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Un canto in testa. Intervista di Eléonore Grassi a Bruno Tognolini

INTERVISTA Un canto in testa

Il rapporto tra parole e musica è il cuore del lavoro di Bruno Tognolini, che in questa intervista raccolta da Eléonore Grassi racconta come sono nati la sua passione per la scrittura in versi e il suo amore per il ritmo.

Da dove arrivano per lei la musica e la musicalità?

Perché dire le cose a ritmo di tamburo? Il tamburo che suona nella voce di nascosto è una cosa che piace agli umani. Quando ne parlo con i bambini, negli incontri nelle scuole, racconto la storia del cuore che batte e del bambino che già nella pancia della mamma, prima di nascere, sentiva benissimo questo battito. Tum-ta-tum-ta. Quando la specie ti sta impiantando il sistema operativo profondo della tua cultura, arriva questo imprinting forte e ritmico. Forse è per quello che anche dopo che nasciamo, guarda caso, le prime cose che sentiamo dalla mamma sono la voce ritmica. Una mamma che prende in braccio il suo neonato parla con sillabe semplici, ritmate: tutte le rime di culla, le flastrocche della tradizione davano parole alle mamme che sentivano dall’istinto della specie questa necessità di parlare a ritmo. Il fatto di portare la musica e la musicalità nelle parole e nella scrittura è qualcosa di naturale, per me e per tutta l’umanità. In quell’alba lontana della vita e della specie, dove si stava formando la coscienza e la cultura, l’uomo sentiva il mondo ritmato dal cuore e dal respiro; e anche dopo che nasce, o si evolve, quando vuole dire qualcosa di importante, spesso la dice con un ritmo sotto le parole, più o meno esplicito. Forse poi ci sono anche i geni, c’è una predisposizione individuale, un talento, una particolare attrazione verso certe forme estetiche… alcuni, come me, ce l’hanno per le parole: ho zii e nonni che scrivevano, si vede che qualcosa arriva già attraverso i geni; e poi, come sempre accade, i geni evolvono a seconda dell’ambiente a cui si viene esposti. Probabilmente ho sentito musiche e ritmi, da bambino: ricordo una mia cara zia Nietta che ci cantava in sardo. Poi ho fatto il liceo classico, e doverosamente mi lamentavo di dover studiare un altro canto della Divina Commedia: bisognava lamentarsi, altrimenti si faceva la fgura del secchione, ma evidentemente mi piaceva. Io mi auguro sempre che ci sia l’esposizione dei bambini e degli adulti alle grandi opere dei classici, perché sono come radiazioni, non ci se ne accorge, ma si sta assorbendo. Ecco, su questo terreno già predisposto arrivano le infuenze dell’ambiente, come la poesia italiana studiata al liceo classico, che mi ha plasmato; dopo quella, e la continua frequentazione di quella per decenni dopo il liceo, mi ritrovo a scrivere con un andamento ritmico, sia in poesia sia in prosa. Afascinato da tutto questo canto che a forza di cantarlo mi canta in testa, ero sempre più attratto dalla scrittura in versi con una forte componente di metrica e di rima. Che mestiere avrei potuto fare? In quale disciplina avrei potuto scrivere in metro e in rima? Poi ho cominciato a sentire in cufa molti poeti italiani letti da famosi autori: era un cofanetto nella casa dei miei nonni, “Pagine d’oro della poesia italiana”, un librone e una serie di 45 giri, con una scelta di poesie classiche della letteratura italiana lette da for di attori dell’epoca. Le ho sentite per anni e anni, in viaggio e in casa, e a forza di sentirle ho cominciato a saperle dire a memoria; alcune, allora, me le sono studiate: ho studiato tutto il primo canto della Divina Commedia, frammenti del canto di Ugolino, di Ulisse, I sepolcri, Leopardi… e andando in giro e camminando, nei miei viaggi o nelle passeggiate, mi dico queste versi: ho circa un’ora e mezza di autonomia di versi italiani detti a voce a memoria. Questo può essere un esercizio, ma è anche un piacere. Come esercizio di disciplina può essere all’inizio faticoso, una fatica improba, ma per me non lo è stato: forse perché è stato preceduto dall’ascolto e dall’incanto di quelle voci che dicevano quei versi, quindi quando ho iniziato a dirli io è stato un seguito naturale, non ho sentito nessuna fatica. In realtà questo esercizio mi fa star bene.

Come è arrivato alla flastrocca d’autore?

C’è una specie di regola che dico nei miei incontri: la flastrocca è bella se fa contenta la bocca che la dice. Con questo esercizio di imparare a memoria e ripetere i versi, con intenzione o meno, ho svolto un processo importante della mia formazione: ho incarnato il ritmo. Le flastrocche uno le dice, le ridice, le ridice, le ridice e infne le dimentica, perché diventano lui, diventano me. E alla fne, quando mi siedo a scrivere, son pronto; che scriva in metro e rima oppure in prosa, si attiva una specie di background in grado di scrivere ogni frase sentendo lo schema euritmico che vi sta sotto. Il verso “Ma-co-me-sie-te-pe-tti-na-ti-be-ne-sta-ma-tti-na”, da Rime di rabbia, è una mitraglietta di sillabe. L’ho detta

“tradurre” i celebri sonetti, che il grande compositore accompagnò a questi concerti, in un percorso narrativo. Gek nelle Quattro Stagioni sposta il focus sullo spazio che la musica incontra in partitura, progettando e realizzando illustrazioni che indagano la dimensione della forma, passando dal grande al piccolo, dal vicino al lontano e afdando al colore la “temperatura delle stagioni”. Questo perché i quattro concerti composti da Antonio Vivaldi (tengo a ricordare che acquistando i libri della collana si possono scaricare i brani musicali utilizzando un QRcode)

molte volte, e la voce è contenta di dirla perché se la dice molte volte non deve più preoccuparsi di ricordare quello che sta dicendo, la memoria è automatica, come quella di un musicista esperto che suona senza doversi ricordare le singole sequenze di gesti delle dita: li ha fatti così tante volte che vengono automatici. E a quel punto può cominciare a divertirsi. La voce e l’interpretazione nelle flastrocche sono personali. La mia interpretazione è prima di tutto sonora. Quando le flastrocche le dicono gli attori si vede la diferenza: i più esperti sono addestrati anche al suono, a rispettarlo, farlo sentire e suonare, suonano e si divertono a suonare, ma il loro mestiere, la loro maestria è quella del senso, dei signifcati, più di quella del suono. Comincio sempre i miei incontri con i bambini dicendo che le flastrocche hanno due ali: ala del senso e ala del suono. Cominciano tutte e due con S e fniscono con O, tutte e due hanno cinque lettere, proprio come le ali che devono essere lunghe uguali, devono battere insieme: con un’ala Bruno Tognolini più lunga dell’altra, la flastrocca vola male. Ci sono flastrocche che hanno un’ala del senso molto lunga, un signifcato forte. Purtroppo questo accade spesso alle flastrocche “valoriali”, prescrittive, che dicono al bambino come e cosa deve pensare: quelle contro il bullismo, il razzismo, quelle dei vari “progetti legalità”, eccetera. Hanno per chi le scrive un signifcato così importante che l’autore spesso non si preoccupa di farle suonare bene: ala del senso lunghissima ala del suono corta. Dovendo scegliere, confesso, io preferisco le flastrocche contrarie, quelle con l’ala del suono bella lunga e sviluppata. Quando i bambini mi chiedono come ho fatto a imparare a scrivere flastrocche, io racconto che adesso è come un largo fume, maturo e maestoso, che va solo nella sua corrente: ma c’è stata una fonte e ci sono gli afuenti. La fonte remotissima è quel cuore che batteva fn da prima che nascessi. Il primo afuente sono le poesie che mi dicevano i grandi, mia zia e altri. E poi il liceo classico, Dante, Ariosto, Parini, Foscolo, Leopardi... Lì è arrivato l’imprinting. Il secondo afuente invece è musicale: la musica vera e propria, tutto il rock, il rap, il rhythm and blues, il blues, il folk, il pop, il country che ho ascoltato in tutta la mia vita, e un po’ ho anche suonato (strimpellavo la chitarra e la suono ancora oggi quasi tutte le sere). Il terzo afuente è arrivato recentemente: è quella che chiamo Poesia Orale Puerile Ludica Autentica. I bambini sono esperti maestri di poesia ritmica orale, autarchica, autonoma, indigena. Assolutamente aborigena, nata presso di loro. Loro la dicono e io la raccolgo. Da trent’anni faccio incontri nelle scuole: negli ultimi quattro o cinque mi sono stufato di dire sempre le mie flastrocche, e ho cominciato a chiedergli le loro. Dopo un po’ di incertezze, quando hanno capito di che parlo, me le dicono: io tiro fuori lo smartphone e le registro. E ne ho una collezione stupenda, in italiano, nei dialetti d’Italia e nelle lingue del mondo, che faccio sentire in tutti i miei incontri, per grande delizia degli ascoltatori.

E per quel che riguarda la musica in senso stretto, nel suo lavoro?

Una delle prime esperienze è stata scrivere i testi italiani delle canzoni del flm “La gabbianella e il gatto” di Enzo D’Alò. Le canzoni originali erano in inglese, scritte da David Rhodes, niente meno che il chitarrista di Peter Gabriel; e io, che ho ascoltato e adorato Peter Gabriel per anni, avevo ora questo compito incredibile di dover scrivere a fronte un testo italiano, ed ero al settimo cielo. Non ho tradotto letteralmente, ho fatto una traduzione abbastanza libera: anche perché nessuno in Italia avrebbe sentito mai il testo inglese. Libera ma rispettosa: cercando di rispettare più che si poteva l’ala del senso e l’ala del suono sia dei versi originali inglesi e sia dei nuovi versi italiani, che dovevano battere bene. Scrivere per la musica è un lavoro che mi sta molto a cuore: l’ho scoperto recentemente ma è una delle forme di scrittura che mi danno più gioia.

In realtà, anche in passato ha scritto canzoni, giusto?

Sì, ho scritto anche 72 canzoni per la Melevisione, solo che lì il rapporto con la musica era inverso: noi autori scrivevamo il testo, e poi il musicista ci metteva la musica. Noi autori (anche Janna Carioli ha scritto molte canzoni) cercavamo di scrivere in forme già funzionali alla canzone, strofa-strofa-ritornello-strofa-strofa-ritornello: poi questi testi andavano nelle mani del musicista, che ci metteva sotto melodie e armonie, ogni tanto chiedendoci di poter cambiare qualche parola, o sequenza di parole. Poveri compositori, erano tragicamente ingabbiati in strutture metriche senza melodia! Quando ho scoperto il cammino contrario – mi arriva la musica e io devo mettere il testo – e stata un’esperienza meravigliosa: scrivere sillaba su nota, sillaba su nota…

e interpretati dall’orchestra I Virtuosi Italiani attraversano piani interpretativi diferenti. Ma allora ecco che per Gek Tessaro mi nasce una nuova domanda: “dove si appoggiano ritmo, timbro e armonia in un libro?” “La musica è astratta, sta a noi riuscire a vedere, coglierne i temi. Quando ascolto, vedo: fgure, paesaggi, corpi! Immaginare è un gioco formidabile, è provare a tradurre e interpretare i suoni con le immagini. I timbri diventano tecniche diverse, gli strumenti possono essere rappresentati: il violino è un segno sottile, i timpani pennellate pastose…

Nella composizione fgurativa si possono ritrovare le composizioni musicali, i pieni e vuoti, i silenzi, l’armonia. Diciamolo: la musica disegna, il suono fa vedere. Sento la chiave che gira nella toppa e mi immagino la persona che sta entrando in casa, fuori piove, sento gente che ride, corre a proteggersi dall’acqua dentro un portone e vedo le persone e così via: abbaia un cane, sento il suo latrare lamentoso o violento o feroce e mi fa immaginare l’animale,

Vuol essere un reale ponte di incontro verso spazi a volte sconosciuti, un viaggio che indossa una parola forse difcile ma anche misteriosa e afascinante: sinestesia. Chiedo a Emanuela Bussolati che cosa ne pensi. “Non credo sia possibile esistere senza continue sinestesie – risponde – siamo esseri completi, totali. Solo quando siamo molto concentrati su qualcosa non siamo sinestetici. Allora l’evento su cui ci concentriamo, con il suo linguaggio, è già un ventaglio

Un libro non noioso è una partitura che culla, strappa, rivela sorprese, sollecita timori, dà rassicurazioni. Urta con dei colori, calma con altri. È una composizione, in un certo senso, musicale

la sua misura, il colore”. Il linguaggio musicale è una tavolozza ricca di colori, di possibilità, di trasformazioni e voci. È indubbio che il nostro modo di comporre o illustrare va di pari passo con la nostra esperienza sensoriale e uditiva. Ogni persona coglie attraverso il suono aspetti diferenti che vengono dal proprio cammino d’ascolto, dal saper amare anche il silenzio, come espressione della musica. Tutto quello che noi generiamo è in costante dialogo con il luogo dove siamo e con cosa sta arricchendo il nostro cammino. Ogni persona ascolta in maniera diferente e questo costituisce un “patrimonio” per chi ha la fortuna di compiere questo cammino artistico: non si è mai soli nell’ascolto, ognuno di noi percepisce il suono fltrandolo attraverso un bagaglio di esperienze negative e positive. E questo patrimonio dialoga con le Arti. Continua Emanuela Bussolati: “Il libro è di per sé un percorso, non importa se narrativo o di successione di fgure o di casualità di passaggio da una pagina all’altra. Perché un percorso sia vivo, ci vuole il sasso, la pozzanghera, la pioggia, la nebbia e il cielo terso, il mare, la città, la solitudine… Sono metafore per dare l’idea del passaggio del tempo nel libro, dato dalle fgure e dalla lettura ma anche dalle sensazioni e dalle emozioni che un libro può ofrire. Un libro non noioso è una partitura che culla, strappa, rivela sorprese, sollecita timori, dà rassicurazioni. Urta con dei colori, calma con altri. È una composizione, in un certo senso, musicale”. Evocare immagini con la musica, la musica generatrice di immagini, le immagini generatrici di musica piena di colore: quante frasi potremmo aggiungere. Nella storia della musica si viaggia costantemente fra incontro tra musica e pittura, musicisti e illustratori che dialogano. Fra i musicisti che si sono prestati a questo dialogo vengono subito in mente Claude Debussy, Modest Musorgskij, Béla Bartók, Igor Stravinskij, Haydn, solo per citarne alcuni. Questo viaggio divulgativo che la collana intraprende desidera portare a conoscenza la musica attraverso le parole e le illustrazioni e cerca di avvicinare tutti alla scoperta musicale. di sollecitazioni così ricco, che è quasi impossibile metterlo in collegamento sincronico con altri linguaggi. Bisogna che un linguaggio perda un po’della sua polarità in noi, per poter dialogare con un altro linguaggio (o con altri linguaggi) che a sua volta perde in noi un po’di polarità”. Chiedo anche a Gek Tessaro la sua opinione in proposito. “Ti risponderei riprendendo alcuni pensieri che ho scritto e che ti vedono proprio coinvolta in prima persona: ‘La musica e gli occhi’. Per chi disegna lasciarsi infuenzare dalla musica può risultare un gioco afascinante. Può diventare il tentativo di riprodurre i sentimenti che la musica ispira. Nelle tante situazioni in cui mi sono trovato a lavorare con i musicisti ho provato a cercare una qualche maniera più suggestiva. Tentare di disegnare quel che la musica mi suggeriva ma rispettando anche le pause e il ritmo, seguendo, insomma, la costruzione del brano. Giocare un po’alla sua traduzione visiva, farne racconto. Il gioco del tradurre il suono sinuoso con la trasparenza dell’acqua o con le scenografe efmere e della sabbia. Abbinare le pennellate dense ai suoni gravi, i graf agli acuti, e un ghirigoro d’acquerello tenero al canto umano. Un esperimento riuscito in tal senso è stato quello realizzato nel 2006 per lo spettacolo Alla Bottega di Mastro Amadè, da te scritto, che proponeva la ricostruzione di varie stanze musicali legate all’esperienza di Mozart. Adottando una pluralità di linguaggi, musica, recitazione, lingua dei segni, immagini dal vivo, si è resa possibile anche l’integrazione di un pubblico non udente”. In efetti per me la bottega è da sempre simbolo di incontro e condivisione: lavorare a bottega è una delle preziosità della vita e il quarto libro della collana di musica disegnata, Caterina, cammina cammina ne è un esempio: una faba musicale che porta il testo di Emanuela Bussolati in partitura, lasciando a me la creazione dei leitmotiv e delle flastrocche che caratterizzano i personaggi, e che è frutto del lavoro di equipe realizzato discutendo, animandosi, domandandosi, relazionandosi intorno a un progetto che non è né mio né tuo, ma di tutti, così come lo sono i libri e la musica: patrimonio dell’umanità.

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