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di Nadia Riccio

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di Paolo Gheri

di Paolo Gheri

Metacosa?

Le evoluzioni dell’universo digitale

di Nadia Riccio

A fine ottobre 2021 ha suscitato un certo clamore l’annuncio di Zuckerberg della trasformazione di Facebook in una nuova holding, Meta Inc., che ha sotto il proprio controllo le piattaforme Facebook, Instagram, Whatsapp e lo sviluppo della tecnologia di visori Oculus Rift. Nella presentazione del patron di Facebook, Meta, il cui logo richiama in parte il simbolo dell’infinito, in parte un nastro di Moebius, ma deformati, punta a essere uno spazio digitale di convergenza tra più piattaforme, un ambiente virtuale, dice lo stesso Zuckerberg, tale che “la qualità distintiva del metaverso sarà una sensazione di presenza, come se fossi proprio lì con un’altra persona”.

La nozione di metaverso era nata negli anni ’90, nel pieno fiorire delle tendenze cyberpunk. È infatti in un romanzo (Snowcrash, di Neil Stephenson) che viene introdotta come realtà virtuale nella quale gli individui possono interagire in modo fittizio attraverso propri avatar. Il termine metaverso nasce dalla crasi tra il prefisso meta, che rinvia ad altro, altrove, e il termine universo, e si candida a essere un mondo parallelo, numerico, nel quale possono essere riprodotte dinamiche relazionali, sociali ed economiche del contesto “reale”. Dagli albori digitali dei primi anni ’90 a oggi, lo sviluppo delle tecnologie ha reso i paesaggi letterari di allora una visione a dir poco ingenua e pittoresca. Le esperienze di MMORPG (massively multiplayer on-line role playing game), ad esempio, in cui i giocatori connessi da ogni parte del mondo, in squadre o individualmente, si sfidano in contest articolatissimi, si sono diffuse sempre più diventando un fenomeno su scala globale che conta milioni di adepti. Ma già a metà degli anni 2000 lo sviluppo di Second Life – forse il primo universo virtuale che, senza un’esplicita finalità di gaming, puntava a dar vita a un mondo virtuale completo nel quale gli utenti potevano sviluppare aspetti “digitali” del mondo “reale” – riscosse un notevole successo1 . È molto probabile che Zuckerberg abbia lanciato il restyling della sua azienda per dirottare l’attenzione di opinione pubblica e investitori dagli scandali e dalle critiche che l’hanno travolta negli ultimi anni, legate al modo in cui Facebook abbia condizionato e condizioni i processi democratici e alla tutela della mole spropositata di dati che gestisce dei propri utenti. Tuttavia con il passaggio a Meta nulla cambia per quanto riguarda le criticità del sistema e, anzi, l’ipotesi di una piattaforma globale, capace di includere le funzioni – e il conseguente scambio di dati personali – fino ad oggi articolati su piattaforme differenti, è una prospettiva che meriterebbe una riflessione scevra da pregiudizi ideologici. L’annuncio della nascita di Meta ha invece solleticato i soliti “apocalittici”, che l’hanno interpretata come l’ennesima innovazione che minaccia il vecchio mondo analogico: è ciò che accade in maniera pressoché sistematica a fronte di cambiamenti tecnologici significativi. E altrettanto di frequente accade che l’approccio alle evoluzioni mediali ricordi l’aneddoto del dito e della luna, ovvero che vengano trascurati gli aspetti maggiormente problematici sottesi alle innovazioni: se tanti infatti hanno evocato il rischio che i contatti “umani” siano abbandonati a favore di immersioni virtuali, pochi hanno sollevato la questione del possesso e del trasferimento dei dati nelle mani di un solo soggetto economico e, per di più, operante in un ambito transnazionale, vicino a una forma di extraterritorialità, con tutte le ricadute economiche e politiche del caso. Il focus della questione non è, a nostro avviso, nella possibilità o meno di Zuckerberg di sviluppare una piattaforma virtuale, iperimmersiva, che abbia la capacità

di diffondersi al punto di sostituire le altre piattaforme esistenti dedicate ad attività specifiche (si tenga conto, inoltre, della nostra tendenza a osservare il mondo da un’ottica spiccatamente atlantico-centrica, mentre fenomeni di ugual portata si stanno sviluppando anche in estremo oriente, tra Cina e Corea). La vera posta in gioco non è la nascita di una nuova Second Life, più ricca di opzioni e performante. Ciò che dovrebbe attirare la nostra attenzione è la definizione del confine –

sempre più difficile da individuare – tra mondo cosiddetto reale e realtà virtuale. Se infatti fino a un decennio fa questi spazi potevano essere riconosciuti senza troppe esitazioni, al giorno d’oggi non è più così. Metaverso dovrebbe essere un universo “al di là”, oltre quello materiale, ma gran parte della nostra esistenza è già vissuta da simulacri di noi stessi, dall’immagine di profilo, spesso talmente modificata da filtri da rendere i soggetti poco riconoscibili, al pallino mobile che rappresenta il nostro avanzare sul navigatore satellitare. Esistono poi numerosi applicativi di realtà “enhanced”, aumentata, che attraverso i devices digitali ci forniscono informazioni sull’ambiente circostante. Il ricorso continuo a fonti di informazioni online ha completamente modificato il rapporto con la conoscenza, esternalizzando, di fatto, a banche dati esterne il nostro sapere (in quella che entusiasticamente Pierre Lévy aveva definito, a inizio millennio, Intelligenza collettiva). L’uso continuativo, generalizzato, spesso compulsivo che facciamo dei social network (che non è un fenomeno riguardante solo i più giovani, ma coinvolge gli adulti, differenziandosi su base generazionale solo la preferenza per determinate piattaforme!) interviene da tempo a modificare in modo significativo la nostra rete di relazioni che afferisce al modo “reale”. La costruzione del sé che ognuno realizza, dalle immagini che propone alle opinioni che condivide, si strutturano e modificano negli ambienti digitali con ricadute importanti all’esterno. Il nostro modo di muoverci, di pianificare le giornate è condizionato da strumenti digitali e la maggior parte delle esperienze vissute è fissata sui social network. La presenza in rete richiederebbe maggiore consapevolezza, anche se si tratta di un processo complesso e non sempre disponiamo degli strumenti che sarebbero necessari. Un’ulteriore difficoltà è costituita dal gap generazionale: il modo di rapportarsi agli scenari mediali dei nativi digitali è radicalmente differente rispetto a quello degli adulti. Per i millennials convivere e costruire la propria identità a partire dall’interazione digitale è un assunto scontato e la loro “realtà” è permeata di elementi che afferiscono a piani virtuali dell’esistenza. Negli adulti (intendendo per adulti una compagine ampissima di età differenti ma tutte accomunate dall’aver incontrato i social network in una fase successiva all’adolescenza), le possibilità delle piattaforme digitali si sono palesate come fantasmagorie tecnologiche, fornendo un catalizzatore e un acceleratore di ciò che prima, nel mondo “analogico” richiedeva tempi e impegno enormi, quando non fosse semplicemente irrealizzabile. Entrambi i gruppi si misurano con apparati che hanno in primo piano la dimensione ludica e ricreativa ma che intervengono nella formazione di opinioni e strategie di pensiero. Si pensi ad esempio al fenomeno delle cosiddette “echo chambers”, ovvero alla tendenza degli individui a selezionare contenuti sempre più affini alle proprie convinzioni di partenza, schivando le occasioni di contraddittorio. La nostra vita procede per interazioni intense con software la cui struttura non è né neutra né ingenua2. La maggior parte dei fornitori di servizi mediali (come Spotify, Netflix, Sky…) hanno un’architettura finalizzata a profilarci e a offrirci contenuti quanto più possibile coerenti con i nostri gusti; al tempo stesso però l’interazione soggetto-algoritmo produce effetti e modifica i nostri gusti, rafforzando delle tendenze o escludendone altre attraverso la selezione automatica di contenuti, con strategie molto più mirate e settorializzanti di quelle che, in epoca analogica, erano affidate banalmente al passaparola tra amici. La maggior parte di noi non è vigile e consapevole di come e quanto le nostre azioni in rete abbiano enormi ricadute sul contesto economico in cui viviamo e su noi stessi. La soglia tra spazio pubblico e privato (al pari di quella tra reale e virtuale) si è dissolta, così come lo è la separazione tra tempo produttivo e tempo libero. Nel sistema economico attuale il tempo libero è motore del mercato globale poiché attiva i consumi molto più dei bisogni primari. Se quindi guardiamo alle piattaforme digitali sulle quali quotidianamente operiamo, dobbiamo riconoscere di essere già attivi in un universo digitale, del quale spesso ci sfuggono i confini ma all’interno del quale i nostri dati, le nostre preferenze, le nostre opinioni circolano ben oltre gli orizzonti limitati dei nostri “contatti” e producono ricchezza “altrove”, nel sistema finanziario del capitalismo avanzato il quale, con uno sguardo disincantato, potrebbe essere riconosciuto come il primo e più esteso metaverso operante.

Note

1 Su Second Life aprirono succursali le più grosse aziende mondiali e ci furono candidati politici che svilupparono anche on line le loro campagne. 2 Sarebbe opportuno non perdere di vista le intuizioni di McLuhan, ancora attuali, o gli sviluppi di de Kerckhove sul potenziale “deterministico” delle tecnologie.

Questo contribuito è dedicato a CLAUDIO RICCIO, che avrebbe dovuto esserne il primo lettore e col quale le discussioni erano sempre foriere di nuovi punti di vista.

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