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Anche il suo abbigliamento non lascia dubbi: è qui da sola e sola resterà, almeno per oggi. Indossa un chiodino in pelle rosa cipria con sotto un maglioncino di un rosa lievemente più nitido. Niente botte di colore, non oggi. I jeans sono stretti, di un blu scuro come le scarpe da ginnastica utilizzate per le mille occasioni. Ha un aria comunque ordinata, niente dettagli ostentando una moda la quale non è interessata a seguire. Lei ha uno stile tutto suo, e segue quello che è il suo pensiero. E’ ferma immobile da un lasso di tempo che neanche io saprei definire. Quando sono arrivata Lei c'era già. Ha lo sguardo fisso verso chissà quale orizzonte. Il Suo volto non tradisce alcuna emozione. Sta seguendo dei pensieri duri, stà parlando con un fantasma che è solo nella sua testa, sta architettando una commedia che solo Lei riesce a dirigere. Sta affrontando una conversazione piuttosto complicata, e sta avvenendo tutto nella sua testa; tutto si manifesta davanti ai suoi occhi e i personaggi solo Lei è in grado i vederli.
E’ lei, la vedo. Sono seduta al tavolino di un localino molto grazioso. è in Stile Country Chic perfettamente accomodato. Uno di quegli arredi che non sarebbe difficile da vedere anche su una rivista, o in qualche magazine d'autore. Ogni tavolo è differente dall'altro, proprio come le sedie. Alcune sono in legno, altre in ferro battuto, ma hanno comunque un aria molto accomodante. C'è luce e intimità, una musica tranquilla dalle parole straniere e candele ancora spente un po ovunque. Ci sono composizioni di fiori arancioni e rami secchi. Foglie color dell'autunno, frutta secca e profumo d'incenso. Sul bancone del bar sono perfettamente accomodate delle torte golosissime, protette da scintillanti campane di vetro. I biscotti si accavallano, e senza briciole scomposte si lasciano ammirare e si fanno già mangiare con gli occhi. E Lei è ancora là. è un ora strana; sono poco più le 14,30 di un pomeriggio di metà ottobre e il sole è ancora caldo. L'estate di quest'anno ci sta regalando un autunno caloroso. è giovane. Riesco bene a vederla in volto perchè la osservo da un angolazione che mi permette di guardare senza essere vista. Ha lunghi capelli castani che si sfumano fino a raggiungere quella tonalità che ricorda il caramello. Sono capelli lisci, puliti, non posso toccarli ma scommetto che sono pure morbidi e profumano di buono. Di qualcosa che ricorda Casa. Un profumo che sa di Suo. è seduta da troppo tempo li da sola, non sta aspettando nessuno, non oggi per lo meno. Ha davanti una tazza bella grande. Doveva contenere un cappuccino sicuramente.
Osservandola si vede la bocca chiusa in una morsa durissima. Bocca rosea, bella e carnosa, coperta da un leggero velo di rossetto. Brilla; mi ricorda le ciliegie. è una bocca da baciare. è una bocca che sicuramente ha baciato ed è stata baciata. Mai nessun bacio regalato, qualcosa di rubato sicuramente, ma certo è, che quelle labbra erano sempre e comunque coinvolte in quegli incontri. Devono contenere un sorriso, fermare tante parole, chissà quali pensieri o storie. Sono allenate per parlare. Sarebbe un spreco immane se due labbra così non avessero il dono del movimento, il piacere del contatto e la bramosia di qualche appetitoso desiderio. Oggi sono dure e chiuso. Mordono nonostante non mostrino le fauci. Si stringono e si comprimono in un sorriso basso, sempre più basso. Gambe incrociate, segno di chiusura. Spalle basso, sintomo di rassegnazione. Respiro profondo, alleggerimento dell'anima. Poi all'improvviso succede.
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Statuaria come non mai si concede quelle lacrime. Lascia che le righino il volto. Non c'è vergogna, ne suono o lamento, tanto meno un impercettibile movimento. Avviene tutto li, sulla sedia al tavolino di un bar. Da sola, Lei si concede queste emozioni. Persistono, ma non troppo, tenendo presente che Noi donne abbiamo una riserva d'acqua illimitata, figuriamoci a gocce per un pianto quanto potrebbe essere la durata totale. Ancora un altra goccia. Poi, all'improvviso come è arrivata la pioggia sul suo volto adesso splende il sole. Le lacrime hanno lasciato il posto ad un sorriso, un po vergognoso. Ha messo a tacere tutti i suoi pensieri in quelle calde lacrime salate e adesso che l'hanno abbandonata rigando solamente il collo, se ne esce con un sorriso, tiepido, niente di eccentrico, è pur sempre da sola a un tavolino.
L’estate è ormai agli sgoccioli ed anziché rinchiuderti depresso in casa, cercando di non pensare al rientro, ma allo stesso tempo ascoltando a palla il famoso singolo anni ’80 dei Righeira, deicidi di ritrovarti con un gruppetto di amici a bere una birra in un qualche sperduto pub di periferia. Aria fresca e musica di ‘Radio Capital’ fanno da sottofondo alle solite conversazioni da bar mentre un tuo amico, più temerario degli altri, si arrischia all’improvviso a raccontarti delle vacanze appena trascorse, interrompendo un discorso già iniziato. Con un esordio da racconto originalissimo, secondo solo a “C’era una volta..”, si appresta a dire, tutto eccitato: ”Lo volete sapere dove sono stato io questi due mesi? Sono stato a Marina di…eh, come si chiama?…oh, ragazzi, non mi viene mica eh…ah, sì…Marina di Grosseto! Scusate, mi era preso un LAPSUS!”. Ora, a partire dal presupposto che, avendo interrotto una conversazione di un "certo spessore” per un affare del genere, come minimo avresti dovuto passare l’estate a Formentera o in qualche altro litorale da 45 stelle dello stivale per essere scusato per quell’intervento istrionico. Ma NO! Non solo ci vieni a dire che sei stato in una normalissima spiaggia ( fatta di sabbia ed indovinate un po? C’era anche l’acqua. Oddio, figata del secolo!), ma finisci il discorso con uno dei luoghi comuni più gettonati: lapsus = dimenticanza. Ancora la gente non l'ha capito che il lapsus non è una dimenticanza, ma uno ( passatemi il francesismo) sputtanamento totale?! Eh già, signori, perché Freud sosteneva che il lapsus fosse un pensiero inconscio e che emergesse random, provocando non pochi disagi. Esatto! Provate a chiederlo ad Antonella Clerici che una volta, durante una puntata de “La prova del cuoco”, rivolgendosi ad un suo amico di vecchia data, ospite in trasmissione, esordì con:” Io non posso vivere senza questo caz*o!” Poi si è corretta: voleva dire ‘pazzo'! Si, non ti preoccupare Antonella cara, ci si crede! Non per essere maliziosi, ma citando un comico duo (Nuzzo e Di Biase): ”Cosa avrà voluto dire?!”. Quindi state attenti se un vostro amico, a fine serata, prima di salutarvi, dice:” E’ stata proprio una fantastica serata. Sono stato MORTO bene!”. Forse non è stato sincero sulla serata particolarmente “viva” di divertimento perciò rivedrei il concetto di amicizia, sinceramente!
Ha lo sguardo alto, sul suo volto adesso tutte le linee guardano il cielo. Non si passa le mani sul volto, non ha intenzione di cancellare quelle righe umide, cicatrici lievi di qualche ferita profonda... Basta così. Mi alzo ed esco dal locale che tanto non c'è piu nessuno. Appena fuori mi passo le mani sul collo cercando di asciugare almeno quello.
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L’onda artificiale prodotta confliggeva con le onde naturali del mare, ma agevolava il flusso dell’acqua verso le gambe. Le gambe. Il loro movimento era quasi inutile. Esso si accostava alla funzione dei rompicapi Darwiniani, come la colorazione accesa di alcune farfalle e il sapore velenoso di alcuni anfibi che muoiono ancor prima di permettere al predatore di avvisare i propri geni, e deviare la famelica pulsione verso altre prede.
…la mia mano sovrastava la testa, mentre prendeva la forma di una conchiglia per creare maggiore attrito e, appena nell’acqua, tutto il meccanismo strutturale e articolatorio del braccio compiva una s, cercando di spostare più acqua possibile per dare uno slancio maggiore. L’acqua veniva sconfitta e si ritraeva in un mulinello nei punti precisi in cui la simmetria corporea la picchiava, prima da un lato, e poi da un altro, irregolarmente.
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Le gambe si riducevano a veicolare la posizione con nerbo , mentre destabilizzavano e uccidevano la speranza dei concorrenti. Esse frantumavano il silenzio e deritmavano la musica tra me e l’acqua. Mi stavo mettendo alla prova. Dopo tanto. Troppo. Il mio avversario aveva un bel vantaggio quando indisse la sfida. Accettare era un paradosso: come guardare l’eclissi con un binocolo fatto dall’arrangiamento delle mani. Tuttavia il controllo, le pressioni, la prestazione erano sempre stati i batteri insiti nella mia alimentazione malsana: e anche il più grande predatore, se si ciba incessantemente di Carcasse imputridite, assimila inevitabilmente anche i suoi vermi. Il risultato fu una malattia che attaccò la coscienza , rendendola così elargiva verso qualunque tipo di sfida. E pian piano mi fece scordare di chi Ero, alimentandomi, piuttosto, le preoccupazioni per Quello che Non Ero o non sarei diventato. Senza scampo, allora, congestionai le emozioni e vomitai un patto di alleanza con le aspettative. Ma solo ora capisco che la spinta necessaria per oltrepassare i miei limiti arrivò dalla paura. La paura di deludere me stesso fece aumentare il ritmo delle bracciate e imbastì il motore di una nuova energia, che rese l’aria nei polmoni di ogni inspirazione uno schiaffo ai bronchi, che si dilatavano, dilaniandosi.
Ogni tanto si gonfiava, segnalandoci la direzione del vento. Il mare dentro la baia non aveva colore. Le alghe sottostanti lo scurivano, cangiandolo di rosso al contatto con il tramonto. Sembrava rigurgitasse il sangue delle battaglie tra le due fazioni rupestri che si incontravano proprio al di sotto la linea dell’acqua, quasi sulla superficie lontana. Le sterpaglie, accumulate dalle alte maree, condivano l’insalata di scogli in bilico, in procinto di suicidarsi. Il vento non c’era, e il mare assumeva la forma di uno specchio. La percezione ragionata era quella di assistere al tentativo di Van Eyck di ritrarsi nel cielo tramite il mare, mentre la sensazione a primo impatto era quella di sentire Michelangelo che chiedeva l’aumento per aver raggiunto la perfezione. La forma a U degli scogli, calmava l’arrivo del mare. Sembrava una sistemazione dei banchi di un’aula delle elementari e la perfezione con cui le onde li accarezzavano, senza scalfirli, faceva pensare a un incantesimo in grado di avvicinare l’orizzonte e renderlo palpabile. La dolcezza dell’ambiente anestetizzava il caldo e uccideva le fobie… Non ricordo se uscii dall’acqua per primo. Ricordo solo quello che successe dopo. L’escursione termica tra l’acqua e gli scogli bollenti deviò, per un attimo, l’attenzione via dai tonfi del mio cuore, che non accennava a voler recuperare il suo equilibrio. Il percorso per tornare al mio asciugamano sembrò infinito. Ad ogni battito il mio cervello drogava il corpo di adrenalina. Mi sentivo invincibile. “Ma, di lì a poco tempo, sentii che diventavo pallido, e desiderai che tutti se n’andassero. Mi doleva la testa, e mi sembrava di sentirmi un tintinnio nelle orecchie; ma quelli restavano sempre seduti e chiacchieravano sempre. Il tintinnio divenne ancora più distinto; persistette e divenne ancora più distinto. Cercai di chiacchierare per sbarazzarmi di quella sensazione; ma non mi lasciò, e prese un carattere del tutto deciso , tanto che alla fine m’accorsi che il rumore non era dentro le mie orecchie. Senza dubbio allora divenni pallidissimo; ma io chiacchieravo ancora più lesto e più forte. Il rumore aumentava sempre – ed io che potevo fare? – Era un rumore sordo, soffocato,
Era una giornata bellissima. La caletta aveva le sembianze di un paradiso. Rimaneva incastonata nella rupe scoscesa da cui eravamo arrivati, inadatti. Si presentava calma e immobile come in posa per farsi immortalare. Sulla sinistra la terra era abitata da una fitta vegetazione di alberi che si allungavano verso l’alto in stile gotico, filtrando la vista del mare tramite le foglie. Mentre la parte destra si presentava rocciosa. Lunghe costruzioni moreniche, appuntite, estinguevano le piante insieme al desiderio di ripararsi dal sole. Sulla punta, però, un albero era sopravvissuto. Lo rinominai Albero della Vita. Questo prevaricava sul dirupo, affacciandosi senza vertigini e nascondendo il sole in prospettiva.
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frequente, assai simile a quello che farebbe un orologio involto nel cotone. Respirai laboriosamente; gli altri non sentivano ancora. Parlai più lesto; con più veemenza; ma il rumore cresceva, incessante. M’alzai, e disputai su delle piccolezze, in un diapason elevatissimo e con una violenta gesticolazione; ma il rumore cresceva, sempre. Perché non se ne volevano andare? – Scorsi l’asciugamano qua e là, pesantemente, a gran passi, come esasperato dal non capire. Ma il rumore cresceva regolarmente. Oh, Dio! Che potevo fare? Schiumavo, balzavo, sacramentavo. Notai l’Albero della Vita che aveva cambiato posizione. Si era spostato verso sinistra insieme a tutta la cruda vegetazione. E non era finita. Mi vedevo di fronte. I miei occhi mi fissavano sbiaditi e contorti, siringati di Panico. Ma il rumore dominava sempre, e cresceva indefinitamente. Diventava più forte, più forte! Sempre più forte! E quegli altri discorrevano sempre, scherzavano e sorridevano. Ma era mai possibile che non sentissero? Dio onnipotente!No,no, sentivano! Sospettavano! sapevano! Si facevano un gioco, un divertimento del mio terrore! Lo credetti e lo credo ancora. Ma tutto, tutto era più tollerabile di quella derisione! Non potevo sopportar di più quegli ipocriti sorrisi! Sentii che bisognava gridare o morire! – e ancora, e sempre, lo sentite? – ascoltate! più forte! – più forte! sempre più forte!” Nessuno si accorse di niente. Ben presto il Panico divenne Paura, e senza alcun criterio decisi di riempirmi di qualcosa. Afferrai i biscotti e iniziai a masticare senza alcun metodo. Digrignavo i denti ingoiando pezzi di qualcosa che aveva il sapore del tempo. I brividi lungo la schiena amplificavano il rumore assordante del silenzio. Non sapevo spiegare cosa mi stava succedendo. Distoglievo lo sguardo. Vedevo la rupe ripida da cui eravamo arrivati e piangevo. Sapevo che sarei rimasto lì per sempre. Avevo paura di perdere il controllo. Nessuno si accorgeva di nulla. Combattevo con le mie domande e venivo ucciso dalle sensazioni inspiegabili, che mi facevano tentennare. Ma, Pian piano, tutto misteriosamente, come era arrivato, se ne stava andando. Sentivo il mio corpo rilassarsi e chetarsi. Continuai a parlare per non destare sospetti.
Quando la metà dei miei muscoli fu distesa, la Paura del vuoto si tramutò in Ansia. L’Ansia che tutto potesse ricominciare. Di lì a poco sarebbe diventato routine.
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consapevole della sua posizione, si sente frustrato, continuamente mortificato e ha voglia di rivincita. Il romanzo si apre con il risveglio del protagonista che dapprima ha difficoltà a tornare alla realtà: “Per due minuti, però, rimase disteso immobile nel suo letto come un uomo non completamente certo di essere sveglio o di dormire ancora e se tutto ciò che gli capita intorno sia realtà o non piuttosto la continuazione di un fantastico sogno”. Finalmente si dirige verso lo specchio e prende del tutto consapevolezza di sé; nonostante l'autore lo descriva come un uomo goffo e ridicolo, Goljadkin sembra rassicurato dalla sua immagine e soddisfatto di ciò che vede riflesso. Una delle parti più significative del racconto è, secondo me, l'incontro con il medico che ha in cura il protagonista: viene descritta una relazione medico-paziente di totale incomprensione e diffidenza; il paziente parla con mezze frasi e il medico si limita a dare consigli superficiali essendo incapace di giungere al cuore del problema di colui che ha in cura. La sua proposta terapeutica è semplicemente quella di svagarsi, proposta che non tiene conto delle motivazioni più remote e profonde del malessere psicologico del protagonista: "Già... io vi dico che è necessaria una radicale trasformazione della vostra vita e, in un certo senso, di fare violenza al vostro
E' un pomeriggio come tanti, salgo sul treno che mi riporterà a Viareggio dopo una giornata di lezioni, mi siedo e decido di dedicarmi all'unica attività possibile considerando la stanchezza e la mia totale incapacità di dormire su un mezzo di trasporto: la lettura. Il libro che tiro fuori dalla borsa è “Il sosia” di Dostoevskij; lo apro e inizio a leggerlo con non poca difficoltà visto che, da buon romanzo russo, non mi risulta per niente scorrevole. La coppia di turisti seduta di fronte a me legge il titolo e attacca discorso: dalla conversazione condotta con il mio traballante inglese capisco che lei è una psicologa e che i due sono appassionati di letteratura russa. Finalmente decidono di lasciarmi al mio libro e si congedano con una frase: “In this book you can find psychology”. In effetti “Il sosia”, pur essendo stato considerato in seguito un lavoro stilisticamente mediocre dallo stesso autore, è invece un eccellente esempio di romanzo psicologico. Il fenomeno del doppio in psicologia descrive una consapevolezza di sé esistente al tempo stesso fuori, di fianco e dentro di sé. Questa esperienza può verificarsi in caso di disturbo mentale o anche in condizioni differenti e meno gravi. Jakov Petrovic Goljadkin, il protagonista del romanzo, è un modesto impiegato che fa parte di uno dei ranghi più bassi della società; è 10
carattere (Krestjàn Ivànovic' accentuò con forza le parole 'far violenza' e si fermò un momento con aria assai significativa). Non evitare la vita allegra; frequentare gli spettacoli e il club e in ogni caso non essere nemico della bottiglia. Non vi fa bene restarvene in casa... no, non ci dovete assolutamente stare." L'incontro si conclude con il medico che, sottolineando di non avere tempo da perdere, ricorre alla prescrizione di medicinali dando l'illusione di un rimedio al paziente (illusione che vale anche per il medico) : “Ma, con meraviglia e mortificazione del signor Goljadkin, Krestjàn Ivànovic' borbottò qualcosa tra i denti, poi avvicinò la poltrona al tavolo e in tono abbastanza secco, anche se garbato, gli dichiarò qualcosa di questo genere: che il suo tempo era prezioso, che egli non lo capiva perfettamente, che era però pronto, per quanto poteva, a servirlo secondo le sue forze; ma che non si immischiava in tutto il resto che non lo riguardava. A questo punto prese la penna, si avvicinò un foglio di carta, ne ritagliò un pezzo di formato medico e dichiarò che immediatamente avrebbe prescritto il necessario.” Uscito dallo studio del medico Golijadkin si reca ad una festa in onore si una ragazza di cui è innamorato; viene però malamente sbattuto fuori e a questo punto, dopo l'umiliazione subita, si ha la depersonalizzazione e la conseguente comparsa del sosia. Il protagonista è fuori di sé e vaga nella notte senza una meta lungo la Fontanka e nei pressi del Nevskij; egli ha la sensazione di non essere più nulla poiché si identificava con il sé riconosciuto e rispettato socialmente. Mentre cammina si pone una domanda: “Ma io, io, dove sono?”; questa domanda non va intesa solo nella pura accezione spaziale, ma anche e soprattutto in quella psicologica. Ad un tratto vede un uomo, gli sembra di conoscerlo e alla fine capisce chi è: “Goljadkin aveva perfettamente riconosciuto il suo amico della notte. L'amico della notte non era altri che lui stesso, Goljadkin, un altro Goljadkin assolutamente identico a lui; era, in una parola, quello che si chiama il proprio sosia, sotto tutti i profili... “ Quella che prima era una sensazione di avere qualcuno accanto a sé adesso diventa una certezza. Il giorno dopo il sosia sembra scomparso, le allucinazioni sono per ora intermittenti; Goljadkin si reca al lavoro e qui gli viene
presentato un nuovo impiegato che è proprio il suo sosia; all'inizio quest'ultimo ha le stesse caratteristiche psicologiche del protagonista: timido, impacciato e socialmente emarginato; ha assunto le caratteristiche della parte non rinnegata della sua personalità. Col passare del tempo invece le caratteristiche del doppio cambiano egli diventerà sprezzante ed ostile. L'esempio più significativo è l'episodio nel bar: Goljadkin crede di aver mangiato un solo pasticcino, ma quando giunge l'ora di pagare egli scopre di averne mangiati ben undici. La colpa viene attribuita al sosia; in realtà la personalità doppia del nostro protagonista è accompagnata da amnesia. Si viene poi a conoscenza del passato di Goljadkin e si scopre era stato egli stesso autore di atti riprovevoli; il “sosia” si era già manifestato. Intanto quest'ultimo è ovunque, il protagonista è ormai in preda alla pazzia, circondato in ogni momento da copie di se stesso. Diventa diffidente nei confronti dei colleghi e inizia a vedere una doppia personalità anche nell'amata Klara, che con una lettera gli propone una fuga insieme all'insaputa del padre.Il romanzo si conclude con il raggiungimento della completa pazzia da parte di Goljadkin, egli soccombe di fronte al controllo del sosia, controllo che lui non riesce a mantenere perchè non è in grado di integrare e far convivere le spinte opposte della sua personalità. Concludo riportando le parole del protagonista del romanzo che secondo me descrivono bene il suo lo stato psicologico: “In conclusione vi prego, egregio signor mio, di riferire a tali persone che la strana pretesa loro e l'ignobile fantastico desiderio di scacciare altri dai confini che questi altri occupano mercè la propria esistenza in questo mondo, e di prenderne il posto, meritano stupore, disprezzo, compatimento e, per di più, il manicomio; che, inoltre, simili comportamenti sono severamente vietati dalle leggi, il che, a parer mio, è perfettamente giusto, giacchè ognuno dev'essere contento del suo proprio posto”
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uarda che ti ho vista. al limite della manica
affetti- amati ma allontanati per richiedere attenzioni- della reputazione - perché svenire davanti a tutti non è mai una bella storia. e, soprattutto, svuotamento dello stomaco e di se stessi. l'unica certezza: il riuscire ad allontanarsi dal cibo. Aiutala, afferra quel ditino affusolato e parlale. falle capire che ce la PUO' fare, anche da sola, ma proponi supporto. falla sentire amata, piccolo mucchio indifeso di ossa e pelle, polmoni anneriti da nicotina che toglie l'appetito, capelli persi, pelle secca, stomaco vuoto. riempila. di amore, affetto, amicizia. non forzarla a mangiare, il suo problema non è col cibo. risolti i problemi di autostima, di accettazione, di mancato amore, (...) riprenderà da sola ad alimentarsi, a curarsi, a vestirsi non solo coi caldi maglioni che sopperiscono alla normale funzione termoregolatrice del grasso corporeo. Amala, dalle affetto, offrile la tua amicizia. anche se non ti piace com'è diventata antiestetica magrezza malata- anche se non concepisci che si possa essere ridotta così. Perchè ancora non sai cosa l'abbia indotta a iniziare a privarsi, e soprattutto, perchè NON SAI per lei cosa tutto ciò voglia dire.
del maglione caldo, largo, che indossi, un ditino affusolato. Li vedo, io, quegli occhi stanchi, sotto una frangia spettinata al limite di una chioma non più folta, al limite, nascosta. Ma con me il tuo tentativo è vano: svanire, per ricomparire nella mia mente. coi tuoi trenta e poco chili, quel che rimane dagli affanni, dalle lotte che affronti senza energia, eppure con una spinta abominevole. non ho dovuto sforzarmi per riconoscerti, troppo simile ai miei trascorsi. dovrebbero però aprire gli occhi quelli che stanno con te, lì, sotto la tettoia del cortile dell'università, a respirare il fumo delle sigarette condivise. ma non sono abbastanza abili ad ascoltare il tuo grido d'aiuto. No, non è solo loro responsabilità, non sono soltanto loro a dover affinare l'udito, ma come un ruggito di leone che si espande a chilometri di distanza, ognuno di noi dovrebbe sentirlo, e soccorrere quella ragazza che si è ridotta ad essere un innocuo cucciolo. Lei vuole pian piano scomparire, per apparire migliore, aggrappandosi a ciò che è più di tutto sotto le nostre mani, tra le cose più facilmente controllabili: si trattiene dall'istinto primordiale alla nutrizione, fondamento della sopravvivenza biologica. Al limite, dicevamo, della brachicardia e della pressione bassa, della stanchezza, della scheletrizzazione e della perdita di capelli. E poi dal punto di vista sociale perdita degli
Non giudicarla, informati, e amala.
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livello di complessità sociale molto più basso, in cui la meta sia sopravvivere e sia spazio per
Accendete la televisione o cercateli sul web che costa meno. Feticci dell’età contemporanea le serie tv, stanno (o oramai già hanno?) soppiantando il cinema nel compito di rappresentare ideologie e paure degli individui, di mettere a nudo ciò che temiamo e ciò che segretamente amiamo di più. Nella storia umana c’è sempre stata un’istituzione che raccoglieva in sé il pesante compito dell’azione catartica verso gli individui, ed ancora di più verso la società stessa. Il cinema a suo tempo ha scavato la tomba al teatro ed alla narrazione, sia orale che scritta, ed oggi è scavalcato dal figlio nato demente. Ma non voglio fare un’apologia delle serie televisive; io le guardo, voi tutti le guardate e tutti quanti noi ne siamo sempre più riempiti ed influenzati. L’etere pullula di serie televisive, film ma anche romanzi e storie collettive, vecchi miti rivisitati e gruppi religiosi che raccontano la fine del mondo, del nostro mondo per come lo conosciamo. Le ambientazioni postapocalittiche sbancano su ogni versante, sono al contempo espressione delle nostre paure recondite e, soprattutto, un modo di fuggire una realtà sociale che ci opprime, ci affatica e a cui ci sentiamo legati a doppio filo nella sua complessità. Ed allora dall’immaginario collettivo arriva, a gran richiesta, una comoda via di fuga, una fine del mondo passiva non ad opera di azioni collettive, una fine del mondo che annienti la complessità sociale, che distrugga la necessità di reinventarsi continuamente, di trovare continuamente una nuova strada individuale innovativa ma socialmente accettabile, una fine del mondo che ci riporti tutti quanti ad un
non ci domandarsi come. La fine del mondo è facile da immaginare, in un certo qual modo ne abbiamo bisogno, ci serve collettivamente ad accettare la nostra vita. È una semplice via di fuga. È immaginabile, e questo è importante. Significa che a livello inconscio tutti quanti abbiamo bisogno di cambiare, che non reggiamo la pressione di questo modello sociale basato sull’individuo, e cerchiamo qualcosa di diverso. Questo è importante. Grazie alle serie -tv di genere apocalittico riusciamo a “vivere”, a sognare, un mondo nuovo in cui tutte le cose che ci opprimono, ci legano, ci soffocano in questa società vengano cancellate dalla mattina al pomeriggio in un atto degno della migliore delle “deus ex machina”. Differentemente dai romanzi od anche dal cinema queste non hanno dietro una creazione individuale (se non nell’idea iniziale e basta) bensì un gruppo di autori che lavorano assieme e si confrontano producendo poi storie e trame in modo collettivo e quindi privilegiando la parte comune di ideologie, esperienze, valori ed idee rispetto a quella individuale. Questa peculiarità è probabilmente anche uno dei motivi, oltre a quelli di formato e di costi, che hanno permesso alle serie-tv di rimpiazzare il cinema come rappresentatori sociali, ed è anche indice di quanto svolgano bene questo loro ruolo. In questi scenari post-apocalittici spariscono inevitabilmente le nostre istituzioni sociali, gli stereotipi comportamentali ed i miti individuali sono soppiantati o ribaltati e la complessità sociale che oggi ci opprime e ci mette così tanto a disagio è annullata dalla necessità unica e primordiale di sopravvivere.
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Discorso ben diverso però riguarda il capitalismo ed i modelli ideali e comportamentali a questo connessi. Se andiamo ad osservare questi possibili e diversi, ma non tanto, modelli di fine del mondo nessuno di questi, non i più diffusi quelli in un certo qual modo istituzionalizzati, conosciuti e condivisi da tutti, ci accorgiamo che il nuovo ordine (o caos) sociale segue esattamente le stesse regole, le stesse norme del nostro. Sono tutte quante “apocalissi capitaliste”, tutto sembra cambiare ma resta praticamente immutato, ci troviamo di fronte ad una semplice retrocessione od un cambiamento formale e non una rivoluzione. Non siamo, cioè, in grado di immaginare qualcosa di diverso dal capitalismo. Norme, valori, stereotipi e modelli sociali che porta con se e che intrinseca nel nostro modello sociale sono radicate talmente in profondità in ognuno di noi che nemmeno a livello collettivo ed immaginativo riusciamo a delegittimarle, ad immaginare qualcosa di diverso persino nella fine del mondo. Nella fine della nostra società non è immaginabile la fine del capitalismo, poiché è il capitalismo stesso (in quelle norme, modelli, valori e stereotipi come abbiamo detto prima) che delimita la sfera dell’immaginabile. Al di fuori di questo non c’è immaginazione, c’è fantasia: individuale, creatrice, geniale se vogliamo (tipica del “genio”), produttrice di nuovo. Fantasia che però non ha niente a che vedere con la società, non è un fatto sociale o collettivo, come invece è l’immaginazione, fantasia è devianza allo stato puro, fantasia non è immaginazione. Ed ecco che non è possibile immaginare la fine del capitalismo, poiché la fine del capitalismo non fa parte di noi, della nostra socializzazione, della nostra capacità collettiva d’immaginazione.
Le tre e trenta. Sfiorai il lembo scolorito della fredda coperta stesa al mio fianco, mordendomi il labbro. Non avrei mai pensato che avrei potuto sentirmi più vuota del solito. Strinsi i denti, cercando di non piangere, mentre lasciavo andare quella coperta blu. La sua coperta. Lentamente, mi alzai a sedere, stringendomi nel maglione bianco di lana, per avere meno freddo. Sapevo che non sarei riuscita ad eliminare i brividi, ma continuai comunque a strofinare le mani gelate sulle spalle, almeno per qualche secondo, come se quel breve istante di tepore potesse cambiare qualcosa. E poi, come ormai accadeva troppo spesso, mi persi nei pensieri sbagliati. In quei meandri della mente dove non avrei dovuto scavare, in cui avevo paura di scavare. La verità era che mi sentivo sola, dannatamente sola. E che la mia paura più grande era sempre stata la solitudine. Sentivo di non andare bene, io ero sempre stata sbagliata. Fin da bambina, ogni volta che mi trovavo sola, mi chiedevo se fosse giusto porsi certe domande. Se fosse normale quell'enorme senso di diversità ed inadeguatezza che mi aveva sempre perseguitata, sin dalla culla. Durante l'infanzia tutto è più semplice: era sempre bastato occupare la mente. Giocare sempre. Impersonare qualcuno di diverso, qualcuno che fosse giusto. Diventare un'altra persona. Circondarsi di persone. Non essere mai, mai da sola con te stessa. Ma non si può sempre, solo giocare. Arriva un momento in cui la realtà ti si para davanti, e ti impedisce di entrare nel tuo mondo, quello che aveva sempre riparata da tutto e da tutti, la tua salvezza. Ti trovi indifesa, e sola, sola sul serio. E, senza sapere come sia potuto succedere, diventi grande, più di quanto vorresti. Con una leggera spinta, mi alzai dal letto, tastando il muro per trovare la luce. Il marmo freddo aderiva alle piante dei miei piedi nudi, aumentando i brividi. Aprii la porta, tremante, ed attraversai il corridoio buio.
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Per un attimo, credetti di vedere un movimento. Ma quella casa era vuota, come lo ero io. Forse stavo impazzendo davvero. Ma sarebbe durata poco. Io sarei durata poco. Senza ricordare come ci ero arrivata, mi trovai in bagno. Una delle lampadine del lampadario era bruciata, e tutto era più buio del solito. Mi avvicinai allo specchio. Lo sguardo perso, cerchiato da occhiaie profonde, rosse, dovute al pianto più che alla mancanza di sonno. Pallida. Ero pallida e sbagliata, piccola in un maglione decisamente più grande della mia taglia, unica protezione verso il mondo esterno. Il mio nascondiglio. E poi i capelli in disordine, che scendevano come spaghetti lungo le mie gote, spenti, come tutto il resto. Ma quello che vedevo nei miei occhi, il riflesso della mia mente, era ancora più sbagliato. Come poteva esserci disordine nel nulla? Come una borsa colma di fazzoletti usati. Inutile e sporca. Da gettare via. Da dimenticare. Volevo solo scomparire. A volte, la voglia di scomparire è più forte di qualsiasi altra cosa. Nasce come un'ossessione, dal senso d'inadeguatezza, e, anche se viene combattuto, rimane una cosa insita nel cuore e nella mente delle persone, qualcosa di talmente radicato da diventare dipendenza. Una cosa che, fino ai limiti del possibile, è sopportabile. Ma c'è sempre una goccia di troppo, e quando ci accorgiamo che quella goccia sta cadendo, è tardi. Si perde il controllo. Distogliendo lo sguardo dallo specchio, mi sporsi verso il lavandino, portandomi due dita alla bocca. Ad occhi chiusi. Immaginando di scomparire, finalmente. E poi, mi accorsi di non essere scomparsa. Anzi, credetti, per un secondo, di avere il controllo. Almeno per quanto riguardava il mio corpo, ero io a decidere. Quando però, sfinita, mi accasciai a terra, capii di essere una stupida. Che non avrei mai avuto il controllo di niente, perché ero debole, e sentivo la mente scivolare via. Mentre gli occhi si chiudevano di nuovo, credetti di aver sentito il telefono squillare. Ma ormai era tardi, ed io, come accadeva spesso, avevo commesso un errore che era impossibile da cancellare.
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La sensazione è sempre la stessa, che si tratti di un esame sulla carta complicato o più abbordabile. La mattina di ogni esame è sempre nello stesso modo da cinque anni. Suona la sveglia, la spegni e senti che c'è qualcosa che non va, che non è un giorno come gli altri. E' come se la notte tu ti fossi allontanato troppo e riemergi alla realtà piano piano: "ah già...". Ti alzi repentinamente: l'ultima cosa che faresti in un giorno ordinario. Passi dal bagno, eviti di gingillarti davanti allo specchio e vai subito al dunque con spazzolino e dentifricio. La doccia l'hai già fatta ieri sera, anche se era l'una e i tuoi coinquilini ti avranno certamente maledetto. Esci dal bagno e scegli come vestirti: ma davvero devo piegarmi al sistema e indossare una camicia o una polo il 17 luglio a Firenze? Alla fine sì, ti pieghi al sistema, soprattutto se l'esame si chiama persuasione. Stimoli periferici, a me. Ti vesti e già sudi. Poi raduni fogli, appunti, quaderni e libri che hai ben preparato la sera prima; quasi li hai messi a letto rimboccando le coperte. I fogli che fino a qualche ora prima erano spiegazzati e sporchi, ora erano in una busta trasparente, come se tu dovessi presentare un progetto alla NASA. Metti tutto nello zaino, te lo carichi sulla schiena e ti guardi intorno. Il libretto c'è, le chiavi, eccole, il telefono l'ho preso. Sblocchi la tastiera e leggi un messaggio In bocca al lupo. Baci. Ma Ma è una firma, ovviamente, non qualcuno che ha inviato per sbaglio. Scendi le scale, sali in macchina e cerchi qualcosa alla radio. Da cinque anni, la mattina dell'esame hai sempre ascoltato qualcosa che ti desse un po' di spinta. Prima lo facevi a piedi o in bus o in bici, con le cuffie, ora lo fai con l'autoradio. Rimpiangi la bici, perché era figo pedalare con la musica, ma poi te l'hanno rubata. Con la macchina è tutto un po' più... macchinoso, appunto: magari becchi un pezzo bello carico, ma sei in coda. Non ha senso. Tu ti muovi, ma la macchina è ferma. Arrivi in facoltà (o scuola), guardi tra gli avvisi l'aula dove si terrà il tuo esame e intanto noti gente intorno che ripassa in maniera ossessiva sulle panchine. La disgrazia in quel momento è già dietro l'angolo: incontrare quello o quella che sa anche una cosa più di te, di cui tu non hai mai sentito parlare.
Oh, ma il framing darling Stark è del 1975 o del 1976? Appunto. Guarda lascia stare, vado a fare colazione. La fame è poca, ma bisogna farla, nonostante il mal di stomaco da performance. Infatti vai ai distributori automatici: il classico di ogni mattina con esame, Kinder Cereali e caffè espresso. Aaah. Se il distributore fosse un barista andrebbe più o meno così: -Buongiorno Frank! -Buongiorno caro, il solito? -Si grazie. Oggi è dura. -Vai tranquillo. Ma la camicia con questo caldo? Finisci la colazione dei campioni e vai a sederti dentro l'aula incriminata. Il docente arriverà tra qualche minuto e non stai a togliere dallo zaino gli appunti: lasciali dormire nelle loro buste trasparenti. Fai conversazione, ma solo con quelli che non hanno intenzione di ripassare. Ovviamente sono le solite frasi di circostanza: nessuno sa niente, tutti hanno studiato poco, ma sono gli stessi che prenderanno più di te. Entra il prof, un lui o una lei, con al seguito un range di assistenti tra i due e i sette. Il mal di pancia si fa forte. Viene fatto l'appello e ti prende quella sensazione orribile e se non mi chiama? Mi sono prenotato? Poi ti chiama: presente! Hai sempre trovato buffo continuare a dire presente anche dopo i diciotto anni, ma ora si fa sul serio. Se è orale, allora sì che inizi a ripassare, aspettando il tuo turno. Se è scritto, ci siamo. Ti arriva il foglio, scrivi subito matricola, nome e cognome e poi guardi le domande. Ogni volta va così, tutto quello che succede dopo lo sapete.
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donna, proprio io, fra tutti, io che non lo farei mai, io che sono contro queste cose, io che faccio sempre sproloqui contro tradimenti, su quanto l'amicizia sia sopra ogni cosa. Ma perché io? Son pulsioni, darlin'. Da dentro è nata questa pulsione, che tu la voglia o meno.> Sorseggio altra birra e mi accorgo che sono ancora all'inizio, sto già parlando troppo. Continuo a bere pensando a due cose entrambe in conflitto. La prima: se da un lato vorrei gestire meglio questo carattere logorroico, dall'altro credo che me lo vivrò e sputerò sentenze e frasi che ad orecchio non abituato sembreranno senza senso; l'altra cosa che continua a tormentarmi è la nostra situazione, la nostra relazione. La relazione ormai è in conflitto. Siamo in un campo di battaglia. Lei e io. Io contro di lei. Stiamo giocando due battaglie su due piani contemporaneamente. Vincerà chi capirà per primo che, anche se i campi di battaglia son diversi, i soggetti son gli stessi. La relazione fra i due è la stessa e, su quella, devono giocare. Unendo i due piani ed usando gli attacchi di uno sull'altro. Stiamo flirtando da un lato, la tensione sessuale si vede, è di un giallo vivo, luminoso, solare. Dall'altro lato, io voglio ottenere una sbornia gratis e lei vuole rinfacciarmi qualcosa, quel qualcosa che le faceva passare lo sguardo da, profondamente denso e scuro di quel mistero che ti fa interessare e perdere, a quello cagnesco di inizio relazione. La birra è finita. Devo riprendere la mia performance, non posso perdere altro tempo a pensare. Devo agire. Devo svoltare. Devo essere breve e chiaro, anche se so che, non appartenendomi, sarò comunque lungo e contorto, ma un senso lo avrò. Lo avrò. <Scusa dovevo rinfrescarmi e riprendere energie per l'ultimo sproloquio.> Mi guarda ancora una volta perplessa e “sdubbiosa”. <Dicevo la pulsione vero?> Annuisce. Bene mi sta seguendo. <Pulsione. Capiamola meglio. Immaginiamo di non vivere in questa società. Immaginiamo di essere i primi uomini sulla terra, immaginiamo che non ci sia politica, immaginiamo di saperci
Oggi non vi racconterò tutta la storia, ma vi narrerò un momento del “nostro” protagonista “John”. John è un uomo che crede di vedere, che sicuramente qualcosa vede, forse non accorgendosi che quel che vede sicuramente in parte esiste, ma in parte lo vuole vedere. Tempo dei pensieri, tempo pensieri: Dream & Drinks.
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Non devo perdere di vista l'obiettivo. Sarò lungo lo so, ma devo essere efficace, lungo ed efficace, devo raccontare la storia, ma da bravo burattinaio non devo attorcigliare i fili. Non devo perdermi io stesso, la mia fuga di pensiero deve essere leggermente controllata, anzi direzionata, indirizzata. Devo farle vedere una strada, convincerla che sia quella che stiamo per percorrere insieme, senza farle capire che è lei che sta camminando per la strada che io costruisco, che a me la strada non interessa, basta che sia tortuosa e la tenga distratta, che non si accorga che io sto solo dipingendo una strada senza una vera fine, che la fine combaci con l'inizio, che tutto è un inganno e che l'unica cosa che mi interessa veramente e non farle distogliere gli occhi dai miei, far sì che la birra continui a fluire e il portafoglio non dimagrisca, anche perché ormai è anoressico. <Dunque, parlavamo delle illusioni. Pensa un po’ alle persone. Noi le idealizziamo. Poi resti stupita quando fanno quella cazzata che non dovevano fare. "Dai cazzo non lo dovevi fare, lo sai. Dio cane". Ma non glielo dici lo tieni dentro di te. Lo pensi e giudichi. Ma riflettiamo su questa cazzata. Facciamo finta che io e te siamo grandi amiconi. Immaginiamo che tu sia lesbica. Immaginiamo pure che io faccia la cazzata. Ma perché l'ho fatta? Cioè, facciamo finta che mi sia preso una cotta per la tua
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relazionare, immaginiamo di non sottostare a tutte quelle regole della società, immaginiamo che ognuno sia libero di vivere, ma proprio di vivere la propria essenza, froci, lesbiche, ninfomani, feticisti, ognuno potrà vivere nella libertà delle sue pulsioni, senza restrizioni, immaginiamo di essere liberi, “a-civilizzati” e l'unica cosa che conterà saranno le nostre relazioni che quindi saranno le nostre risorse. Gandhi disse che i figli non sono di proprietà dei genitori, essi appartengo alla terra, alla vita terrestre, i genitori devono solo proteggerli e prepararli, e così allo stesso modo, tu non possiedi la tua donna, lei è libera. Ma aspetta un attimo, anche io sono libero, e se le nostre pulsioni ci attirassero, dovresti capire che la pulsione non è contro di te, ma semplicemente verso di lei, e sarà lei a dover decidere. Purtroppo questa è un'utopia, non la vita reale. Lì sarebbe giusto. Io non proverei sensi di colpa per un sentimento, mentre tu non proveresti quel sentimento avverso verso di me. Non dico che ci sono andato, non dico che ci sia la possibilità che io ci vada, dico solo che riconosco la mia pulsione, ma la saprò gestire e non farò niente di male, e tu non mi odierai per il provare qualcosa. Ma nella realtà questo pensiero non sarà tale. Nella realtà abbiamo la società che ci pone delle determinate regole. Regole oggettive. Pensieri oggettivi che dobbiamo seguire. Il giusto e lo sbagliato. Così, anche il solo fatto che io l'abbia solo provato, causerà a me grossi sensi di colpa per questo conflitto, io sono fatto così, io non farei mai una cosa del genere, io? Mai! Poi scopro che in verità, non sono chi pensavo che fossi. Nessuno è "fatto così". Eppure, io devo essere "fatto così", ma se non lo sono, allora chi sono? sono un pezzo di merda, perché il "io sono fatto così" crede che la donna del tuo amico debba essere asessuata, quando poi assolutamente non lo è. Non puoi. Chi lo fa è un uomo di merda, non ha e non merita rispetto. Dovrebbe perdere un pezzo del corpo in un incidente domestico, giorno per giorno, partendo dai piedi. Siccome quel "se", quel modo di essere fatto, era quello buono, io che ne sono uscito, io che non rispetto le sue regole, sono quel pezzo di merda da essere mutilato. E tu? Tu mi odierai, non ti fiderai, la nostra relazione per quanto artificiale si è ormai incrinata, ed è solo questione di tempo prima che la crepa si trasformi in rottura. Entrambi vedevamo me stesso come una persona migliore, entrambi sbagliavamo. Noi idealizziamo, forse
dimenticando che altro non siamo che semplici uomini. Uomini con pulsioni, istinto e sangue. Sangue che, spesso e volentieri, invece di fluire al cervello, fluisce al cazzo, mosso da passioni. Se così non fosse, non saremmo più felici? E invece no, io sono qui a sperare che la birra, insieme alla vodka, mi dia quella spinta a levarmi lo sporco di decisioni sbagliate, e te qui a squadrarmi per la purezza di una sostanza che, comunque, non assolverà al compito che io le richiedo e per il quale pago.> É perplessa. Mi guarda. Ormai l'ho convinta. E' caduta nella trappola. Sta stupida, due parole e l'ho fregata, è durata meno di un paio di mutandine in un porno.
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esempio “tutte le possibili configurazioni che può assumere la luna”. Si possono definire due grandi tipi di categorie esplicabili dai due esempi appena citati, quelle di equivalenza e quelle di identità. Parliamo di categorie di equivalenza quando nell’osservatore viene evocata una stessa risposta ad oggetti diversi che vengono percepiti come “la stessa sorta di cose”. Parliamo di categorie di identità quando le diverse configurazioni di uno stesso oggetto portano a riconoscerlo da risposte differenti come per l’esempio lunare “riconosciamo la luna a prescindere dalla sua attuale forma o prospettiva”. Andiamo adesso più nello specifico delle categorie di equivalenza in quanto quelle di identità non necessitano qui di un ulteriore approfondimento.
La psicologia negli anni tra il 1950 ed il 1960 ha cercato di dare una risposta definitiva e obiettiva alle categorie percettive, che fino a quel momento erano state di dominio quasi esclusivo della filosofia, ma cosa sono le categorie percettive? Sono il nostro modo di classificare, categorizzare, ridurre e ordinare il mondo che ci circonda. Queste sono state ampiamente esplicate e studiate da un gruppo di psicologi che le hanno sintetizzate dal ventaglio di studi presenti sull’argomento nel 1956 dando il via alla rivoluzione cognitivista. I principali nomi presenti in questo gruppo erano appunto Bruner e Brown, particolarmente attivi anche in molti altri studi compiuti negli anni precedenti sulla categorizzazione e le strategie di formazione dei concetti. Sul nostro modo di categorizzare possiamo appunto dire che inizia dal riconoscimento della configurazione degli attributi di un oggetto, continua con la risposta provocata nell’individuo che categorizza (cui d’ora in avanti mi riferirò con il nome di “osservatore”), e termina con l’inserimento dell’oggetto in una categoria esistente, in una categoria nuova o modificando i criteri di una categoria preesistente. Un esempio è dato dal riconoscimento di una mela per i suoi attributi di forma, colore e sensazione tattile che corrispondono ad un modello di mela (inteso appunto come configurazione di attributi) presente nel nostro cervello, già precedentemente classificato in “tutto ciò che è definibile come mela” o per fare un altro
Le categorie di equivalenza sono quelle che basandosi su una comune risposta, consentono una classificazione degli oggetti per attributi in comune. È possibile infatti riconoscere un tavolo dalla comune risposta provocata nell’osservatore dalla configurazione dei tratti dell’oggetto. Esistono tre insiemi di categorie di equivalenza: affettive, funzionali e formali. Le categorie affettive sono quelle che si formano in seguito alle sensazioni preverbali della prima infanzia e ci permettono di dire se un paesaggio è bello o di interpretare un quadro in senso artistico, o di avere fede. Come si nota questa classe di categorie non si basa su attributi riconducibili alle proprietà degli oggetti, ma piuttosto alla comune risposta affettiva provocata nell’osservatore. Le
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categorie funzionali invece racchiudono lo stesso genere di cose in base alla funzione dei loro attributi. Un esempio classico di tale insieme è “tutti gli oggetti che posso utilizzare per scaldare dell’acqua per la pasta” che possono poi essere riconvertite alla categoria formale: pentola. Infatti le categorie formali sono quelle convenzioni che ci permettono di formalizzare un oggetto dalle categorie precedenti. A partire da una funzione come “tutto ciò che può servire a piantare un chiodo” si passa al concetto di “martello”. Queste categorie hanno la caratteristica di poter stabilire una divisione tra classi di oggetti senza necessariamente esplicarne la funzione. Queste portano alla creazione di quasi ogni cognizione artificiale e convenzionale nell’umano. È ovvio che esistono strette relazioni tra questi tre tipi di categorie e che spesso le une possono convertirsi alle altre. Il modo di categorizzare uno stesso oggetto è dato quindi da una spinta interna al soggetto che corrisponde spesso alle esigenze cognitive o ai bisogni della persona; tralascio questo punto in quanto troppo dispersivo, concentrandomi solo sulla categorizzazione. Cercherò comunque di riassumere perché categorizziamo in un modo invece che in un altro con una citazione di Stevens: “lo scopo della scienza è quello di inventare descrizioni dell’universo che funzionino (…) inventiamo sistemi logici i cui termini sono usati per denotare aspetti distinguibili della natura, formulando descrizioni del mondo per come lo vediamo e secondo la nostra convenienza (…) lavoriamo così perché non possiamo lavorare diversamente.” Lo studio di questi atti di invenzione rientra nella competenza dello psicologo, pertanto Stevens chiama la psicologia “la scienza propedeutica”.
presente nell’ambiente impazziremmo subito, inoltre sarebbe inutile e l’essere umano è un organismo che tende a funzionare secondo principio di economia. Il secondo è il cercare di identificare in un tempo utile gli oggetti del mondo intorno a noi: immaginate quanto tempo ci vorrebbe per riconoscere un pericolo senza farlo rientrare in una categoria di “cose pericolose”: semplicemente non sarebbe possibile. Il terzo motivo è che riduce la necessità di un costante apprendimento delle stesse cose, infatti l’astrazione delle proprietà definenti di una categoria le rende riutilizzabili per futuri atti di categorizzazione. Il quarto motivo è che fornisce una direzione a qualsiasi attività strumentale o funzionale all’individuo dando una categoria di cose verso cui agire in corrispondenza delle nostre esigenze. L’ultimo motivo è la possibilità di ordinare, rapportare e prevedere le conseguenze di determinate classi di eventi operando tramite sistemi e configurazioni di categorie e attributi. Eppure oltre i detti motivi c’è un ultimo aspetto da indagare brevemente: come convalidiamo le nostre categorie? Questo è il punto fondamentale a cui miravo con questa introduzione alla categorizzazione psicologica, che mi ha aperto ad un nuovo modo di interpretare la comunicazione. Ci sono quattro modi in cui le persone affermano e sostengono il proprio modo di vedere il mondo: facendo ricorso ad un criterio ultimo di validità, controllando quanto la categoria creata è coerente con il contesto, controllando il consenso che giunge dalle persone confermando la convinzione in modo proporzionale al loro numero e alla loro credibilità, ed infine il controllo mediante la convenienza affettiva. Mi pare scontato che alcuni dei nostri mezzi di convalida siano la causa del maggior numero di incomprensioni e problemi di comunicazione derivanti dalla formazione dei concetti delle persone. Vi lascio con una domanda: se tutti conoscessero l’origine e le modalità di formazione dei loro concetti e le loro convinzioni, quanta credibilità e verosimiglianza si attribuirebbero? Quanto verrebbe loro voglia di farsi la guerra per “convenienza affettiva” invece che per religione?
Nel senso più generale ci rendiamo conto che la categorizzazione è presente ovunque nella nostra vita quotidiana, non possiamo prescindere dall’aggruppamento e dall’ordinamento dei materiali in classi di equivalenza. Queste operazioni sono presenti nel giudizio, nella memoria, nella soluzione dei problemi, nel pensiero inventivo e nell’estetica, per non parlare della percezione e della formazione dei concetti. Perché quindi categorizziamo? Ci sono quattro motivi principali. Il primo è la necessaria riduzione della complessità dell’ambiente che ci circonda, poiché se dovessimo vedere ogni stimolo
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“Gli italiani non hanno lavoro e ai rifugiati diamo 40 euro al giorno”. “Noi se stiamo senza lavoro non riceviamo un euro, a loro invece li manteniamo senza far niente”. Frasi ripetute spesso, come un ritornello, in questi giorni di scontri nella periferia romana, per spiegare il clima di insofferenza dei cittadini nei confronti dei migranti ospitati nei centri di accoglienza. Ma quanti soldi ricevono davvero i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati? E chi sono i minori non accompagnati, finiti al centro delle polemiche dopo le rivolte scoppiate nella periferia est della capitale? Quaranta euro versati in media alle cooperative, meno di tre euro ai migranti. Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato è di 35 euro al giorno. Un importo non definito per decreto, ma calcolato in base alla valutazione dei costi di gestione dei centri. Gli enti locali che decidono di partecipare al bando Sprar (Sistema di protezione e accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo), come l’ultimo del 2014-2016, hanno l’obbligo infatti di presentare un piano finanziario che deve essere approvato dalla commissione formata da rappresentati di enti locali (comuni, province e regioni), del ministero dell’interno e dell’Unhcr.
Le spese di gestione per migrante, valutate in media intorno ai 35 euro pro capite al giorno, possono subire dunque delle variazioni da regione a regione, secondo il costo della vita del posto e l’affitto delle strutture. Questi soldi però, dai 35 ai 40 euro al giorno, non finiscono in tasca agli ospiti dei centri ma vengono dati alle cooperative, di cui i comuni si avvalgono per la gestione dell’accoglienza. E servono a coprire le spese per il vitto, l’alloggio, la pulizia dello stabile e la manutenzione. Una piccola quota copre anche i progetti di inserimento lavorativo. Della somma complessiva, solo 2,5 euro in media – il cosiddetto pocket money – è la cifra che viene data ai migranti per le piccole spese quotidiane (dalle ricariche telefoniche per chiamare i parenti, alle sigarette, alle piccole necessità come comprarsi una bottiglia d’acqua o un caffè). I soldi per l’accoglienza vengono presi dal fondo ordinario che il ministero dell’interno ha a disposizione per l’immigrazione e l’asilo. “L’accoglienza dei richiedenti asilo è una risposta alla convenzione dei diritti dell’uomo e alla nostra costituzione”, spiega Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale Sprar: In questi giorni sono state dette molte cose sbagliate che vanno chiarite. Innanzitutto i 40 euro al giorno non vengono dati in nessuno
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modo ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Sono soldi erogati per la gestione dei centri, che vanno a chi si prende la responsabilità di gestirli. Servono dunque a pagare gli operatori, l’affitto ai privati degli immobili, i fornitori di beni di consumo. Una piccola quota va per gli interventi di riqualificazione professionale, come i tirocini, orientati a permettere ai migranti di vivere in autonomia una volta usciti dal sistema di accoglienza. E solo una quota residua viene data direttamente a loro. Si tratta del pocket money, pochi euro per le piccole spese quotidiane. Queste risorse fanno parte di un fondo ordinario del ministero. Non sono spese straordinarie. Per quanto riguarda i minori non accompagnati, il discorso è diverso e il costo pro capite varia a seconda delle rette delle singole comunità di accoglienza. “Questo dipende dal fatto che per i minori non accompagnati si fa riferimento a una normativa diversa, rispetto agli adulti, originariamente indirizzata ai minori allontanati dalle famiglie in Italia”, continua Di Capua. “La competenza è dei comuni che si avvalgono per la gestione delle comunità di accoglienza. Queste devono assicurare anche un servizio sociale e di tutela, che comporta una spesa maggiore. Le rette possono dunque superare anche i 140 euro, ma per quelli che rientrano nello Sprar, indipendentemente dalla rette della comunità, noi eroghiamo 80 euro al massimo. Il ministero sta comunque lavorando per abbattere i costi di queste rette, pensando a una differenziazione anche per fasce d’età”. In tutto sono 11mila i minorenni non accompagnati arrivati quest’anno in Italia. Si tratta di ragazzi, di età media tra i 12 e i 17 anni, che arrivano da soli sul territorio italiano. La maggior parte sono maschi e provengono dall’Afganistan, dal Nord Africa e dalla Siria. Spiega Di Capua: “Alcuni di loro sono stati aiutati a fuggire da zone di guerra o di conflitto dai genitori e hanno diritto a fare richiesta d’asilo. Altri vengono per lavorare o sono vittime dei trafficanti. In ogni caso per tutti, anche per i non richiedenti asilo, c’è un obbligo di tutela fino alla maggiore età”.
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