per l’opera di un me« diatore, che lo poteva e lo doveva, riscattare il « genere umano dal dominio del diavolo. In fatti «era un bene più grande la gloria dei beati re«denti dalle sofferenze della carne di Cristo, che « non la gloria (immediata) di essa carne. Per « questo, in quinto luogo, Dio previde la venuta « del mediatore in una carne passibile per la re« denzione del suo popolo, chiaro che non sa« rebhe venuto in qualità di mediatore per patire «e redimere, se qualcuno prima non avesse pec«cato; e il conferimento della gloria che spettava « al corpo di Cristo, non sarebbe stato dilazionato « (a dopo la resurrernr.e) se non ci fossero stati « esseri da redimere. Non avverandosi questa con« dizione Cristo sarebbe stato tutto glorioso fin «dal primo momento della sua esistenza».

Come si vede, sono tre gli argomenti che Duns Scoto porta a fondamento della sua tesi. Il primo è un argomento, diciamo, metafisico, nel senso che è ricavato dalla considerazione della natura di Dio; ed ò evidentemente il principale, come si rileva benissimo dal fatto che ò ripetuto con al­ tre parole nella Conclusione riassuntiva: «Io dunque dico così...»

Il secondo c l’applicazione a Cristo di un prin­ cipio di profonda convenienza, suggerito per così

1 IN

VISIONK FRANCESCANA DELLA VITA

dire dal cuore: «nessuno deve essere in condi­ zione di dover godere del male altrui, per il be­ ne c he ne viene a se stesso ».

Il terzo si basa suirirragionevolezza intrinseca dell incarnazione, concepita solo in funzione del peccato; il capolavoro di Dio «ad extra» non sa­ rebbe stato neirintenzione di Dio e non sarebbe esistito, se Fiionio peccando non gliene avesse of­ ferì a l’occasione.

Se noi confrontiamo questi argomenti con quel­ li r.cordati da S. Bonaventura in favore della tesi che doveva diventare scotista, argomenti che non sono riusciti a persuadere il Dottore Serafico ad abbracciarla, dobbiamo constatare che gli argo­ menti bonaventariani nel loro complesso sorgono nel .'animo di chi guarda il piano di Dio dal punto di vista della creazione, dal basso insomma, e ri­ spondono alla preoccupazione di dare compiutez­ za alle opere di Dio, mentre gli argomenti di Sco­ to, specialmente il primo, ci mettono dal punto di vista di Dio, ci prospettano le cose dall’alto.

Ora se noi teniamo presente che a parere di S. Boiaventura il punto debole degli argomenti esa­ mi Qati, recati in favore della tesi scotista, è pro­ prio il l’atto che tutta la forza dimostrativa si basava su un’esigenza di perfezione da parte del­ l’uomo e del creato (1), e che egli perciò preferiva la tesi opposta soprattutto per il fatto che essa I) « La ragioni; principale deU’Incarnazione... è la perfezione clu, sotto molti rispetti risulta dalla grandezza di quel fatto. I/Incarnazione infatti piova alla perfezione dell’uomo — e, di consti­ gli *nza, alla perfezione di tutto l’universo — in quanto è compi­ ine ito e dà al genere umano la pienezza della perfezione e in on ine alla natura, e iu ordine alla grazia e in ordine alla gloria ».

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« favorisco di più la pietà del fedele, perche dà « più gloria a Dio che non la precedente. Tale « sentenza infatti sostiene che rincarnazione è « conveniente in vista della perfezione dell’uni« verso, e perciò in certo modo fa servire Dio alla « perfezione dell’universo, e quando afferma che « senza rincarnazione le opere di Dio non sareb« bero del tutto perfette, la rende in certo qual «modo necessaria» (1), è forse azzardato dire, che se S. Bonaventura avesse conosciuto la dimo­ strazione seotista, sarebbe stato senz’altro dalla sua parte?

Non dimentichiamo che egli, la tesi che pro­ pugnerà Scoto l’ha giudicata più logica, più ra­ gionevole dell’altra. Le ragioni però avevano quel difetto di cui si e detto.

Quelle di Scoto invece lo evitano felicemente, poiché le convenienze dell’incarnazione nascono soprattutto dalla considerazione del modo di agi­ re divino, esprimono esigenze della perfezione di Dio e non della perfezione dell’universo.

In questo sta la novità e insieme la forza fe­ conda del metodo teologico di Duns Scoto, il qua­ le d’altra parte non fa che continuare a dar svi­ luppi più ricchi e più ampi a quel metodo dedut­ tivo che e caratteristico di tutta la teologia sco­ lastica, e di cui S. Bonaventura aveva dato un saggio così stupendo nel suo « Breviloquium ».

(1) « Mapis concordai piotati fidei. quia Deum mapis honorificat quam praecc.lens. Xain praecedens dicit, quod Donni conveniebat incarnarì ad pcrfectionem universitatis ; et ideo quodam modo Deum intra perfectioncin universi concludit et quandam ncccssitalem incarnationis ponit ei, cum dicit, opera eius aliter ad pcrfcctionem non perduci » (L, c.).

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VISIONE F II A X C ESCA N A DELLA VITA

A nessuno infine può sfuggire che l’argomento foi.(lamentale di Duns Scoto, non è che un’altra applicazione di quella logica della bontà e del­ l’amore, che aveva servito a S. Bonaventura per intendere la vita trinitaria e la creazione: sgorga qu.ndi da quella profonda visione metafisica del­ la realtà, clic è propria della speculazione fran­ cescana.

V. Nuovi sviluppi. ] tre argomenti di Duns Scoto, intesi a dimo­ strare, che il fine primario dell’Incarnazione non a Redenzione, ma la gloria di Dio, sono stati ripresi c sviluppati dagli scotisti di tutti i secoli.

Fra gli scotisti, in questo caso, dobbiamo anno­ verare anche S. Bernardino da Siena, il Card.

Nicolò da Cusa, S. Francesco di Sales e tanti al­ tri santi e teologi eminenti fi).

Una esposizione moderna di essi può essere questa: 1) Nessuno può essere predestinato alla glo­ ria in conseguenza della caduta di un altro; pri­ mo, perchè la predestinazione di una creatura da parte di Dio ò unicamente effetto del Suo amore, che è liberissimo e quindi indipendente e incon­ dizionato; secondo, perchè ripugna che uno debba godere del male altrui.

Nel caso di Cristo poi bisogna aggiungere una terza ragione: ripugna infatti sommamente pen!l) Una documentazione breve, ma sostanziale, dell'accoglienza siv ita lungo i secoli da questa celebre dottrina scotista il lettore pii > vederla nella Lettera Enciclica del P. Leonardo Heij.o, De Universali Ctirisii Frimaiu aft/uv Rcr/alitatef ltomae, 1933, da pagii a 27 in avanti.

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sare che Dio avrebbe rinunciato al suo capola­ voro, il Cristo, se Adamo si fosse diportato bene.

Il Cristo, pili di tutte le creature, è l’oggetto dcH’amore di Dio e piti di tutte le creature Dio l’ha voluto liberamente e incondizionatamente.

Possiamo dunque affermare con Duns Scoto: « Siccome la predestinazione di ognuno alla glo« ria di sua natura precede, riguardata la cosa « da un punto di vista oggettivo, la previsione del « peccato e della dannazione di qualsiasi essere..., «a più forte ragione questo si deve dire a propo« sito della predestinazione di qucU’anima (quella « di Cristo) che ò predestinata al massimo della « gloria » (1).

2) Il fine è volato prima dei mezzi.

La volontà di Dio 6 liberissima, ma insieme razionabilissima e ordinatissima: vuole libera­ mente, ma non a casaccio, il che vuol dire, che l’ordine oggettivo dei valori ò la sua norma.

Dio quindi vuole e ama prima di tutto e neces­ sariamente la sua divina essenza. Le altre cose può volerle e amarle soltanto in vista di sò stesso: crea per amore, cioè per far partecipi del suo bene altri esseri, ma poiché le creature tanto più partecipano al bene di Dio quanto più lo ricono­ scono e lo amano (non è possibile un’altra manie­ ra di partecipare, dal momento che la creatura non può essere Dio), ecco che dire: Dio crea per la sua gloria, e Dio crea per amore, per donarsi, è la stessa cosa.

(1) P. Hat.ic, Job. Duns Scoti, Tbcologiac ntarianae elemento, Sibenici, 1933, pag. 5.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

ìMa so Dio crea per la sua gloria e per donarsi (fine), naturalmente, vorrà innanzi tutto ciò che e più vicino al fine, cioè la creatura che più lo glorifica e più partecipa delle sue perfezioni.

Se Cristo ò il glorificatore (li Dio per eccellenza (fatto da tutti ammesso) per il principio « quod est prima in quolibet genere, est causa omnium quae sunt post », Cristo sarà causa di tutti gli altri glorificatori di Dio. Di conseguenza non il Cristo e stato voluto per gli uomini, in vista di una misericordiosa restau­ razione del genere umano, ma la creazione nella sua totalità ò stala voluta in vista del Cristo.

Questo argomento mi pare che più di tutti si presti ad uno svolgimento facile, popolare.

Si può, ad esempio, proporlo così: — Tutte le creature sono state create per la gloria di Dio: questo vuol dire che la ragione principale, costitutiva del loro essere di creature è la glorificazione di Dio e che soltanto la sicu­ ra realizzazione di questo fine giustifica la crea­ zione.

— Dio si glorifica conoscendolo ed amandolo.

Nella conoscenza e neir&more di Dio si realizza la perfetta coincidenza fra dovere e piacere, fra virtù e felicità, fra legge c libertà; fra i due aspetti della carità, il dare tutto (virtù) e il rice­ vere tutto (felicità).

— Tenuto conto di questo, appare chiaro che non tutti gli esseri dell’universo glorificano Dio direttamente: di questo ò capace soltanto la crea­ tura razionale.

Gli esseri che appartengono al regno minerale

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glorificano Dio in quanto rendono possibile la vi­ ta ai vegetali, questi in quanto servono agli ani­ mali, tutti insieme in quanto rendono possibile la vita materiale e intellettuale all’uomo. È l’uomo che raccoglie e interpreta con la sua intelligenza le meraviglie e le voci del creato e col suo cuore le converte in un atto di lode e di adorazione al creatore.

— Ma nemmeno Tuomo assicura la gloria di Dio. L’uomo infatti nò conosce, nò ama adeguatamente Dio, nò lo conosce e ama sicuramente: anzi col peccato ha la tremenda possibilità di dimen­ ticare Dio e di attribuirsi la gloria, che appar­ tiene solo a Dio. La stessa cosa vale anche per gli Angeli.

— Soltanto Gesù, l’Uomo-Dio, il Verbo Incar­ nato, rende sicuramente e adeguatamente a Dio la gloria che gli compete. Quindi solo in Gesù ò ve­ ramente salvo il fine delTuniverso; quindi solo per Gesù la creazione trova la ragione della sua esistenza. Appunto perche il line ò voluto prima dei mezzi, e fra i mezzi, quello clic ò più vicino e porta più direttamente e più sicuramente al fine.

Questi pensieri li ritroviamo in una bella pagi­ na delle prediche volgari di S. Bernardino e precisamente nella predica quarantesima terza di quelle tenute nel 1427 sulla Piazza del Campo in Siena: « Doli, che se io avessi agio, io vi mostrarci a«pertamcnte che tutti gli angioli che si saivaro e « tutti gli uomini che mai si saivaro o che mai « si salveranno, tutti sono salvati per amore del « Figliuolo di Dio, cioè de la incarnazione sua.

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visioni: francescana della vita

«Doli, voliallo vedere? Or mi di’: merita Iddio « d’essere amato et onorato dalla criatura la qua« le è stata fatta da lui? Certo, infinitamente me« rita d’essere amato, solo per averci dato l’essa« re. Ma dimmi: che cosa è più nobile che l’essare? « Sai che cosa ella ò? Che senza essa non può es« sere nulla. Or pensa tu quanto l’hai da ringra« ziar solo di questo; ma agiogne a l’essare la «grazia che elli ci ha data; quanto merita d’es« sare amato più, o, o, o, in infinito! » «Oltre: Pensa ora se oltre a la natura e a la « grazia elli t’agiogne la gloria, quanto il dovia« mo più ringraziare? Sai quanto più? Quanto «ò non si può esprimere: più farai col pensiero, «che co’ la lingua; però che la lingua manca: nò « anco lo intelletto non ò sufficiente a pensarlo, si « che non essendo l’uomo possente pure a consi« dorarlo, pensa elli come ò possente ad operaido. « E perchè elli è impotente, che non può per niu« no modo fare tanto bene, che elli possa rendare « grazie a Dio solamente della criazione, che ò la « minore cosa delle tre, come dunque crede potere « rendarli grazie di tutti c tre, della criazione e «della grazia e della gloria? Or non vi pensare, « che mai non potresti fare, e per questo si con«venne che Jesu incarnasse. Vedendo Iddio che « non era possibile che niuno gli rendesse le de« bite grazie che elli meritava, disse: ” egli biso« gna pure che e’ mi sia rendita tanta loda, quan« ta si confà a me, al benefizio ch’io l’ho fatto. « Che modo ci ò? Bisogna che chi m’ha a rendare « grazia non mi sia obbligato nè di criazione nè « di grazia nè di gloria. Non ci è via nè modo niu-

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«no, se non solo questo: che bisogna che chi mi «vuole ristorare, partecipi l’umanità e la divinità; « e allora questo tale potrà rendarmi Ponore mio « a sufficienza, però che Fuoiuo solo non è suffi« ciente. Adunque, io manderò el mio Figliuolo, « el quale ò unito con meco, e farollo incarnare, e « così incarnato potrà rendarmi el mio debito, e «voglio che olii sia capo di tutte le cose criate: « lui sia capo, e li Angioli e li uomini saranno i « membri. Tutti loro onoraranno questo capo Cri« sto Jesu, e Cristo onorerà me, el quale parteci« pera me, e io lui; e per amore di questo Cristo « potranno rendarmi grazia. — Vedendo gli An« gioii questa volontà di Dio, subito col capo bas« so umiliati a questo Cristo Jesu incarnato, el «presero e tennero e tengono e terranno per loro « capo. Non ci era altro modo che questo, che bi« sognava che fusse uomo che gli rendeva grazia.

•% « E dal canto di Dio bisognava la divinità, accio « che vi fusse la potenzia, e cosi fu. Adunque, così « fatto, egli gli die la Signoria sopra a tutte le « cose che egli aveva create, sì della terra e sì « dell’acqua, dell’aria, del fuoco, de’ pianeti, delle « Podestà, de le Virtù, de’ Troni, de le Dominazio« ni, de’ Cherubini, de’ Serafini, de’ Patriarchi, « de’ Profeti, dell! Apostoli, de’ Martori, de’ Con« fessori, de’ Vergini, di tutti e’ i Santi e di tutte « le Sante e d’ogni cosa criata. Ciò che elli criò, « criò per lui, acciò che esso ne fusse signore. A« dunque, tu il vedi Signore de’ signori, e però « a tanta preminenzia, perche elli partecipa urna« nità e divinità. E per questo disse Davit: ” Glo« ria et honore coronasti eum, Domine, et consti-

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

« tu isti cuni super opera marnami tuarum. Omnia « subiexisti sub pedibus eius”. Signore, tu l’hai « incoronato di gloria e di onore, e baio costituito « e posto sopra a tutte l’opere de le tue mani, cioè « sopra alla natura angelica e umana. Ogni cosa « Tliai posta sotto de’ suoi piedi, e baio fatto si« gnorc meravigliosissimo. — E come ogni cosa è « sottoposta a questo Cristo, così fu lui sottoposto « a Dio in quanto a la umanità, e amò e onorò e « ubbidì Iddio suo padre, in ogni modo, in ogni « atto, in ogni tempo come doveva ».

3) IL migliore è sempre voluto per primo.

Per un’altra via si giunge a questa conclusione, e precisamente applicando il principio « semper imperfcctum est propter perfectius ».

Nessuno contesta che il Cristo sia il miglior glorificatore di Dio, e questo anche prescindendo dalle considerazioni svolte nel numero preceden­ te: è iin fatto.

Ora se Dio vuole gli esseri solo in vista della sua gloria, cioè in quanto glorificatori, è chiaro clic questa ragione vale più per il Cristo, che per tutte le altre creature prese singolarmente e nel loro insieme.

R logico perciò concludere che non ha senso pensare che il Cristo sia voluto per noi e non noi per l’Uomo-Dio, appunto porcile è la sola creatu­ ra degna di essere voluta per se stessa, mentre di nessun’altra si può dire altrettanto.

Come ho già avuto occasione di osservare, il punto debole di questa dottrina è il fatto che nel­ la S. Scrittura, non si distingue mai l’incarna-

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zione dalla Redenzione. Ora, trattandosi di ope­ razioni che dipendono da un libero decreto della volontà di Dio, noi dobbiamo accontentarci di cre­ dere quello che Dio si ò degnato di rivelarci e non abbiamo nessun diritto di pensare che il piano divino sia diverso da quello che Egli ci Ina fatto conoscere. Non ò perfettamente libero nelle sue operazioni « ad extra »?

Se ci ha rivelato di aver disposto le cose in un dato ordine non possiamo dire che le abbia di­ sposte in un altro, anche se questo può apparire più. logico e più conveniente alla nostra mente.

Questa difficoltà si può superare in due ma­ niere.

La maniera più comune è quella di cercare nel­ la Scrittura e nella tradizione testi, in cui si parli deirincarnazione senza legarla al peccato e alla Redenzione. Testi simili non sono rari, soprattut­ to nelle pagine cristologiche delle lettere di San Paolo.

Si cerca insomma di contrapporre testi a testi: cosa questa particolarmente vantaggiosa a chi si pone dal punto di vista scotista. Poiché, mentre costui spiega facilmente i testi che parlano della Incarnazione in funzione della Redenzione, chi non accetta questo punto di vista non può spie­ gare, senza violenze esegetiche, i testi, che danno airincarnazione un motivo diverso da quello della Redenzione.

Una via più difficile, ma più fruttuosa per ri­ solvere detta difficoltà è quella di insistere sul carattere deduttivo della teologia. Che cosa si

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

vuol dire? Eccolo in parole piane. Per alcuni la teologia dovrebbe restringere il suo compito ad ordinare in un sistema le verità che ci sono stalo rivelate o che sono contenute nella S. Scrittura e nella tradizione, senza pretendere di aggiungere altro: credere quello che Dio ci ha rivelato e cer­ care di capirlo secondo le nostre possibilità.

A costoro si osserva che nella Scrittura ci oono verità esplicitamente rivelate, ed altre rivelate soltanto implicitamente. Tocca alla scienza teolo­ gica, sotto la guida del Magistero ecclesiastico, sviluppare e svolgere quello clic c'ò di implicito nel tesoro della rivelazione.

Questo si può fare o scoprendo tutta la fecon­ dità di una espressione rivelata, oppure mettendo a contributo l’esigenza logica di conciliare armo­ niosamente due o più verità rivelate. Ciò non è possibile se non ricorrendo a deduzioni razionali in base a principii naturalmente noti o rivelati.

La dottrina seotista sul motivo dellTncarnazione e sul Primato assoluto di Cristo è appunto una di queste conclusioni teologiche.

Ebbene, delle due concezioni sui compiti e sul carattere scientifico della teologia, qual’è quella che di fatto ò stata in uso nella Chiesa? La teo­ logia scolastica e la teologia moderna, che da quella dipende, non sono fondate in gran parte su un processo deduttivo? La conclusione teologica, quando ottiene il suggello del Magistero ecclesia­ stico, acquista l’importanza di una verità contenuta virtualmente nella rivelazione.

Su questo punto dunque si decide in ultima a-

1/ UOMO * PIO

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nalisi la controversia fra tomisti c scotisti a pro­ posito del motivo delPIncarnazione (1).

Non ha nessun punto debole la dottrina scotista, così com’è formulata nei testi commentati?

Non basta spiegare il fatto dcirincarnazione « sic et simpliciter », occorre dare una ragione an­ che della Redenzione, cioè deirumiliazione e del­ la passione a cui si c assoggettato lTIomo-Dio. Duns Scoto, come si è visto, insegna che senza il peccato di Adamo, Cristo sarebbe venuto nel trionfo di tutta la sua gloria; nel peccato origi­ nale e nella conseguente necessità di redimere il genere umano dobbiamo vedere il motivo di quel­ la vita di sacrifìcio e di pena, culminata nella Crocefìssione, a cui si c sottomesso il Cristo.

Ebbene se il peccato di Adamo è stato escluso come motivo deirincarnazione, per non essere co­ stretti a dire che il Cristo, il « Summum opus Dei », deve la sua esistenza, anche solo in linea occasionale, a un avvenimento dipendente dalla volontà di un uomo, non è altrettanto sconvenien­ te essere costretti ad affermare, che il modo con cui si è realizzata l’Incarnazione dipende in una maniera qualsiasi dal peccato di Adamo c che il piano divino è stato influenzato, a nostro modo d’intendere, da una decisione umana?

Quella rottura del piano divino che si è voluta escludere come sconveniente a proposito del fatto (i) Cfr. T. J. FR. RONNKFOY, La nature de la Tlitologie selon Saint Tomas d'Aquint Paris, 1039, tutta l'opera, ma specialmente a pa;:;:. 07 v se*?*:. : Pieni, La Primautvt occ., pa"p. 18. 10; P. Rocca e P. ROScniM, De nitionc primaria existentiae Chris ti et Deiparacì Komae, 10Pi, pag. 08-60.

ìlio

VISTONE FRANCESCANA DELLA VITA

dell’Incarnazione, non ricompare così a proposito della Redenzione?

Il Crocefisso, centro della pietà cristiana o so­ prattutto francescana, non minaccia di apparire così come un qualche cosa di secondario e di ac­ 1 cidentale?

Sebbene nel suo sforzo di comprendere i disegni divini l’uomo non debba mai pretendere di arri­ vare fino in fondo e di dissolvere così il mistero, tuttavia gli scotisti hanno sentito l’importanza di questa difficoltà ed hanno cercato di superarla.

Per riuscirci non è stato necessario ricorrere ad acrobazie dialettiche di dubbio risultato: ò basta­ to proseguire con una riflessione più attenta e profonda quella deduzione logica, che ha il suo principio sorgivo nella definizione « Dio ò Amore », rivelatasi così feconda nell’intendere le opera­ zioni divine.

Se la legge fondamentale della bontà ò quella di diffondersi e di parteciparsi in tutte le manie­ re possibili, un’altra legge dell’amore da tener presente è quella formulata da Cristo, a testimo­ nianza di S. Paolo: « Beatius est magis dare quam accipere » (1) : c’ò più bontà e felicità nel dare che nel ricevere.

Ebbene, nessuno vorrà negare che il Cristo deb­ ba possedere la bontà nelle sue espressioni più perfette e delicate. La Bontà divina passa nel Cristo con tutte le sue leggi e tutti i suoi splen­ dori e quindi la bontà in Lui sarà di sua natura diffusiva come in Dio. (i) Atti degli Apostoli, cap. 20, v. 35.

L’UOMO-DIO

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È vero, il primo dono che noi riceviamo dai Cristo è resistenza e la predestinazione alla glo­ ria: infatti in quanto tutta la creazione ò stata voluta da Dio in vista di Cristo, si deve dire che il destino delle creature irragionevoli e di quelle ragionevoli, degli uomini e degli Angeli, dipende da Lui, e l’hanno ricevuto in grazia di Lui. Ma con questo il dono di Gesù non ò ancora perfetto.

L’esistenza e la predestinazione le creature di­ rettamente la ricevono da Dio e non dal Cristo, che ò solo il tramite, il canale, ma non la sorgen­ te di queste nostre perfezioni.

Mancherebbe alla liberalità di Cristo, se si fer­ masse qui, la prima qualità di una liberalità per­ fetta, che c quella di dare del proprio e Gesù non si potrebbe dire un amatore nò un donatore per­ fetto.

Quella perfezione di amore che non può man care aH’Uomo-Dio, come a Colui che ò il più per­ fetto imitatore di Dio, sembra richiedere dunque, che Gesù doni qualche cosa che gli appartiene nel senso più rigoroso del termine.

Se come uomo non può essere sorgente, causa efficiente, della grazia, può diventarne però causa meritoria.

Badi bene il lettore al valore di questa consi­ derazione: II piano divino, cosi com’ò disvelato negli annunci profetici, nella concretezza dei fat­ ti storici e nella limpidezza delle affermazioni neotestamentarie, inchiude il Cristo come causa me­ ritoria di tutto l’ordine soprannaturale.

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È un fatto questo di cui il teologo cristiano può cercare di intravedere le convenienze.

L’importanza della considerazione fatta qui so­ pra e di quelle che faremo più sotto sta appunto in questo: nel farci scoprire una ragione conve­ niente della funzione meritoria del Cristo attra­ verso rumiltà della sua vita, culminata negli im­ mensi sacrifici della Passione e della Crocefìssione, su una direzione diversa da quella della con­ venienza o necessità di redimere gli uomini dalle conseguenze del peccalo originale.

Detto questo riprendiamo la nostra deduzione teologica.

Un uomo, ci insegna Gesù, il massimo, la per­ fezione deH’amore, li raggiunge solo quando dà la vita per la persona amata: « Maiorcm caritatem nomo habet ut auimam suam ponat prò ainicis suis » (Giov., cap. là, v. 13).

Gesù dunque, a cui spettano tutti i primati, non poteva arrestarsi un passo più indietro: doveva amare fino alla morte.

Si può concepire un amore più completo, un amore più amore, mi si permetta l’espressione, di quello di chi dà la vita per i suoi amici? Sentite: « Che se amate chi vi ama, che ricompensa ne avrete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? e se salutate appena i vostri fratelli, cosa liavvi di speciale? Non fanno altrettanto i pagani? Siate dunque perfetti come ò perfetto il Padre vostro, che sta ne’ Cieli» «il quale fa levare il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (1).

(1) Matteo, cap. V, vv. iì-i8.

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Con queste parole Gesù c’insegna che l’amore più perfetto è l’amore che perdona. 11 perdono — badiamo all’etimologia della parola per-dono — ò un dono al grado superlativo, ò un dono nel qua­ le si esaurisce e si consuma la perfezione del do­ nare.

Nemmeno questa perfezione suprema poteva mancare all’amore deH’Uomo-Dio: il quale appun­ to dà la vita non per gli amici, ma per i nemici, e spinge il suo dono fino a farlo diventare perdono.

Su questa linea di considerazioni acquistano tut­ to il loro significato, un significato, se volete, au­ dace, le parole di Cristo: «Era necessario che il Cristo soffrisse e morisse e ch’egli entrasse così in possesso della sua gloria », (1) della sua gloria cioè di imitatore perfetto del Padre Celeste. Solo così la sua bontà si diffonde su un piano umano, come avviene nel mistero della vita trinitaria su un piano divino, in tutte le maniere possibili, e in un grado supremo. È quasi superfluo far notare che prospettando così il piano divino della Redenzione il peccato non solo non è occasione del fatto dcH’Incarnazione, ma non è occasione nemmeno del modo con cui è avvenuta: non è il Crocefisso in funzione del peccato, ma il peccato in funzione del Crocefìsso: essendo stato permesso appunto, perchè l’amore di Gesù raggiungesse la perfezione suprema.

D’altra parte il piano divino dell’Incarnazione acquista ai nostri occhi una unità e una coerenza, oltre la quale ci pare difficile andare. (i) Luca, cap. XXIV, v. 2G.

ini

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

I tempi e i quadri di esso infatti si succedono e si svolgono dalla predestinazione del Cristo fino alla morte in Croce secondo una linea ininterrotta di motivi, che sono espressione di un’unica legge, quella della bontà e deiramore.

L’ordine naturale e Tordine soprannaturale così appaiono, con una forza persuasiva difficile a rag­ giungersi per altra via, nicnt’nltro che una par­ tecipazione, una continuazione e una ripetizione cioè su un piano finito, di quella legge clic fe­ conda, su un piano infinito, le impenetrabili ma­ gnificenze della vita trinitaria.

Che la ragione umana anche innalzandosi, sor­ retta dalla rivelazione, alla sublimità di questa visiono teologica, non abbia violato, com’ò giusto, i misteri di Dio, ce ne fa avvertiti subito una dif­ ficoltà intima a questa dottrina: la difficoltà di capacitarci come la permissione del peccato sia stata necessaria, perche si manifestasse in tutta la sua perfezione l’amore di Cristo.

Nessuna meraviglia per chi ha cercato almeno una volta di misurare col suo occhio le profondità del problema del male.

A qualunque punto della teologia si ponga e a qualsiasi verità si tenti di collegarlo, non sarà difficile persuadersi, che detto problema si rifiuta a ogni spiegazione umana, esauriente s’intende.

Perciò questa difficoltà, pur scoprendo i limiti di queste deduzioni per tanti lati stupende e vi­ vificanti, non ne mette in crisi il loro valore, che ò appunto quello di essere deduzioni teologiche, e non filosofiche, basate perciò sulla convenienza e non sull’evidenza, più accessibili al cuore che al-

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la mente, anche perchè di proposito vogliono sco­ prire la logica delle operazioni divine « ad extra », che 6 una logica di amore e di conseguenza una logica... di libertà.

VI. Conseguenze pratiche.

Mi sono indugiato con particolare amore ad esporre la concezione francescana del Cristo, per­ chè sento tutta la verità deiraffermazione di P. Gemelli : « Questa mirabile concezione è la roccia teologica sulla quale il Francescanesimo ha eretto la propria concezione della vita... »(1). « Il motivo Cristocentrico deirincarnazone è la conquista più alta del Francescanesimo e il fonda­ mento teologico della sua spiritualità » (2).

Infatti non è difficile accorgersi che la conce­ zione francescana del Cristo, così com’ò venuta elaborandosi nei secoli, soprattutto per merito del genio di Duns Scoto, non è una tesi teologica qualsiasi, più o meno plausibile e suggestiva, ma una visione nuova di tutta la realtà, visione che esalta e commuove con la sua grandiosità e pro­ fondità speculativa e con Tardore della sua de­ vozione.

Tutta la realtà infatti, anche quella materiale, viene come immersa e trasfigurata in una luce di spiritualità.

La dottrina cristiana sul line della creazione, la gloria di Dio, acquista un rilievo e una evi­ denza grandissimi.

(1) Fr. A. Gemelli, Il Francescanesimo, 5 ediz., Milano, 1945, pa*r. 407.

(2) Op. cit., pa". 409

13 G

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

L’influenza del Cristo domina non soltanto la storia umana, ma penetra e diventa legge dell’eS' serci e del divenire di tutte le cose, unite in una unica comunione di carità che va da Dio al Cri­ sto e da Cristo a Dio. Il Cristo diventa così il centro non solo della vita soprannaturale, ma di ogni vita e di ogni forza mondana.

La storia naturale stessa nasconde in sè, intima e sostanziale, una storia spirituale (1).

La caratteristica essenziale della vita cristiana, così com’è intesa da S. Francesco e dalla sua Scuola, è quella di essere, più che uno sforzo, uno slancio assoluto verso l’imitazione di Gesù: «la spiritualità francescana si compendia in una estrema, totale imitazione di Cristo» (2).

Ebbene, è facile accorgersi che la radice che nutre ed urge questo atteggiamento e questa vo­ lontà può essere soltanto questa stupenda visione teologica della realtà, per la quale tutte le crea­ ture e tutte le vicende sono di loro natura orien­ tate verso il Cristo, e soltanto per mezzo del Cri­ sto, verso Dio. Infatti in nessun’ultra concezione Gesù è Mediatore, Maestro e Modello in un senso così pieno, assoluto, integrale come in quella scotista.

L’influenza di Gesù penetra e permea tutto il nostro essere alle sue sorgenti e in tutti i suoi sviluppi; perciò l’imitazione, anzi la trasformazio(1) Il miglior tentativo di scoprire sotto la storia cosmologica c naturale questo significato spirituale £ quello fatto da Vito For­ naio nella sua non abbastanza conosciuta Vita di Gesù Cristo.

(2) Fr. A. Gemella op. cit., pag. 406.

l’uomo

DIO

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ne dell'anima in Gesù, predicata e realizzata da S. Francesco, non ò che l’esigenza di adeguarsi alla realtà, di trasportare nell'ordine ideale e ino­ rale le leggi costitutive dell’ordine ontologico.

Un’umanità che non è, o almeno non tende ad essere cristiana il più possibile, non può essere nò una vera, nò una buona umanità.

Perciò nulla come la dottrina cristologica della Scuola Francescana ci mette in grado di compren­ dere la profonda verità dell’affermazione, che una umanità senza Cristo ò inconcepibile. In Cristo infatti l’uomo trova il suo naturale modello e quindi le leggi della sua vera perfezione.

L’umanità integrale, perfetta, ò soltanto quella cristiana. Se l’uomo arriva a Dio (il clic equivalo a dire alla sua perfezione) solo attraverso il Cri­ sto, appare in tutta la sua gravità l’errore del così detto umanesimo moderno, che doveva di­ ventare la premessa di una civiltà migliore, in­ dipendente se non sempre da Dio, sempre però dal Cristo.

Sperare di condurre gli uomini alla perfezione della verità e dell’amore, meta di ogni civiltà, per vie che non passino da Gesù e non si alimentino del suo Vangelo e quindi degli insegnamenti del­ la Chiesa, ò come pretendere di far crescere e fruttificare una pianta nella luce e nel calore di lampadine elettriche, invece che nella radiosa e calda luce del sole.

L’umanesimo moderno, perciò, in realtà ò disu­ mano, appunto perchè pretende di scardinare la civiltà dalle sue basi e dalle sue leggi profonde.

Il fallimento dei più bei sogni e dei più gene-

i:*s

visioni: kraxckscana della vita

rosi programmi di un’umanità migliore, agitati con tanta passione c spesso con tanta buona vo­ lontà anche ai giorni nostri, appare al francesca­ no coerente, una cosa logica, necessaria, dal mo­ mento che si è tentato e si tenta di realizzarli con un’educazione che prescinde dal Vangelo.

NeH’anima francescana quindi, accanto a una grande riconoscenza e a un grande amore per rUomo-Dio, a cui dobbiamo non solo la nostra salvezza eterna, ma la nostra stessa creazione e ogni nostra salvezza, deve nascere la convinzione fermissima che condizione fondamentale per co­ struire un ordine veramente nuovo, diverso e mi­ gliore di quello passato, condizione e legge anzi di ogni rinnovazione, 6 quella di ricondurre la propria niente e il proprio cuore a Cristo e di persuadere tutti di cominciare in ogni impresa, in ogni programma, in ogni riforma dal Vangelo.

Inoltre il programma e la vocazione di S. Fran­ cesco, che si può formulare così: diventare imita­ tori di Gesù, vivendo il Vangelo, appaiono in tutta la loro importanza individuale c sociale. Infatti limitazione di Gesù, l’ispirare tutta la vita al Vangelo non è soltanto un impegno per le anime, clic vogliono dare la scalata alla vette della mi­ stica, non solo una legge della santità straordi­ naria, ma legge di ogni giustizia e di ogni perfe­ zione.

Perciò il messaggio di S. Francesco è univer­ sale, va a tutti gli uomini e a tutte le istituzioni umane: è rintuizione profonda di un riformatore, che voleva infondere nuova vita e nuovi ardimenti e avviare a nuove fortune la civiltà cristiana mi-

l/UOMO * DIO

VM)

nacciata continuamente da deviazioni di ogni ge­ nere.

In questa sta la ragione dell'eterna attualità del francescanesimo, clic ha in se una forza e un’eiTicacia intrinseca di restaurazione che tutti intui­ scono.

Alla luce di queste considerazioni non ci mera­ viglieremo più di sentir affermare che il Crocefisso ò il libro, in cui legge di preferenza Tannila francescana; e ci riuscirà perfettamente compren­ sibile il magnifico commento di S. Bonaventura alla frase evangelica: «Uno solo è il vostro Mae­ stro, Cristo» (1), e lo spirito di quell’altro opu­ scolo bonaventuriano, che a ragione è stato detto « il discorso del metodo » del francescanesimo, (2) «Reductio omnium artium ad Thcologiam », dove si sostiene appunto che la scienza umana è im­ perfetta fino a quando non si compie nella teolo­ gia. il cui oggetto 6 appunto il Cristo come sin­ tesi delTessere divino e umano.

Il primo passo verso Timitazione ò la cono­ scenza.

Questo spiega la produzione abbondante di ope­ re che hanno come oggetto la vita e la figura di Gesù, nella letteratura francescana, dai mirabili opuscoli bonaventu'dani all* « Arbor Vitae » di Ubertino da Casale, dalle « Visioni » della B. An­ gela da Foligno ai «Dolori mentali di Nostro Si­ gnore Gesù Cristo » della Beata Battista Varani, dalTestasi della Verna alle laudi di Jacopone da (1) S. Honaventuha, Opera Omnia, voi. V, p:i«rfr. .‘M7 t* te™.

(2) 1\ Gemelli, S. Francesco v la sua yente poverellat Milano, lìMó, pag. 182.

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VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Todi; questo spiega l’ampiezza e l’altezza delle speculazioni cristologiche nelle Somme dei Mae­ stri Francescani.

La conoscenza di Gesù può essere di due manie­ re: può essere una conoscenza puramente intel­ lettuale, teorica, cercata per pura curiosità scien­ tifica. e può essere invece una conoscenza pratica, amorosa, cioè ispirata daU’ainore e indirizzata al­ l’amore; la conoscenza di chi vuol conoscere non per sapere, ma per vivere ed amare.

Naturalmente la conoscenza a cui aspira ram­ ina francescana ò di questo secondo tipo.

Vale la pena di chiudere questo capitolo accen­ nando ai principali mezzi che la propedeutica francescana suggerisce per acquistarla.

Presupposto fondamentale di questa conoscenza amorosa, più intuitiva che speculativa, più frutto di amore che di ragionamento, ò la rettitudine della volontà, la purezza del cuore e un grande desiderio di comprendere il mistero di Cristo, de­ siderio che ci metterà spesso sul labbro la pre­ ghiera del cieco: «Signore, fa’ che io veda».

«L’aiuto divino sovviene coloro che domandano dal profondo del cuore con umiltà e devozione: e questo ò il significato del sospirare a Dio « in hac lacrimarum valle ».

La preghiera quindi ò madre e origine della no­ stra ascesa spirituale (1).

In secondo luogo occorre una lettura assidua, meditata della Sacra Scrittura.

(1) Itinerarium mentis in Dcumt cap. I; Opero Omniat voi. V, pug. 297.

l’uomo - DIO

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« La Sacra Scrittura — scrive il Dottore Sera­ fico — si può assomigliare a un fiume larghissi­ mo, che risulta dalla confluenza di molti corsi d’acqua, e che va ingrossando sempre più, mano mano che scorre più lontano ». (1) Il suo scopo è quello appunto di introdurci nel­ la profondità, altezza e vastità dei disegni divini, che si incentrano nel Cristo. « A questo fine dun­ que la S. Scrittura ò un libro da meditare a fon­ do, da insegnare e da imparare ». (2) Non basta una lettura superficiale e una cono­ scenza sommaria: bisogna avere tale dimestichez­ za con i libri santi — insiste S. Bonaventura — da giungere fino a impararli a memoria. (3) Naturalmente non bisogna disdegnare le opere moderne sulla vita la figura e la dottrina di Gesù, delle quali alcune sono ottime: avvertendo però che è meglio leggerne una sola, ma bene, che non due o tre, male.

La meditazione frequente della Passione di Ge­ sù ò un altro mezzo che suggerisce la pedagogia francescana, per far avanzare le anime nella co­ noscenza amorosa del Cristo. È un mezzo collau­ dato dagli esempi di tutti i Santi Francescani, e daH’esperienza di alcuni secoli di pietà cristiana, come lo dimostra la diffusione della « Via Crucis ».

Sforzarsi di capire e vivere la liturgia, nella sua rievocazione ciclica dei misteri della Redenzione, (1) Breviloqulutn, Prologo; voi. Vf pag. 203.

(2) L. c.» pag. 202.

(3) « Ad quoil non potost quis de facile pertingere, tiisi per assucfactionein leetionis textum et littcram Bibbiae comnieudet memoriac... » (L. c., pag. 207).

1Ì2

visioni: francescana di:lla vita

ecco un altro mezzo efficacissimo per scolpire sem­ pre più precisi nella nostra anima i tratti genuini deirUomo-Dio, e per aumentare quella compren­ sione di Gesù, che di sua natura ò trasfigurante e plasmatrice della Sua immagine in noi.

Ultimo mezzo, ma decisivo, per sollevarci a queiriutesa amorosa con Cristo, a cui deve ten­ dere ogni aniina cristiana, ò L’esercizio della carità fraterna.

Alle volte basta un atto di carità per arricchire incomparabilmente la nostra esperienza spiritua­ le e aprire alla nostra intelligenza e al nostro cuo­ re orizzonti divini.

S. Francesco non ha scoperto proprio nell’eroi­ co abbraccio al lebbroso la dolcezza della vita pe­ nitente?

Capitolo V

LA FILOSOFIA DEL CANTICO DI FRATE SOLE

I. Il mondo sensibile di fronte al cristianesimo.

Tesi fondamentale di ogni filosofìa della tra­ scendenza ò questa: la vera realtà, la realtà che vale, la realtà nel senso pieno della parola non è quella che si vede e si tocca e si esperimenta coi sensi, ma e un’altra, quella al di là, quella che si raggiunge soltanto con la ragione. È necessario perciò che Tu omo non si lasci rin­ chiudere nella conoscenza e nell’amore del mondo sensibile, contingente, mutabile, ma tenda con tutte le sue forze a raggiungere il mondo intelli­ gibile, necessario, eterno, infinito. È chiaro che chi abbraccia la filosofia della tra­ scendenza deve rispondere a queste due domande:

1U

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Come si spiega Torigine del mondo sensibile, di questa realtà decaduta, apparente?

Quale atteggiamento deve prendere 1’ uomo di fronte a questa realtà: amarla? fuggirla? fino a che punto?

Abbiamo già visto la soluzione francescana del primo problema; ora ci resta da vedere la solu­ zione del secondo.

Riesce istruttivo rifarci alla soluzione platoni­ ca, che, fra tutte, si assomiglia di più a quella cristiana.

Ricordiamo le tesi fondamentali del platonismo: 1) TI mondo della vera realtà e il mondo del­ le idee: la natura, il mondo sensibile, non ò che un’ombra, un’immagine della vera realtà; 2) l’uomo, quanto all’anima appartiene al mondo delle idee, quanto al corpo al mondo sen­ sibile; 3) lo sforzo dell’uomo, del filosofo dev’essere tutto teso alla conquista del mondo intelligibile, attraverso la conoscenza. Perciò la vita non deve essere che una preparazione alla morte, intesa co­ me separazione dell’anima dal corpo. Questa se­ parazione avverrà solo per chi vi si ò preparato con sforzo tenace e costante: se no l’anima si im­ mergerà anche più nella materia reincarnandosi nel corpo di animali più o meno laidi.

Quanto all’atteggiamento concreto nei confronti delle coso sensibili si nota nelle opere di Platone un contrasto, un intreccio di due tendenze opposte.

In alcune opere, nel « Fedone » e nella « Repub­ blica />, per esempio, si insiste su un distacco il più possibile completo dal mondo sensibile. TAio-

LA FILOSOFIA DEL CANTICO DI FRATE SOLE

145

mo deve ridurre al minimo indispensabile (con­ servazione della vita) il suo commercio con la realtà terrena.

Su onesta linea noi incontriamo la condanna recisa dell’arte, della poesia, in quanto può con­ durre gli animi all’entusiasmo e all’amore per le cose di quaggiù.

In altre opere invece, nel « Convito », per esem­ pio, dov’è formulata la teoria del cosi detto « amore platonico », l’arte b rivalutata in quanto con­ duce a una idealizzazione delle cose terrene.

Il poeta, sotto Finflusso dell’ispirazione, si stac­ ca di slancio dalla materialità delle cose sensibili e si infiamma di amore per l’ideale che egli cerca di esprimere e di incarnare nell’opera d’arte, in­ camminando così Fu omo verso il mondo delle idee, che sarà raggiunto però solo con la filosofìa.

D’altra parte anche prescindendo da ciò che può aver pensato di fatto Platone, e attenendosi solo a una deduzione logica delle sue dottrine, si può osservare che se per un verso la natura sensibile rappresenta un miraggio pericoloso per l’uomo, per un altro verso solo attraverso il commercio col mondo l’uomo vive e l’anima si risveglia dal suo letargo, e si redime dalla sua caduta, che l’ha mischiata con la realtà sensibile.

La sensibilità dunque, prima che nemica della anima, è una forza che collabora alla sua salvez­ za: è da essa che prende lo spunto e lo slancio per la sua redenzione.

Se questo ò vero, non è illogico farla oggetto soltanto della nostra diffidenza e del nostro di­ sprezzo, e negarle ogni simpatia?

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Se una conoscenza superficiale delle cose può riuscire pericolosa, e suscitare incantamenti dan­ nosi alTuomo, una conoscenza più profonda, più ordinata non promuoverti sempre più il nostro cammino verso il mondo ideale?

Anclie il Cristianesimo che ha comune, almeno all’ingrosso, con Platone la concezione dualistica della realtà e predica quindi la necessità dell’ascetismo per giungere alla salvezza, si trova di fronte al problema del mondo sensibile c delTalteggiamento che deve prendere l’uomo nei suoi confronti.

Nel Vangelo non troviamo indicazioni esplicite.

Nella condotta di Gesù anziché una condanna as­ soluta e la negazione di ogni commercio con gli uomini e con la natura, troviamo parole e gesti che possono giustificare la tesi di chi vuol vedere una simpatia vivissima di Gesù verso la natura.

Dalla vita delle cose prende molte similitudini e parabole; si mischia volentieri con la vita uma­ na anche nelle sue espressioni terrene (mangiare e bere); non disdegna il conforto delTamicizia (Pe­ tunia); non obbliga i suoi discepoli alla vita aspra del Battista; guarda con gioia negli occhi pieni di freschezza e di incanto dei bambini.

E questo, pur affermando con parole, che qual­ che volta possono sembrare radicali, la necessità di far trionfare su ogni cosa Tumore di Dio, e di sacrificare ad esso le cose e gli affetti più cari e più profondi.

Primo Mazzolari, commentando l’episodio evan­ gelico della Samaritana, ricava dal Vangelo que­ sta riflessione: «Ogni creatura ha un servizio da

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«rendere, un suo bene e una sua lode da dare, e « nell’ordine di tale servizio possiamo usarla tran«quinamonte. Non ò certo un sentimento filiale, «ne giova alla nostra spirituale difesa, la paura « delle creature. Dio ci ha contornati di cose bel«le, e tali sono rimaste anche dopo il peccato, « poiché la nostra concupiscenza, se le può usare « male, non le può spogliare della loro divina bel­ lezza » (1). È innegabile però che nel pensiero c nella pra­ tica cristiana va introducendosi una diffidenza sempre più accentuata verso il inondo umano e la natura, che si concreta in quelle forme severe di ascetismo, che il Medioevo esaltava (e forse un poco esagerava), degli anacoreti e degli abitatori delle Tebaidi, nella quale si deve sottolineare non tanto l’asprezza delle penitenze, quanto lo spirito con cui erano intraprese: la preoccupazione cioè di rompere ogni rapporto col mondo c di ridurre al minimo il commercio con la sensibilità. Tutto ciò che e sensibile, agli occhi di questi santi pe­ nitenti appare sospetto, pieno di insidie, solo per il fatto di essere sensibile.

Espressione caratteristica di questa mentalità, mi pare il cap. 33, libr. X, delle « Confessioni » di S. Agostino, dove il santo confessa la sua incer­ tezza e i suoi scrupoli nei confronti del canto ec­ clesiastico: che se, da una parte, per esso «le ani­ me nostre assurgono nella fiamma della pietà con un ardore e una devozione maggiore per quelle sante parole quando sono accompagnate dal can­ to », dall’altra «la sensazione piacevole (prodotta (i) La Samaritana, pag 02.

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dal canto) non accompagna l’intelligenza in modo da contentarsi di venirle seconda, ma prevalen­ dosi del fatto che solo in riguardo aH’intelligenza essa ò accettata, tenta di andarle avanti e di gui­ darla. Così pecco senza accorgermene e me ne ac­ corgo dopo ». (1) Fino a che punto ò cristiana questa mentalità? È forse azzardato raffermare che se proprio non si può dirla frutto di infiltrazioni manichee, si può almeno dire che in essa ò entrato un pizzico, più del necessario, di quella mentalità neoplato­ nica, che vedeva nella materia un principio che contamina Tessere, essendo essa un principio più negativo che passivo?

Se si riflette che il Cristianesimo nel formulare la sua visione del mondo e la sua concezione del la vita, si servì in gran parte di concetti e di for­ mule della speculazione greca, rifusi in una sin­ tesi di spirito affatto nuova, non c’ò da meravi­ gliarsi se alle formule sia rimasto appiccicato qualche resto della mentalità greca.

Ad ogni modo, se ò giusto che il cristiano tratti le cose di quaggiù sempre con un fondamentale di­ stacco, come mezzi e mai come fini, se c giusto anzi, per le conseguenze del peccato originale, che le tratti con una certa diffidenza, bisogna badare che questa diffidenza rimanga sul piano psicolo­ gico e non sconfini nel piano metafisico, cioè resti imposta dalle circostanze c non sia mai assoluta.

Che la visione cristiana del mondo debba essere fondanientalmente ottimista ò un!esigenza delle (i) Lo Confessioni, l. c.f trad. Tescari, S.E.I., 4* ediz., pag. 397.

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seguenti dottrine metafisiche, comuni a ogni filo­ sofica cristiana: 1) Dio ha creato tutte le cose e i loro princi­ pi^ compresa la materia. Quindi tutto ciò che ò, è buono. « Ens et bonuni convertuntur ».

2) Dio ha creato tutto per la sua gloria: e quindi ogni cosa rende testimonianza alla sua ma­ niera della bontà e delle perfezioni divine. In ogni cosa dunque Tuomo deve e può trovare lo spunto ad elevarsi a Dio. 3) Non è proprio questa la funzione dell’uomo nell’insieme del creato? L’anima non è unita al corpo per un castigo, per una condizione di vio­ lenza, come voleva Platone, ma per sua natura.

Perciò, e per natura, e insieme per missione l’uo­ mo deve tenersi in comunione con le cose sensibili.

In base a queste considerazioni possiamo con­ cludere che ogni ascetismo esagerato e sbagliato, fondato su motivi metafisici e quindi assoluti, ò in contrasto con una. concezione veramente cri­ stiana dell’uomo e della natura.

II. L’esempio di San Francesco.

Nel considerare l’atteggiamento di S. France­ sco nei confronti della natura bisogna evitare due esagerazioni.

La prima esagerazione e quella di chi vuol ve­ dere nella simpatia con cui il Poverello d’Àssisi guardava e trattava tutte le creature, un senti­ mento panteistico della natura di tipo indiano o romantico e di chi vuol ridurre il francescanesimo soprattutto a questo aspetto umanistico e natu­ ralistico.

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La seconda esagerazione, certo meno grave del­ la prima, ma ugualmente antistorica, ò quella di chi volesse ridurre nei limiti di qualche episodio forse più leggendario clic storico, la cosidetta fra­ ternità di S. Francesco verso le creature. In tal caso bisognerebbe attribuirla aH’improvvisazioiie di un estro poetico, più che a una maniera abi­ tuale e meditata di considerare la natura. incominciamo a rispondere agli ipotetici avver­ sari della seconda maniera. * La risposta ò facilissima: basta rimandarli alla lettura, non dico delle vite pi fi accerditate di S. Francesco cominciando da quella del Celano e di S. Bonaventura, ma anche solo alTultimo capitolo della notissima opera del Felder, « lTdeale di S. Francesco d’Assisi », ed invitarli a meditare af­ fermazioni come queste di Tommaso da Celano: « Egli si rallegrava in tutto ciò che è uscito dal­ le mani di Dio e in tutto ciò che gli si offriva allo sguardo egli contemplava estasiato la virtù e la causa creatrice. In ogni bellezza riconosceva la bellezza prototipa: tutte le cose buone in cui si incontrasse gli gridavano: Colui che ci fece ò TOttimo. Sulle traccio clic le creature portano come un sigillo, egli inseguiva sempre e ovunque ra­ mato Signore, di tutto si faceva come una scala per raggiungere il trono di Dio » (1).

(1) « l*2xiilt:ili:it in cimctis operibus inanimi Domini, et por jucumlitatis spoetami la vivifica intuetur rationem et eaiLsnm, cognoseit in pulchris pulcherrinnun ; cimerà siili bona, qui nor* fecit est oplimus, clainant. Per impressa rebus vestigia inacqui tu r ubiquo liilectmn, faeit siili de omnibus scalam ; qua perveniatur ad soliuiii ». Cvlan. II, n. 103).

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« Chi potrà descrivere la dolcezza di cui Fran­ cesco era invaso mentre contemplava nelle crea­ ture la sapienza, la potenza e la bontà del Crea­ tore? » (1) « Egli traboccava di un sentimento di amore e di simpatia per tutte le creature, non solo per gli uomini bisognosi, ma anche per gli animali irra­ gionevoli, per il rettile che striscia e fugge sulla terra, per gli uccelli, per tutte insomma le crea­ ture animate c inanimate », (2) Il numero e la varietà degli episodi ricordati dagli agiografi, nei quali si vede in atto Patteg­ giamento spirituale di S. Francesco verso tutte le creature, come la necessità di riconoscere un mi­ nimo di oggettività storica a queste affermazioni del Celano, ci obbligano a concludere che non si possono ritenere questi fatti slanci di un tempe­ ramento poetico, rari ed improvvisi come i voli lirici, ma frutto di una disposizione d’animo con­ tinua, di un aspetto della sua vita interiore e. di una manifestazione ordinaria della sua devozione. È una faccia insomma della spiritualità fran­ cescana, clic non si può nò sminuire nò trascurare, se si vuol capirla e viverla nella sua integrità.

La risposta che dobbiamo dare agli avversari della prima maniera, a coloro cioè che farneti­ cano di affinità e parentele fra il Poverello d’As( 1 ) <t Quis enarrare sufllcerct dulce lincili, contemplali? in creaturis sapientiae Creatori?, potentiam et bonitatem eius ». {Col un.

I, n. 80).

(2) « Adlucbat spirito charitatis, piotati? visceri gestans non solimi erga homines necessitateli] patientcs, veruni etiam erga muta brutaque animalia, reptilia, volatilia et caeteras sensibile? et insensibile? creatura? ». (Celati.f It n. 77).

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sisi e Budda, Giordano Bruno e Schelling, è al­ trettanto facile, sebbene non così sbrigativa.

Porche San Francesco amava le creature? Che fondamento ha la sua simpatia verso di esse? « Tutto assorto nel divino amore, il beato Fran­ cesco. non solo nell’anima sua, che già era ornata di ogni virtù, ma in qualsiasi creatura, vedeva perfettamente la bontà di Dio, per cui egli amava le creature con singolare ed affettuosa dilezio­ ne » (1).

Ecco una prima risposta: S. Francesco amava le creature, perchè amava Dio. È legge dell’amore quella di abbracciare il suo oggetto in tutti i suoi aspetti e manifestazioni.

Un amore quindi per Dio, totale come quello di S. Francesco, doveva naturalmente estendersi a tutte le opere di Dio, di Cui esse riflettono le im­ mense perfezioni.

La forza di questa risposta sta in questo: che noi spieghiamo la simpatia mirabile di S. France­ sco per le creature come una conseguenza della sua fede cristiana, senza bisogno di ricorrere a presunte intuizioni panteistiche, di cui non si tro­ va traccia nè nella sua vita, nè nei suoi scritti.

Quando un atteggiamento trova la sua spiega­ zione naturale in convinzioni professate con la chiarezza con cui S. Francesco professava la re­ ligione cattolica, diventa per lo meno inutile ri­ correre a un’altra spiegazione, che si richiama a inespresse e pretese convinzioni d’altro genere.

(1) Specchio di Perfezione, citato dal Feeder, op. cit., ediz. ital., voi. Il, pag. 2S8.

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In secondo luogo 6 notissimo clic la S. Scrittura e la liturgia attribuiscono un carattere simbolico a molte cose: il fuoco per esempio, ò simbolo del­ l’amore divino, l’acqua della penitenza, la pietra di Cristo, gli alberi della Croce, il verme, l’agnel­ lo di Gesù sofferente, gli uccelli dell’anima, che si inebria nella lode di Dio, il pesce della Euca­ restia.

Questo simbolismo S. Francesco non solo lo co­ nosce, ma lo vive, e cosi le cose gli offrono conti­ nui spunti di devozione, fanno divampare i suoi slanci amorosi, liberano il volo della sua mente, sempre impaziente di elevarsi a Dio. Ebbene questa funzione simbolica delle creatu­ re, è un altro motivo che ci spiega come mai San Francesco le tratti amorosamente: trabocca an­ che sui simboli quella tenerezza, che direttamente andava alla realtà simboleggiata.

La sua particolare ammirazione per il sole, il fuoco e l’acqua; la sua predilezione per gli agnel­ li; il suo rispetto per i vermi della terra non han­ no altra spiegazione, come ci attesta ripetutamen­ te Tommaso da Celano: «Con amore speciale egli « apprezzava ed amava quelle cose nelle quali egli « scorgeva un simbolo del Figlio di Dio » (1) Anche qui nessun accenno ad altri motivi di semplice poesia umana o a sotterranee dottrine panteistiche.

La mente di S. Francesco trasfigura ogni cosa nella luce soprannaturale della sua fede, e il suo (1) «Sic et omnia illa praecipuo in quibus filii Dei posset aliqua similitudo allegorica ruperiri, ainplexabatur carius et vividebat libentius ». (Cclcm. I, n. 77).

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cuore vibra di palpiti, che si riducono ad un’unica sorgente: al Dio e al Cristo del Vangelo.

Spiegata così la simpatia di S. Francesco verso le creature, ci resta da spiegare la prontezza con cui le creature rispondevano alla sua voce ed al suo cuore. Le creature si fidavano di S. Francesco, gli obbedivano, lo comprendevano, lo amavano. « Esse tutte da parte loro cercavano di contrac« cambiare l’affetto del Santo e di ricompensarlo «con la loro gratitudine: gli sorridevano quando « le accarezzava, rispondevano alle sue domande, « obbedivano a’ suoi ordini ». (1) Gli episodi che attestano questo fatto meravi­ glioso sono tanti, ricordati da biografi intelligenti e prudenti come il Celanense e S. Bonaventura: non c'è il solo episodio del lupo di Gubbio, nar­ rato dai Fioretti, che forse ha subito più che qual­ che ricamo leggendario.

Tommaso da Celano, che con tanta accuratezza descrive e sottolinea questa intesa cordiale fra il Serafico Padre e le creature, sente la necessità di trovarne la ragione. A suo parere è questa: « Non « c’ò da meravigliarsi se tutte le creature mostra« vano segni di venerazione per Francesco, come « a colui che le precedeva e superava nell’amore « di Dio » (2); dai momento che S. Francesco ama­ va così ardentemente Iddio le creature gli dirno(1) « Xituntur proinde creaturae omnes vices amoris rcpenderc Sancto et gratitudine sua prò meritis respondere; blandienti arri­ derli, roganti annuunt, obediunt imperanti ». (Cc/aw., II, n. 166).

(2) « Creatori* praecipuuin amatorem non mirum si venerantur reliquae creaturae ». (Celati. H, q. 16S).

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stravano, come sanno e possono, il loro plauso e la loro venerazione. È un pensiero profondo, che merita di essere sviluppato. Infatti può parlare così chi ammette una solidarietà naturale fra Tu omo e le cose in vista della gloria di Dio; per cui solo ruomo che cerca Dio con tutta la sua anima inerita di tro­ vare in Dio e con Dio tutte le creature. Il che vuol dire che la vera conquista della natura si realizza solo sul piano dello spirito ed ò opera della carità.

Insomma tutte le creature sono fatte per inten­ dersi con l’uomo, ma questo è possibile soltanto quando l’uomo si mette nelle condizioni necessa­ rie per capire rautcntico linguaggio delle cose, il che avviene solo allorché Tuonio si trasferisce sul piano di Dio e guarda tutta la creazione dal pun­ to di vista di Dio. In questo caso si produce come una consonanza perfetta fra l'uomo c il creato, che permette appunto all’uomo di intendere il linguag­ gio delle cose e alle cose il linguaggio dell’uomo. È ricostituita l’esperienza del Paradiso terre­ stre e reintegrato il piano divino.

Quando non c’è questa consonanza, per l’inter­ ferenza delle passioni e di interessi troppo egoi­ stici, ò distrutta ogni possibilità di intesa.

S. Bonaventura non si esprime diversamente: « Dal momento che Francesco era arrivato a « una purità così grande, che la carne concordava « in tutto con lo spirito e lo spirito con Dio con «mirabile armonia, avveniva per divina disposi« zione che la creatura servendo al suo Fattore,

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« si sottometeva in modo meraviglioso alla volon« là e al comando del santo» (1).

III. La teorizzazione bon areni ariana.

Un’altra volta dobbiamo constatare che nelle dottrine filosofiche di S. Bonaventura noi troviamo una piena giustificazione dell'atteggiamento e dell'esperienza francescana nei suoi rapporti con la natura.

Se l’intesa amorosa, fraterna fra S. Francesco e le creature irragionevoli e viceversa, non è che la ricostituzione di un ordine sconvolto dal pec­ cato, vuol dire che naturale nel senso più pro­ fondo del termine è proprio quello che noi ora definiamo come cosa miracolosa.

Non sono naturali (cioè conformi al disegno di Dio) i rapporti di diffidenza, di timore, di estra­ neità, di tirannia, di guerra reciproca, che esi­ stono normalmente fra gli uomini e le creature irragionevoli, ma sono naturali invece proprio i rapporti di confidenza e di fraternità che esiste­ vano fra il Poverello d’Assisi e tutte le cose della natura.

DeH’ottimismo gioioso e dell’affetto con cui l’uo­ mo deve guardare la natura, come dell’intesa me­ ravigliosa con cui le creature rispondono all’uo­ mo, noi troviamo la ragione ultima nella filosofia di S. Bonaventura: lo si vede benissimo tirando le ovvie conseguenze che discendono dall’esempla(1) «Quia euim ad lantani pL*rvc»nor.*\l puritatom, ut caro spi­ ritili et spiritus Dco harnionia mirabili coneordarent, divina ordinatione fiebat. ut creatura factori suo descrvicns voluntati et im­ perio eius inirabiliter subjaceret ». (S. Bonaventura^ c. 5, u. 9).

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rismo bonaventuriano c dalla sua concezione delruomo.

SulTescmplarismo bonaventuriano non occorro qui che mi diffonda molto. Sono sufficienti gli ac­ cenni schematici e concisi che trascrivo o rias­ sumo da un mio precedente lavoro. (1) «Dio è l’essere infinito, perfetto, tutto Tessere. « Anche le creature però sono esseri. « Le due affermazioni sembrano contradditorie: «o è vero che Dio c Tessere in tutta la sua pie« nezza e allora le creature debbono ridursi a puro « apparenze, che non possono possedere in se del« Tessere; oppure le creature posseggono dell’es« sere e in questo caso Dio non ò tutto l’Essere, il «quale nella sua totalità sarebbe somma dell’es« sere di Dio e di quello delle creature. « Il dilemma non ò così stringente come pare a «prima vista: lascia una via d'uscita, ed è quella « dell’analogia. « L’essere di Dio e quello delle creature si tro« vano su due piani diversi: il primo è l’essere « originario, essere secondo tutta la pienezza e la «verità del termine, mentre l’essere delle creature «è un essere solo per partecipazione, per imita« zione, per somiglianza con quello divino ». (2) Essendo Dio causa efficiente perfettissima delle creature, tutta la realtà, la perfezione delle crea­ ture è già contenuta eminentemente nella Sua es­ senza divina.

Questa relazione metafisica fra Dio e le crea­ (1) E. Bottoni, S. Bonaventuraf Broscia, « La Scuola >, (2) Op. cit., pag. 79.

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ture trova la sua formulazione esatta nell’affermazionc che Dio è causa esemplare di tutte le cose create.

S. Bonaventura svolge a fondo questi rapporti di esemplarità che intercorrono fra Dio e la crea­ zione, e scoprire i modi e la misura, le leggi in­ somma dell’esemplarismo gli pare l’impresa prin­ cipale del metafisico, che cerca appunto di inda­ gare la struttura profonda della realtà. « E in primo luogo quando una cosa c veramen« te immagine di un’altra? La somiglianza fra due « cose non basta a costituirle l’ima immagine del« l’altra. Due uova di colore e grossezza identici, «sono fra loro somigliantissime, ma non si può « dire che runa sia immagine dell’altra. Perchè « una cosa si possa dire immagine di un’altra oc« corre che la prima derivi e sia generata per « imitazione dalla seconda. « fì il caso degli esseri creati i quali sono pro« dotti e, in senso ampio, generati da Dio, ad imi« tazione della Sua Essenza divina ». (1) In questo «essere immagini di Dio» tutte le cose trovano la loro giustificazione, dal momento che non possono esistere che come tali, cioè come immagini: questo rapporto di esemplarità è per­ ciò essenziale a ogni creatura, è l’unica giustifi­ cazione del suo essere creatura.

Perciò nessuno può sperare di raggiungere la piena intelligibilità delle cose, di rendersi piena ragione dell’esserci di una cosa, se non scopre questa relazione di immagine e di copia con cui (1) Op. cit., pa£. 81.

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ogni singola creatura si rapporta al modello eterno.

Gli esseri creali però sono svariatissimi e sono distribuiti in una gerarchia quasi infinita, dagli infimi ai più perfetti: e ognuno imita in una sua maniera particolare le perfezioni divine. Impos­ sibile pensare di determinare il grado e il modo di somiglianza con Dio espresso da ognuno.

S. Bonaventura non si scoraggia e sfruttando clementi che trova nella tradizione distingue tre gradi diversi di somiglianza: ci sono cose che sono soltanto « umbra», altre « vestigium », altre « ima­ go » di Dio. Le cose sono « umbra » di Dio se ci fanno pen­ sare a Dio come a loro causa suprema, con attri­ buti comuni alle tre persone della SS. Trinità; sono orma, « vestigium » di Dio, se ci fanno pen­ sare a Lui come causa efficiente, esemplare, finale e ci aiutano così a scoprire gli attributi appro­ priati a ognuna delle tre Persone, l’onnipotenza (causa efficiente, il Padre), la sapienza (causa esemplare, il Piglio), la bontà (causa finale, Io Spi­ rito Santo); si innalzano all’importanza di imma­ gine di Dio le creature razionali che hanno Dio come oggetto della loro attività.

La maggior perfezione della creatura razionalo nel confronto con le altre consiste in questo: che mentre le altre creature ripetono su un piano analogico le perfezioni divine, la creatura razio­ nale, in quanto c destinata a conoscere e amaro Dio, rivive in se analogamente la vita stessa di Dio. È capace infatti di conoscere e di amaro

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quello che conosce e ama, in maniera ineffabile, Dio stesso, cioè la divina essenza.

L’anima quindi, che ò memoria, intelletto e vo­ lontà, è lo specchio più perfetto della SS. Trinità.

Della concezione bonaventuriana dell’uomo ab­ biamo già parlato diffusamente in un altro ca­ pitolo: basta perciò che qui ne richiamiamo i punti essenziali.

L’uomo risulta dall’incontro del mondo mate­ riale col mondo spirituale: c al centro quindi di quel dinamismo che sospinge le cose verso Dio. Da una parte infatti la natura materiale nell’uo­ mo raggiunge il vertice della sua spinta verso lo spirito, mentre d’altra parte la natura spirituale, che è essenzialmente anelito di ricongiungere, di riconquistare ogni cosa a Dio, nell’uomo afferra, per così dire, la realtà materiale e la ricongiunge a sò nella mirabile ascesa.

Il fondamento di questa capacità dell’uomo di conoscere ed amare Dio, sta nella razionalità, che per S. Bonaventura non e nient’altro che quella presenza di Dio nell’anima umana, che si concreta neirinnatismo della Sua idea nel nostro intelletto e della Sua insopprimibile attrattiva nella nostra volontà.

Se noi a questo punto ci volgiamo indietro a considerare il cammino percorso, riusciremo a sentire tutta l’armoniosa verità della sintesi bo­ naventuriana e la sua perfetta aderenza specula­ tiva alla vita di S. Francesco.

Dire che tutte le cose sono immagini di Dio equivale a dire che sono ripetizioni di Dio su un piano di analogia.

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Detto con altre parole: le creature ridicono in un linguaggio comprensibile all’uonio le perfe­ zioni divine. Ogni cosa quindi ci parla di Dio, e Pinsiemc della creazione non è clic un libro in cui in modi svariatissimi e in parole infinite, conio è infinita la perfezione divina, si manifesta sem­ pre la stessa cosa: Dio. Come per riconoscere una persona nel suo ri­ tratto, nella sua immagine, c necessario posse­ derne una conoscenza aliquale, almeno in confu­ so, così perchè rimino riconosca Dio nelle cose, c necessario che ne possieda originariamente una conoscenza qualsiasi. Questa conoscenza qualsiasi innata e originaria di Dio è appunto il dono che l’anima reca con sò unendosi al corpo, dono che la costituisce razionale, e quindi capace di dare un senso alla creazione, di dare al poema della natura quella conclusione chiarificatrice, che giu­ stifica tutte le pagine precedenti. Solo in forza di questa conoscenza Tanima si inserisce nella crea­ zione e la creazione si completa nell’uomo.

II dono dell'anima alla natura materiale non è però senza ricompensa. Infatti l’idea confusa, em­ brionale di Dio, che Paiiima possiede non è suf­ ficiente da sola a condurre l’uomo a quella cono­ scenza di Dio di cui è capace su questa terra: ha bisogno di essere, per così dire, alimentata, riempita per un arricchimento progressivo.

Come un germe per svilupparsi e diventare un albero deve essere messo nel seno della terra e deve nutrirsi di tutti i succhi e di tutte le energie clic la natura gli presta, così quella idea innata di Dio, che l’anima reca in sè, si determina e si

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espande solo attraverso l’esperienza sensibile e nu­ trendosi di tutti i contributi ideali, che l’uomo ri­ cava dal suo commercio con la natura.

Il che vuol dire che l’unione deH’aninia eoi cor­ po ò vitale: ò veramente un dare e un ricevere reciproco, da cui risulta appunto una realtà nuo­ va, che è Puomo, sintesi meravigliosa di vita ma­ teriale e spirituale.

Il destino dunque dell’anima umana compie e porta alla sua meta il destino della creazione; a sua volta però il destino dell’anima non si realizza senza l’aiuto, non solo di ordine fisico e metafisico, ma anche di ordine conoscitivo e affettivo, di tut­ to quanto il creato. L’uomo appare così veramente il punto di incontro della materia collo spirito.

Per questa ragione l’« Itinerarium mentis in Deum » anche per S. Bonaventura, innatista, in­ comincia e prende il necessario avvio dalla consi­ derazione del mondo nella varietà dei suo aspetti e delle sue leggi.

In queste dottrine quante ragioni di simpatia e di fraternità risultano fra l’uomo e la natura!

Prima di tutto l’universalità delle cose dal sas­ so all’anima, dall’intelletto all’Angelo, si dispon­ gono in una gerarchia di valori legati insieme da un unico filo ideale, che è appunto la loro comune destinazione a manifestare la gloria di Dio, che ogni cosa alla sua maniera proclama. « Eadem velie, cadem nolle, ea domimi firma amicitia est»; e tutte le cose dell’universo vogliono la stessa cosa, sono parole che tentano di espri­ mere !a stessa perfezione.

E siccome questo rapporto di esemplarità dì

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Dio rispetto alle cose è, come abbiamo visto, ad esse essenziale, ognuno vede clic solidarietà meta­ fisica viene così affermata fra tutti gli esseri del­ la creazione.

In secondo luogo nel pensiero bonaventuriano acquista un rilievo e un significato tutto speciale e tutto spirituale quella naturale ordinazione del­ le cose all’uomo e dell’uomo alle cose, che tutti i pensatori cristiani ammettono.

La creazione ha bisogno dell’uomo come l’uomo ha bisogno della creazione.

Nessuna meraviglia quindi che l’uomo simpa­ tizzi con tutte le creature, anche quelle irragione­ voli, dal momento che sono la sua via e le sue compagne nell’ascendere a Dio. E del tutto naturale d'altra parte riesce l’ob­ bedienza e la sottomissione di esse all’uomo, quan­ do questi riconosce la loro funzione e non le vio­ lenta a servire ai suoi lini egoistici, ma rimane fedele al suo compito di ricondurre tutto a Dio. In questo senso è profondamente vero che la dottrina bonaventuriana dell’esemplarismo non è che il Cantico delle Creature, tradotto in linguag­ gio metafisico.

IV. Conseguenze.

Non sono poche nè trascurabili le conseguenze che si possono ricavare c storicamente ne sono derivate da questa nuova maniera di guardare la natura.

Non è difficile avvertire innanzi tutto quanto ne guadagni di concretezza la spiritualità fran-

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VISION'K FRAXCnsCANA DHLLA VITA

cescana. Essa infatti non si dirigo e non coltiva solo una parte dciruomo e un aspetto deH'umanità, ma l'uonio lo prende nella sua integrità psi­ cologica e ne investe tutti gli aspetti e tutte le relazioni e le energie, e tutte le mette a contri­ buto per compiere l’ascosa a Dio, che c la mis­ sione e la vocazione divina deH'uomo.

Questo conferisce al francescanesimo quella suggettività così profonda a cui poche anime si sot­ traggono e che si deve attribuire al fatto che ruomo si sente compreso dal francescanesimo, che non rinnega mai nulla, ma soltanto gerarchizza.

Chi guarda la natura con occhio francescano prega e sente la vita spirituale soprattutto come un atto di amore, che può accendersi ogni mo­ mento, trasfigurare ogni gesto c ogni pensiero an­ che il più piccolo, insomma anche tutte le piccole cose di cui s’intesse in gran parte la vita quoti­ diana.

D’altra parte, se il francescano coltiva la pre­ ghiera liturgica in cui si esprime rinsegnamento della Chiesa e si realizza l’unione di tutti in Cri­ sto, tuttavia non si lascia legare dalla formula e conserva sempre intatto quello spirito di inizia­ tiva che sa creare una forma di preghiera ad ogni occasione: contemperamento sapiente di discipli­ na, di riverenza verso l’autorità e di individualità mistica.

Abbiamo già avuto occasione di sottolineare la novità delle devozioni francescane, che cosi vo­ lentieri si indugiano a contemplare l’umanità del Cristo nella sua concretezza terrèstre.

Questo atteggiamento sarebbe stato impossibile

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in un’atmosfera di diffidenza verso la natura e la sensibilità. Il Presepio c la realistica rappre­ sentazione e meditazione della Passione del Cri­ sti, a cui ci abitua la pietà francescana, non po­ tevano essere invenzioni di uno, che quando prega vuol chiudere gli occhi e ha bisogno di avere in­ torno la solitudine del deserto, o la nuda solennità di una basilica romana o di una cattedrale gotica.

Solo chi ha confidenza nelle voci della natura, chi la guarda con simpatia, può pensare di ali­ mentare la sua devozione con spettacoli naturali, per (pianto allestiti con intendimenti sacri. Inol­ tre non bisogna dimenticare che queste devozioni sono destinate a suscitare emozioni sensibili in un primo momento e fanno vibrare corde di senti­ menti schiettamente umani. A Gesù Bambino si comincia a volergli bene come a un altro bambi­ no, e la Madonna che piange il suo Figlio ucciso la si compatisce prima di tutto come una mamma qualsiasi che ha perduto il suo tesoro. Un’altra volta insemina è la sensibilità messa a contributo della devozione.

Ci sono dei pericoli certo in questo: il più gra­ ve è quello di scambiare per soprannaturale ciò che è solo naturale, e di cullarsi in una pietà sen­ timentale e senza l’ossatura eroica di quella vera; ma ci sono anche dei vantaggi, come quello di ren­ dere la pietà più popolare, e di aiutare tutte le anime ad avviarsi verso la meditazione dei mi­ steri di Gesù.

S. Francesco istintivamente punta sui vantag­ gi, rivelandosi anche qui un uomo che ha fiducia nella sensibilità.

ìm

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

Attraverso le nuove devozioni il sentimento francescano della natura si diffonde e concorre a risvegliare farle, sciogliendola dai paludamenti troppo composti e dai gesti troppo ieratici dello stile bizantino.

Con ciò S. Francesco diventa l’iniziatore di quel nuovo sano naturalismo che ha dato tanti frutti nelle arti nei secoli XIV e XV. Le degenerazioni che questo senso della natura produsse nell’uma­ nesimo e nei « furori eroici » di Giordano Bruno, non cancellano il valore e la verità dcll’atteggiamento francescano.

In una cosa S. Francesco però si assomiglia e forse supera gli antichi anacoreti: nell’asprezza della penitenza.

Tutti i biografi sono concordi nell’enumerare e descrivere le pratiche penitenziali, dai digiuni al­ le flagellazioni, a cui S. Francesco, con instanca­ bile perseveranza, sottometteva il suo corpo.

Questo non pare in contrasto coli quella valo­ rizzazione del sensibile di cui siamo verniti discor­ rendo fin qui? Non è in contrasto con quella sim­ patia e rispetto francescani verso tutto ciò che è balzato dalle mani sapienti di Dio? 0 non ò an­ che il corpo umano un’opera di Dio? Queste osservazioni ci obbligano a finire il no­ stro discorso parlando dello spirito della peniten­ za francescana, spirito che mette in perfetto ac­ cordo la fraternità universale di S. Francesco con i rigori delle sue penitenze.

S. Francesco non odiava, ne disprezzava il suo corpo; come non odiava, nò disprezzava alcun’al-

LA FILOSOFIA DEL CANTICO DI FRATE SOLE

167

tra creatura. Lo dimostra il fatto che anche il corpo lo chiamava « frate ».

Eloquente in proposito il lungo dialogo fra San Francesco e un Frate, che lo rimproverava di cru­ deltà verso il suo corpo, osservandogli che anch’esso aveva aiutato l’anima nel servire il Signo­ re; il dialogo è riferito dal Celano (1) e riportato dal Felder (2).

S. Francesco arriva a questa conclusione: «Rallegrati, fratello corpo e perdonami; chò da « ora innanzi eccomi pronto a soddisfare i tuoi « desideri e a venirti in aiuto nelle tue necessità ».

Queste parole difficilmente si immaginano sulla bocca di un antico anacoreta.

Certamente era guidato da questo spirito San Bernardino da Siena quando dettava la seconda regole di discernimento delle ispirazioni e la fa­ ceva seguire da questo commento: « Il corpo umano è creato da Dio; e benché con « le fatiche e le penitenze esso, qual servo, si deb« ba tener sotto il giogo della ragione, non però « dobbiamo scorticarlo e ucciderlo, dal momento « che Dio lo ama in vista della futura beatitudine «dell’anima. Poiché sta scritto nella Sapienza: « ” Tu ami tutte le cose che esistono, e non odt «veruna di quelle che da te furon fatte; perché «se tu l’avessi odiata non l’avresti ordinata nè «fatta”». Perciò l’Apostolo dice (3): «Come mo­ ribondi, ed ecco viviamo; come castigati, ma pur non messi a morte».

(1) II, n. 210.

(2) I. pn£g. 327-328.

(3) 2° Cor., G, 2.

168

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

« Come una piaga se di continuo venga spalma­ ta di unguenti non risana; e se ogni momento si irrita, ancora più gravemente s’impiaga; così ac­ cade della carne inferma dell’uomo: se continua­ mente si liscia e si accarezza, viene ad estinguersi nell’anima ogni sensibilità spirituale; qualora poi, con una penitenza eccessiva e continua, troppo si debilita il corpo, t'anima allora si ritrova molto più debole a compiere il bene ». (1) Certo la penitenza di San Francesco trova la sua ragione anche nella necessaria diffidenza e severità con cui ogni uomo deve trattare un ser­ vitore così recalcitrante e neghittoso confò diven­ tato il nostro corpo dopo il peccato originale. Si badi però in primo luogo clic il dissidio fra l’anima e il corpo, che rende necessario un trattamen­ to tendenzialmente austero di quest’ultimo, non b di natura metafisica, non ò naturale, ma di na­ tura psicologica e conseguenza di un turbamento dell’equilibrio naturale. In secondo luogo poi non si dimentichi che la ragione principale e adeguala della penitenza francescana bisogna cercarla nel desiderio del Poverello di imitare Gesù e di soffri­ re per le anime: motivi questi squisitamente amo­ rosi e positivi. Il fioretto della perfetta letizia e la crocifissione della Verna sono a questo propo­ sito di un’eloquenza decisiva.

(1) S. Bernardino da Siena, Trattato delle Ispirazioni, Milano, Vita e Pensiero, 19'i6, pag. 38.

Capitolo VI L’ESSENZA DEI E APPORTI SOCIALI È LA CARITÀ

Fra le realtà, visibili e invisibili, in rapporto alle quali l’uomo si muove e vive, fra gli apporti dal cui complesso la vita umana nella sua inte­ griti! fisica, spirituale e soprannaturale risulta, ha un’importanza non trascurabile la società, che è come il mondo spirituale dell’uomo. Non posso perciò concludere queste pagine, in cui ho tenta­ to, alla luce della tradizione storica e speculativa del Francescanesimo, di tracciare a grandi linee la visione francescana del mondo, dell’uomo cioè e di tutti gli altri esseri con cui lo mette in rela­ zione l’esistere e il vivere, senza spendere qualche parola per illuminare lo scambio che intercorre fra l’uomo e gli altri uomini, fra il singolo e la società.

ITO

VISIONI! riUNCKSCANA DELLA VITA

Naturalmente anche qui punto all’essenziale, alla sorgente profonda, a quella che deve esser l’anima dei rapporti sociali secondo lo spirito francescano.

Non è quindi mio compito delineare le dottrine di una eventuale sociologia d’ispirazione france­ scana, ma solo di scoprirne il punto di partenza, la fonte metafisica.

I. Uinsegnamenlo di S. Francesco.

Rivolgiamo innanzi tutto la nostra attenzione alPesempio, alla pratica di S. Francesco d’Assisi.

Nel determinare quali debbano essere i rapporti degli uomini fra loro il Poverello d’Assisi tiene, cerne al solito, lo sguardo e il cuore attenti al Vangelo, che egli appunto si era proposto di vi­ vere nella sua pienezza e nella sua integrità.

Orbene, sono troppo alte, esplicite, insistenti lo affermazioni di Gesù, ebe i rapporti degli uomini fra loro, come quelli, che intercorrono fra il Pa­ dre e gli uomini e fra gli uomini e il Padre, auzi come quelli che stringono in una società perfetta le augustissime Persone della Trinità devono na­ scere dall’amore ed essere informati dalla carità, perchè un’anima così attenta alle parole di Cri­ sto, come quella di Francesco d’Assisi, potesse mi­ nimamente pensare in modo diverso.

La carità dunque e soltanto la carità deve es­ sere a fondamento delle relazioni umane, così che nessun rapporto ò veramente umano e cristiano se non è un atto, un’espressione di carità.

Che sia questa la mente del Poverello d’Assisi risulta con tanta evidenza dalla sua vita e dalle

i/ESSENZA DEI RAPPORTI SOCIALI È LA CARITÀ

171

sue parole, che egli è stato chiamato il Santo del­ la Fraternità, di una fraternità non solo umana, ma universale, traboccante cioè ed estesa a tutte le creature di Dio. Una documentazione qualsiasi a base di episodi appare superflua in un lavoro d’indole sintetica come il mio; non c’ò nessunissima ragione di ri­ petere qui quello che tutti sanno e ricordano.

Le parole però di S. Francesco fa sempre bene risentirle, anche porche non restano scolpite nella mente con la vivezza propria dei fatti. « Nò alcun frate — prescriveva dunque il Po­ verello nella prima Regola — faccia o dica male ad un altro; che anzi per carità di cuore volon­ tariamente si prestino servigi ed obbedienza nel Signor Nostra Gesti Cristo» (1). « L’uno manifesti all’altro con confidenza il pro­ prio bisogno; affinché il secondo trovi e gli dia il necessario; ed ognuno ami e nutra il fratello, co­ me la madre ama e nutre il figliuol suo, nel modo loro concesso dalla grazia divina» (2). « Chiunque verrà da loro, sia egli amico, sia un avversario, un ladro o un malfattore, sia cortese­ mente accolto. E dovunque sono i Frali, ed in qua­ lunque luogo si ritroveranno, abbiano spirituale e premurosa riverenza e attenzione l’uno per l’altro senza mormorare. E guardino i Frati di non mostrarsi tristi di fuori e rannuvolati come degli (I) Gli scritti di S. Francesco (VAssisi, con Introduzioni» c noto critiche di S. E. Mons. VITTORINO Facchinetti, Milano, Vita e Pensiero, U)iOj pag. 30. r. (*>) Op. cit., pa£. r.il.

172

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e con­ venientemente graziosi ». (1) « E debbono essere felici, quando si trovano tra gente dappoco, e tenuta in nessun couio, tra i po­ veri e i deboli, gli infermi, i lebbrosi e i mendi­ canti della via ». (2) « E tutti i frati si guardino dal calunniare al­ cuno e non contendano con parole, anzi si studino di tenere il silenzio, ogni volta che Dio ne concederà loro la grazia... E si amino Fun l’altro come dice il Signore... E mostrino con le opere il vicen­ devole amore... Non maledicano nessuno, non fac­ ciano mormorazioni, non detraggano... Non giu­ dichino; non condannino e, come dice il Signore, non considerino punto i peccati degli altri, ma piuttosto ripensino i propri nell'amarezza della anima loro ». (3) « ... Sono nostri amici tutti quelli che a torto ci han procurato tribolazioni e angustie, vergogne e offese, dolori e tormenti, martirio e morte, e dob­ biamo amarli di molto, perchè per il male che essi ci han fatto, noi meritiamo la vita eterna ». (4) Questi comandi ed esortazioni sono condensati così nella seconda Regola, che è quella definitiva: « Consiglio inoltre, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signor Gesù Cristo, che. quando vanno per il mondo, non alterchino e non contendano a parole, e non giudichino gli altri: ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti ed umili, parlando a ■

(1) Op. (2) Op. (3) Op. (4) Op.

citpag. 41. cit., p:ijr. 43. cit., pii h<rirr 46-47. cit., pag. 55.

l'essenza i>ei rapporti soclvli è la carità

173

tutti onestamente, come si conviene... E dovunque sono e si troveranno i frati, si mostrino amici fra loro; e l’uno manifesti fiduciosamente all’al­ tro il suo bisogno, perchè se la madre nutre ed ama il fìgliuol suo carnale, quanto più sollecita­ mente non deve ognuno amare e nutrire il suo fratello spirituale? E se qualcuno cadrà amma­ lato, gli altri frati debbono servirlo, come vorreb­ bero essere serviti essi stessi ». (1) Come si vede S. Francesco esige da’ suoi frati non una carità qualsiasi, ma una carità operosa, piena di sollecitudini, senza eccezioni, pronta a manifestarsi in tutte le circostanze; una carità insomma spinta a tutte le delicatezze e a tutti gli eroismi.

L’insistenza poi con cui la inculca, doveva con­ vincere quelli che non avevano potuto impararlo nel contatto immediato della sua vita, clic invano s’illude di essere francescano chi non informa ed ispira alla carità tutti i suoi atti.

Che tutti i Frati Minori avessero imparato be­ ne la lezione e capito lo spirito del Santo Fon­ datore, ne fanno testimonianza tutte le fonti sto­ riche dell’Ordine.

Il Felder riassume così le testimonianze dei Celano, dell’Eccleston, e dei Tre Compagni: «Ben­ ché i membri di questa grandiosa associazione venissero da tutte le parti della terra, uniti corno erano per mezzo del vincolo della carità, facevano di sò stessi quasi altrettante pietre di un unico tempio, quello dello Spirito Santo. La loro vicen(1) Op. citM pag. f>8 o pag. 70.

174

visioni: fu a n c k se a n a della vita

fievole cordialità era indescrivibile. L'abitazione loro comune non era clic uua gara continua di amicizia e di amorevolezza. La cura di ognuno era di procurare una gioia all’altro. Nessuna pri­ vazione era da tanto di turbare la loro conten­ tezza; solo il pensiero di una prossima separazione valeva a riempire di tristezza il loro cuore: ve­

nuto il momento dell’addio, erano inconsolabili di dover far senza Tuno dell’altro, anche solo per breve tempo. Quelli die partivano, venivano ac­ compagnati per lungo tratto di cammino, e il di­ stacco avveniva in mezzo a lagrime amare. Qua­ lora accadeva che si incontrassero nelle loro pe­ regrinazioni sia che prima si fossero conosciuti, come se erano ignoti Timo all’altro, era ogni vol­ ta un giorno di festa. Si salutavano a vicenda col saluto della pace, e col bacio fraterno, si facevano lieta compagnia, sfogavano il cuore nel cuore del fratello, ridevano con ilarità e modestia e si co­ municavano a vicenda (pianto potevano avere.

Quando poi l’ubbidienza li richiamava alle case deH’Ordine era propriamente come se dei fratelli ritornassero ai loro fratelli e sorelle, ai loro figli e genitori. Si amavano, servivano, nutrivano l’un l’altro con tanta premura, (pianta solo una madre può dimostrare verso il suo unico dilettissimo fi­ glio. Tutti vivevano talmente per ciascuno, e cia­ scuno viveva così totalmente per tutti, da non permettere clic un affetto privato venisse a com­ promettere l’amore di tutta la famiglia, la quale viveva del sacrificio fatto da ognuno per il pro­ prio fratello. E ognuno era disposto a dare la prò-

l’essenza dei rapporti sociali è la carità

17r,

pria vita stessa non solo per amore di Cristo, ma anche per amore del suo fratello» (1).

L’Ordine Francescano riusciva insomma ad es­ sere ciucilo che il Santo Fondatore voleva che fos­ se: una « fraternità ».

Ma come si conciliano le insopprimibili esigenze gerarchiche di una società qualsiasi, con questa solenne professione di uguaglianza di tutti di fron­ te al Padre Celeste, uguaglianza che giustifica solo un rapporto di sollecitudine amorosa e to­ glie ogni ragione di supremazia fra gli uomini?

Riducendo, come ha insegnato Gesù, l’autorità a un servizio; di modo che il comando e l’obbedienza non siano nient’altro che un atto di amore.

F quello clic ha fatto S. Francesco con quella coerenza immediata che gli c propria. « TI Superiore — scrive, concludendo la sua di­ samina sui quadri e lo spirito delForganizzazione delTOrdinc Francescano, un moderno autore — il Superiore... non ò più un uomo rivestito di pri­ vilegi, cui i sudditi s’inchinino o genuflettino ora tremanti ora riverenti, ma un « Ministro », ossia un c servo » della comunità, di cui detiene il go­ verno. Egli deve aver speciale cura degli infermi, accogliere tutti benignamente, correggerli con ca­ rità e umiltà, visitarli con frequenza, comandarli con discrezione, usare verso i sudditi tanta fami­ liarità che questi possano sentirsi essi i padroni ed i superiori ritenersi sudditi ».

(1) P. Tlarino Feeder, L’Ideale di Snn Francesco d’Assisi, voi. TI, pagg. 30f 31.

17G

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

« Paradossale e pur sublime concetto, d'altronde evangelico! » (1) Ecco le parole precise di S. Francesco: vai la pena di rileggerle: «E dovunque sono dei frati i quali sapessero e conoscessero di non poter spi­ ritualmente osservare la Pegola, sentano il do­ vere ed abbiano il diritto di ricorrere ai loro mi­ nistri; questi da parte loro li accolgano con ca­ rità e cortesia, e si diportino con tanta carità, da indurli a parlare e fare con essi come i padroni coi loro servi; poiché deve proprio essere cosi, che i ministri siano servi di tutti i Frati ». (2) A mettere in rilievo lo spirito evangelico e per­ ciò sanamente democratico con cui S. Francesco concepisce l’autorità, valgono anche, a mio parere, le prescrizioni seguenti, che tolgo dal cap. V deh la prima Pegola: «Ma tutti i frati, i quali stanno sotto i ministri e servi, facciano diligente e ra­ gionevole esame di tutte le azioni dei loro ministri c servi, e se vedranno che alcuno di essi cammina secondo la carne e non secondo lo spirilo nella retta via della nostra vita, dopo tre ammonizioni, se egli non si sarà emendato, nel capitolo della Pentecoste, lo denunzino al ministro e servo di tutta la Fraternità, senza alcuna eccezione ». (3) Queste prescrizioni, scomparse, com’era giusto, nella Pegola definitiva, ci fanno misurare fino a che punto S. Francesco fosse preoccupalo di ren­ dere viva nei suoi figli, la convinzione di un’as(J) P. Armando QUAGLIA, L'originalità della Regola France­ scana t Sassoforrato, 1943, pag. 140.

(2) Oli Scritti di S. Francesco df Assisi, ecc., pag. 72.

(3) Op. cit., pag» 38.

l’essenza dei rapporti soclali k la carità

ITT

soluta uguaglianza di diritti c di doveri fra su­ periori e sudditi. « Colui che aveva cantato a « Frate Sole », arrivando a chiamare « sorella :> la morte, dopo ave­ re inneggiato alla luna, alle stelle ed all’acqua, chiara e casta, doveva necessariamente lasciare traccia di questo suo senso di profonda umanità nella regola. E in essa domina realmente un flui­ do di affratellamento, di comprensione, di bontà ovunque e in tutte le direzioni; nei superiori ver­ so i sudditi, in questi verso di quelli e verso i pro­ pri confratelli, in tutti verso i secolari, tanto che fu osservato che in questa regola ricorrono con eccezionale frequenza le parole « Fratres », « Fraternilas», come il Santo predilige chiamare la sua istituzione ». (1) Al lettore parranno esagerate le mie parole se 10, arrivato a questo punto, affermo, che per San Francesco la carità dev’essere il fondamento, la anima, il connettivo sostanziale di tutti i rapporti sociali? E se è così, S. Francesco non sarebbe pronto a sottoscrivere quest’altra affermazione, die nessuna società è veramente umana se non ri­ sulta da una comunione di amore reciproco?

11. Sviluppi teorici.

La sociologia, coin’e noto, è una scienza tutta moderna, ed c caso piuttosto raro trovare in un autore medioevale qualche cosa che dia l’idea di una trattazione sistematica dei problemi sociali.

Il problema della società è rimasto in ombra e (l) P. Armando Quaglia, L’originalità della Regola France­ scana, pag. 161.

17«S

VISIONI: I’UANCKSCANA DDLLA

vita

non è mai vomito al contro dello fervide disputo, che diedero vita e grandezza alle università mediocvali; non possiamo perciò sperare di fare una gran messe di testi in proposito nemmeno sfo­ gliando le opere dei Maestri Francescani.

Non possiamo però dubitare che per essi anche la realtà 'sociale sia soprattutto un’opera delPn-

more e che il « vinculum » per eccellenza fra gli uomini, anzi il solo vincolo, che rende una società veramente umana, sia ciuello della carità.

Sentite come ragiona S. Bonaventura della ca­ rità nel suo senso ampio di amore ordinato.

«La carità, proprio essa, ò radice, forma e lino delle altre virtù come ciucila che unisce tutti al fine supremo e stringe tutte le cose fra loro se­ condo bordine debito; perciò essa carità è espres­ sione di una inclinazione ordinata e vincolo di perfetta unione, poiché, da una parte, ci fa ri­ spettare bordine facendoci amare ogni cosa a se­ conda del suo valore e questo sia sul piano del sentimento che su quello dello opere; ,e dall’altra riduce all’unità tutti gli affetti, in quanto ci fa amare tutto in vista di Dio, oggetto supremo di amore, e fonte dell’amabilità di tutti gli altri es­ seri, che sono destinati ad unirsi per mezzo di un vincolo di amore a Cristo, come corpo al suo capo, costituendo così la società perfetta dei pre­ destinati alla gloria. Questa unificazione della ca­ rità, che quaggiù appena si inizia, si consumerà nella gloria eterna, affinchè si adempia la pre­ ghiera del Signore: ”La gloria, di cui mi hai ri­ vestito, ho dato ad essi, affinchè siano una sol co-

l’kssexza uhi lurroHTi sociali i: la e aiuta

179

sa, come noi lo siamo: io in loro c Tu in me; così la loro unità sarà perfetta”» (1). « Una volta realizzata pienamente questa unità di amore, Dio sa?mcì tutto in tutti con eterno, si­ curo, dolcissimo possesso, c tutte le cose per mira­ colo d’amore saranno comuni in una comunica­ zione armonica legate insieme nell’ordine e stret­ te fra loro da un vincolo indissolubile» (2).

Questa dichiarazione solenne non nelle parole, ma ne’ pensieri, non lascia dubbio che S. Bona­ ventura affidi alla carità e solo alla carità il com­ pito di unire gli uomini fra loro in questa vita come neirdernità.

Che solo nella carità la società trovi la sua per­ fezione e il suo compimento lo si constata sia guardando le cose da un punto di vista estensivo come da un punto di vista intensivo.

TI pensiero cristiano (e nessuna filosofia onesta può smentirlo) vede le radici del vivere sociale in una inclinazione connaturale aU’auimo umano.

L’uomo è nato per comunicare con i suoi simili, di modo che non può realizzare del tutto la sua umanità, cioè non finisce di essere uomo, se non integrandosi nella società.

Si nota anzi un evidente parallelismo fra l’ansia umana di progredire, fra il movimento della ci­ viltà e il moto espansionistico della vita sociale, che tende a diventare sempre più ampia, sempre più comprensiva. Di modo che si può con sicurezza affermare che Tuomo 6 tanto più civile, quanto più (J) S. GIOVANNI, cap. XVII, vv. 22-23.

(2) $. Bonaventura, Breviloquium, pars V, cap. 8, pag. 262 a.

ISO

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

si allargano gli orizzonti dell’organizzazione so­ ciale dalla famiglia alla città, dalla città alla na­ zione, dalla nazione alla federazione di nazioni, dalla federazione all’unione di tutti i popoli in un’ideale concordia che trascende tutte le diffe­ renze e tutte le barriere geografiche e spirituali.

Ebbene questo tendenziale espansionismo socia­ le, pensa S. Bonaventura, inciamperà in ostacoli insormontabili o, meglio, esaurirà presto la vita­ lità della sua spinta, se non trarrà continuo ali­ mento e vigore dalla carità. osserva il Carattere essenziale del rumore Dottore Serafico — è quello di tendere « ad alferum»: Tamore infatti è una inclinazione, un « pondus », ohe ci fa uscire da noi stessi per unirci ad un essere distinto dal nostro.

Non sempre però quest’ansia di unione c un’an­ sia di donare, spesso à inevitabilmente mista ad un’ansia di ricevere. Nell’amore naturale, ad es. (l’amore dei genitori verso i figli e viceversa) ò difficile distinguere fino a che punto l’egoismo si mischia con l’altruismo: « naturalis affectus quaerit proprium commodum » (1): l’amore na­ turale non è mai puro di egoismo. Di conseguenza non può diffondersi molto, non può dar origine che a una società molto ristretta.

Più ampio respiro deiramore naturale bisogna riconoscere all’amore sociale, il quale, oltre a pog­ giare su motivi pili spirituali (non c istintivo, ma frutto di una ragionevole determinazione della volontà) si estende a tutte le persone che perse­ guono con noi un fine comune. (i) Seat. Ili, d. 28, q. 5, pag. 630 a.

l'essenza dei kaitokti suolali è la caiutà

1S1

Però anche l’amore sociale non può sostenere fino in fondo quello slancio sociale che porta l’uomo verso gli altri uomini: il fine, il bene comune che in un primo momento apre gli orizzonti del cuore, in un secondo momento li chiude.

L’ambito di uii’assoeiazione professionale, di una classe, di un partito, di una nazione» di uno Stato, ecco altrettanti limiti posti all’amore so­ ciale.

L’amore che scavalca tutti gli ostacoli, l’amore che di sua nautra è universale e senza confini ò la carità, cioè l’amore per il quale noi amiamo Dio per se e il prossimo per Dio o in Dio (1). E non è difficile capire il perchè. TI motivo che ali­ menta questo amore è di sua natura indefetti­ bile e sciolto da tutte le circostanze di spazio e di tempo. Infatti — spiega S. Bonaventura — amare il prossimo per Dio vuol dire amarlo perchè ve­ diamo in lui riinm.urine e la somiglianza divina, e siccome amare vuol dire volere il bene di qual­ cuno, amare il prossimo in definitiva non è che desiderargli il possesso del Sommo Bene, di cui è capace (2).

Orbene, come la somiglianza divina non man­ ca alla fisionomia spirituale di nessun uomo, cosi Dio non è un Bene che possa diminuire o addi(1) Scnt. ITT, 27, c. TI, pasr. GOG b.

(2) Scnt. Ili, il. 27, art. I, q. 2, ad I, p. 595: «Quia enim propinili? est iinajro Dei et capax ipsius Dei; ideo virtus caritatis, quae desiderai Suinmum Uomini liaberi ah omni qui potest ipsuni liabere et ipso fruì, appctit Suriimum Uomini a proximu haheri, sicut ah co, in quo est; et hoc non est alitici quain amare proximum per caritatis aflectum ».

1S2

VISIONE FRANCESCANA DELLA VITA

rittura esaurirsi per la moltitudine di ehi parte­ cipa al suo godimento.

La carità quindi è un amore clic si apre sempre e non si chiude mai; in ogni uomo trova un mo­ tivo per accendersi e in Dio trova sempre una nuova ragione di espandersi nella generosità. « Nobilior est amor charitatis, (inani sii amor socialis » (1) esclama il Dottore Serafico: l’amore di carità ò più eccellente delPamore sociale; mentre infatti questo è spirito di corpo, solida­ rietà professionale o di partito, amor patrio e, quindi, sempre inquinato da motivi egoistici o co­ munque di sua natura limitato, quello gode della universalità e deirinesauribilità del Sommo Bene.

Dopo queste considerazioni non è difficile capi­ re come soltanto la carità, amore essenzialmente universale, possa sollecitare c sostenere tino alla sua realizzazione completa quel dinamismo so­ ciale che si radica nella natura stessa dell’uomo.

L’importanza fondamentale della carità nella vita sociale risulta con altrettanta evidenza, se noi guardiamo le cose dal punto di vista intensivo.

La socievolezza non è che una comunicazione di beni spirituali e materiali fra Tuomo e i suoi simili: e la società ò tanto più salda, viva e fe­ conda, quanto più ò intensa e attiva detta comu­ nicazione. Tu linguaggio tecnico si dice clic la so­ cietà nasce da uno scambio di doveri e diritti e riposa quindi sulla virtù della giustizia, elio con­ siste appunto nel riconoscere praticamente il di­ ritto di ciascuno.

(1) Seni. TU, d. 28, art. unic

q. I, pa«j. 622, 'i.

i/essenza dei rapporti sgolili è la carità

iss

Ma, ci avverte S. Bonaventura: « Nisi quis proximuin siium diliga!, non est Tacile, ut ius debitimi sibi reddat » (1): senza la carità c molto dif­ ficile die la giustizia non faccia difetto. In altre parole, una giustizia senza carità, che non sfocia nella carità, finisce col non essere neppure giu­ stizia.

Soltanto in linea di teoria si possono delineare i confini della giustizia c quelli della carità; in linea pratica, sul piano dell’esperienza invece, una giustizia non permeata di carità è, almeno par­ zialmente, un’ingiustizia. È certamente nato, co­ me tutti i proverbi, dall’esperienza, il detto: « Sunimum ius, stimma iuiuria », proverbio che ci fa ricordare ralTermazione di Cristo: «Se la vo­ stra giustizia non sarà più abbondante di quella degli Scribi e dei Farisei non entrerete nel Regno de* cieli ». Da tutto il Vangelo si ricava infatti clic la giustizia dei Farisei era appunto una giustizia senza carità.

A capire questo affermazioni che possono parere ardite e nient’affatto convincenti, ci aiuteranno i seguenti pensieri, spigolati nelle suggestive e stu­ pende analisi delfauimo umano di cui s’intessono molte pagine di N. Berdiaeff (2). « Al centro della mia solitudine — osserva il « pensatore russo — nella mia esistenza chiusa in « se stessa, io non mi limito a sottolineare con a« cutezza la mia personalità, la mia originalità, «la mia singolarità, ma provo anche il bisogno (1) SiMit. HI, il. 33, q. 5, n. 3, pag. 721 l>.

(2) L'fr. X. Beruialff, L'io c il mondo, Milano, Bompiani, 1942.

visioni: francescana della vita

« nostalgico di evadere dalla mia solitudine, sento « il bisogno della comunione non con l’oggetto, ma « con l’altro, con te, con noi. Il mio io anela di « uscire dal suo carcere interiore per raggiungere « un altro io... » (1) Perciò « la socialità è una proprietà dell’io che costituisce la sua propria intima esistenza » (2) in quanto « risolamento assoluto deH’io, la sospen­ sione di ogni contatto con altri, con un tu, equi­ varrebbe alla distruzione dell’io da parte del se stesso :>. (3) Ma come si realizza questa comunione con Valtro, costitutiva della socialità, la cui esigenza 6 così intima all’io da conferirgli resistenza stessa?

Dopo aver notato che « molte sono le vie per le quali l’io tenta di vincere la solitudine: la cono­ scenza. la vita sessuale, l’amore, l'amicizia, la vita sociale, le azioni elevate, l’arte e altro » (4) l’au­ tore finisce con l’affermare: <• Solo l’amore e l’a­ micizia possono portare all’uomo la grande pro­ messa della vittoria nella solitudine. L’amore è proprio ciò che sopprimo la solitudine, ciò che conduce l’io all’altro, lo specchiarsi (lell’io nel­ l’altro e dell’altro nell’io » (5). « Come non potreb­ be esserci un profondo legame tra la persona e l’amore se l'amore è ciò che fa di me la persona? » Infatti « ò solo con Famore che mio può fondersi con un altro e vincere la solitudine (fi) (1) Op. cit., pa?. 117.

(2) Op. cit., pa?. 133.

(3) Op. cit., pajr. 114.

(4) Op. cit., pii?. 120.

(5) Op. cit., pa«r. 140.

(6) Op. cit., p;i?. I i7.

l'essenza dei rapporti sociali è la carità

1S5

Di conseguenza se « la solitudine non può essere superata che dal vero amore che è il vertice della vita» (1) e se «la nostalgia della comunione, della familiarità, la nostalgia di un’anima vicina, di un’anima sorella, di un sincero riflesso delì’<c io » in un altro «io» nessuna società può quietar­ la» (2), so ne conclude che è veramente umana, degna doll’uomo soltanto una società, che per la carità diventa una « cornimi là spirituale» nella quale le persone « si immergono in una atmosfera unita e fraterna, che è il regno di Dio ». (3) Regno di Dio, perchè airnffermazione di S. Bo­ naventura: « nec Deus sino proximo, nec proximus sine Deo diligi potest » (4): come non si può amare Dio senza amare il prossimo così è impossibile amare il prossimo se prima non si ama Dio, fan­ no riscontro queste esplicite parole di BerdiaelY: « Solo in Dio si può trovare ciò che superi qua­ lunque solitudine, solo in Dio si può afferrare il prossimo » (5) Dopo questo considerazioni non può più appa­ rire strana l’aiTermazione bonaveuturiana, che la giustizia seuza la carità non è nemmeno giustizia.

Infatti un rapporto sociale qualsiasi se non ò ispirato dall'amore, se non si muove in un’atmo­ sfera di simpatia e di amicizia, resta sempre al di sotto di ciò che io devo alla persona, a qual­ siasi persona. I diritti della persona non si sal­ ti) Op. cit., pag. 151.

(2) Op. cit., pag. 230.

(3) Op. cit., pag. 230. (ì) Soni. ILI, d. 27, cap. VII, pag. 588.

(5) Op. cit., pag. 123.

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dano veramente se non con moneta clamore.

Possiamo dunque concludere con S. Bonaven­ tura: «Quando si parla di rapporti gerarchici il termine "amore” ci sta molto bene, perché, come dice Dionigi, il fine e la perfezione di tutte le ge­ rarchie è Tunione nelTamore ». (I) •

•

»

« La persona — scrive a un certo punto il Berdiaeff — metafisicamente è sociale, ha bisogno di comunicare con altri» (2). Più che una verità è un fatto, ila, chiediamoci, questo bisogno di co­ municare, questo impeto di espansione, che ha le sue radici nell’intimo dell’uomo, è soltanto segno di indigenza o è anche segno di ricchezza? È un grido della nostra imperfezione o è anche espres­ sione iu noi di quella legge della bontà per cui essa, di sua natura, tende a comunicarsi?

Certo è anche segno della nostra indigenza, poi­ ché, come dice ancora il Berdiacff, « ontologica­ mente la solitudine è l’espressione della nostalgia di Dio » (II), ma è altrettanto sicuro che non ò soltanto questo. Basta riflettere elio noi cerchiamo nell’altro non solo un cireneo che ci sollevi dalla croce della nostra sofferenza, della nostra tristez­ za e della nostra incapacità, ma anche un convi­ tato al banchetto delle nostre gioie e delle nostro (1) Erp. super Rcgulam Fr. Minorimi, n. 2, voi. Vili, pa<r. 392: « In hierarchicis eloquiis optime sonat nomen dilectionis^ quia, ut rìicit Dionisius, T*totius hierarchiao Gnis et consummatio est unitiva dilectio” >.

(2) Op. cit., pag. 202.

(3) Op. cit., pog. 121.

LESSEXZA dei rapporti sootali è la carità

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conquiste. Per questa ragione ò carità, come ci fa sapere S. Paolo, non solo il piangere con quelli che soffrono, ma anche il gioire con quelli che sono nella letizia.

Dunque in quel bisogno metafisico di comunicare con altri, in cui trova la sua radice più profonda la socialità della persona, non si deve vedere soltanto una invocazione di aiuto, ma anche un impeto di generosità.

Cosa comprensibilissima a chi tiene presente che dovunque c’è bontà, ivi c'ò anche tendenza al comunicarsi.

L’uomo, che più di tutte le creature si assomi­ glia a Dio, si comunica per via di natura e per via di volontà: per via di natura nella genera­ zione, per via di volontà nelPentrare in società e in comunione con altri. « La persona — ripetiamo con Berdiaeff — me­ tafisicamente e sociale»; senza la socialità non sarebbe davvero persona, poiché il comunicarsi è iscritto nel profondo della sua natura e l’abbraccia con la stessa intimità con cui la bontà si ab­ braccia all’essere.

In Dio il donarsi ò perfetto, puro, senza reci­ procità, mentre nell’uomo, essere imperfetto, il donarsi 6 inscindibile dal ricevere. Cosa questa che diventa evidente se si riflette che soltanto do­ nandoci ci attuiamo, prendiamo possesso della perfezione che ci compete, e quindi in qualche maniera la riceviamo.

Se le considerazioni fatte sono, come non dubi­ to, esatte, appare evidente che la società ha le sue sorgenti nella bontà, ò prima di tutto e sopratutto

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una manifestazione di bontà; nasce come un atto di amore.

Nessuna meraviglia dunque che la società sol­ tanto diventando una comunità spirituale, una comunione di amore, raggiunga la sua perfezione e finisca di essere, come dev’essere, umana. È logico infatti che la legge del suo nascere, sia anche la legge del suo sviluppo e del suo compi­ mento.

Ora comprendiamo perchè Gesù con la sua pre­ ghiera: «Prego... affinchè siano, tutti una cosa sola. E come Tu, Padre, sei in me e io sono in Te, anch’essi siano in noi » (1) additava come modello e sorgente della società cristiana, l’ineffabile so­ cietà Trinitaria, che si consuma eternamente nel­ l’amore.

III. Conseguenze.

La civiltà è misurata dalla perfezione e felicità dei rapporti e delle istituzioni sociali instaurati da un popolo.

Tenuto conto di quello che siamo venuti dicen­ do sulla carità, come anima dei rapporti sociali, non possiamo non convenire con Dostoiewski quando scrive: « • • • Per civiltà io intendo ciò che appunto dovrebbe significare la parola: civile è co­ lui che, interprete delle aspirazioni dei suoi si­ mili, si adopera ad unirli, rendendo loro possibile e piacevole la comune esistenza » (2) ; definizione (1) GlOVs c. 17, v. 21.

(2) F. Dostoiewski, Diario di uno scrittorot Milano, Garzanti, 1943, pag. 808.

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che si può riassumere così: civile è colui che si diporta con ogni uomo come con un fratello.

All’identico risultato si arriva giudicando la ci­ viltà dal punto di vista della libertà.

Si può dire che un popolo ò tanto più civile quanto più in esso regna sicura la libertà. Ma a sua volta « la libertà nella sua più alta espres­ sione consiste nel dare lutto e nel servire gli altri.

L’uomo capace di questo, capace di essere padrone di se sino a tal punto, è libero come nessun altro. È questa la più elevata manifestazione del libero arbitrio ». (1) È chiaro dunque una volta di più che l’instau­ razione della civiltà, nella sua forma più vera e più alta, coincide con l’instaurazione della fra­ ternità.

Da tutto questo discende una conseguenza im­ portante: che l’agognato progresso sociale e civile, « la formula della perfetta società », come si espri­ me ancora l’enigmatico romanziere russo « non può essere che il frutto di un continuo perfezio­ namento morale dell’individuo ». (2) Tutte verità queste che si direbbe fossero pre­ senti, limpide e precise alla mente di S. France­ sco d’Assisi, tanto la sua azione vi si adatta e nel­ lo stesso tempo lo conferma.

S. Francesco è comparso in un’età che pullula­ va di pretensiosi riformatori della Chiesa e della società cristiana e anche lui è stato, anche se non ha mai preteso di esserlo, un riformatore, anzi il più formidabile di tutti.

(1) Op. cit., pag. 582.

(2) Op. cit., pag. 813.

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Ebbene, l’immensa forza restauratrice del suo esempio e della sua parola, bisogna proprio cer­ carla nel fatto, che egli, guidato dalla grazia di­ vina, si è rivolto non alle gerarchie nè alle isti­ tuzioni, ma alFindividuo.

S. Francesco non ha speso una parola per con­ dannare abusi di autorità religiose o civili, non si è lasciato sfuggire neppure una invettiva, una di quelle così facili invettive contro i mali del tem­ po: silenziosamente, umilmente il Poverello ri­ volge la sua esortazione a tutti, al ricco commer­ ciante e al contadino, al prete e al cavaliere, al feudatario e al prelato, da fratello a fratello, da servo di Dio a servo di Dio. Dev’essere profonda­ mente persuaso che in%ima che nelle istituzioni la riforma deve compiersi nel cuore di ciascun uo­ mo: da lì deve sbocciare la primavera spirituale, che tutti desiderano; da lì deve uscire fortificata e vittoriosa la fraternità universale, verso la qua­ le, consciamente o inconsciamente, tendono tutti i desideri di un mondo migliore.

Il Francescano quindi, se vuol rimanere fedele al suo spirito, dev’essere un riformatore, che con­ quista con l’esempio, l’amabilità, la parola dimes­ sa e semplice c soprattutto con l’amore.

Ancora una volta la prassi francescana coinci­ de perfettamente con i risultati della nostra pre­ cedente disamina.

Se avviare gli uomini verso un mondo migliore vuol dire in definitiva accendere o far divampare nei cuori più viva la carità, ognuno si rende conto che la via più diretta per riuscirei è quella di ac­ costare gli uomini con Tanimo colmo di carità:

l'essenza dei rapporti sociali è la carità

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Tarnore nasco facilmente dall’amore, come la luce dalla luce.

Ebbene S. Francesco non ha voluto, che la pri­ ma arma dell’apostolato francescano fosse appun­ to la carità?

Il movimento francescano incomincia con il ser­ vizio dei lebbrosi o nei lebbrosari hanno fatto il noviziato i primi seguaci di S. Francesco.

E se in seguito Francesco e i suoi Frati ricor­ reranno anche al mezzo indispensabile della pa­ rola e della predicazione, una predicazione sin­ golare che va dalla laude sacra Ano alla predica dogmatica introdotta nell’Ordine da S. Antonio di Padova e approvata dal Santo Fondatore, tut­ tavia, nò il Poverello, nò i suoi Figli hanno mai dimenticato che le anime si arrendono soprattutto alla carità.

Se qualche frate mostrava di aver dimenticato questa pedagogia soprannaturale S. Francesco si incaricava subito di richiamarlo all’osservanza più rigorosa ed eroica delle sue norme.

Significativo al riguardo l’episcdio dei ladri di Borgo S. Sepolcro. Spinti dalla Fame, durante un inverno particolarmente rigido e squallido, tre ladri si presentarono all’eremo dei Frati a chie­ dere Un tozzo di pane.

Il Guardiano, non ancora ben penetrato dello spirito francescano, ne approfitta per assalirli con un’intemerata, a suo parere chissà quanto effica­ ce, e li rimanda come gente indegna della carità cristiana. Capitò poco dopo il Santo Fondatore e si addolorò moltissimo deU'accaduto: rimprovera il Guardiano, gli impone di mettere insieme il me-

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elio che trova nella povera dispensa conventuale e di correre in cerca dei tre disgraziati, pregan­ doli di perdonargli l’aspro trattamento c di accet­ tare le vivande, che recava a nome di Frate Fran­ cesco.

Partito il Guardiano, Francesco ai frati faceva questa indimenticabile lezione di strategia apo­ stolica per convertire quelli e simili ladri, che in­ festavano i dintorni. « Se voi farete quello che io vi dirò, ho fiducia nel Signore che guadagnerete le loro anime. An­ date adunque, procuratevi il buon pane e del mi­ glior vino, portatelo nel bosco dove essi abitano, e gridate forte: Fratelli ladroni, venite a noi, cliò noi siamo fratelli, e vi portiamo del buon pane e del buon vino. Essi accorreranno subito. Allora distendete una tovaglia sulla terra, ponetevi so­ pra il pane e il vino, e servite umilmente e lieta­ mente e finche non si saranno saziati. Dopo il pa­ sto dite ad essi la parola del Signore, e da ultimo pregateli di questa sola cosa, che non percuotano e maltrattino nessuno Poiché, se voi chiedeste tut­ to ad un tratto solo, essi non vi ascolterebbero; mentre in grazia della vostra umiltà e carità, non rifiuteranno la vostra domanda. Il giorno succes­ sivo, come premio della loro promessa, recate loro anche uova e cacio con pane e vino, e serviteli al­ lo stesso modo. Finito il desinare dite ad essi: Perchè andate voi in giro tutto il giorno cosi af­ famati, sopportando tante contrarietà, e facendo oltre a ciò tanto male, da perdere alla fine anche le anime vostre se non vi convertite al Signore? È assai meglio che serviate al Signore, il quale

i/ESSEXZA OKI RArrOKTI SOCIALI Ù LA CARITÀ

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darà ai corpi il necessario nulrimerito, c per di più salverà un giorno le anime vostre. Allora il Signore ispirerà loro di convertirsi a cagione del­ la umiltà e pazienza clic voi loro dimostrate» (1).

I fatti confermano le previsioni di S. Francesco.

Se ce ne fosse abbastanza oggi di questa carità schietta, coerente, coraggiosa nel cuore dei cri­ stiani. quante anime si aprirebbero alla verità di Cristo!

Non ò chi non veda Fattualità di questo inse­ gnamento francescano: si rifletta, che gli affama­ ti, che pensano di procurarsi il nutrimento quoti­ diano con la violenza e l’assalto ai beni del pros­ simo, oggi sono moltitudini!

(1) 1\ I, Feldkk Op. cit., pap?.

CONCLUSIONE

La vocazione di S. Francesco, il proposito che ha illuminato e sorretto tutti gli atteggiamenti e i passi della sua vita, è stato quello di vivere e far rivivere il Vangelo nella sua integrità, esem­ pi cioè o insegnamenti del Figlio di Dio. Che il suo sforzo ardito e magnanimo si sia tradotto nel­ la concretezza dei fatti per quanto almeno era possibile a creatura umana, nessuno lo mette in dubbio: Dio stesso non ha riconosciuto e messo il suo suggello airammirabilc ascesi francescana con la impressione delle stimmate, che hanno fat­ to giungere la somiglianza del Poverello con l’Uomo-Dio dove nessuna arte umana poteva arrivare?

Senza timore di contestazioni possiamo dunque dire che S. Francesco d’Assisi ha riportato sul piano della pratica gli atteggiamenti cristiani, così come sono imposti o suggeriti dal Vangelo, nella loro genuinità e semplicità.

L'indagine che qui vogliamo concludere ci auto­ rizza, mi pare, ad affermare che la scuola france­ scana (della quale in S. Bonaventura troviamo la linea speculativa fondamentale), nello sforzo di interpretare (e quindi di giustificare teoricamen-

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te) la novità della vita instaurata dal Santo Fon­ datore, ha per suo conto ripreso e sviluppato i motivi teorici originali che serpeggiano nel Van­ gelo ed emergono negli scritti apostolici.

Infatti, come ho già avuto occasione di accen­ nare, la verità più originale, più nuova del cri­ stianesimo, quella clic soltanto Gesù ha potuto rivelarci in tutta la sua luce è questa: Deus charitas est — Dio ò amore. Ad essa si riconducono e in essa confluiscono come alla sorgente unica tut­ te le altre verità cristiane; di questa rivelazione si illuminano tutte le altre rivelazioni.

Quello che il cuore umano presentiva nelle sue insondabili irrequietezze, ma che la mente si ri­ fiutava di affermare come spaventata dalla pro­ pria audacia, l’amore di Dio per noi e la possibi­ lità di ricambiarlo, Gesù con la sicurezza del figlio unigenito, con la semplicità di chi l’ha sempre sa­ puto, lo annuncia: «Il Padre stesso vi ama».

No, non è troppo bello, ma impossibile — sog­ giunge il più fedele interprete del cuore di Cristo: infatti «Deus chari tas est :> — Dio ò amore; e l’amore, commentano i maestri francescani c li­ beralità, famore 6 elezione, preferenza, non è lo­ gica nè calcolo; la legge dclfamore è quella di irradiarsi, di donare, di far partecipare altri se­ condo la loro possibilità alla bontà e alla gioia. È proprio tenendo ferme queste verità, metten­ dosi dal punto di vista di questa rivelazione cri­ stiana, clic la Scuola Francescana cerca di intravvedere i misteri della vita divina e si sforza di far conoscere, per farli amare, i mirabili dise­ gni divini nella creazione e nella redenzione.

CONCLUSIONE

197

Pur mettendo a contributo le voci potenti e sug­ gestive della speculazione greca e di quella araba, i maestri francescani nelle loro meditazioni filo­ sofiche e teologiche hanno l’orecchio attento so­ prattutto alla parola di Cristo: essa c soltanto es­ sa è il centro generatore della loro sintesi, ossa è la vita, l’anima del loro pensiero, mentre tutte le altre non sono che nutrimenti da prendere con misura e discrezione. È nata così quella sintesi della carità che io mi sono sforzato di tracciare con la mia mano mal­ sicura, guidato dalla speranza di far sospettare almeno le ricchezze speculative della tradizione francescana; sintesi nella quale le leggi dell’amore ci aiutano a intravvedcre la misteriosa c su­ prema comunione della vita trinitaria, dove si coglie il ritmo profondo che si espande nella crea­ zione e nella redenzione, ritmo d’amore che solo può generare quelle armonie cosmiche, fra uomo e natura, e sociali, fra uomo e uomo, a cui tende con inesausto desiderio il cuore umano, come a un avvio necessario per giungere al supremo con­ giungimento e all’eterno armonizzarsi di tutti con Dio. Sintesi dunque nella quale l’amore ò al prin­ cipio, è al mezzo, è al fine di tutte le vie e di tutte le attività increate e create.

INDICE

Introduzione

pag. 7

* Il Volontarismo Francescano .

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19

IT. - Il sommo bene nelle sne leggi e nelle sue comunicazioni .

»

:n

»

III.- L'uomo risponde al sommo amore

»

57

»

IV. * L'uomo-Dio, incontro dell’amore in­ creato con Tamorc creato

Oap. I. »

»

)>

V.

- La Filosofìa (lei Cantico di Frate Sole

VI. - L'essenza dei rapporti sociali è la cariti!...............................................

Conclusione .

93 » 143 »

169

»

195

Finito di stampare il 15 ottobre 1948 coi Tipi della Tipografia Bertolotti Milano, Via C. Poma, 11 per conto della Editrice « Morcelliana » di Brescia