Brainstorming Dicembre 2014

Page 1

+

1


2


3


4


Lungo fu il viaggio in sella al suo destriero Frecciarossa ed all’alba del decimo giorno giunse stremato alle porte del Regno. Era un borgo affollato e vide genti di tutto il mondo conosciuto. Dimandando un po’ qui e chiedendo un po’ là scoprì indove la Torretta fosse e prima che il cielo scurisse, Messer La Laurea arrivò in loco. Fu subito accolto da una voce profonda e misteriosa che, brontolando qualcosa ed avvicinandosi, diventava mano a mano più assordante. Apparve una figura femminile imponente che, con voce ancor più “soave”, esclamò: - Bel passerottolo, ora ci penso io a te!Messer La Laurea, interdetto e confuso, chiese timidamente: -Madonna, la mi scusi.. mi trovo sulla giusta via pe’ la pergamena tanto bramata dai popoli?Rispuosegli: -EHEHEHEH, i cavalieri non fanno che piangere! Ma se tu sorrider vorrai, seguirmi dovrai. E fra tre anni la pergamena otterrai!Così parlò. Ad un certo punto…. Continua tu, oh narratore…

“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una Scuola oscura, ché la dritta via era smarrita” Vi racconterem’ le gesta del cavaliere famoso ai più come “Messer Maicol La Laurea”, il quale, armato di speranza e sete di conoscenza, partì alla volta del Regno Unifi. Ancor nessun conosce ciò che lo spinse a compir tale viaggio; forse la conquista della “pergamena del potere”, custodita nella Torretta di suddetto Regno, con la qual beneficiar di numerosi privilegi, tra cui terreni fertili, una casa per la prole, vivande per ogni stagione dell’anno, insomma…la felicità! “Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo». Rispuosemi: «EHEHEHEH, Belli i mi’ passerotti!!».

5


Che 'genere' di persona sei? - Tentativo di introspezione di qualcuno che di sé non sa neppure la taglia dei pantaloni.

gruppo? Quello di distruggere le ‘femmine’. Adoravo far parte di quella piccola banda anche se poi, di fatto, in classe andavamo tutti d’accordo. Era un gruppo assolutamente chiusissimo e riservato solo ai maschietti, ma l’Andrea - l’Andrea andava bene, era la spia nel territorio nemico.

Il mio primissimo incontro con la definizione di ‘genere’ è avvenuto in tempi relativamente recenti, ma la verità è che si tratta di un concetto sul quale ho iniziato a rimuginar e in modo piuttosto precoce.

Che poi, a posteriori mi chiedo come mai. Sarà stato per il nome? In effetti, non c’erano tante altre bambine con quel nome che da queste parti è tanto tipicamente maschile, e forse la concezione che gli altri avevano di me era più simile a quella che avevano di un bambino piuttosto che di una femminuccia. E sarebbe anche stato plausibile - più di una volta ho dovuto specificare cosa fossi davanti a certi coetanei. "Ah, ma pensavo fossi un maschio!" "Eh, no." Credo. Pensandoci, in quegli anni detestavo quelle sei lettere proprio per questo motivo, sebbene in realtà indugiassi in giochi tipicamente ‘maschili’ più o meno equamente a quelli femminili. Magari adoravo i cartoni con le maghette, è vero, e continuavano a farmi schifo le macchinine, ma avevo una collezione di beyblade (ve le ricordate?) da far invidia a quei pochi maschi che erano in classe con noi. Ed erano quegli stessi maschi gli unici con cui potevo parlare di Pokémon e Digimon, perché a quanto pare nessuna delle mie amichette era interessata a queste cose.

Sorprend entement e precoce, in realtà: ero un fagotto avvolto nel suo grembiulino a quadretti rosa, più o meno nel pieno del suo ultimo anno di scuola materna. A cecce sul seggiolino posteriore della macchina di mamma e con la testolina appoggiata sul finestrino freddissimo e imperlato di goccioline di pioggia, una domanda cruciale iniziò a frullarmi per la testa. "Ma non sarebbe tutto più facile se fossi un bambino?" Allora ero già un piccolo conglomerato di paure, che spaziavano da quella per le vespe a scene di film che mi spaventavano particolarmente. La mia cieca convinzione era che i bambini fossero notevolemente più coraggiosi di quanto io potessi mai credere di essere e, di conseguenza, se il mio grembiulino fosse stato blu invece che rosa forse avrei potuto risparmiarmi tante, tante ansie. Ma poi pensavo che in fondo giocare con le bambole mi piaceva, e che le macchinine non mi avevano mai detto niente di particolare: il mio conflitto inferiore finiva lì, appena prima di mettermi la cartellina sulle spalle e immergermi in quella piccola folla di nette distinzioni azzurre e rosa.

Nome a parte, mi reputavo felice così. Attingevo un po’ da entrambe le parti, con l’incoraggiamento di mamma a scegliere sempre di giocare con ciò che preferissi piuttosto che con ciò che gli altri, o meglio le altre, avevano.

Tuttavia, in effetti, dubito di essere mai stata una bimba particolarmente conforme al mio ‘ruolo’. Erano i primi mesi della prima elementare, la nostra base segreta era la fila di alberi in fondo al cortile, lì dove l’ultima panchina di pietra si nascondeva sotto le aiuole. L’obiettivo del

Era un'ambivalenza che allorasi riduceva solo ai giochi, anche se credo che questo atteggiamento ‘a metà’ sia, in un certo senso, stato una delle principali cause di difficoltà una volta messo piede nelle scuole medie. 6


sentivo ancora abbastanza forte da ammettere determinate conclusioni. Il mio punto di riferimento, a quei tempi, era una persona a cui allora tenevo molto. Mi era stata vicina come una sorella, supportandomi e standomi accanto, in modo sano e costruttivo almeno finché tutt’e due non avevamo alcun tipo di bisogno di esternare cosa sentissimo di essere. Le cose iniziarono a cambiare quando, però, quella persona iniziò (e di questo non gliene faccio certo una colpa) a cercare di essere sempre più conforme al suo genere percepito e al ruolo, mentre io rimanevo nell’incertezza. O almeno, ci rimasi fino a che non si accorse dei miei dubbi, del mio barcollare da una parte e dall’altra, e mi disse qualcosa che in effetti non mi aspettavo. "Insomma, se io sono la femmina, tu devi essere il maschio, no?" A posteriori credo di capire anche troppo bene cosa ci fosse dietro a quell'affermazione, probabilmente mossa da motivi molto più egoistici di quello che pensavo, ma a quei tempi mi fidai.

Per quegli anni mi è stato praticamente impossibile assumere una ‘forma’. Ero ancora nel pieno di questa beata incertezza, nel pieno disinteresse nei confronti di un ruolo femminile convenzionale che avrei, stando al gruppo dei pari, dovuto assumere, anche se non ne avevo nessunissima voglia. Forse proprio più gli altri si aspettavano che io mi decidessi ad essere conforme al mio sesso, attaccandomi infinite volte per il mio non essere né carne né pesce (ironicamente, visto il mio cognome), più io da questa ‘femminilità’ mi allontanavo. Non solo da quella - ho negato la mia identità per una quantità inimmaginabile di tempo. E con ‘identità’ intendo tutto quello che si può intendere con questo termine - io non ero niente. Ero una persona, forse, convinta di essere assolutamente indesiderabile e priva di un vero e proprio posto nel mondo - proprio perché non riuscivo a rispecchiarmi pienamente da nessuna parte. Però, iniziai lentamente a realizzare che forse essere ‘niente’ non era necessariamente un male, una mancanza. E che, anzi, questo 'niente' fosse in realtà la maschera portata da qualcosa che ancora io non conoscevo. In quel periodo, avviandomi verso i primi anni delle scuole superiori, iniziai a scoprire concetti come quelli di ‘genere’, di ‘ruolo’, di ‘stereotipo’ - e per quanto l’impronta dell’insegnamento che ebbi relativamente a questi termini fosse ancora inquadrata nei limiti dell’essere O maschio O femmina, mi bastò questa infarinatura generale per iniziare a maturare una delle idee che nonostante gli anni ancora permane nella mia testa. Ergo, che i binari di genere sostanzialmente una stronzata.

Pendevo dalle sue labbra, era ovvio che mi fidai - di conseguenza, diventai ‘il maschio’. O almeno, lo ero soprattutto nelle sue vicinanze; e non mi dispiaceva essere il ragazzo, al contrario. Vestire panni, sia letterali che figurativi, maschili, spesso e volentieri mi dava benessere e conforto, anche perché le persone continuavano (sebbene meno spesso) a credere che non fossi una ragazza: ricordo bene la scena in cui, mentre una volta aspettavo di entrare in classe, un ragazzo che non conoscevo mi si avvicinò e mi chiese se fossi maschio o femmina. Io mi limitai a scrollare le spalle, divertendomi nel sentirmi addosso una serie di occhiate perplesse mentre quello si allontanava, Tuttavia, altre volte questa imposizione mi faceva sentire a disagio. Dovevo davvero per forza essere sempre il maschio? Non potevo essere io la femmina, ogni tanto? Chiaramente, la risposta era no. Non me l’ha mai detto chiaramente, ma molti dei miei sforzi di mostrare anche quella femminilità che a volte avrei voluto sfoggiare erano smorzati sul nascere, e a poco a poco mi convinsi che essere femmina non avrebbe mai fatto per me. Quindi cos’ero, in quel periodo? Ogni tanto ero

siano

Tuttavia, questo pensiero era ancora lontano dal maturare del tutto, e la mia identità rimase in sospeso per molto, molto tempo. In quel periodo, infatti, continuavo ad essere una persona complessivamente debole. Non ero indipendente - avevo bisogno qualcuno a cui associarmi per poter dire di essere ‘qualcuno’ o ‘qualcosa’, perché per quanto la mia idea sull’identità stesse cambiando, non mi 7


un maschio e andava bene, ma tutte le altre volte, quando 'maschio' non mi sentivo, ero un dubbio. Non ero felice, affatto. Anche perché, in mezzo a questo complessivo disagio, sapevo di essere sempre più vicino alla verità sul mio essere ma, pur di non deludere chi aveva aspettative su di me, non ero in grado di esprimere ciò che sentivo. E la cosa peggiore è che non era solo un mio timore:

momenti in cui tutto questo mi sembra solo una stupidaggine, un capriccio, un’inutile voglia di anticonformismo per sfuggire a dei binari che hanno condotto la vita di qualsiasi specie vivente per millenni, anche sotto le pressioni di tutti coloro che non considerano la fluidità di genere come un'identità valida e reale. Sono i momenti in cui mi basta la minima cosa per convincermi di star ‘credendo troppo’ a tutto questo, soprattutto per quanto riguarda il mio modo di esprimermi. Non è facile, ma cerco sempre di eliminare qualsiasi riferimento di genere quando parlo della mia persona, anche a costo di suonare fastidiosamente ridondante; ma nella vita reale è anche troppo facile scivolare nei termini in cui gli altri si sono riferiti a me da tutta una vita, e inizio a chiedermi se valga davvero la pena forzare una lingua che non riconosce il bisogno di una neutralità che funga da campo libero al posto di tutte le omissioni, asterischi e chioccioline a cui altri ma non io preferiscono ricorrere in queste situazioni.

"Io non penso di sentirmi né maschio né femmina." "Come sarebbe a dire? Scusa, se non ti senti femmina fatti seguire da qualcuno per iniziare a prendere ormoni o cose del genere." "No, ecco, è più complicato, io non mi sento neanche completamente maschio, appunto. Mi piace scambiarmi tra le due cose, ma credo di non essere neanche nessuna delle due." "Mah. O sei l’una o sei l’altra cosa, NON PUOI stare a metà." Prima e ultima volta che ho parlato con quella persona di questo argomento. Come previsto, non mi era concesso esprimermi, e di diretta conseguenza iniziai a sfogarmi su tutto ciò che non era reale. È un po' sciocco, in effetti, ma si può riscontrare facilmente quando si considerano i personaggi di finzione, siano essi di qualsiasi media, a cui mi affezionai in quel periodo: sono tutti individui contesi in qualche tipo di conflitto con la propria identità, incerti sul cosa siano e sul cosa dovrebbero essere.

Tutte le volte che mi succede, però, cerco di ricordarmi le parole che mi disse una volta la mia ex terapeuta. "Non penso di poter essere né definitivamente maschio né femmina. Cosa devo fare?" "Perché devi essere per forza maschio o femmina? Perché non puoi essere Andrea?" Più facile a dirsi che a farsi, specie quando nemmeno Andrea sa chi diavolo sia. Ma forse il punto è proprio questo - Andrea può essere tutto quello che sente. Ed è ciò che ho intenzione di fare, sentendomi in diritto sia di vestirmi in modo carino e di truccarmi il viso, sia anche di nascondere le mie fattezze e tenere i capelli corti, cortissimi. Ma anche di concedermi di crogiolarmi nel mezzo, e di non rispecchiare gli stereotipi di genere di nessuno. Magari è solo una fase, chi lo sa? Magari prima o poi deciderò da che parte stare, capirò che per me è più bello e più facile vivere in un modo rispetto che in un altro, ma per adesso non sento davvero il bisogno di decidere definitivamente qualcosa di così importante.

Alla fine, grazie al supporto di altri, ho allontanato quella persona dalla mia vita e l’importanza del suo parere è diventata molto relativa. Ho rispolverato tutte quelle idee che avevo messo in stand-by, comprendendo ancora che l’incertezza, no, la fluidità, l’essere tutto, qualcosa o niente, non è un male. Ho scoperto che nel mondo ci sono altre persone che sentono quello che sento io, ho scoperto di non essere una persona ‘rotta’, come una specie di semaforo inceppato che cambia ad intermittenza - ho realizzato di non dover rendere di conto a nessuno per ciò che voglio essere, niente mi deve fermare dall’esprimere la mia identità o quella che per ora riconosco come tale. Anche se i danni delle 'sue' imposizioni, talvolta, ancora si fanno sentire. Ci sono quei

Specie quando ancora non capisco neanche le cose più basilari, tipo se sia la taglia riportata sull'etichetta dei miei jeans da donna quella a cui devo dar retta o quella su quelli da uomo.

8


subisco gli effetti. All'attivo mi ritrovo davvero pochi esami e solo a breve provero a varcare la soglia di meta percorso. Certo, tante cause si ritrovano nell'essermi promesso una pausa che in realta si e rivelata essere una corsa in altre cose, come la solidarieta politica ai compagni di lotte e di venture, o come gli affetti in cui non ho potuto oppure voluto investire ma a cui ho comunque dedicato tempo considerevole. E stato un periodo umiliante, su tutti addormentarsi alle lezioni non perche poco interessato, ma troppo, perche a un certo punto il cervello mi partiva e cominciava nel suo viaggio di analogie... oniriche. Il massimo ci fu con un corso di matematica in cui eravamo in due a seguire e meta classe si addormentava. Ringrazio la delicatezza dei compagni tutti di tenere per se e solo tra di loro quei facili commentini sulla condizione di un uomo perennemente in conflitto tra il fare e il riposare.

Uno dei cambiamenti piu radicali che il passaggio all'universita aveva comportato nei suoi primi periodi e stato il rito della colazione, gentilmente offerto dal padre di famiglia nel tentativo che quel rito diventasse collante tra i suoi componenti. Ne riusciva un pasto copioso di cereali, ricolma la tazza ben oltre la soglia, come quei vulcani che spuntano dagli oceani. Immerso in questa liturgia dell'emersione del cereale, per tanto tempo ho trascurato che il bianco fosse marrone. In fondo a me era solo una questione di gusti. “Ce lo metto il caffe?” fu una domanda che dopo pochissimo chiamo una risposta implicita. La nozione di avere avanti una tazza di caffellatte si perse alle preoccupazioni ritardatarie di ogni mattina. Ecco quando si dice il potere del default, e sempre stato così.

Ripresi col caffe per uscire da questo inferno viola di mortificazioni. Un suo effetto l'ha avuto ma molto meno di quanto sperato. Il mio organismo subiva gia gli effetti dell'assuefazione per cui non e che questa bevanda avesse tutti questi poteri eccezionali. Da quand'era diventata una seconda possibilita divenne un'abitudine saltuaria e aperiodica, una sorta di autoconvincimento che mi aiutasse a rimanere sveglio. Bene, gli ultimi due giorni sono stati avvilenti. Un finesettimana, quindi privo di lezioni (ormai non me ne vergogno nemmeno piu), tutto nello spazio studio alla mensa di Sant'Apollonia. Come ho passato il tempo? Per la stragrande maggioranza a dormire in posizioni scomodissime sulle mie stesse braccia, tale da lasciare il segno di una testa pesante e non far passare il sangue alle appendici: perfino le mani addormentate!

D'un tratto a meta triennale mi decisi di smetterla col caffe essendo sostanza stimolante e sentendomi imbrogliare sui miei tempi naturali. Da lì in poi fu uno strazio proseguire gli studi, anche successivamente alla laurea. Presi una botta pesante superiore ai limiti consentiti subito dopo la laurea triennale. Preparai il primo esame della magistrale con un compagno di studi infaticabile, chiusi le ferie invernali nel suo bunker personale. Lì il caffe sgorgava dai thermos e la preparazione dell'esame era militare, come se fosse l'ultimo. Ci spesi così tante energie che ancora ne 9


Nei miei viaggi spesso troppo inerenti all'argomento che ascolto o leggo (riesco ad anticipare quello che sento o vedo) sto fabbricando il mio sogno. Il mio sogno e che tutti abbiamo i propri tempi nel fare le proprie cose, e che non esista una imposizione alta e tragica per cui bisogna adeguarsi allo standard. Il mito della produttivita e della velocita ci ha spappolato il cervello, bisogna fare tutto in fretta e al meglio altrimenti siamo fuori mercato. Beh, probabilmente il mercato e di fuori se una popolazione e costretta a drogarsi per sostenere i suoi ritmi. Mannaggia il sistema e tutti i suoi servi. P.S. Tutti adesso si chiederanno come faccio a fare tante cose. E solo una questione di allenamento, di quello fatto nella spensierata vita precedente senza caffe e mostra talvolta il suo barlume. Come quando scrivi un post alle quattro di notte con un ndv, un lab, un dip, un flirt e un odg alla cds Salvemini a fine serata. AGGIORNAMENTO In Nucleo ci sono stato molto piu del dovuto, non abbiamo potuto cominciare in tempo per vicissitudini straordinarie che hanno fatto tardare i membri e il numero legale. Una persona chiave che aveva condotto il lavoro sull'attivazione dei corsi di dottorato (forse l'unico punto su cui valeva esserci) ha fatto ancora piu tardi. Salta cosĂŹ ogni possibilita di laboratorio di EPR. Arrivo al Polo Scientifico di Sesto, incontro gli altri, si comincia a parlare in emergenza del Consiglio di Dipartimento successivo, MA mi accorgo di aver dimenticato l'alimentatore del portatile. Salta cosĂŹ ogni possibilita di Consiglio (forse poco male per com'era stato organizzato) e di flirt (male a prescindere). Saluti.

10


La legna ardeva nel camino; il tepore di quel fuoco era manna, era come essere stati senzatetto per anni, decenni forse, e poi d’improvviso trovarsi al coperto, al riparo. Era inverno, ma non nei loro cuori. E. e P. si stavano abbracciando, rincuorati dalla consapevolezza che, nonostante tutto, erano in due, lei per lui e lui per lei. Erano innamorati, come quella volta in spiaggia, quando si erano guardati per la prima volta. Un colpo di fulmine mica da ridere. Come studiare per mesi su di un manuale senza raccapezzarci niente e poi, d’improvviso, scoprirne un altro chiarissimo, completo. Come rassegnarsi, accontentarsi per un lavoro qualunque e poi essere chiamati per fare quello che hai sempre sognato. - Sei tutto quello che mi serve – sussurrò E., e la fiamma del caminetto era ancora alta, la resina scendeva a gocce, come quelle che da bambino in macchina P. osservava attonito al finestrino, e ce n’era sempre una che apparentemente sembrava più veloce, era quella su cui puntava nell’eterna gara tra gocce – vincerà questa – diceva a sua madre, e poi all’ultimo secondo ne sopraggiungeva un’altra, e poi un’altra ancora. A quel gioco P. non aveva mai vinto. E. e P. abbracciati, davanti al camino, sul divano, in sottofondo la musica di Thelonius Monk, alle loro spalle due finestre affacciate sulla notte, la luna sola a osservarli. “Suppertime I’m feeling sad, but it really gets bad ‘round midnight” cantava Miles Davis in sottofondo, ma per loro sembrava una sentenza talmente lontana e definitiva, così divergente dalle loro sensazioni. Si erano conosciuti 14 mesi prima, lo schema era stato addirittura banale. Lui guarda lei, lei finge disinteresse, abbassa lo sguardo, poi lo rialza; lei guarda lui, lui mantiene lo sguardo, lei abbozza un sorriso. Dieci minuti dopo, a separarli c’erano solo due birre su di un tavolino. Si videro tutti i giorni per un mese, in quella spiaggia. - Mi manca la sabbia, mi manca l’odore del mare – E. tese l’orecchio a quella frase, perché

era esattamente quello che stava pensando. Era inverno, e la fiamma ardeva ora meno possente sul camino, la brace rossa come il sole di un tramonto meraviglioso, come quello che li aveva sbirciati quando fecero l’amore per la prima volta. La stanza era un quadrato perfetto, a vederla dal vivo quella scena sembrava dipinta. Il fuoco di lato, a dare luce e vita ad un olio su tela, i due amanti abbracciati e solo loro, dall’altra parte gli occhi della casa, le due uniche aperture sul mondo esterno. E il pittore che l’avesse dipinta avrebbe potuto essere un fiammingo, tanto la maniacalità in quella scena era indispensabile, surreale a tratti. Ma c’erano loro, in carne e ossa, solo loro e quel vinile che girava come gira un carillon. E poi, improvvisamente, a rompere quella perfezione formale, il fragore di un legno che scivola via dagli altri, a dire “mi sono stufato di stare qui con voi, in balia del vostro cattivo odore, me ne vado” e bum. Qual è il limite preciso in cui un pezzo di ramo è così bruciato da rompersi, da voler fuggire dal suo destino ineluttabile? - Dove arriveremo, insieme? - le disse P. - Non lo so, rispose E. - Faremo come quel legno, prima o poi ci sarà un limite da non oltrepassare, non riusciremo più ad andare oltre. - Non credo. Mi vuoi sposare? Una soffice lacrima rigò il viso di P., forse era una di quelle gocce per cui aveva tifato tanti anni prima, che voleva la sua rivincita, “voglio vincere ora, ora che sono partita con tanto vantaggio”, sembrava dire. Un volto rigato da una lacrima è come un trailer ben fatto. Sai che ce ne saranno altre, di lacrime, di scene simili, ma sai anche che è tutto condensato lì. È un momento perfetto, in sé. - Non posso sposarti, le rispose P., ma E. aveva già capito tutto, e si era alzata, pure abbozzando un sorriso strozzato da altre lacrime, le sue, che erano arrivate copiose, e alla fine avevano vinto di nuovo loro, non quelle di P. La legna non ardeva più, l’incantesimo si era rotto, e anche ‘Round Midnight era finita. Era inverno, anche nei loro cuori.

11


All'inizio era un piccolo essere, non assomigliava agli essere umani di oggi, più che altro era una piccola ombra, naturale, pura, era la natura che cercava di assumere le forme di un essere. La vita scorreva bene, la famiglia era bella, ci si capiva, si viveva in fiducia e onestà, la piccola ombra diceva tutto alla mamma, tutto quello che le accadeva. L'ombra crebbe così come tutte le altre piccole ombre. Si cominciarono a conoscere, e così, realizzarono che fra di loro non potevano essere come erano con le loro mamme ombre. Cominciarono a cambiare all'esterno, ma come spesso accade, cambiando una sola carta il castello cambia forma, e cosi di lì a poco, anche con la mamma ombra, non poterono più essere quello che erano, anche perché ormai non lo erano più, o almeno non più solo in quel modo. L'apparenza cominciò a prendere forma, e davanti a loro si crearono delle proiezioni, delle figure del tutto simili agli essere umani odierni, e le piccole ombre stavano dietro ad essi, muovendoli e facendoli interagire fra loro con dei fili, un po' come fanno i burattinai. Gli anni passarono insieme alle ere e, da un giorno all'altro, quelle proiezioni cominciarono ad essere talmente reali da assumere vita e prendere controllo. Intanto quelle piccole ombre furono incatenate dai nuovi uomini e portate dietro come schiavi. Le ombre da piccoli esseri di natura pura e buona, fatti di istinti e pulsioni cominciarono a sentirsi oppressi e cominciarono a crescere e a lottare per avere sprazzi di libertà nella realtà

ormai vista solo con gli occhi dell'umano. Il potere crebbe e cosi le catene, cosi la piccola ombra divenne un mostro, una bestia. Era il mondo dell'uomo. Qualcosa spinse quell'uomo a giocare. Qualcosa lo spinse a fingere per dargli la possibilità di essere sé stesso. L’uomo era un burattinaio di bestie e, con una di esse, incatenata, camminava sotto un cielo senza luce. La bestia, costretta dalle catene, seguiva il suo padrone. Abbastanza lontano da non far sentire il suo fiato caldo sul collo dell'uomo, abbastanza vicino da sentirsi vicendevolmente sogghignare. Solo quando il cielo si schiarì, solo quando la luce rifletté le loro ombre sul terreno, solo allora l'uomo si accorse, osservandole attentamente, dei fili che dal suo corpo partivano e che la bestia giostrava. Il burattinaio riscopertosi burattino, tagliò i fili e poté raccontarsi di nuovo del suo ruolo senza notare che due fili, nell'ombra, erano già ricresciuti.

12


Io che sono l’ultimo, parlerò al vuoto in ascolto…

aggiungeva la strana, indefinibile sensazione d’un orrendo pericolo fisico. Un pericolo enorme, che gravava su tutto, come lo si può concepire negli incubi più angosciosi. Ricordo che la gente andava in giro con le facce pallide e preoccupate, bisbigliando avvertimenti e profezie che nessuno osava poi ripetere consapevolmente o soltanto ammettere di aver udito. La terra era oppressa da un mostruoso senso di colpa e dagli abissi fra le stelle soffiavano gelide le correnti che facevano rabbrividire gli uomini nei luoghi bui e solitari. Il corso delle stagioni aveva subito un’alterazione catastrofica: il tepore dell’autunno indugiava ad andarsene e sentivamo che il mondo, forse l’universo, si era sottratto al controllo degli dei o delle forza conosciute ed era passato sotto il dominio di entità inimmaginabili” Non era previsto che ci allontanassimo dalla nostra placida isola d’ignoranza Non era permesso spingerci in mezzo a neri mari d’infinito, troppo lontano. Mi voltai e vidi la mia corsa proiettarsi nella foresta come se una luce, dalla parte opposta, illuminasse i miei movimenti. Respiravo! Comandai la mente di inviarmi saliva. Dovevo scrostare la lingua dal palato, cui era rimasta “stalattitica”. Non c’erano luci! Eppure i miei passi echeggiavano per chilometri, allungandosi, in lontananza, fin sulla cime degli alberi, fino alle Pleiadi. Nepente e cicuta mando’ il cervello in bocca, e sentii l’amaro morte insidiarsi nei denti. Odorai la morte annidarsi nei fori delle carie e spaccarmi la bocca in due per saziare la paura. Non c’erano luci! Eppure la cacofonia dei passi invertiva la rappresentazione delle ombre come se fosse una fonte di buio a illuminarmi, distendendo uno spettro di grigi chiaroscuro per sagomare la prospettiva del mio corpo all’infinito… Cacciai un urlo. Il vento lo portò fino al mare, fracassandolo negli scogli.

Anche se la via meno angusta era poco distante, mi infilai negli arbusti di fronte. Evitai di dare tempo al cervello di presagire cosa ci sarebbe stato oltre. Oltre quello che già era difficile vedere. Presi aria e la sentii sprofondare, pesante. Aveva il sapore del sale. La cassa toracica aveva assunto le sembianze di un cilindro trasparente che dava modo di vedere il movimento “sbisciolante” dei polmoni. Questi facevano oscillare i bronchi, strattonandoli come i capelli di due donne durante una rissa. La respirazione si beffava dei comandi imposti dal cervello e danzava sulle note del cuore: Ero imbastito di ossigeno più di quanto ne avessi bisogno. Ero drogato. E i miei organi pompavano al massimo, per farmi fuggire, scomparire, ma la sensazione di stare fermo ammutoliva il trambusto delle sterpaglie che spezzavo mentre correvo. L’affanno mi soffocava…mentre l’intreccio dei rami rallentava lo scatto e lacerava la speranza di non essere raggiunto. Intanto le bracciate, che accompagnavano la corsa, oscillavano come le bielle di una nave prima dello schianto: vedevo le mani, ora irrigidirsi per forare il buio, ora penzolare dall’avambraccio per recuperare e sostenere il bilanciamento del corpo livido. Le mie emozioni erano affogate nel colore della pineta, che sanguinava sulla mia faccia… E avevo il buio controcorrente e l’oscurità che mi pedinava pedissequamente. Non ricordo se ero vestito. E’ importante? Mi sentivo nudo nella rincorsa delle ginocchia che, per picchiare lo spazio, abbigliavano la foresta con i brandelli della mia carne. “Non ricordo quando tutto ebbe inizio, forse mesi fa. La tensione era al massimo, spaventosa : a un periodo di sconvolgimenti politici e sociali si

13


Ora devo essere molto attento a scegliere bene le parole: D’un tratto fiutai nell’anima della foresta un timore reverenziale. I miei occhi si tinsero di ghiaccio e l’imprevisto collimò con l’incredibile… Notai le ombre del mio corpo addensarsi prima in un nugolo di demoni, poi ramificarsi, togliendomi il tempo di pensare che davanti alle ombre…erano le mie ossa che si modificavano, trascendendo qualunque forma più orrida del pensiero. L’orrore, misericordioso, anestetizzò il dolore e l’angoscia delle conseguenze, ma paralizzò la mia memoria in un ritratto di me che non era più umano. Vidi l’abietta degradazione della nostra natura, l’anatomia dell’orrore, la fisiologia della paura, la precisione delle linee e le proporzioni che scaturiscono dalle pulsioni latenti, la memoria ancestrale del terrore, vidi il senso sopito dell’alienazione risvegliato dai contrasti del colore e dagli effetti di luce. Goya stesso aveva trasfuso, con soggezione, la quintessenza dell’inferno in quel ritratto. “Ora avevo l’aspetto di quelle potenze o immani entità di cui si può solo immaginare una forma di sopravvivenza come residuo di un’età remota in cui… la coscienza si manifesta con aspetti e forme da lungo tempo ritrattesi davanti all’avanzante marea dell’uomo… forme di cui solo la poesia e la leggenda hanno conservato memoria, battezzandole col nome di dèi, mostri ed esseri mitici di ogni specie…” Mi sentii afferrare da un terrore cieco che paralizzò tutti i miei organi e non mi abbandonò finchè non riposai in pace; poi palpai le tenebre farsi luce: si trattava di una qualità positiva del buio perchè oscurava il paesaggio, bruciando la distanza tra la foresta e il mare. Cosi nero. Sembrava che la notte dovesse traboccare all’esterno dopo milioni di anni di prigionia, e in effetti anche la luna fu oscurata da ali nere e membranose, il cielo rimpicciolì fino a un punto e acquistò un aspetto malsano. Conobbi l’odio, verso me stesso. Volevo farlo smettere. Tambureggiava claudicante e forastico di una sorgente. Basta! Provai a piangere, ma i muscoli del viso si crettarono cadendo nell’oblio.

Come si piangeva? Basta! Non avevo il controllo del mio corpo e il suono si propagava nel mio turbamento come le vibrazioni nell’acqua. Inarcai la schiena come per spezzarla. Più mi agitavo e più sentivo le mie viscere partorire nuove pulsazioni e sconvolgimenti che fratturavano la mia estetica in un mosaico conquistato, dilapidato e minato nella sua integrità. Solo un poeta o un folle avrebbe potuto descrivere i suoni che salmodiavano in coro fuori e dentro di me. Mi accasciai nell’anomalia dell’istante, coperto di avversione, piano piano sfiducia, piano piano paura. E’ sbagliato credere che l’orrore si manifesti inevitabilmente al buio o nella solitudine: l’orrore è dentro, sempre. Al contrario di come avevo pattuito con l’aspettativa, appena toccai terra, la mia faccia non si tumefece. Eppure caddi forte, senza speranza, senza controllo di quello che rimaneva del mio corpo. Smisi di respirare. La botta aveva leso la mia forma. Sentivo le carezze delle onde che mi travolgevano tentando di portarmi via, di togliermi alla vita come il veleno si estirpa da una ferita. Era ancora più buio. Mi affidavo al sesto senso per ricreare la dimensione dello spazio e pregavo la memoria di aiutarmi a ritrovare qualunque effimero a cui appigliarmi per realizzare chi dovevo incolpare. Con gli ultimi aneliti riconoscibili, tossii fuori l’acqua che mi stava pian piano annegando. Detti modo alla bocca di spalancarsi e respirare, per l’ultima volta, il sapore della vita. Quando richiusi la mandibola colsi un’anomalia nell’occlusione dentale tutt’altro che impercettibile. Ero già morto? Percepii lo spostamento e la presenza di qualcosa tra i denti che rendeva la mia lingua inquieta come la coda di un gatto indisposto. Deglutii ancora. Trattenni il respiro e quando l’ossigeno inondò la bocca sentii il sapore. Non era sabbia, era la Medicina: Paroxetina. per fortuna esiste un balsamo che funziona bene quanto l’odio, ed e’ la capacità di dimenticare; adesso il mio presente si salva soltanto perché è troppo stupido per interrogare il passato da vicino. 14


di quelle che brucano imperterrite l'erba di questa zona, inquinata da inceneritore e aeroplani. Collegare le pecore al carrello e percorrere quindi il tragitto con questa sorta di biga. Dovrei brevettarla e chiamarla "Beega", e sicuramente un progetto piu concreto del bike-sharing proposto da qualcuno, accolto con entusiasmo da tutti e realizzato da nessuno. Mentre divago tra questi miei pensieri con una certa pindaricita e il mio accompagnatore chiacchiera accontentandosi del mio annuire meccanico come risposta arriviamo al Blocco Aule. L'intensita della pioggia aumenta. Spostamento d'aria, boato, decolla un aereo, Madrid o Bruxelles? Chiedo «Bruxelles?», «Si, CharleroiBruxelles. Muoviamoci che e tardi.» mi risponde. Da quando hanno incominciato ad intensificarsi i voli, al Polo e nata l'abitudine di impararsi l'orario degli aerei. Alcune persone li sanno tutti, ma molti decollano o atterrano allo stesso orario per tutto il semestre, quindi dopo un po' li riconosce chiunque da queste parti. Come se avessimo bisogno di ulteriori motivi per farci etichettare come sfigati. Ci affrettiamo verso l'aula. Arriviamo. Entriamo. E piena. Ma non piena che sono rimasti solo i posti sfigati nell'ultima fila con il sedile rotto accanto a quello che puzza, piena che anche la parete in fondo e gia un coacervo di studenti in piedi pronti a prendere appunti. Ormai ci sono quelli che pur di riuscire ad avere un posto a sedere arrivano all'apertura e si mettono a seguire lezioni di altri corsi di laurea. Dovrei fare così anche io e poi vendere il mio posto al miglior offerente. Con una prima fila potrei fare tranquillamente 30-40 €. Il mio compagno di viaggio si accaparra un posto in

E dicembre, e come buona parte delle mattine di tutto questo 2020 mi sveglio con l'aereo delle 8:50 da Londra che atterra. Come se gia il risveglio non fosse un processo abbastanza traumatico. Mi alzo. Mi faccio una doccia. Mi asciugo. Rombo di aeroplano che se ne va verso Francoforte. Faccio una parca colazione ed esco. Saluto altri inquilini della Casa dello Studente di Val di Rose e mi dirigo verso il Blocco Aule per seguire le lezioni. Pioviscola e sulla strada mi faccio dare un passaggio sotto l'ombrello da un mio compagno di corso. Lo incontro tutte le mattine che cammina dalla fermata del treno al Polo. Comincia a lamentarsi per le scarpinate che deve affrontare e per i ritardi. Le istituzioni dicono sempre che miglioreranno anche i trasporti. "Anche". Come se, pur non riuscendo a migliorare i trasporti stessero migliorando altro. Ad ora, visto che l'ATAF ha dovuto creare una moltitudine di corse per collegare l'aeroporto col resto della citta, il collegamento via bus da queste parti e solo diminuito drasticamente in nome della razionalizzazione. Razionalizzazione. Termine che ormai viene usato come se il suo etimo fosse "razionare" piuttosto che "razionale". A mio avviso il modo migliore per arrivare dalla ferrovia al Polo rimane rubare un carrello della spesa all'IperCoop e prendere in prestito due pecore 15


piedi tra i giubbotti bagnati dell'attaccapanni. Io appunti in piedi non riesco a prenderli, così decido di andare a studiare altrove. Guido Non tento nemmeno di cercare un posto al piano terra, tra aule inagibili a causa delle infiltrazioni d'acqua o del rumore e corsi a volte si litigano le aule perfino i docenti. Vista la necessita di aule avevano convertito ad aula da lezione pure quella che era l'aula studenti, nella quale, a detta loro, vi erano delle “gravissime difformita”. Salgo al primo piano, in biblioteca, che gia mi girano. Tremano le finestre, rombo di aereo. Madrid o Berlino? Aspetta, Madrid e alle 11:20, e sicuramente Berlino delle 9:40. Noi non abbiamo le campane, a scandire le ore da queste parti sono gli aeroplani. Arrivo alla reception, entro in una delle aula studio e sussurro una bestemmia. Tutto pieno. Pieno zeppo! Hanno trasferito le biblioteche di tutte le aree scientifiche a Sesto. Così oltre ad aver tolto testi a quei poveracci che studiano scienze in centro, ci hanno riempito di libri. Oltre ad avergli tolto un luogo dove studiare gli hanno costretti a venire fino a qui a consultare manuali e ricerche con il piacevole sottofondo di gocce, che cadono dal soffitto e vengono raccolte in secchi, intermezzate da boati di velivoli in atterraggio. In pratica li hanno mandati qui controvoglia a fottere il posto a tutti coloro che come me che non riescono a svegliarsi. Le solite guerre tra poveri. D'altronde in cosa cazzo speravo? Anche quì mezzo piano e inagibile. Con tutta l'acqua che gronda dal soffitto e gia tanto che i libri non siano usati come sacchi di sabbia per arginare le infiltrazioni. Meta della biblioteca sembra una lettiera per gatti per tutta la segatura che c'e in terra, e per prendere un libro di analisi matematica devo fare lo slalom tra i secchi. Esco dalla biblioteca. Che fare? Potrei andare a parlare della tesi che devo cominciare a scrivere col mio relatore. Ma quando hanno costruito l'aeroporto alcuni dipartimenti sono stati spostati. Certo l'idea era di spostarli in blocco insieme agli edifici per gli studenti, ma sapevano tutti benissimo che i soldi non sarebbero bastati. E pensare che la liquidita ci esce letteralmente dalle pareti. Il problema e stato sorvolato come ora il Polo dagli aeroplani e quindi, per arrivare all'ufficio del mio relatore, in bus, ci metterei due ore e finirei per cedere alla mia onicofagia. Esco dalla biblioteca, arrivo nell'atrio. Ormai siamo

passati da pioggia a diluvio, si e pure alzato il vento. Frastuono, stridio, aereo che atterra. Appena arrivato da Copenaghen Kastrup. Una domanda sorge spontanea: adesso che cazzo faccio? Intanto frego un ombrello all'ingresso ed esco sotto la pioggia battente. E proprio un bell'ombrello, mi riprometto di riportarlo il giorno seguente. Potrei tornare a casa a studiare, ma questa mattinata mi ha fatto passare completamente la voglia. Potrei andare a fare un po' di esercizio motorio, ma il Centro Universitario Sportivo a Sesto l'hanno chiuso quando si sono resi conto che nessuno voleva piu fare attivita sportive tra inceneritori, aeroplani e traffico, in una zona con incidenza di tumori di vario genere 5 volte superiore alla media. E pensare che dicevano di aver trovato i fondi necessari a mantenere aperta almeno per un anno la piscina, costruita circa 10 anni fa e mai resa disponibile al pubblico. Di tornare alla casa dello studente a fare altro nell'attesa che mi si formi questo fottutissimo tumore non se ne parla. Tanto a casa da mangiare non ho nulla, la mensa non c'e, e vista la distanza dall'aeroporto non ci sara mai, le convenzioni non ci sono piu soldi per sostenerle, quindi dovrei comunque procacciarmi del cibo a basso costo. M'incammino. Destinazione ignota. Tanto ovunque voglia andare devo aspettare quaranta minuti il bus. La cosa migliore successa nella mattinata e stata fregare quest'ottimo ombrello, magari me lo tengo. Arrivo alla fermata del bus. Rullaggio, motori che danno gas, strepitio. Beati loro che stanno andando ad Amsterdam. Una citta che e un costante Tour de France: un sacco di gente drogata che va in bici. Almeno loro per farsi una cannetta pagano le tasse invece che il pizzo. Nell'attesa vedo passare molte persone, docenti, studenti, ricercatori, lavoratori della biblioteca o della portineria. Nessuno sembra contento di essere qui. Certo potrebbe essere anche che sta diluviando a vento, ma da quando c'e l'aeroporto ad un centinaio di metri, tutti hanno cercato di andarsene. Chi e rimasto e sfavato quasi tutto il tempo. Anche perche col fatto che non ci vuole venire nessuno, le prospettive di ricerca, lavoro e quant'altro si sono ridotte drasticamente, per non parlare degli investimenti. Attendo. Mi annoio. Divago. Penso che prima di fare questo aeroporto avevano detto che sarebbe stato conciliabile 16


con la vita di questo posto, che anzi avrebbe aiutato al suo sviluppo, collegandolo col mondo e portandolo ancora di piu a diventare avanguardia della tecnologia e della ricerca. Penso che quando gli e stato fatto notare l'evidenza, ovvero la totale incompatibilita delle due cose hanno semplicemente affermato cose false o non inerenti cercando di mantenere la faccia verso il proprio pubblico, o meglio elettorato. Penso che forse e stato fatto poco e poi penso che anche a fare di piu probabilmente sarebbe stato tutto inutile. Penso che dopo l'indignazione non e rimasto nulla se non l'accettazione di questa convivenza forzata, come fosse inevitabile. Penso che erano stati promessi posti di lavoro. Beh effettivamente questa promessa e stata mantenuta, se i ricercatori del Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare avessero voluto rimanere a Firenze potevano lavorare al metal detector. Penso: fanculo, all'aeroporto stanno ancora assumendo gente, domani faccio la rinuncia agli studi e la domanda di assunzione, almeno mi sento gli aerei senza rischiare di prendere un tumore, e ho soldi per mangiare. Non faccio in tempo ad analizzare pro e contro dell'idea che uno stridio acuto mi distoglie dalle mie elucubrazioni. Eccolo, questo e quello che arriva da Madrid. Continua stridere. Strano. Mi giro e vedo l'aeroplano che arriva da Madrid sfondare la recinzione e piantare un'ala nel primo piano del del Blocco Aule. Per fortuna non ho trovato posto in biblioteca. Dopo un iniziale momento di afasia mi riprendo. La prima cosa che penso e: ora esplode. Retaggio dei troppi film-telefilm Hollywoodiani visti, che viene puntualmente smentito ogni secondo che passa senza boati e fiamme. Vedo in lontananza un visibilio di persone che corrono in modo frenetico. Potrei andare ad aiutare pure io, ma la zona e gia gremita di gente che probabilmente e piu d'intralcio che d'aiuto. E poi, come per l'aeroporto, ormai il danno e fatto, non c'e nulla che possa fare. Ormai pero il bus non passera piu, e l'aereo non esplodera, tanto vale andare a vedere. Mi avvicino con cautela e penso: speriamo di non incontrare il proprietario dell'ombrello.

dei ghiacciai la neve fioccosa caduta presenta un’agglutinazione progressiva che la trasforma gradualmente in granelli nevosi consistenti, detti Firn, che, trasformandosi a loro volta, danno luogo al ghiaccio bolloso opaco del ghiacciaio. Un po' come noi che talvolta da essere un individuo-fiocco, singolo, unico, peculiare, irripetibile, attraverso un processo di omologazione e disinteresse verso tutto cio che, ad una prima e grossolana analisi, sembra non riguardarci personalmente, ci convinciamo che non ci sia nulla che valga la pena fare per gli altri o per la propria situazione, ci omologhiamo verso il firn, per diventare infine una massa quasi indistinta, bollosa e opaca. Pensare che si possa sempre tornare indietro sarebbe presuntuoso, nel caso del firn poi significherebbe ignorare il secondo principio della termodinamica. Lo stesso vale anche per noi, con la fondamentale differenza che, finche siamo firn, fintanto che non siamo spariti nella massa del ghiacciaio, abbiamo ancora la possibilita di farlo, di provare a tornare indietro, di ricominciare ad interessarci e cercare di evitare che la conclusione per tutti e per tutto sia la fredda accettazione della convinzione di non poter far nulla, se non diventare bollosi e opachi. Ora siamo un Unifirn, cosa diventeremo dipende da tutti.

Il firn e un tipo di neve allo stato granulare. La firnificazione e definita come il fenomeno per cui nelle parti piu elevate dei bacini collettori 17


Racconti brevi di una storia lunga. Oggi non vi racconterò tutta la storia, ma vi narrerò uno dei momenti più significativi di due personaggi: "John e Sasha".

Trasformate la mia storia in una vostra storia, cercate di immaginarvi due persone, immaginatevi un lui e una lei, cercate di dar loro un viso, una voce, un tono di voce, un atteggiamento. Cercate di dar loro vita, di creare quello che, purtroppo, io non sono riuscito a dargli con la scrittura.

Il primo incontro fra i due fu molto strano. Lui era sbronzo e non si ricordava di lei. Lei era una barista offesa dalla dimenticanza e in quanto donna arrabbiata. Si è soliti sentir dire "da cosa nasce cosa”, e così anche in quel caso, fra una birra e una vodka, nacque un'amicizia, ma quella fu un'altra storia, già raccontata, già vissuta tra manipolazioni, falsi ricordi, alcool e scommesse, qualcosa di certamente più interessante del pezzo che segue. Oggi parlerò di un momento fra i due, un momento di colore in un percorso alle volte grigio, alle volte sfumato. Anche se sarà un momento vivido, pieno e delineato, purtroppo dovrete venirmi incontro, la mia bassa capacità di rendere le parole reali, di dar loro colore, e con loro costruire un'immagine nella vostra testa, diciamo, non rende, ed è proprio per questo che vi chiedo di giocare con me. Non leggete le lettere, leggete le immagini.

John e Sasha in: Proiettando incomprensioni o non comprendendo proiezioni. Scoppia a ridere. <Quindi, J., fammi capire bene, hai sognato di parlare con un tizio che potenzialmente ti potrebbe conoscere in quanto fratello di un tuo amico o che per lo meno ti avrebbe dovuto conoscere quando eri, ancora, un piccolo nessuno. Inoltre parlando con lui della sua vita, tra racconti e commenti, dove, a parte qualche tuo piccolo intervento, per lo più ti limiti ad ascoltare in silenzio, lui ti fa un complimento e ti dice che dovresti scrivere un libro, giusto?> <Si.> 18


<Ora, grazie alla sua frase, il tuo ego si è ingrossato, ma nel momento in cui pensavi che fosse tutto finito, e che lo avresti saputo tenere a bada, lui si è nutrito di nuovo di sé stesso, autocelebrandosi e crescendo di nuovo?> <Esatto.> Tutta contenta di aver interpretato bene, manda giù un bel sorso di birra e mi dice una cosa alla quale non avevo riflettuto, né nel sogno né qualche ora prima in seduta. <Il silenzio spesso usa suoni che trasmettono un messaggio in maniera migliore delle parole. Un tuo sguardo alle volte mi fa capire più dei tuoi esempi. Per non dire che stando in silenzio, mi dai il tempo di ascoltarmi e di valorizzare al meglio quelle poche parole che mi dai.> Resistenza. Alle sue parole, questa apparve come risposta davanti ai miei occhi. Il silenzio che tanto uso io a lezione e nella vita privata, alle volte, è stata la cosa che mi ha dato più noia della terapia. E' proprio vero che le cose che sono parte di noi, spesso inconsciamente, alle volte sono proprio quelle che non sopportiamo negli altri, dimenticandoci che noi stessi siamo portatori di tale gene. Ora siamo molto vicini, l'unica cosa che ci divide è quel bancone di legno freddo, umido di birra e vari residui alcolici, eppure i nostri corpi si avvicinano al di sopra di esso. Tendono uno verso l'altro, quasi come se il centro di gravità della terra si trovasse fra noi e ci attraesse.

19


20


21


22


La mattina del 2 dicembre sono scattati nella capitale una serie di fermi e perquisizioni. Le persone arrestate sono in totale 37, gli indagati 76. Tra questi vi sono anche personaggi che hanno ricoperto cariche di rilievo a Roma, o presso la regione Lazio. Uno su tutti Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma. Accanto a questi vi sono nomi che dagli anni ’70 tornano a spaventare la città, in particolare quello di Massimo Carminati. L’accusa è di l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo ex 416bis. E’ l’inchiesta Mondo di Mezzo, destinata all’attenzione mediatica per le prossime settimane trattandosi di un’indagine volta a comprendere la possibilità che i vertici di istituzioni come il Comune di Roma e delle sue emanazioni di dominio municipale, abbiano avuto legami illeciti con membri della criminalità organizzata capitolina nell’ambito della corruzione e del favoreggiamento in materia di appalti.

Appunto, Massimo Carminati. Cinquantasei anni, milanese di nascita, arrivato a Roma durante l’adolescenza. E’ stato membro attivo dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), ovvero gruppi terroristi di indirizzo neofascista operanti nel territorio romano tra il 1977 e il 1981. Erano gli anni di piombo. Valerio Fioravanti, uno dei più celebri membri dei NAR, ma soprattutto condannato all’ergastolo dalla Cassazione per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, definì Carminati uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura. I NAR sono rimasti celebri anche per la loro affiliazione con la Banda della Magliana. Secondo la cronaca delle indagini, a fare da connettore da NAR e Banda della Magliana era proprio Carminati. Proprio da qui Giancarlo De Cataldo in Romanzo Criminale partorisce il personaggio del Nero che nell’omonimo film diretto da Michele Placido viene interpretato da Riccardo Scamarcio. Gli affari tra le due organizzazioni si tenevano presso il bar Fermi, nella zone Ponte Marconi, dove Carminati affidò ai boss Abbrucciati e Giuseppucci i bottini delle rapine di autofinanziamento dei NAR, in modo da riciclare il denaro in altre attività illecite. Tanto stringe i rapporti con quelli della Magliana da ottenere addirittura il controllo del loro arsenale che era stato nascosto nei sotterranei del Ministero della Salute e fu proprio grazie ad un pezzo di questo deposito, in particolare un mitra, che fu possibile nel 1981 legare Carminati alla strage di Bologna dell’agosto del 1980. In particolare, così recita la pagina di Wikipedia dedicata ai NAR che trova fonte in uno dei documentari La storia siamo noi, in particolare quello dedicato all’attentato di Bologna.

Al centro delle indagini c’è un presunto «ramificato sistema corruttivo» che avrebbe a che fare con l’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal comune di Roma e dalle aziende municipalizzate con interessi anche nella gestione dei centri di accoglienza per gli immigrati. A capo dell’associazione «con infiltrazioni nel tessuto imprenditoriale, politico e istituzionale» ci sarebbe stato Massimo Carminati. Del sistema facevano parte, secondo l’accusa, persone legate ad aziende municipalizzate, privati e politici: nei ruoli decisionali della pubblica amministrazione «sono stati inseriti uomini che, per ragioni diverse di affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche», hanno detto i pm.

Un mitra Mab con numero di matricola abraso e calcio rifatto artigianalmente, proveniente da quel deposito/arsenale, venne poi ritrovato sul treno Taranto23


la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’assise per i mandanti Andreotti, Vitalone, Badalamenti e Calò e per gli esecutori materiali, La Barbera e appunto Carminati. Questo caso specifico è ancora senza colpevoli. Carminati venne arrestato il 21 aprile del 1981 nei pressi del confine con la Svizzera. Qui, in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine perse l’occhio sinistro ed in seguito alle ferite riportate anche l’uso della gamba sinistra. A pioggia, con i pentimenti dei membri della Banda, caddero su di lui appunto le accuse degli omicidi di Pecorelli, degli studenti Iannucci e Tinelli (1978); per la prima fu appunto assolto in terzo grado di giudizio, per la seconda ottenne l’archiviazione nel 2000 per insifficienza di prove. Fu condannato a 10 anni di reclusione alla fine del maxiprocesso alla Banda della Magliana intera, Colosseo appunto, che iniziò nel 1995 e finì nel 1998 grazie alla rivelazioni del pentito Maurizo Abbatino. E’ balzato agli onori della cronaca, come se non bastasse anche nel 2012 in relazione all’inchiesta calcioscommesse. In particolare il suo nome emerse grazie alle indagini condotte sull’ex calciatore del Genoa Giuseppe Sculli, nipote del boss Morabito della criminalità organizzata calabrese. Ed eccolo dunque nel 2014, arrestato insieme ad altre 27 persone per l’inchiesta Mondo di Mezzo. Scrive Rai News sulla sua cattura di martedì 2 dicembre.

Milano il 13 gennaio 1981, in una valigetta contenente anche due caricatori, un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, e soprattutto del materiale esplosivo T4, dello stesso tipo utilizzato per la strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980. Un tentativo di depistaggio legato alla strage, per la quale venne riconosciuto come esecutore materiale (tra gli altri) lo stesso Carminati. In relazione ai fatti di Bologna, in un primo momento condannato a 9 anni, Carminati fu assolto in appello per mancanza di prove. Nel 1980 si sospettò il suo coinvolgimento anche nell’omicidio di un tabaccaio, Teodoro Pugliese, sempre per conto della Banda della Magliana. Così Waler Sordi, un altro dei NAR, collaboratore di giustizia subito dopo l’arresto, descrive il coinvolgimento di Carminati e altri in quell’omicidio.

A uccidere Teodoro Pugliese sono stati Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci. Me l’ha raccontato proprio Alessandro, secondo il quale il delitto fu commesso per conto di Franco Giuseppucci, uno della banda della Magliana che era in stretti rapporti d’affari con loro, in particolare con Carminati. Entrarono in due, Alibrandi e Carminati, vestiti con degli impermeabili chiari, trovarono Pugliese e un’altra persona. Uno dei due chiese un pacchetto di sigarette, il tabaccaio si girò e loro spararono tre colpi di pistola, Alessandro mi ha detto che l’hanno colpito alla testa e al cuore. Poi sono saliti a bordo di una macchina, e durante la fuga hanno avuto un incidente, ma sono riusciti ad arrivare ugualmente al punto in cui si doveva fare il cambio auto. So che la pistola usata era una Colt Detective.

Quello di Carminati è un arresto che sembrava impossibile. Lui che è sempre riuscito a uscire indenne da qualunque inchiesta. Come le assoluzioni per il depistaggio per la strage della stazione di Bologna e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Ed ecco invece il profilo di Repubblica – Roma firmato da Daniele Mastrogiacomo

Il suo nome è legato in modo indissolubile agli anni ’70 del secolo scorso. Anni di attentati, di stragi, di depistaggi. Di trame nere e di tentativi golpisti. Anni dominati dal terrorismo, con agguati spietati tra estremisti di destra e di sinistra. Di ideali e speranze naufragati in una strisciante lotta armata e poi affogati nel sangue. Anni che la Storia ha definito “di piombo”: dove le

Secondo gli investigatori e la sentenza dell’operazione Colosseo infatti, furono molti gli omicidi commissionati dalla banda stessa ai membri dei NAR: tra questi quello del giornalista Mino Pecorelli, direttore de L’osservatorio Politico, avvenuto nel marzo 1979, per il quale la Corte di cassazione annullò 24


pallottole hanno sostituito le parole, i morti ai vivi. Stefano Menichini direttore di Europa commenta la recente inchiesta romana

Il ritratto di Roma che esce dalle prime carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo” è contemporaneamente il più pazzesco e anche il più verosimile. Qualcosa che stupisce – per alcuni dei nomi coinvolti, per certe assurde resurrezioni criminali a cominciare da quella di Massimo Carminati – ma che in realtà conferma quanto si sapeva, o si intuiva, o si sospettava a proposito degli intrecci tra amministrazione e raggruppamenti mafiosi di varie dimensioni. Come uno spettro che torna dal passato, Carminati rappresenta la presunta, ma spaventosa continuità tra la mafia capitale dei primi anni ’80 e quella odierna che travolge la politica romana e la sua immagine ancor peggio e ancor più duramente di come hanno fatto gli ultimi sviluppi delle proteste di Tor Sapienza.

25


26


27


28


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.