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di Rossana Sisti

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di Paolo Gheri

di Paolo Gheri

Matteo Lancini e l’età tradita

Com’è difficile essere adolescenti

di Rossana Sisti

I colpevoli sono molti e si annidano ovunque, sugli schermi, tra i videogiochi e i social, tra le aggressioni del virus e le imposizioni dell’emergenza sanitaria, nell’isolamento forzato, nelle scuole chiuse e nelle pieghe della DAD. Insomma tutta colpa di Internet e del Coronavirus se i ragazzi non sai più come prenderli? Se vivono connessi in simbiosi con lo smartphone, se vagano annoiati in casa alla ricerca di piazze ed esperienze virtuali, se ingaggiano sfide virtuali e giochi estremi, se a scuola non imparano niente, se fuori di testa finiscono dallo psicologo o in neuropsichiatria a chiedere aiuto?

Gli alibi che gli adulti si costruiscono sul malessere degli adolescenti sono zeppi di luoghi comuni e di falsi indiziati. Ma si sa, nell’incertezza è più facile giocare in difesa, trovare nemici piuttosto che sentirsi in causa e inadeguati, sparare nel mucchio là nel pericoloso mondo esterno e nascondere la propria responsabilità. Più facile distribuire colpe che sentirsi adulti, genitori responsabili di un tradimento in atto nei confronti dei figli e della loro adolescenza. L’età difficile, l’età ingrata, L’età tradita come la definisce nel suo ultimo saggio (Raffaello Cortina Editore; pagine 186, 14 euro) Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, docente all’Università di Milano-Bicocca e alla Cattolica, oltre che presidente della Fondazione Minotauro di Milano. L’età privata di ascolto e sostegno alla propria realizzazione, riempita di superficialità, incertezze e controllo da adulti disattenti e confusi nell’educare. Incapaci di immaginare una comunità educante perché privi di una rappresentazione di ciò che sono l’infanzia e l’adolescenza. Siamo noi, gli adulti, che Lancini osserva con l’indignazione e lo sguardo di chi invece i ragazzi li vede da vicino e ne ascolta i disagi e i dolori dell’anima. Noi con gli stereotipi, le scuse a buon mercato e una fragilità estrema esaltata dalla pandemia, noi abituati a semplificare una complessità irriducibile a banalità. Caparbi nel comprendere che Internet e la pandemia hanno solo esasperato un disagio generazionale già esistente e ostinati nel guardare al mondo dei ragazzi secondo uno spiccio senso comune. Attraverso cliché che forse calzavano di più alle generazioni precedenti, «senza comprendere di quale funzione adulta, autorevole, non stereotipata, le ragazze e i ragazzi nati nel nuovo millennio abbiano disperatamente bisogno». Proprio quegli adolescenti che alla pandemia hanno risposto con responsabilità e altruismo benché il mondo adulto li abbia indicati tra i maggiori portatori del contagio e chiesto loro di sacrificare la propria libertà in un’età di estremo bisogno di vita sociale. Intanto, premette il professore, bisogna distinguere i bambini dagli adolescenti accorpati improvvidamente sotto la stessa etichetta di minori. E non solo perché le differenti fasi di sviluppo meritano approcci diversi. Oggi, «il modo di guardare ai bambini è radicalmente cambiato, mentre non è accaduto lo stesso con gli adolescenti che vengono ancora pensati come ribelli, trasgressivi, onnipotenti. Da diversi anni sostengo – sottolinea Lancini – che la più importante emergenza educativa e formativa italiana dipende dal processo di adultizzazione del bambino, a cui fa seguito un’infantilizzazione dell’adolescente». In sostanza nella famiglia affettiva attuale, dove il desiderio più grande è la felicità dei figli, si chiede molto presto ai bambini di far da soli, di frequentare amici, «di crescere secondo dettami adulti che favoriscono l’autonomia, la socializzazione, l’espressione di sé e delle proprie inclinazioni, per poi guardare con sospetto agli adolescenti che hanno puntualmente aderito alle proposte provenienti da mamma e papà, scuola e universo massmediatico. I bambini crescono adeguandosi alle esigenze, alle richieste e al funzionamento di una società complessa, individualista, permeata dalla necessità di sovraesporre se stessi e la propria immagine, ma quando arriva l’adolescenza quasi tutti li guar-

dano straniti». Perché a questo punto, mentre gli adolescenti sono diventati esattamente come sono stati cresciuti da bambini – narcisisti, bisognosi di successo personale e popolarità, pronti a intraprendere la realizzazione di sé –invece degli incoraggiamenti, dei sostegni ad affrontare i cambiamenti fisici e psichici dell’età, arrivano gli atteggiamenti infantilizzanti: le incomprensioni, il controllo, le regole sui comportamenti ritenuti esagerati, le colpevolizzazioni, le censure, i paletti mirati a rimetterli in riga e renderli obbedienti. Un inno alla mortificazione. Gli adulti sono convinti che l’adolescenza sia l’età in cui si è incapaci di frenare i propri comportamenti estremi e sconsiderati, in cui si finisce vittime di dipendenze da alcolici e droghe, e più ancora da Internet. Pensano di avere a che fare con ragazzi onnipotenti e invincibili, ribelli e trasgressivi. Un falso mito. I bambini, spiega Lancini, vivono nell’onnipotenza, non gli adolescenti che invece si sentono fragili e spaesati, non all’altezza delle aspettative di quella famiglia affettiva in cui sono cresciuti. Perciò in loro prevalgono vergogna, senso di inadeguatezza e delusione per ciò che sono diventati, e rispetto a cui alcolici, droghe e sballi vari funzionano da anestetici e lenitivi. Una sorta di antidolorifici a un malessere che non trova parole per esprimersi. Anche le maxirisse giovanili organizzate su Internet a cui abbiamo assistito in fase post lockdown riprese dai cellulari dei più o gli atti di teppismo segnalati in tanti centri storici non andrebbero letti, a parere del terapeuta, come episodi di pura trasgressione, quanto di un bisogno di visibilità e di attenzione al proprio disagio, coerente con una società che fa della sovraesposizione, dell’audience e della notorietà i propri capisaldi. Ma attenzione, se una parte di adolescenti reagisce al proprio conflitto emotivo ed evolutivo in modo rumoroso, racconta in sostanza il professor Lancini, «molti altri, non va dimenticato, comunicano invece il loro dolore in maniera più silenziosa, muta, utilizzando come megafono il proprio corpo». È come se il retropensiero inespresso recitasse «Meglio morti e popolari, piuttosto che in vita e trasparenti». È dunque tempo di smetter di dare la colpa di tutti i mali a Internet, dall’abbandono scolastico al ritiro sociale, dagli atti di autolesionismo al suicidio stesso, quando è evidente che l’accusa arriva da una generazione di adulti che la Rete la utilizza in modo intensivo e illimitato. Senza negare le esagerazioni, Matteo Lancino sottolinea le

contraddizioni del modello educativo corrente in cui si chiede solo agli adolescenti di fare a meno di Internet, «proprio nella fascia di popolazione a cui abbiamo imposto di nascere e crescere onlife (per usare un neologismo che indica la pervasività della Rete nella nostra vita ndr) proprio a coloro che, se non sapranno utilizzare Internet difficilmente avranno qualche possibilità di costruirsi un futuro personale professionale nella società che abbiamo allestito e che stiamo lasciando in eredità». Eccola di nuovo l’età tradita. «Sono semplificazioni insopportabili, culturalmente dannose. Rimuovono ancora una volta il dolore, negano la difficoltà evolutiva, spingono lontano qualsiasi pensiero suicidale, non raccolgono in alcun modo il segnale proveniente da chi in giovanissima età ha accettato il patto con il rischio di morte». Decaloghi e ricettine facili facili per genitori e insegnanti alle prese con ragazzi che non funzionano come si vorrebbe, ovviamente Matteo Lancini non ne produce. Ciò che sollecita è una rivoluzione di atteggiamenti che tengano conto degli adolescenti reali, ciascuno con la propria unicità, ma tutti con una sensibilità non comune allo sguardo di ritorno dell’altro. Capaci di comprendere e aderire alle proposte di una relazione autentica e autorevole, di fidarsi e affidarsi, di ri-

conoscere un approccio educativo e affettivo che affronti e accolga tristezze, sofferenze, fatiche e fallimenti. «Non capita spesso una pandemia per mettere mano alle nostre contraddizioni e fragilità – conclude Matteo Lancini – per intervenire a contrasto della povertà educativa imperante, per identificarci con le ragioni evolutive emotive e psichiche degli adolescenti, per essere interlocutori credibili e autorevoli di figli e studenti, per svolgere una funzione significativa all’insegna dell’ascolto e del rispecchiamento». Dunque un’opportunità straordinaria «per smettere di guardare bambini e adolescenti senza vederli, di ascoltarli senza sentirli, di essere adulti troppo fragili per accettare ciò che stanno vivendo e provando a comunicarci».

Ragazzi miei, nipoti immaginari1

I nonni e l’invincibile fiducia nel futuro

di Franca De Sio

Da genitori se ne parla meno: si è presi da interessi contingenti e distraenti, che impediscono una visione a lungo raggio di ciò che accade, di ciò che è davvero importante. Da nonni, invece, si vede lontano, si guarda ad un più ampio orizzonte. Quanto più si accorcia la nostra durata terrena, tanto più lo sguardo si proietta all’intorno e in avanti, verso il futuro dei nostri nipoti. Vorremmo vederli già iscritti nel cerchio del mondo con tutta la loro perfezione possibile, e in tutta la perfezione possibile del mondo.

Èper questo che, da nonni, si ha tanta voglia di raccontare, insegnare, trasmettere, raccomandare… Se ne sente il bisogno più fortemente quando si avverte, con la sensibilità sviluppata per le esperienze trascorse, che nella realtà presente e futura dei nipoti possa guastarsi qualcosa, possano sporcarsi le idee chiare e i giusti ideali raggiunti con grandi fatiche. I nonni non vogliono che le vite dei loro nipoti vadano a iscriversi in un cerchio-mondo malato. I nonni sanno che le mascherine Ffp2 non difenderanno i loro nipoti dall’ignoranza, dai miti obnubilanti collettivi, dalla intenzionale cancellazione del ricordo di quanti furono giusti e di quanti no. I nonni vogliono che i loro nipoti sappiano quanto faticoso sia stato costruire la pace, e quanto rapida, facile e catastrofica sia stata la strada verso la guerra, verso la perdita dei diritti, della dignità, dell’umanità. Vogliono che si sappia quanto i giusti hanno dovuto soffrire e combattere perché la dignità di persone e popoli fosse riconquistata. Non del tutto e per tutti, ancora: sotto ogni parallelo del nostro pianeta sembra avanzare il Male, non è un’entità astratta, ma il concreto potere del pensiero malato degli uomini. I nonni sanno che le ancelle del Male sono la menzogna, l’ignoranza, l’odio, l’egoismo, la povertà morale, l’indifferenza. E si chiedono cosa altro debba accadere per svegliare le coscienze, adesso e qui: in un mondo seviziato e cannibalizzato; in un mondo dove si costruiscono muri; si pagano aguzzini in paesi lontani per tenersi fuori dalla vista bambini e adulti che chiedono aiuto; in un mondo dove, tra genti e paesi che si ritengono civili, crescono moti di insofferenza e odio verso coloro che costituiscono “un problema”. Alcuni nonni hanno molti anni, sono stati vicini all’Assurdo (iniziato in Italia con le leggi razziali del 1938) e all’Indicibile (i lager, gli esperimenti genetici, le selezioni, i forni, la Shoah). Sanno quanta normalità può precedere l’inizio dell’orrore. Quell’orrore fu per loro indicibile ai figli, troppo poca era la distanza tra la loro e la propria straziata gioventù. Per se stessi e per i figli tacquero, vergognosi dell’ignominia altrui2; tennero la loro memoria lon-

Foto tratta da : hiips://www.lintelligente.it/2018/10/15/marxisti-immaginari-parte-prima/

tana, rinchiusa e silenziosa per trenta, quaranta, cinquanta anni. Molti altri l’hanno sepolta con sé. Per decenni quei nonni si sono impegnati a costruire tenacemente l’avvenire: con lo studio, con il lavoro, fondando famiglie, allevando figli, accudendo nipoti. Poi, mentre la vecchiezza li riavvicinava al passato, ai loro incubi sommersi, con sofferenza hanno lasciato che venissero a galla. Per i loro nipoti, reali o immaginari, hanno voluto raccontare. Ne hanno sentito il dovere. Quei nonni vedono l’egoismo che vuole trasformarsi in teorie, i raduni virtuali e reali sotto i simboli di regimi infami, i tentativi di negare e oltraggiare la memoria, di dare agli ebrei superstiti della Shoah anche la colpa di non essere morti3. Per malefica coincidenza, è accaduto che il silenzio dei loro ricordi e il virus del Male, quello del pensiero malato degli uomini, abbiano avuto la stessa durata temporale di incubazione. Per questo i racconti dei nonni ora si fanno pungolo, si pubblicano più memoriali, si registrano più testimonianze, si moltiplicano gli incontri con i ragazzi nelle scuole. Ma sono pochi i nonni rimasti a raccontare. Sono soprattutto nonne, donne con una invincibile fiducia nel futuro, con un indomito senso di maternità, che estendono al mondo e ai nipoti. Quelle nonne si chiamano Goti (Agata) Herskovitz Bauer che per oltre vent’anni ha testimoniato nelle scuole di Milano4 e ha scritto: «Ho sempre pensato che se fosse rimasto anche solo un seme di quanto raccontato a migliaia di giovani, ne sarebbe valsa la pena»5; Edith Bruck che nel suo Il pane perduto (La nave di Teseo, 2021) ha voluto raccontare ancora, ed esprimere la sua paura per le nuove ondate xenofobe; Rosa Hanan che nelle interviste raccomanda ai giovani di ricordare, di parlare per quelli che tra un po’ non potranno più farlo; Ginette Kolinka che per oltre sessant’anni ha taciuto anche in famiglia e poi ha deciso di accompagnare a Birkenau i liceali francesi (Ritorno a Birkenau, Ponte alle Grazie, 2020); Dita Kraus che nel suo libro Delayed Life 6 scrive: «È indicibile ma tenterò di parlarne perché devo»; Diamantina Vivante Salonicchio che nelle interviste dice di aver paura «per le teste rasate del presente»; Liliana Segre che dopo la nascita del primo nipote scelse di fare lo «straziante mestiere» di testimone, e di attivista e di politica7, sotto scorta dal 2019 per le crescenti minacce e insulti che ha ricevuto; Arianna Szörényi che solo pochi anni fa ha trovato il coraggio di pubblicare il suo diario di memorie (Una bambina ad Auschwitz, Mursia, 2014) per «contrastare chi osa, mentre alcuni dei sopravvissuti sono ancora in vita, minimizzare, addirittura negare, quanto accaduto». E ancora Virginia Gattegno, Andra e Tatiana Bucci, e ormai pochissime altre. Contro l’incalzare di quel Male, il pensiero malato degli uomini, e contro l’incalzare del Tempo, almeno tutte le nonne d’Italia, almeno una volta, dovrebbero chiamarsi Agata, Edith, Liliana… e continuare a raccontare, e dire ai nipoti: «Non dite mai che non ce la potete fare. Non è vero. Ognuno di noi è fortissimo … Le nostre azioni hanno importanza, tutte, e di ogni azione dobbiamo assumerci la responsabilità»8 .

Note

1 Il titolo vuole ricordare da un lato l’accorato appello a pensare con la propria testa, senza farsi trascinare dalle mode del momento, che Vittoria Ronchey rivolgeva agli studenti e alla scuola negli anni ’70 (Figlioli miei, marxisti immaginari, Rizzoli, 1975); dall’altro i «miei nipoti ideali», come Liliana Segre chiama i giovani, ai quali soprattutto si rivolge per «aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza … A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti delle responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri» (dal suo primo discorso in Senato, il 5 giugno 2018). 2 «…la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Primo Levi, La tregua, Einaudi, 1963. 3 Più volte Liliana Segre ricorda la sua persecuzione «per la colpa di esser nata» (Gherardo Colombo, Liliana Segre, La sola colpa di essere nati, Garzanti, Milano, 2021) e avverte che è nell’indifferenza generale che avvengono le più gravi violazioni della dignità dell’uomo. 4 Si veda: Marina Riccucci, Laura Ricotti, Il dovere della parola. La Shoah nelle testimonianze di Liliana Segre e di Goti Herskovitz Bauer, Pacini, Pisa, 2021. 5 Messaggio inviato per il conferimento della “Cittadinanza onoraria per la pace” ai sopravvissuti italiani alla Shoah, organizzata da Comune e Museo della memoria della diocesi di Assisi, e dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane. 6 Titolo italiano: La libraia di Auschwitz, Newton Compton, Roma, 2021. 7 Dal 2018 è senatrice a vita della Repubblica italiana. Dal 2021 è presidente della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. 8 L. Segre, Scolpitelo nel vostro cuore, Piemme, Milano, 2021.

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