Brand Care magazine 002

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Brand Care magazine • ISSN: 2036-621 • Anno I numero 2 • settembre-novembre 2009

n° 002

MARKETING

Evoluzione del brand

CREATIVITÀ

Design e Food design

COMUNICAZIONE Consumi e società

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Brand Care magazine | Numero 002 | settembre-novembre 2009 Editore

Queimada di Bernabei & Colucci snc via V. Veneto, 169 - 00187 Roma P. IVA e CF 02249990595 [ T ] +39 06 4871504 [ F ] +39 06 62275519 [W] www.brandcareonline.com [@] info@queimada-agency.com [ S ] queimada_skype

Direttore responsabile: Sergio Brancato

Contributors n° 002

Diego Altobelli, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Sergio Brancato, Massimo Caiati, Vanni Codeluppi, Alessandra Colucci, Alessia Cremonini, Niko Demasi, Raffaella Di Lorenzo, Patrizio Di Nicola, Viviana Gravano, Francesca Mangano, Pasquale Napolitano, Stefano Perna, Marta Trotta.

Brand Care magazine addicts

Alberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Gabriele Caramellino, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Viviana Gravano, Vincenzo Moretti, Marco Pietrosante, Daniele Pittèri, Guelfo Tozzi, Davide Vasta.

Grafica e impaginazione: Dario Drago

Stampa:

Grafica Metelliana Via Gaudio Maiori - Zona industriale 84013 Cava de’ Tirreni

Policy:

I contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono necessariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata, distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es: Creative Commons).

Registrazione

presso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09

ISSN

2036-6213


,l!LTA 6ELOCIT¸ RIVOLUZIONA IL MODO DI VIAGGIARE 3ALI A BORDO 5NA NUOVA RETE DI BINARI ATTRAVERSA Ll)TALIA E MIGLIORA LA MOBILIT¸ RADDOPPIANDO LA CAPACIT¸ DEL SISTEMA FERROVIARIO #ON TRENI PIÑ VELOCI E PIÑ SPAZIO SUI BINARI TRADIZIONALI PER IL TRASPORTO LOCALE E PER LE MERCI ,l!LTA 6ELOCIT¸ À AMICA DELLlAMBIENTE %D À IL RISULTATO DELLlECCELLENZA INGEGNERISTICA ITALIANA DIVENTATA MODELLO DI RIFERIMENTO IN %UROPA #ON Ll!LTA 6ELOCIT¸ LE GRANDI CITT¸ ARRICCHITE DA NUOVE STAZIONI DIVENTANO QUARTIERI DI UNA NUOVA METROPOLI Ll)TALIA !LTA 6ELOCIT¸ !CCORCIA LE DISTANZE &A CRESCERE IL 0AESE

www.ferroviedellostato.it


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EDITORIALE

MARKETING

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14 Alessandra Colucci

PROFILI I numeri del marketing

Evoluzioni di brand e di marketing

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Niko Demasi Una BMW per tornare bambini

Alfonso Amendola I’ll be your mirror. Andy Warhol: un’idea di “consumo” nell’arte

Diego Altobelli Taccuini Moleskine: i laptop più economici, portatili e usabili di sempre

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COMUNICAZIONE 34 Vanni Codeluppi

Vincenzo Bernabei Tempi moderni e Lost. L’importanza dei media nello studio delle trasformazioni sociali e produttive

Marca e società: quale rapporto?

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44 Massimo Caiati

Pronto, chi parla? Le idee e l’uso dei testimonial nelle campagne per la telefonia

46 CREATIVITÀ

“Siamo designer...

46 disegniamo anche biscotti”

Intervista a Marco Pietrosante

Pasquale Napolitano e Stefano Perna Kinder sopresa: il doppio strato comunicante

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Viviana Gravano TATE: Una tag sul muro dell’arte contemporanea


58 TECNOLOGIE E WEB Davide Bennato Il mercato delle conversazioni

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62 Alessia Cremonini SEO e le strategie di mercato di Google

SEO - Ottimizzazione web per motori di ricerca Intervista a Davide Vasta

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72 BUSINESS Marta Trotta L’impresa ha un lato umano?

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Patrizio Di Nicola Gli incentivi sopravviveranno alla crisi globale?

76 HIGHLIGHT

Connecting Managers

HIGHLIGHT 80

Soft Strategy

Claudio Biondi Cinema e cucina

82 CULTURE

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Agenda Save the date

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90 FORMAZIONE

Raffaella Di Lorenzo 90 Come si diventa sommelier

93 FOCUS

Gli aspiranti sommelier e il mondo del lavoro

FOCUS 95

I sommelier italiani e la legge

96 HIGHLIGHT

98 GLOSSARIO

Francesca Mangano

Brand Care Training Formazione aziendale e professionale


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Il fil rouge del secondo numero di Brand Care magazine è una storia che ha inizio più o meno cento anni fa. Eppure, nonostante tutto il tempo passato, questa storia continua a essere attuale, presente, quotidiana. Stiamo parlando del legame che si crea tra oggetti della produzione e soggetti del consumo, fabbriche e comunità, merce e identità sociale: ovvero di quello che, almeno a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, quando nel clima postbellico della Grande Guerra si affermò la società dei consumi di massa, ha definito il focus della modernità industriale. Ovvero del mondo in cui abbiamo vissuto, almeno fin qui. i an La nostra stessa storia, la ist C hr Ph. by summa dell’identità industriale, lo spirito del “secolo breve”, poiché l’invenzione della bottiglia della Coca Cola nel 1916 – l’invenzione rivoluzionaria di un contenitore che si identifichi con il contenuto – segnala qualcosa di molto importante per noi, il transito verso un potere simbolico della merce che cambia il modo di comunicare il mondo, di costruirlo e di “consumarlo”. In fondo, il vecchio slogan di Marshall McLuhan, cioè il medium è il messaggio, può essere letto anche in questa direzione: il contenitore è il contenuto, appunto, e la merce si completa e identifica nel suo consumatore. Il numero 002 di Brand Care magazine sceglie di interrogarsi esattamente sui modi in cui si edificano le identità di marca, partendo dal presupposto – largamente accettato – che brand

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Sergio Brancato

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identity e brand image coincidano nell’interazione incessante di pubblico e impresa. Nelle pagine che seguono troverete quindi contributi che, a vario titolo, parlano di come i valori aziendali vengano resi pubblici tramite la comunicazione istituzionale delle campagne, ma anche attraverso lo stesso confezionamento dei prodotti, il dar forma al contenuto con tecniche sempre più sofisticate di packaging, k oppure le crescenti sinerc i l -F kon gie tra espressioni dell’arte e R ec y b . h P marchi industriali: pensiamo, per quanto concerne quest’ultimo punto, all’attività del Tate di Londra – in cui assistiamo alla riconversione funzionale dalla fabbrica a una moderna concezione del museo – o ancora alle performance dell’artista sudafricano Robin Rhode, autore di uno spot per la BMW realizzato con tecniche che azzerano la consueta distanza tra pubblicità e arte. Un po’ ciò che accadeva all’alba dell’età dell’affiche, quando a realizzare la grafica dei manifesti erano artisti come Toulouse-Lautrec. L’immaginario e le stesse funzioni sociali dei linguaggi pubblicitari si dispiegano ormai su piani imprevisti e globali. Lo confermano gli interventi che indagano l’incidenza di determinati oggetti e brand nei nostri vissuti generazionali: dalla Moleskine tanto amata da scrittori come Bruce Chatwin, che ha contribuito a crearne il mito, al merchandising che orbita intorno al Kinder Sorpresa e genera un peculiare fenomeno di collezionismo di massa. Una pratica finalizzata, come ci insegnava Walter Benjamin, al tentativo di controllare le trasformazioni del mondo governando il disordine della merce e affermando così la propria identità sociale.

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ALFONSO AMENDOLA Insegna all’Università di Salerno dove è Vice-presidente del Centro Studi sulle Rappresentazioni Linguistiche. Si occupa dei rapporti tra culture d’avanguardia e culture di massa. Tra i suoi libri: Frammenti d’immagine (2006); Per una poetica del molteplice (2007); L’immaginazione audiovisiva (in corso di edizione); ha curato, con Emilio D’Agostino Il desiderio preso per la coda (2008) e L’altra lezione (2009). D A V I D E B E N N AT O Insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi (Università di Catania). Studioso dei rapporti tra innovazione e tecnologia, è consulente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricercatore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: “Internet Magazine”, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.

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D I E G O A LT O B E L L I Nel 1999 scopre che non sarebbe mai diventato un famoso pianista jazz, che nessun meteorite avrebbe distrutto la Terra e che i Beatles non si sarebbero mai più riuniti. Non parla con chi non pensa che Ritorno al futuro sia il miglior film di tutta la storia del cinema. Laureato in Scienze della Comunicazione, scrive racconti e sceneggiature e, dal 2005, è il copywriter di Queimada - Brand Care.

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VINCENZO BERNABEI Laureato in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) pubblica la sua tesi dal titolo “Cinema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media” con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dottorando di ricerca. Ama il cinema, il web e i media in genere. Adora la filosofia.

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S E R G I O B R A N C AT O Insegna Sociologia della Comunicazione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Industria Culturale (“Federico II” di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubblicato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie dell’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué). M A S S I M O C A I AT I Copywriter dal 2002, prima per DDB Milano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi Ginevra. Rappresentante italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.


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ALESSIA CREMONINI Laureata in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Università di Roma), collabora a vari progetti del Dipartimento di Sociologia e Comunicazione. Amando web e formazione, si occupa di e-learning, progettazione, creazione di contenuti e open source. Strappata alla console, è un’appassionata di tecnologia, musica, cinema, organizzazioni e creazione di nuova conoscenza. Non è parente di nessun cantante.

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ALESSANDRA COLUCCI Laureata in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) con una tesi sul Product Placement. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovisiva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora il cinema, il design e la pubblicità in qualsiasi sua forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni.

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VA N N I C O D E L U P P I Docente all’Università di Modena e Reggio Emilia, ha insegnato negli atenei di Urbino, Palermo e allo IULM (MI). Esperto di fenomeni comunicativi del mondo dei consumi e della cultura di massa e tradotto in Francia, Spagna, Inghilterra e Giappone, ha tra l’altro pubblicato: La vetrinizzazione sociale (Bollati Boringhieri), Il biocapitalismo (Bollati Boringhieri) e Tutti divi. Vivere in vetrina (Laterza).

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NIKO DEMASI Lo sguardo schizzato di Jack che chiama Danny mentre lo insegue nella neve è uno dei suoi ricordi d’infanzia più limpidi. Diplomato in progettazione multimediale e laureato in Comunicazione alla Sapienza di Roma, la voglia di “cucinare” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini resta il suo passatempo preferito.

PAT R I Z I O D I N I C O L A Insegna Sociologia dell’Organizzazione a La Sapienza e si diverte a coordinare progetti internazionali. Esperto di mercato del lavoro, nuove tecnologie e, tra i primi in Italia, di telelavoro e Internet, fonda Futuribile srl con l’obiettivo di produrre idee pazze e tentare di realizzarle. Ogni anno porta gruppi di studenti in America a frequentare corsi e summer school. Ha una moglie e tre figli.

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R A F FA E L L A D I L O R E N Z O Laurea in Lettere con una tesi sull’Arte da lontano (pubblicata su noemalab.org), master Luiss in Economia dei turismi e dei beni culturali, ex impiegata marketing in un’azienda aeronautica, ora prova a fare l’insegnante di lingua e letteratura italiana a un eterogeneo numero di sfaticati. Autrice di articoli d’arte su scriptaweb.it, da sommelier Fisar si diletta a degustare gli ottimi vini della cantina di papà.


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V I V I A N A G R AVA N O Storica e curatrice d’arte contemporanea, insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera (MI). Coordinatore Culturale di IED Moda Lab (RM), lì insegna Culture Visive ed è coordinatore e docente del Master per Curatore Museale e di Eventi. È membro della redazione di Art’O e cofondatrice di Gomorra e Avatar. Ha pubblicato tra gli altri: Paesaggi attivi e Progetti fotografici di confine (Costa&Nolan). FRANCESCA MANGANO Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne (La Sapienza Università di Roma) è innanzitutto mamma della splendida Martina. Da due anni insegna inglese presso il liceo linguistico e l’istituto tecnico aereonautico Santa Maria a Monterotondo (Roma). Adora la linguistica, la glottologia, le lingue antiche e viaggiare. La sua passione: cucinare.

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DARIO DRAGO Siciliano, annata ‘85. Frequenta l’Istituto Statale d’Arte (a Cefalù) e lo IED – Istituto Europeo di Design (a Roma), laureandosi in Digital Virtual Design. Matura esperienze in diversi settori: dalla grafica al video, dal 3D al web finché, un giorno, non finisce negli uffici di Queimada – Brand Care. Ha molte idee tra cui un progetto di appendici di vetro su palafitte che vadano a ricoprire le parti mancanti del Colosseo.

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PA S Q U A L E N A P O L I TA N O Cultore in Comunicazione Visiva e dottorando in Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva. Artista multimediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multimediale (Università Orientale - Napoli).

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S T E FA N O P E R N A Dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Salerno dove svolge attività didattica in laboratori, workshop e seminari. È autore di saggi su design, teoria dei media, musica elettronica e cultura visuale, nonché di progetti grafici e di new media art tra cui Ber.loose.coin e Sound Barrier. È curatore di RADIOPAN, web radio del Palazzo delle Arti Napoli. M A R TA T R O T TA Consegue laurea e dottorato di ricerca presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione (La Sapienza, Roma). Affascinata dal modo in cui le persone “producono” in quei luoghi chiamati organizzazioni, diventa esperta di processi formativi, consulente di formazione finanziata e ricercatrice in tema di Comunicazione pubblica e organizzativa, Sociologia dell’organizzazione, della comunicazione e del lavoro.



di Alessandra Colucci

“Il Brand è un insieme di percezioni nella mente dei consumatori” - Colin Bates Mi pare ci sia parecchia confusione riguardo cosa corrisponda concettualmente alla parola Brand. Innanzitutto, dunque, mi propongo di fare chiarezza fugando i dubbi creati da alcuni luoghi comuni rispetto a tale argomento: il concetto di brand non corrisponde a quello di logo o di prodotto, né descrive la campagna pubblicitaria o la scenografia del punto vendita a questi legate. Questi sono solo dei mezzi attraverso cui l’azienda interagisce con il mondo esterno, con le persone. L’espressione visiva di una marca (in inglese brand) può essere un nome, un simbolo, un disegno, o una combinazione di tali elementi (marchio), con cui si identificano prodotti o servizi di uno o più venditori al fine di differenziarli da altri offerti dalla concorrenza. La marca, però, non corrisponde solo alla sua dimensione Il brand non è un logo

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il brand non è la scenografia del punto vendita

EVOLUZIONI DI BRAND E DI MARKETING

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grafica, ma è una variabile multidimensionale che contiene anche la storia dell’impresa, l’esperienza di consumo maturata dal proprio target, il livello di notorietà dei prodotti/servizi, le aspettative dei potenziali acquirenti... Il brand, attraverso le iniziative di comunicazione orientate a creare un efficace posizionamento nel mercato, svolge una funzione di raccordo tra i produttori e i consumatori in un contesto in cui le caratteristiche immateriali e valoriali di aziende e prodotti diventano strumenti di orientamento. La marca si caratterizza quindi per le sue qualità dinamiche (dato che i consumatori sperimentano diverse modalità dell’agire di consumo) e per la sua natura contrattuale. Sostanzialmente l’immagine di marca coincide con il vissuto dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi nel mondo del consumo, in definitiva con l’esperienza che il consumatore si costruisce attraverso le proprie abitudini di acquisto, esperienza legata tanto ai valori razionali (es. economicità, funzionalità, praticità, tecnologia, rapporto qualità/prezzo...) quanto a quelli emotivi (es. simpatia, prestigio, innovazione...).


Il brand non è un prodotto

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“Marketing is for lovers everybody may think they can do it well, but it’s only the passionate, edgy and open that make it worthwhile” - Sean Moffitt Il marketing management consiste nell’analizzare, programmare, realizzare e controllare progetti volti all’attuazione di scambi con mercati-obiettivo con il fine di centrare traguardi aziendali: mirando ad adeguare l’offerta di prodotti o servizi ai bisogni e alle esigenze dell’utenza, oltre che ad affinare l’uso efficace delle tecniche di determinazione del prezzo, della comunicazione e della distribuzione, il suo scopo è quello di informare, motivare e servire il mercato.

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Il brand è intangibile e le riflessioni delle aziende su questa “verità” portano a ritenere sempre più importante il momento della costruzione e della connotazione valoriale e strategica del proprio brand. Tale procedimento è reso fondamentale dal moltiplicarsi delle possibilità di scelta del consumatore in un contesto in cui diminuisce il tempo da dedicare a tale scelta ed è reso indispensabile dal ridursi delle differenze tangibili riscontrabili tra le caratteristiche di prodotti/servizi alternativi: la tendenza dei consumatori è quella di basare le proprie scelte di acquisto su pure convinzioni piuttosto che su dati oggettivi derivanti da una conoscenza diretta. Per creare un’identità di marca forte è necessario trasformare l’unicità della marca stessa in utilità e, di conseguenza, in una denominazione che la sintetizzi e che ne definisca in maniera inequivocabile il posizionamento sul mercato e nell’immaginario collettivo: un brand carismatico è una marca per la quale le persone non riescono a immaginare un sostituto. La sua essenza dipende dai valori sociali e aziendali che incarna, dall’insieme delle caratteristiche tangibili e intangibili, positive e negative, attribuite dal cliente alla marca, dall’approccio al marketing mediante il quale è costruito; tale essenza è frutto del lavoro congiunto di strategie e creatività.

il brand non è la campagna pubblicitaria

Con il termine posizionamento si intende l’attività di marketing orientata a creare nella mente del consumatore un’immagine distintiva ed efficacemente competitiva per una marca: in pratica, consiste nell’individuare le fasce di pubblico a cui rivolgersi e nel definire l’insieme di significati che caratterizzano il prodotto/servizio ai loro occhi. Un corretto e forte posizionamento è quello che, attribuendo alla marca caratteristiche uniche, riconoscibili, persistenti nel tempo e rilevanti per il suo consumatore, è in grado di evolversi nel linguaggi, assecondando le trasformazioni sociali.


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By Wikipedia.org Ph. by Nevada Tumbleweed - Flickr

L’era dell’AVERE. Le tendenze di marketing proprie di questo “orizzonte” sono quelle definite dal marketing operativo o “push”, fondato su un approccio al mercato orientato al prodotto. L’impresa si concentra sulla tecnologia del prodotto/servizio, piuttosto che sul consumatore, “spinge” la propria offerta facendo leva sulle sue caratteristiche oggettive, comunicandola per “quel che è” con il “semplice” scopo di vendere quel che produce, senza chiedersi di cosa ha bisogno il suo target: un approccio che rischia la cosiddetta “marketing myopia”, cioè di non accorgersi che lo sbocco di mercato può essere inesistente o di non comprendere i desideri del consumatore finale. Il marketing operativo porta, dunque, nell’era dell’avere, alla definizione e costruzione di una tipologia di brand che punta sul materiali-

era dell’avere

era dell’avere

“Ogni marca deve essere una stella, di qualsiasi grandezza possa essere, a qualsiasi altezza possa brillare” - Jacques Séguéla Partendo dalle posizioni sulla marca di Séguéla, sono giunta a ipotizzare quattro “ere” nell’evoluzione del concetto di brand strettamente collegate alla concezione di marketing su cui l’analisi della marca si poggia. Sicuramente tale evoluzione, e dunque la sua partizione in quattro momenti, corrisponde a un percorso anche diacronico, ma è da leggersi soprattutto come definizione e analisi di orizzonti mentali e culturali, teorici, in cui sono radicate alcune pratiche sociali. Questo perché le dinamiche che caratterizzano le quattro “ere” ipotizzate, una volta concepite, divengono trasversali e possono aver riscontro anche in realtà e situazioni socio-culturali successive a quelle che ne hanno visto e permesso l’elaborazione.

era dell’avere

da, ed è per questo che diviene lo strumento attraverso il quale ideare e progettare il brand, definire la sua natura “fisico-visiva”, connotarne i valori di riferimento, implementare le strategie per la sua costruzione.

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Per fare marketing sono necessari tanto il know-how per organizzare e condurre studi descrittivi del mercato, delle dinamiche di interazione al suo interno e dei suoi “utenti”, quanto una spiccata sensibilità nel percepire “lo stato emotivo” del mercato: umori, tendenze, “capricci”, contraddizioni, aspettative, eccetera, quasi fosse una persona. L’empatia nei confronti del mercato rende più semplice la connessione e l’incrocio di dati per portare avanti analisi e pianificazioni. La necessità di “empatia” spinge Kotler a definire il marketing non solo come la scienza, ma anche come l’arte di individuare, comprendere, creare, comunicare e fornire valore per soddisfare le esigenze di un target di riferimento realizzando un profitto, il processo sociale e manageriale diretto a soddisfare bisogni ed esigenze tramite la creazione e lo scambio di prodotti e valori. Il marketing è a mio avviso da intendere come una disciplina a metà strada tra le materie economiche e la psicologia, tra strategie e creatività, appunto: è per tale motivo che riesce così bene a definire l’intangibilità della marca, il suo appartenere alla sfera della comunicazione identitaria dell’azien-


smo, sugli aspetti tecnici distintivi del prodotto, che mira semplicemente a rispondere alla domanda “Cos’è?”, la cui unica dimensione è dunque quella del fisico: è il BRAND OGGETTO.

era dell’essere

L’era dell’ESSERE. Come nell’era dell’avere, in questo “momento” si continua a far riferimento a un approccio al marketing di tipo operativo che sposta leggermente il proprio focus di interesse e, piuttosto che al prodotto, risulta orientato alle vendite. Lo scopo è sempre la creazione della

domanda per un’offerta già confezionata, ma la prospettiva di tipo inside-out cambia poiché si percepisce maggiormente la presenza della concorrenza, l’aumento della possibilità di scelta da parte del consumatore e dunque il rischio di ritrovarsi in una situazione di sovrapproduzione e di saturazione del mercato: si agisce con maggiore velocità, soprattutto nel breve termine e con prodotti/servizi a bassa visibilità (unsought goods), cercando di conquistare il proprio target con la forza-vendita. La “marketing myopia” è ancora un fattore poco considerato, ma le strategie per far colpo sul consumatore subiscono una prima positiva evoluzione: nell’era dell’essere inizia a divenir chiaro che ci sono casi in cui mantenere una prospettiva di tipo “push” può essere più difficile del previsto e si cerca di ovviare alla comparsa di queste nuove esigenze trasformando il concetto di brand in qualcosa di più complesso e stratificato. A differenza del brand-oggetto, struttura monodimensionale e materialista, il BRAND PERSONA si compone di tre dimensioni: oltre al fisico questo brand possiede, quasi fosse un essere umano appunto, un 17

era del voler essere

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carattere e uno stile. Ciò comporta che si sposti il focus della costruzione del brand sull’individualismo, sui benefit del prodotto e non più sulle sue caratteristiche intrinseche. La domanda a cui si cerca di dare risposta diventa “Cosa fa?”.

L’era del VOLER ESSERE. Questa “era” interpreta e fa proprie le dinamiche del marketing strategico, anche detto “pull”, che abbandona del tutto l’orientamento al prodotto del marketing operativo a favore di una prospettiva orientata al mercato: si cerca di comprendere i bisogni del target al fine di produrre beni atti a soddisfarli. In una prospettiva di tipo outside-in si punta quindi a capire il mercato e creare offerta in base alla domanda. In altre parole, il marketing strategico misura – in termini quantitativi, qualitativi (con riferimento all’accessibilità al mercato) e dinamici (con riferimento alla durata economica che è rappresentata dal ciclo di vita del prodotto-servizio) – l’attrattività dei desideri dei consumatori in modo da scegliere una strategia di sviluppo che colga le opportunità esistenti (rappresentate


sostanzialmente da bisogni insoddisfatti) e che, tenendo conto di risorse e competenze dell’impresa, offra alla stessa un potenziale di crescita e di redditività. In base a questo approccio anche la visione del brand si modifica e, alle tre dimensioni del brand-persona (fisico+carattere+stile) si va ad aggiungere un quarto elemento: la straordinarietà. Fisico, carattere e stile diventano mitici, quasi divini, si punta sull’immaginifico, su emozioni ed esperienze fuori dal comune e si cerca di rispondere ad un nuovo quesito: “Cosa ti fa percepire?”. Nasce il BRAND STAR. “La star è un essere unico e multiplo in cui ciascuno si identifica e che si identifica con tutti. La marca non ha altra funzione. Ciascuno deve trovarvi il suo piacere ma la marca deve soddisfare tutti [...] Marca e star erano gemelle, e ambedue sorte dal nostro immaginario collettivo” (Jacques Séguéla).

era dell’esistere

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“Rightly or wrongly, people like their lives to be narrated. Marketing provides that narration and puts products into people’s lives.” Peter Allen Successivamente al brand-star di Séguéla, l’evoluzione di brand e marketing porta al delinearsi di un ultimo percorso trasversale di costruzione del significato dei consumi, il più importante e complesso l’era dell’ESISTERE. Philip Kotler definisce l’ultimo nato tra gli approcci al marketing moderno come “marketing olistico”. In Marketing Moves il famoso teorico spiega: “si tratta di un concetto dinamico che nasce dalla connettività e interattività elettroniche fra l’azienda, i suoi clienti e i suoi collaboratori. Integra le attività di individuazione, creazione ed erogazione del valore mirate all’instaurazione di rapporti di lungo termine e reciprocamente soddisfacenti [...] Le

imprese, dunque, devono passare da una filosofia “produci-e-vendi” alla filosofia “ascolta-e-rispondi”, ampliando la propria concezione della funzione del valore dei clienti e mirando a soddisfare le loro esigenze nel modo più comodo ed efficace, minimizzando il tempo e le energie che il cliente deve dedicare alla ricerca, all’ordine e al ricevimento di beni e servizi.” Kotler sostiene che “il marketing dovrebbe svolgere un ruolo guida nella strategia di business e rappresentare la forza che garantisce che la promessa del marchio venga mantenuta” e questo il marke-


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ting olistico lo fa attraversando 4 dimensioni chiave: • marketing relazionale – si occupa delle complesse relazioni con i clienti studiandone il contesto in cui operano, le emozioni, le necessità e cosa li influenza nelle scelte (es. leader d’opinione); • marketing interno – provvede alla gestione delle risorse interne in modo che la visione customer-centric permei la mentalità di tutta l’azienda; • marketing integrato – serve a coordinare i diversi modi di veicolare il brand verso il cliente che devono essere coerenti e far parte di un orizzonte comune anche a stakeholder (clienti, dipendenti, distributori, rivenditori e fornitori) e azionisti; • marketing socialmente responsabile – affronta le questioni etiche, legali e gli effetti sociali delle attività di marketing. Il concetto di marketing, dunque, si estende a partire dalle esigenze del singolo cliente in un contesto in cui è lui a decidere non solo quale prodotto/servizio comprare, ma anche a che prezzo, attraverso quali canali distributivi e con quali caratteristiche.

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In quest’ottica diviene fondamentale, e da qui l’attributo “olistico”, in primo luogo che le strategie di marketing e il passaggio dall’orientamento alle vendite all’orientamento al cliente (la visione costumer-centric) vengano comprese da tutta l’azienda e non da uno solo dei suoi reparti; in secondo luogo che anche la visione del cliente divenga “olistica”, fondata sulla conoscenza di ogni aspetto del contesto in cui egli opera le proprie scelte, della sua individualità (cosa pensa, cosa desidera, cosa fa, di che cosa si preoccupa...), degli stimoli che può ricevere (quali media utilizza, quali opinion leader segue, a quali relazioni interpersonali è soggetto...); infine che la stessa “rete” relazionale costruita dall’azienda, a partire dai suoi partner, fornitori, collaboratori sia orientata al coinvolgimento, alla condivisione delle prospettive di marketing delineate dall’impresa stessa, in un’atmosfera di collaborazione e fiducia reciproche. L’approccio olistico al marketing fa in modo che anche la concezione del brand cambi: non si ha più bisogno di una divinità, ma di qualcosa in cui identificarsi, che serva a provare emozioni nuove che possono non appartenere alla propria realtà, che prolunghi la percezione oltre i propri cinque sensi. Si ricerca il piacere nella sua completezza, dunque la domanda diventa: “Cosa ti fa essere?” o “Come ti fa essere?”. Si ha bisogno del BRAND EMPATIA.


“Brand & Marketing: feel, care and connect!” Il brand-empatia corrisponde a una concezione flessibile della marca, è un brand che sa “sentirti”, che ti ascolta e ti comprende, che si occupa di te e che ti connette al tuo contesto completandoti. Alla base della costruzione di una “marca empatica” c’è il fatto che strategie e creatività possano collaborare affinché tutte le parti in causa partecipino e aderiscano al suo insieme di valori. A ciò vanno aggiunte altre azioni fondamentali: differenziare e innovare, distinguersi dal resto (dai propri competitors) per risaltare nonostante i filtri che il consumatore adotta per proteggersi dalle troppe informazioni, rinnovandosi continuamente pur non perdendo la propria riconoscibilità; dimostrare la validità della marca per testarne il grado di differenziazione, rilevanza, memorizzazione, estendibilità e profondità di significato; coltivare, non solo le proprie strategie ma anche il proprio marchio, lavorare continuamente sul brand per trasformarlo senza tradirne la filosofia; connettere, sfruttare le proprie risorse di ampliamento (anche dette tie-in, risorse in

grado di connettere il settore di mercato nel quale si è inseriti a settori non immediatamente affini, ma con cui è possibile creare un tramite strategico e operativo) per favorire letture aperte e originali dei propri prodotti/servizi. In estrema sintesi il brand-empatia è il brand carismatico per eccellenza, quello che sa adattarsi al suo target senza perdere le proprie caratteristiche distintive, risultando sempre diverso e originale pur rimanendo coerente a se stesso.

Per approfondire: Perché è importante avere un brand carismatico [http://www.youtube.com/watch?v=aFqwf7ydc38&eurl] L’era dell’AVERE AVA [http://it.youtube.com/watch?v=BlM--m-AELY] L’era dell’ESSERE Barilla [http://it.youtube.com/watch?v=UKk4Zaw61eU] L’era del VOLER ESSERE Martini [http://it.youtube.com/watch?v=QpO-WWkvo88] L’era dell’ESISTERE Unicredit [http://www.youtube.com/watch?v=svrVI4p-Vls] Nespresso [http://it.youtube.com/watch?v=M8RtUJwLl-s] Coca Cola [http://it.youtube.com/watch?v=EdFO_meO7lI] 20


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di Redazione

I NUMERI DEL MARKETING

4P

Le del marketing mix by Jerome McCarthy il punto di vista del produttore • • • •

Product Price Place (distribution) Promotion

4C

Le del marketing mix by Bob Lauterborn il punto di vista dell’acquirente • • • •

Costumer value Cost Convenience Communication

4S

Le del viral marketing by Paolo Iabichino • • • •

Sesso Splatter Sadismo Stronzate

10 peccati capita-

I li del marketing by Philip Kotler

• L’impresa non è sufficiente• • • • • • • •

mente focalizzata sul mercato e “cliente-centrica” L’impresa non conosce a fondo i clienti obiettivo L’impresa deve definire e monitorare meglio i concorrenti L’impresa non ha gestito adeguatamente i rapporti con gli stakeholder L’impresa non riesce ad individuare nuove opportunità La pianificazione di marketing dell’impresa è inadeguata Le politiche aziendali relative a prodotti e servizi devono essere integrate Le capacità comunicative e di costruzione del marchio sono insufficienti L’impresa non è organizzata per attuare un’efficace strate-

7 T

Le del marketing utopico by Gianluca Diegoli • • • • • • •

Talk Try Tell Test Trust True Transparency

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Ph. by Wikipedia.org

Il marketing vede spesso le sue teorie associate a dei numeri chiave.

gia di marketing

• L’impresa non ha tratto tut-

ti i possibili benefici dalla tecnologia


9 fasi

Le del marketing care by Alessandra Colucci • Feel - sentire, percepire la •

“situazione in esame” così da diventarne parte Observe - analizzare le percezioni insieme ai dati oggettivi per avere, oltre a una “fotografia” del presente, una visione completa e complessiva del pregresso Aim - stabilire una direzione, delle prospettive, una serie di obiettivi da raggiungere, definire una timeline e fissare alcune deadline di controllo Shake - agitare, smuovere, mescolare elementi per migliorare la “situazione in esame” rinnovandola pur mantenendola riconoscibile Organize - organizzare, riordinare i processi che determinano e caratterizzano la “situazione in esame” insieme ai nuovi elementi venuti alla luce nella fase precedente Create - creare, ideare, progettare e gestire azioni strategiche e operative che servano a raggiungere gli obiettivi previsti uti-

lizzando le informazioni e gli strumenti predisposti nelle altre fasi • Check - controllare ogni step del processo, nonché la coerenza di ogni progetto predisposto con la timeline e gli obiettivi stabiliti • Show - mostrare i risultati ottenuti al fine di sottolineare e replicare gli effetti positivi, ma anche riflettere e cercare di su23

perare gli aspetti negativi

• Care - aver cura di ogni detta-

glio: dare importanza anche a ciò che può sembrare marginale fa sempre la differenza poiché ogni elemento di una strategia di marketing contribuisce a costruire il valore aggiunto e il vantaggio competitivo del Brand in esame.


di Diego Altobelli

TACCUINI MOLESKINE: i laptop più economici, portatili e usabili di sempre Qualche mese fa ero con M., scrittore e astrofisico ormai parigino d’adozione. Si parlava di come cambia la scrittura rispetto ai supporti e M., che non è un grafomane ma solo un grande fan di imprese impossibili, mi dice: «Sai che Wallace ha scritto Infinite Jest a mano e che Proust gran parte della Recherche sdraiato a letto?» (e chi ha letto la Recherche o Infinite Jest avrà i brividi dietro la schiena). Tiro fuori il mio taccuino Moleskine (rosso) e prendo un appunto, ché l’aneddoto potrebbe tornarmi utile per

il prossimo articolo di BC magazine e scopro che anche M. usa un Moleskine (nero) e, anzi, mi racconta della paura irrazionale che una volta gli prese a Santiago del Cile quando si accorse di averlo perso (il taccuino): «e sai che ho fatto? Sono andato negli studi della radio locale e ho offerto una ricompensa a chiunque me l’avesse riportato.» Quando si dice il pensiero laterale. Avviso al lettore Gentile lettore, come avrai senz’altro capito, questo è un elogio della carta scritta, della pagina strappata e della matita appuntita. Del pensiero analogico, metaforico e serendipitico, come lo chiamano quegli scienziati che scoprono una cosa mentre ne cercano un’altra: “la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino” diceva Julius Comroe Jr. e la citazione, vien da sé, l’ho trovata casualmente su Wikipedia mentre cercavo tutt’altro. Al di là delle casualità e dello spirito nostalgico ormai connaturato all’avanzare dell’età, l’autore ci tiene a sottolineare che, seduto alla sua scrivania davanti al monitor di un portatile perennemente connesso alla rete (anche quando non ce ne sarebbe bisogno), non intende sostenere alcuna tesi anti-tecnologica, antiquata, antipatica o apocalittico-integrata 24

che sia (figuriamoci) ma proporre solo un paio di riflessioni di semplice e ovvio buon senso. Elogio del taccuino (dove si arriva finalmente al punto dopo aver abbondantemente sfidato la pazienza del lettore) Per i pochissimi che non li conoscessero, i Moleskine, sono quei taccuini monocromatici con carta color avorio e dalle dimensioni variabili che si vendono a prezzi


Se vuoi scoprire il perché di tanta esaltazione emotiva, continua pure con la rassicurante lettura lineare dell’articolo altrimenti, se non tendi a emozionarti facilmente o sei semplicemente contrario al feticismo della carta scritta, salta pure il prossimo paragrafo da bravo lettore post-moderno non-lineare quale sicuramente sei. Storia breve dei Moleskine (con tanto di colpo di scena) Tutto inizia e, in un certo senso, finisce in Francia dove, in un periodo imprecisato tra l’800 e il 900, una piccola impresa familiare rifornisce le cartolibrerie parigine di piccoli taccuini neri dalle copertine morbide e dalle pagine a righe tenute insieme da un elastico. I taccuini sono più piccoli dei quaderni, meno pesanti dei libri e più tascabili dei portamonete così si aggiudicano, in breve tempo, un’indiscussa fama nel campo artistico barra letterario barra bohemien tanto da essere acquistati in quantità industriali, nel corso dei decenni successivi, da star come Van Gogh, Picasso, Hemingway e Chatwin. Nel mini flyer all’interno dei Mo-

leskine ciò assume toni epici a cui è impossibile resistere in quanto ognuno di noi, inutile mentire, è portato a pensare che anche il proprio taccuino sarà il “compagno di viaggio tascabile e fidato” e che custodirà “schizzi, appunti, storie e suggestioni” prima che diventino “immagini famose” o “pagine di libri amati” (sic). Nonostante la veloce affermazione dei Moleskine nell’immaginario collettivo novecentesco, l’azienda francese che ne assicurava la distribuzione fallisce nel 1986 e i taccuini scompaiono letteralmente dal mercato, finché nel 1998 un piccolo editore milanese decide di registrare il marchio e di riproporli sul mercato internazionale. Il resto, come si dice in questi casi, “è storia” e oggi la ex piccola casa editrice italiana ha una sede a New York, un famoso sito [www. moleskine.com], nuovi prodotti (tra i quali anche le Guide turistiche Moleskine) e decine di eventi culturali e artistici da promuovere con i suoi taccuini, divenuti simbolo tout court di arte e creatività allo stato puro.

Ph. by Joe paul posadas - Flickr

modici un po’ ovunque (per dire, anche su IBS [www.ibs.it]) e che nessuno chiamerà mai e poi mai “agendine” per evitare di vedere il proprietario contorcersi in disgustosi spasmi muscolari perché i Moleskine non sono solo semplici agende come i film di Billy Wilder non sono solo semplici film e i dischi dei Beatles non sono solo semplici dischi.

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Si può pesare la creatività? Il Moleskine è l’archetipo di tutti i taccuini moderni, il capostipite della copertina in simil-cuoio (“moleskin” vuol dire “pelle di talpa”, vedi box successivo), della fettuccia elastica e degli angoli arrotondati ma, soprattutto, della tasca interna “a soffietto”. Utile per la conservazione di fogli e post-it, la tasca “a soffietto” deforma il taccuino tanto da farne registrare una significativa crescita. Proprio grazie all’aumento di volume del taccuino è possibile determinare il peso della creatività. Come? Adattando il calcolo del “peso del fumo” dello scrittore Paul Benjamin (Wiliam Hurt) nel film Smoke (P. Auster, W. Wang, 1995): si prende un taccuino appena acquistato e lo si pesa, poi si pesa il taccuino al termine del suo utilizzo quando è “gonfio” e ricco di fogli e appunti. A questo punto si sottrae il secondo peso dal primo e la differenza è il peso della vostra creatività espressa in grammi. Esagerato? Il “grado zero” della creatività Cos’è che rende unico il taccuino? Il fatto che, sintetizzo, si presenta come il “grado zero” della creatività. Si osservino le pubblicità presenti in queste pagine: la Moleskinetastiera, la Moleskine-personal computer e la Moleskine-pellicola. Non rappresentano egregiamente il punto di forza dell’oggetto? Quello cioè di collocarsi esattamente tra l’idea e la sua prima realizzazione? Parlo della fase precedente alla formalizzazione dell’idea, di quel territorio incredibilmente complesso da definire ma ricco di suggestioni, casualità, serendipity e, spesso, esaltazione con conseguente sopravvalutazione


Ph. by Joe Jon_Aquino - Flickr

dell’idea stessa. La scrittura-su-taccuino è utile a superare il primo step di validità e contemporaneamente il primo, e più difficile, esame. Con l’idea “fissata” su carta, si diventa infatti lettori e non solo autori dell’idea in questione e si comprende quanto e come sarà possibile svilupparla o se, invece, sarà il caso di abbandonarla (e tutti i “produttori di idee” sanno bene quanto sia esile il confine che separa l’intuizione geniale dalla stupidaggine). È in questa fase, prima della formalizzazione effettiva, che il ruolo del taccuino si rivela fondamentale e le paginette a righe sono il miglior luogo possibile dove far stazionare le idee prima che prendano forma nei dispositivi dove saranno ampiamente descritte, “razionalizzate”, comunicate e, solo alla fine, realizzate. Non un elogio della carta scritta e della bella calligrafia dunque ma, semplicemente, l’esaltazione dello strumento migliore su cui far nascere e germogliare le proprie idee.

Da dove deriva il nome “Moleskine”? “Moleskine” deriva dal sostantivo inglese “moleskin”, letteralmente “pelle/pelliccia di talpa” (Wordreference.com) e, in senso traslato, indica il tessuto di cotone (o lana) noto come “fustagno”. Se si pensa però che li materiale con cui è composta la cover impermeabile, incredibilmente soffice e piacevole al tatto dei Moleskine sia il fustagno si sbaglia di grosso perché, e qui entriamo nel campo nei misteri della lingua, i famosi taccuini sono realizzati tutti in tela cerata. (fonte: Wikipedia [http://en.wikipedia.org/wiki/ Moleskine]) Grafomania: una precisazione L’autore ci tiene a specificare che non è mai stato un grafomane e che ha sempre amato scrivere sulle tastiere, sin dai tempi della sua prima Olivetti. L’autore è altresì convinto che il suo amore per le “tastiere” derivi dalla pigrizia, da una propensione naturale all’essere prolisso ma, soprattutto, dalla sua orribile calligrafia. Grazie però alla sua pessima calligrafia, è costretto, quando ha in mano una matita e un taccuino ad adottare una scrittura “elementare” che si rivela il deus ex machina della sua scrittura pubblicitaria con la quale riesce a pagarsi l’acquisto di libri e vecchi dischi. Ecco le caratteristiche principali della sua scrittura su taccuino: • corpo del carattere: da 10 a 20, • formato: tutto in maiuscolo, sottolineato e/o cerchiato, • abbondanza di collegamenti molteplici tra concetti diversi e, per questo: • predilezione per schemi e grafismi (anche complessi), 26

• poche subordinate (la perfe-

zione stilistica è rappresentata dalla triade: Soggetto-VerboComplemento Oggetto), • pochi orpelli come aggettivi qualificativi, note e consecutio iperboliche (questo per rispettare la triade SVCO), • libertà assoluta e totale di scarabocchio, ma soprattutto: • sintesi estrema: più sintesi equivale a più tempo risparmiato e, di conseguenza, a un accorciamento notevole di tutto il processo ideativo (inciden-


Ph. by pittaya - Flickr

Il taccuino: un laptop economico, portatile e usabile I taccuini Moleskine sono dunque, l’oggetto più nomade, portatile, personalizzabile, economico e usabile del nostro presente ipertecnologico e non è affatto provocatorio definirli come il miglior device (fin ora) in circolazione. Certo (vedi premessa) non si tratta qui di confrontare un iPhone o un ebook reader con un taccuino di carta, se non altro perché il secondo è un supporto sempre “vergine” e “vuoto” prima dell’utilizzo, ma far notare come, spesso, ci si dimentichi di quanto è semplicemente più comodo avere a portata di mano un taccuino più che un iPhone-BlackBerry-Pc-portatile per appuntare pensieri, numeri, disegni, nomi, cose, città, animali, lettere e testamenti. Il fatto, banalmente, è che il taccuino è più vicino ad assecondare i nostri pensieri ostinatamente casuali, rizomatici, serendipitici e irrazionali proprio nel momento

Ph. by ChrisL_AK - Flickr

talmente il tutto porta anche a un aumento della produttività dell’autore, molto apprezzata da coloro che pagano la sua scrittura).

in cui si creano tra una sinapsi e l’altra dei neuroni. Si aggiunga a questo che il taccuino non ha bisogno di essere avviato, non ha bisogno di alimentazione, di hardware/software né di interfacce friendly in quanto è l’utente che decide cosa farne e come utilizzarlo. Per una specie di stramba sineddoche: “il tuo taccuino sei tu”. Un po’ come avveniva con i diari al liceo (il lettore trentenne ricorderà nostalgicamente i tempi in cui i diari erano l’unico social network a disposizione). Certo, il mio taccuino non finirà mai esposto in un museo per il suo contenuto ma, d’altra parte, ho sempre saputo di non essere tagliato per le arti figurative. That’s all. Due precisazioni e un lieto fine Uno: Questo articolo è stato scritto con Neo Office [www.neooffice. org] su un personal computer come tanti con il browser aperto su decine di blog e siti. Nonostante ciò la struttura, l’incipit e queste brevi annotazioni finali sono state scritte (in sintesi e in maiuscolo) in treno (e in bagno) su un taccuino rosso. 27

Due: L’autore precisa che non ha mai ricevuto (e, probabilmente, mai riceverà) alcun compenso da Moleskine per questo articolo ma ci tiene a far sapere che è sempre disposto a comunicare i suoi privatissimi recapiti personali semmai qualcuno della suddetta azienda avesse intenzione di inviargli taccuini a righe 9X14 cm di colore rosso. Tre: M. ritrovò il suo taccuino a Santiago. Potere dell’amore per la scrittura unito alla propagazione capillare delle onde radiofoniche sudamericane e a una buona dose di quella che alcuni scienziati chiamano “serendipity”. M. vive tutt’ora a Parigi ma, nessuno sa perché, preferisce acquistare i suoi taccuini neri in Italia.


di Niko Demasi

UNA BMW PER TORNARE BAMBINI La campagna La campagna An Expression of Joy, affidata all’agenzia texana GSD&M, ha fatto il suo esordio nel dicembre 2008 per il lancio della nuova Bmw Z4. Il tema di base della campagna di comunicazione è l’enorme dipinto che l’artista di strada sudafricano Robin Rhode ha realizzato utilizzando la Z4 come un pennello per tracciare curve, cerchi e linee colorate su una tela di 1.800 mq. La progettazione e la realizzazione della performance artistica di Rhode costituiscono il nodo centrale dell’attività di comuni-

cazione: tutti gli interventi della campagna (commercial, affissioni e materiale stampato, website dedicato, allestimenti e installazioni, attività di guerrilla ecc.) sono stati declinati partendo dal motif visivo creato dalla Z4 e dal processo con il quale è stato realizzato questo innovativo esperimento di “pittura stradale”. L’importanza che il progetto riveste nell’attività comunicativa del marchio tedesco si evince dalle parole di Manfred Bräunl (responsabile del marketing per il marchio BMW in Germania): il dirigente si dice infatti fermamente “convinto che

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la BMW Z4 possa rappresentare i valori del marchio BMW – design, giovinezza, prestazioni dinamiche – più di qualsiasi altro veicolo”. La performance artistica La progettazione della performance artistica di An Expression of Joy è passata attraverso due fasi: in un primo momento Rhode ha eseguito degli schizzi su carta con le dita, utilizzando solo il colore nero; in seguito da questi schizzi ha ricavato uno storyboard che descriveva nel dettaglio le traiettorie dell’auto e il colore usato per tracciarle. Per istruire al meglio il pilota


che ha realizzato materialmente l’opera, l’artista si è anche servito di una simulazione in miniatura della stessa (con tanto di modellini dell’automobile). La performance vera e propria si è svolta presso i Downey Studios di Los Angeles; la tela è stata stesa su una superficie grande quasi come un campo di calcio ed è stata realizzata a partire da moduli più piccoli: questa soluzione ha consentito di conservare l’opera in singoli quadri e all’occorrenza di spostarli facilmente per utilizzarli nei numerosi eventi previsti dalla campagna. Rhode ha utilizzato i pneumatici dell’auto come pennelli per stendere i colori (blu, giallo, rosso e verde): la soluzione studiata prevedeva l’utilizzo di ugelli posti sugli assali della Z4 azionabili a comando per avere un controllo diretto sulla posa del pigmento. Per evitare di mischiare i colori impropriamente i pneumatici venivano sostituiti continuamente, in modo da conservare la purezza delle linee e delle tonalità. L’artista interveniva in seguito versando all’occorrenza grandi quantità di colore, aggiungendo così una varianza di forma alle traiettorie precise generate dal

mezzo meccanico. Il progetto è stato completato in 12 ore: questo è stato anche il tempo a disposizione del regista Jake Scott per filmare il tutto, dato che ogni sequenza era di fatto un unicum irripetibile e “la prima” l’unica ripresa realizzabile. La performance è stata filmata utilizzando 45 telecamere che hanno ripreso l’evento in simultanea (e da 45 angolature differenti). Un aspetto molto interessante della campagna An Expression of Joy è che essa rappresenta allo stesso tempo una continuazione e uno sviluppo del rapporto consolidato del marchio Bmw con l’arte contemporanea. Con il progetto Bmw Art Car Collection, a partire dalla metà degli anni ’70, la casa tedesca ha dato inizio a una collezione che ha visto impegnati sulle proprie auto sportive i più grandi artisti contemporanei (ricordiamo tra gli altri David Hockney, Jenny Holzer, Roy Lichtenstein, Frank Stella, Robert Rauschenberg e Andy Warhol): le Bmw sono state utilizzate dagli artisti come superfici sulle quali esprimere una visione e una riflessione sul concetto

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di automobile nel nostro mondo contemporaneo. Il progetto An Expression of Joy si inserisce in questa tradizione, ma ne rappresenta allo stesso tempo un superamento concettuale: in quanto protagonista della performance artistica, l’auto non è più un oggetto d’arte ma è essa stessa arte poiché parte attiva del processo creativo. Lo spot pubblicitario Lo spot (nel formato esteso di 48 secondi) è composto da 30 inquadrature raggruppabili in tre sequenze principali. La prima è brevissima poiché comprende soltanto un’inquadratura: è una soggettiva, si vede solamente una porta bianca con due oblò opachi; la porta sembra quella di un moderno laboratorio chimico o di un reparto specialistico di un ospedale, l’illuminazione è molto

fredda e in generale la scena comunica una sensazione di asetticità; mentre la telecamera effettua un leggero movimento in avanti le due ante si spalancano: parte un brano di musica elettronica (unico elemento della colonna sonora; non sono presenti effetti sonori né audio ambiente); ad attraversare la porta è il nostro sguardo. Una dissolvenza al bianco (ottenuta attraverso la sovraesposizione dell’immagine) ci introduce alla seconda sequenza: le 27 inquadrature ci mostrano la Z4 in azione sulla mega-tela distesa sul pavimento dell’hangar; il ritmo visivo della sequenza è dato dal montaggio di totali e campi medi della tela su cui vengono tracciate le traiettorie colorate alternati ai dettagli dell’auto; la telecamera è quasi sempre fissa: il movimento è dato dalle evoluzioni dell’auto ed è tutto interno all’inquadratura;

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la camera si muove solo in alcune veloci panoramiche a seguire o nelle inquadrature dei dettagli dell’auto riprese dalla camera montata sulla Z4. In questa sequenza protagonista assoluta è la Bmw Z4, “l’artista a quattro ruote” impegnata nell’esecuzione della sua performance: comincia con lo stendere morbide curve di blu sulla tela bianca, aggiunge poi il giallo, poi il rosso e il verde in un crescendo caleidoscopico, sintesi visiva di “un’espressione di gioia”; la macchina-artista si immerge letteralmente nell’opera, infischiandosene di sporcare la sua preziosa carrozzeria con le copiose quantità di colore che stende sulla tela: al contrario sembra quasi bearsi delle tracce cromatiche, testimonianza tangibile del processo artistico. Il montaggio in questa sequenza è funzionale all’esaltazione della performance artistica: i valori formali hanno il sopravvento su qualsiasi indugio narrativo; ciò che si vuole comunicare è il gesto artistico in azione e la materia che ne registra l’attualizzazione; la carica emotiva è preponderante ed è sorretta dal contrappunto visivo tra le traiettorie colorate dell’opera e i dettagli filanti dell’auto: un confronto dialettico tra arte e design, tra materia pittorica e materia industriale che compenetrandosi veicolano quelli che sono i valori del marchio Bmw. La terza e ultima sequenza comprende le due inquadrature finali; i tempi sono più dilatati, la colonna sonora “rinuncia” alla base ritmica lasciandoci solo la suggestione del tema portante del brano musicale; il mood è etereo, sognante, quasi “liquido”; vediamo la Z4


entrare lentamente in campo di 3/4, si ferma: l’auto, che esibisce sulla livrea blu macchie di colore rosso, occupa tutto il quadro; lo stacco ci porta all’ultima inquadratura che ci presenta l’auto ferma di profilo; lo sguardo è catturato dai movimenti eleganti dell’hardtop a scomparsa in azione: è la chiusura spettacolare che sottolinea ancora una volta il rapporto organico tra design e tecnologia; il lavoro è finito, la performance completata: la sequenza si chiude dissolvendo al bianco.

An Expression of Joy La prima inquadratura (che è anche la prima brevissima sequenza) dello spot pubblicitario è lo snodo strutturale del lavoro; minimale appiglio narrativo, è la chiave di lettura (una delle possibili) che il regista consegna allo spettatore: la soggettiva ci catapulta immediatamente dentro il film; la porta che attraversiamo, il cui freddo design ha un sinistro “richiamo” funebre, non ci porta dentro ma fuori: fuori dallo sterile ambiente standardizzato in cui ci troviamo (la porta potrebbe trovarsi all’interno di un

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qualsiasi ufficio-laboratorio in una qualsiasi città del mondo industrializzato): forse si tratta proprio del nostro ufficio, il posto dove lavoriamo, metafora di una grigia quotidianità che è soprattutto uno stato mentale. La dissolvenza al bianco rafforza il significato di evasione della prima sequenza; questo tipo di soluzione permette di segnare il passaggio dallo spazio-tempo della realtà ad uno spazio-tempo altro (il sogno? il ricordo?): ci troviamo così in un ambiente vuoto, inusuale; per terra è stesa un’enorme tela bianca: è attraversata da una Z4 blu che vi dipinge sopra utilizzando i battistrada come pennelli. È un tripudio di colori, derapate, traiettorie velocissime e di eleganti dettagli delle forme. Nello spot non c’è nessun primo piano del pilota, non vediamo i suoi occhi, la tensione del suo corpo, le sue reazioni emotive: non lo vediamo perché, in una sorta di transfert, a guidare la Z4 siamo noi. L’efficacia della sequenza è sorretta dalla scelta di mettere in scena un’esperienza e non un racconto: ciò che vediamo rappresentate sono le sensazioni di guidare una Bmw in piena libertà (la trazione posteriore come “marca semantica” dell’identità Bmw), in uno spazio atipico e improbabile: lontano dalla strada la velocità e le evoluzioni audaci dell’auto acquistano un’aura di libertà, giocosità che annullano sul nascere le possibili “sanzioni” da codice della strada per un comportamento giudicato socialmente pericoloso (e quindi non infrangendo il tabù della sicurezza stradale). Il sogno di ogni bambino: l’ebbrezza di vivere le proprie emozioni in modo immediato, diretto, alla massima intensità e senza


l’assillo della voce della mamma che ti mette in guardia dal pericolo; allora via, liberi di lanciarsi a tutta velocità con la bici giù per la scarpata, liberi di perdersi nel bosco e soprattutto liberi, finalmente, di ricoprire le pareti del soggiorno di casa con un immenso e variopinto murales! È dunque il desiderio inconscio di riacquistare la spontaneità dell’infanzia ciò che mette in scena Jack Scott? Da questo punto di vista anche la performance artistica di Rhode si presta a un ulteriore considerazione. L’artista sudafricano definisce esplicitamente An Expression of Joy come pittura in azione: scontato il confronto con l’opera di Jackson Pollock e l’arte informale più generale; a grandi linee le tendenze principali di questo movimento, di per sé anche poco omogeneo, possono essere sintetizzate nel rifiuto

violento della forma e quindi della conoscenza razionale; nella volontà di esprimere le passioni, emozioni e tensioni in modo immediato, senza il filtro della ragione, al di fuori di qualsiasi convenzione accettata; nel riconoscimento della performance come l’autentico specifico dell’arte (il quadro finito era solo una testimonianza fisica del processo di creazione artistica). Osservate un bimbo (dai due ai tre anni circa) mentre disegna e avrete un limpido esempio di arte informale: il bimbo non pensa, afferra semplicemente un colore e comincia a stendere strati di pigmento sulla superficie candida del foglio, poi ne prende un altro e un altro ancora guidato solamente dal suo istinto; finita la sua performance butta senza nessuna remora l’opera appena completata (non deve neanche venderla…), prende

un altro foglio e ricomincia: non è stanco perché non sta lavorando, sta semplicemente esprimendo le sue emozioni giocando. “L’espressione di gioia” che lo spot ci promette non deriva dal possesso del “feticcio-auto di lusso” ma dalla capacità di vivere l’esperienza delle proprie emozioni; guidare la Z4 ci permette di assecondare il desiderio inconscio di ritornare all’autenticità dell’infanzia, riscoprire il bambino che è dentro ognuno di noi e raggiungere uno stato mentale libero dai condizionamenti della “razionalità strumentale” che ormai governa le nostre esistenze. Guidare una Bmw è come l’esecuzione di una performance artistica, è l’attualizzarsi di uno stato d’animo profondo, inconscio e quindi vero.

Per approfondire: - [www.expressionofjoy.com] - [www.bmw-museum.com/2/webmill.php?fx=g&id=630421] -Immagini e informazioni sulla campagna sono disponibili all’indirizzo: [www.press.bmwgroup.com/pressclub/p/it/startpage.html] - Il filmato è visibile all’indirizzo: [www.bmw-web.tv/it/search/term?term=an+expression+of+joy] 32


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di Vanni Codeluppi

MARCA E SOCIETÀ: QUALE RAPPORTO? Le marche di successo sono quelle che riescono a dare vita a un proprio immaginario e a mantenerlo costantemente attivo nel tempo. Tale immaginario viene di solito costruito attraverso un processo di appropriazione progressiva di una parte del più ampio immaginario culturale esistente nella società. Ciò è realizzato dapprima individuando uno specifico valore sociale e poi utilizzando le diverse forme di comunicazione disponibili (pubblicità, promozioni, Internet, ecc.), gli elementi d’identità visivoverbali (nome, logo e altri codici di marca), il design dei prodotti, i punti vendita e il lavoro delle persone che operano all’interno dell’azienda per costruire attorno a tale valore una realtà comunicativa che appaia dotata di una precisa identità. Il risultato è che la marca si trasforma in un soggetto sociale estrema-

mente importante che consente ai consumatori di disporre di storie e significati che essi possono utilizzare per costruire la loro identità, per esprimere cioè quello che vogliono essere. Le marche più efficaci sono dunque quelle in grado di funzionare a pieno titolo come «marche valoriali», ovvero marche che agiscono in un contesto sociale dal quale certamente subiscono delle influenze, ma che contribuiscono a loro volta a influenzare attraverso l’impiego di quei valori sociali di cui si appropriano. Il che non implica però che i consumatori accettino passivamente i mondi valoriali che vengono proposti loro dalle marche. Ciò che avviene, infatti, è che i consumatori attivano propri processi di

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risemantizzazione dei messaggi emessi dalle marche. Dunque, gli immaginari proposti dalle marche svolgono oggi un ruolo sociale importante, anche se è soltanto con il contributo determinante dei consumatori che tali immaginari possono trasformarsi in effettiva esperienza sociale. Resta comunque il fatto che oggi le marche cercano di integrarsi progress i v a m e n te nella cultura sociale, fondendo i propri messaggi con quelli circolanti nella società. Non si limitano infatti a sponsorizzare semplicemente la cultura, ma si trasformano in un’autonoma forma di cultura. Come nel caso di Nike, che è entrata nel mondo dello sport con i suoi campioni-testimonial non come sponsor di uno spettacolo altrui, ma da protagonista. Cioè identificandosi totalmente con l’idea di sport e relegando il vero


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evento sportivo in secondo piano. Ma si pensi anche ai festival e agli eventi musicali organizzati dalle più importanti marche di birra e da molte società telefoniche, dove i musicisti sono ingaggiati direttamente dalle aziende e si limitano a riempire di contenuti espressivi una cornice che è già stata costruita dalla marca. O a Diesel, che offre

ogni anno la possibilità ad artisti e designer di realizzare opere monumentali sui muri e le facciate di edifici nei centri di Milano, Berlino, Toronto, Copenhagen e Pechino. O, infine, a Coca-Cola, che si considera sempre più un’industria dell’intrattenimento, che promuove e sponsorizza eventi sportivi, concerti, film e programmi televisivi. Ciò che avviene, insomma, è un paradossale ribaltamento di ruolo per cui il soggetto parassitario (la marca sponsorizzante) sembra diventare più significativa del soggetto da cui assorbe la sua energia vitale (l’artista o l’evento culturale). Le marche non creano però solamente degli eventi di tipo culturale e altamente spettacolari, ma danno vita anche a eventi poco visibili e inseriti abilmente nella vita quotidiana delle persone. Come Sony Ericsson, che ha mandato in giro nelle città statunitensi degli attori che ferma-

vano le persone per strada fingendo di essere turisti che chiedevano di essere fotografati con il nuovo modello di videotelefonino della marca, che naturalmente veniva prontamente magnificato. Ma negli Stati Uniti capita anche che, mentre si sta guardando gli scaffali al supermercato, un attore che si finge consumatore esperto consigli di acquistare un prodotto che dichiara di avere provato con soddisfazione. Ciò che appare sempre più evidente dunque è che le imprese, grazie alle marche, tendono a trasformare la vita quotidiana delle persone. Si appropriano delle esperienze vissute dagli esseri umani e le trasformano in merci vendibili sul mercato, ma producono anche degli effetti su tali esperienze. Lo dimostra il fatto che spesso riescono addirittura a imporre dei nuovi comportamenti sociali. In Italia, ad esempio, Nescafé ha introdotto e diffuso negli ultimi anni l’usanza tipicamente americana di fare il brunch, cioè un pasto che si colloca


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Cola hanno comunicato all’epoca concetti come l’amicizia tra i popoli e l’armonia universale, mentre la rivale Pepsi è diventata in pubblicità «The Pepsi Generation», assumendo progressivamente il monopolio della rivolta adolescenziale. Casi analoghi sono stati in Italia quelli di Cornetto Algida e Vespa Piaggio («Chi Vespa mangia le mele»). Ma ci sono anche marche che hanno addirittura fatto dei valori dei movimenti giovanili di contestazione i propri valori fondanti. Così, ancora oggi Apple rappresenta il simbolo della lotta della libera espressività personale contro la tecnocrazia, Virgin e Reebok esprimono dei significati di non-conformismo, Levi’s e Nike comunicano un’idea di libertà individuale, Benetton è riuscita nell’intento di associare il suo nome alla lotta contro il razzismo, mentre la marca di gelati Ben & Jerry’s ha ripreso esplicitamente la cultura degli hippie degli anni Settanta. Insomma, la forza che le marche riescono a esprimere nella società deriva a queste ultime soprattutto dal fatto che esse sono in grado di utilizzare efficacemente il materiale grezzo dell’esperienza e della cultura sociale. Sanno cioè prenderlo e trasformarlo attribuendogli un aspetto credibile e affascinante per gli individui.

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temporalmente tra la prima colazione e il pranzo (tra il breakfast e il lunch). Ma si pensi anche a McDonald’s, che ha diffuso nel mondo il modello del fast food, e a Kellog’s, che ha imposto invece quello della prima colazione basata sui cereali. Negli Stati Uniti, invece, la marca di abbigliamento Dockers ha promosso la diffusione del «friday wear», cioè di quel vestire informale che si può portare nell’ambiente di lavoro al venerdì perché è il giorno che precede la libertà del week end, mentre Starbucks ha insegnato ad apprezzare la cultura italiana del caffè. Per rendere efficaci le loro strategie, le imprese cercano anche di appropriarsi delle principali tendenze in corso nella cultura sociale, determinando anche in questo caso delle modifiche di tali tendenze. Ciò è avvenuto negli Stati Uniti già nel corso degli anni Sessanta, quando numerosi giovani hanno cominciato a contestare il sistema industriale e capitalistico e le imprese hanno cercato di incorporarli. Hanno cioè creato un’immagine ideale della comunità giovanile. Un’immagine che in precedenza non esisteva e che ha funzionato come strumento di identificazione per fare sentire i giovani consumatori parte della nuova comunità emergente. Marche come Coca-


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di Alfonso Amendola

sando gli anni 60, 70, 80 (di volta in volta entrando a spada tratta non soltanto nel pittorico ma anche nelle dinamiche produttive e realizzative della televisione, nella pubblicità, dell’editoria). E’ tuttora specchio indiscusso di una totalità delle arti. Modello di un’arte radicalmente spogliata da qualsiasi impasto di retorica e ispirazione, Warhol ha saputo guardare con vorace spirito d’assoluto al mondo del mercato e alla dimensione collettiva e “multimediale” delle espressioni, eleggendo le modalità del “pop” come unico e ossessivo viatico alla ricerca della totale visibilità Pop-culture come “sfruttamento indolente di paesaggi mediocri” (basilare resta il volume POPism: The Warhol’60s scritto a due mani – nel 1980 – con il sodale Pat Hackett). Per Warhol tutto è nella costruzione dell’immagine. Fuor dall’immagine non c’è nulla. E Warhol questo diktat lo renderà talmente potente e fulminante che sarà in grado di riscrivere, Ph. by josevicente.es - Flickr

“Sono certo che guardandomi allo specchio non vedrei nulla. La gente dice sempre che sono uno specchio, e se uno specchio si guarda allo specchio che cosa può trovarci”. Cosi “spiega” se stesso Andrew Warhola (questo è il nome d’origine di Andy Warhol) e lo fa nel rizoma di una miriade d’interviste ora raccolte in un volume curato da Alain Cueff nel 2004 ed emblematicamente intitolato I’ll be your mirror. The selected Andy Warhol Interviews. L’obiettivo di Warhol è stato quello di tramutarsi, gradualmente e inesorabilmente, in una sorta di “specchio” della società dei consumi di massa. E lo è stato davvero specchio dei consumi sociali nelle sue diverse trasmutazioni: pittore, regista, organizzatore, scrittore, producer, business man, talent scout, sobillatore iper-mediale, filosofo metropolitano… Warhol è stato specchio dei tempi attraver-

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I’LL BE YOUR MIRROR. ANDY WARHOL: un’idea di “consumo” nell’arte

per intero, non soltanto la storia dell’arte ma l’intera concezione delle procedure comunicative e relazionali del nostro “sistema delle complessità” del contemporaneo. Specchio riflettente e pronto all’azione. Specchio come matrice d’ulteriore esistenza. Specchio come matrice d’arte. Al contempo superficie come unicità e possibile vero (“solo i superficiali non si fermano alle apparenze” scriverà Oscar Wilde, un altro che di trasmutazioni provocatorie ne capiva davvero). La dimensione speculare di Warhol (uno specchio che assorbe, amplifica e rilancia su ulteriori piani) è un agire imprescindibile per cogliere nel profondo il respiro della nostra modernità. Le sue azioni


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saranno talmente nette e radicali che “pensare l’arte” dopo le produzioni post-warholiane è cosa davvero ardua. Warhol, infatti, riscrive i codici base della “creazione” e con gran immediatezza ti dice che “il multiplo supera l’unicità” (overdose in serigrafia nomate: Coca Cola, Marylin Monroe, Mao Tse-Tung). Consapevole della lezione duchampiana, ti fa capire che il “banale” defunzionalizzato e inserito all’interno di un discorso di fruizione artistica di massa diventa opera. Il flusso infinito e ininterrotto dell’immagine filmica (fautore di un cinema a ciclicità imperante con netto predominio di zoomate, staticità, piani sequenza) è una continua intuizione formale di svuotamento dell’eros (dal 1963 di Sleep, Kiss, Eat, Haircut, Blow Job ai vari Dracula o Frankenstein degli anni Settanta, passando attraverso la complice collaborazione con Paul Morrisey). La stessa dimensione della Factory è un capitolo a sé per comprendere l’avvenuta mutazione dell’arte nel nostro tempo. Una factory che è stata definita “fabbrica ontologica” e che ha visto i fondanti “passaggi” di gente come Miles Davis, Basquiat, Keith Haring, Madonna… per quanti vogliano cogliere il respiro di visionarietà, trasgressione e invenzione totale è fondamentale l’autobiografia di Mary Woronov Swimming Underground (My years in the Warhol Factory) uscita nel 1995. Comunque tutto il lavoro di Warhol è sempre segnato a grandi linee da una dimensione fatta di leggerezza, frivolezza, vanità, dandysmo. “Se volete sapere tutto su Andy Warhol – dirà egli stesso – vi basti guardare la superficie dei miei quadri, dei miei film, della mia persona. Io sono là, dietro non c’è

niente”. Dietro questo “niente” c’è in realtà un concentrato di operazioni e reinvenzioni totali (“Sono una macchina”, altra celebre auto definizione). Non è facile parlare di Warhol… tutto sembra sfuggire quando si cerca di “sintetizzare” i suoi segmenti compositivi e operativi. Andy Warhol è un motore sempre acceso e pronto all’assalto. E le parole d’ordine della riscrittura sistemica di Warhol sono: l’esplosione dell’oggettualità, il massacro della dimensione identitaria, l’esibizionismo, la volontà di leggenda, lo choc comunicativo. Sempre vestito d’indifferenza (necessaria) e di cinismo (inevitabile) per chi ha voluto “semplicemente” riscrivere totalmente la storia dell’arte, della comunicazione e dei consumi di massa. Troppe linee di fuga in lui. Troppe sembianze. Infatti il nome che maggiormente sembra indicarlo è “Drella”: a metà tra Dracula e Cinderella/Cenerentola… ov39

vero la profanazione e l’innocenza. E Songs for Drella è anche il titolo di un notevole concept album, perfetto omaggio-scandaglio a lui dedicato e realizzato nel 1990 da John Cale e Lou Reed, ossia due membri di quei Velvet Underground che rappresentano un massiccio capitolo per comprendere ulteriori tensioni estetico-produttive di Andy Warhol e con i quali non solo realizzerà una storica performance/film/opera/concerto dal titolo “Exploding Plastic Inevitable” ma sarà alla base del mitico disco della “banana” dove guarda caso compare una canzone dal titolo “I’ll be your mirror” interpretata dalla divina valchiria Nico. Una canzone che ci dona ancora una traccia per avvicinare lo specchio Warhol: “When you think the night has seen your mind/ That inside youre twisted and unkind/ Let me stand to show that you are blind/ Please put down your hands/ cause I see you/ Ill be your mirror”.


di Vincenzo Bernabei

L’evoluzione delle produzioni e dei consumi mediatici rappresenta indubbiamente un paradigma affidabile per lo studio dei mutamenti economici e sociali tout court. A partire dalle prime intuizioni di Harold Innis e della Scuola di Toronto molti sociologi, economisti, filosofi, antropologi e studiosi di arte hanno incentrato la propria elaborazione di pensiero partendo dal presupposto che i dispositivi e le pratiche di comunicazione sono parte integrante – al contempo come causa e come effetto – delle più generali tendenze organizzative e produttive della società in cui si concretizzano.

teri mobili di Johann Gutenberg, che contribuì in maniera decisiva alla circolazione delle idee e delle informazioni, oltre che all’universalizzazione dei principi connessi all’etica protestante. O, ancora più semplicemente, è innegabile che un vecchio programma televisivo come Carosello, emblema dello sdoganamento e della liberalizzazione del messaggio pubblicitario nel panorama culturale del nostro Paese – tradizionalmente conservatore rispetto a certi argomenti – rimandi all’universo simbolico dei baby boomers nostrani, vale a dire di quella generazione che visse da protagonista l’impennata produttiva del secondo dopoguerra. Nel secolo scorso è stata sicuramente l’esperienza dello Studio System americano a rappresentare più fedelmente il modello sociale e produttivo dell’epoca

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Tanto per citare un classico esempio, sarebbe impossibile delineare il percorso di nascita e affermazione del sistema moderno di libero mercato prescindendo dall’invenzione della stampa a carat-

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TEMPI MODERNI E LOST L’importanza dei media nello studio delle trasformazioni sociali e produttive

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parlano di un ripiegamento delle soggettività sociali all’interno della propria sfera privata. A un certo punto è come se la dissoluzione dei movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta, la flessione culturale delle grandi tradizioni politiche popolari, le difficoltà economiche dei paesi occidentali originate dalla crisi petroli-

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moderna. Negli anni Trenta del Novecento Hollywood è stata forse la più alta espressione dell’organizzazione economica fondata sulla catena di montaggio industriale: il fordismo-taylorismo applicato alla cultura, prevedendo un assembly-line impeccabile di sceneggiatori, scenografi, costumisti, attori, registi e maestranze in genere permetteva di sfornare film in serie, esattamente come se si trattasse di automobili o di altri beni di largo consumo. Non è un caso che nell’immaginario collettivo l’icona più evocativa di quel periodo è probabilmente rappresentata dalla famosa fotografia di Charlie Chaplin che in Tempi moderni cercava di divincolarsi tra le ruote dentate in cui il suo corpo, tanto esile quanto espressivo, era rimasto incastrato. Un’immagine, un film, un mezzo di comunicazione, un’epoca.

La nascita e la diffusione della televisione, prima, e del videoregistratore successivamente, restituiscono invece il quadro di quello è successo tra la metà e la fine del secolo scorso, insieme alla trasformazione delle strategie comunicative messa in atto dagli editori della carta stampata, che di fronte alla violenta crisi sviluppatasi intorno ai linguaggi alfabetici diventano sempre più marketing-oriented e iniziano ad associare ai vecchi giornali gadget e pubblicazioni “di supporto”, soprattutto film e opere di narrativa. Fabbrica, catena di montaggio, produzione in serie sono per certi versi ancora le key-words di riferimento per la mappatura della cultura industriale tardo novecentesca, ma l’evoluzione di nuovi mezzi di comunicazione, sempre più domestici, familiari o personali, denuncia un significativo mutamento nelle dinamiche di socializzazione, di organizzazione, di scambio economico e valoriale in seno alla società. Se il protagonismo indiscusso del cinema faceva da pendant a quello delle masse, che erano abituate a divertirsi e a informarsi all’interno di spazi condivisi e imponenti, l’edonismo privato dell’home video e della pay-tv ci

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fera, unitamente alle esperienze scioccanti del Vietnam e del terrorismo internazionale avessero creato un clima generalizzato di disillusione, un lutto simbolico da elaborare lontano dalle manifestazioni pubbliche.

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È a questo punto che il progresso tecnologico e una rinnovata voglia di condivisione proveniente dalle nuove generazioni fanno sì che un nuovo fenomeno mediatico e culturale prenda progressivamente il sopravvento. I traguardi dell’elettronica, dell’in-

formatica, e in generale di quel filone di ricerca originariamente chiamato cibernetica, che aveva mosso i suoi primi passi negli anni Cinquanta dello scorso secolo, concorrono alla creazione di un processo culturale che è anche una corrente di pensiero, un way of life, un modello economico di riferimento: quello del digitale e delle reti. I cosiddetti new media compiono il loro inarrestabile percorso di diffusione negli anni Novanta, quando entrano a far parte del vocabolario comune parole come web, internet, portale, blog, e-mail, e quando a livello funzionale ed estetico le nuove tecnologie digitali permettono, attraverso un sensibile abbattimento dei costi, di automatizzare e mettere a disposizione di produttori e consumatori dei protocolli in grado di innalzare vertiginosamente la riproducibilità di documenti, immagini, testi audiovisivi e multimediali, pacchetti di informazione standardizzati. Al di là dell’entusiasmo di alcuni studiosi fieramente “integrati” (tra tutti è il caso di menzionare l’intellettuale americano Nicholas Negroponte), e dello scetticismo 42

di personaggi maldestramente “apocalittici”, che non hanno ancora sgombrato del tutto il campo e spesso, in modo più o meno consapevole, rappresentano gli interessi corporativi dei magnati degli “old media”, è innegabile che la logica del digitale e delle reti abbia aperto una nuova epoca nella storia delle società contemporanee, e del genere umano in generale. In questo senso i due fattori che in modo incontrovertibile subiscono un cambiamento decisivo con il verificarsi dei fenomeni sopra descritti sono quello dello scambio e quello della rappresentazione. Per quel che riguarda lo scambio è sicuramente rintracciabile, a partire dal concetto che Pierre Lévy chiama intelligenza collettiva, una maggiore tendenza alla condivisione dei saperi da parte dei cittadini-consumatori contemporanei. In altri termini la velocizzazione, l’incremento quantitativo e la virtualizzazione dei transiti informazionali permettono un rapporto molto più diretto tra soggetti e contenuti rispetto al passato. In più, anche i tradizionali modelli organizzativi di tipo verticistico, specie nell’ambito dei social network e nelle procedure di scambio peer to peer, sono investiti da un mutamento tangibile, poiché in linea teorica non esistono in rete depositari assoluti di sapere o detentori esclusivi di contenuti. In parole povere la prima domanda che di solito un utente pone a un altro utente non è più «chi sei?» ma, al limite, «cosa sai rispetto a questo argomento?» o «hai dei contenuti per me interessanti?». Rispetto alle forme di rappresentazione invece le tecnologie


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film che più si presta a restituire il senso più profondo dell’era industriale, si potrebbe ad esempio individuare in The Matrix dei fratelli Wachowsky il manifesto dell’epoca post-industriale, in cui le esperienze derivano da incursioni in ambienti delocalizzati e la costruzione dei luoghi e dei set prescinde quasi sempre dai punti di riferimento materiali (costruzioni, edifici, elementi naturali, ecc...). Per concludere, se il cinema classico è stato il mezzo espres-

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digitali hanno significativamente dilatato il potenziale poietico di singoli individui, i quali a parità di know-how acquisito hanno possibilità pressoché illimitate di rivisitare autonomamente artefatti già esistenti o di plasmarne di nuovi. A questo proposito è sufficiente pensare ai software (anche open source) di montaggio audiovisivo, di motion graphic o di design in genere per apprezzare le differenze rispetto agli attrezzi di tipo tradizionale. Per essere ancora più espliciti, è chiaro che se Tempi moderni è il

sivo ideale per raffigurare la metropoli industriale allora i testi multimediali associati alla comunicazione dei valori di brand (cioè la diretta evoluzione dei tradizionali spot pubblicitari), l’onnipresenza dello story-telling e della narrazione emozionale (ad esempio i reality show), ma soprattutto i prodotti della serialità audiovisiva contemporanea (produzioni cinematografiche basate su sequel, prequel, spin-off e cross-over, ma anche telefilm, serie e serial trasmessi dai vecchi broadcaster, dalle piattaforme digitali e satellitari, o “scaricati” direttamente dal web) sono la spia di una società fondata sulla virtualizzazione, sulla rottura delle forme di narrazione classiche (basti pensare a Lost ), sulla tendenza a una rinnovata trasmissione e condivisione dei saperi e delle informazioni in un’ottica collaborativa, di rete. Certo, non sappiamo cosa succederà dopo, ma abbiamo motivo di credere che i media continueranno a rappresentare un osservatorio privilegiato per interpretare in modo un po’ più chiaro le trasformazioni della società.

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di Massimo Caiati

PRONTO, CHI PARLA? Le idee e l’uso dei testimonial nelle campagne per la telefonia La categorie merceologiche legate alla telefonia sono spesso vittime allo stesso tempo della propria fame e della propria ricchezza, e spesso di strategie di marketing poco inclini alla differenziazione. “Fame” perché i devices telefonici sono per definizione destinati al largo pubblico, che solitamente, e spesso a torto, viene considerato il meno colto, il meno intelligente, quello più reattivo di fronte a modalità di comunicazione estremamente basiche (colori accesi, per intenderci, risate scontate, belle ragazze e soprattutto testimonial famosi). “Ricchezza” poiché, allo stesso tempo, per pubblicizzare tali prodotti le agenzie hanno a loro disposizione budget molto consistenti, visto che il ragionamento dominante prevede che le persone continuino a telefonarsi anche in periodi di crisi. Tale ricchezza peraltro, se da un lato permette di puntare a una grandissima pressione pubblicitaria (e cioè alla messa in onda di molti passaggi televisivi) e di conseguenza a un discreto successo a prescindere dalla qualità delle campagne,

dall’altro può rivelarsi un’arma a doppio taglio, perché rischia di rendere “poco coraggiosi” sia i reparti marketing che e le stesse agenzie di pubblicità. I primi, infatti, non se la sentono di rischiare cospicui budget allestendo campagne altamente innovative (soprattutto dal momento che si sentono supportati dai sufficienti rientri d’immagine garantiti dai “metodi classici”), mentre le seconde, che dovrebbero essere i consulenti fidati delle aziende in tema di comunicazione, hanno troppa paura di perdere clienti così importanti e ricchi per tentare di percorrere nuove strade. Il risultato di questo mix implosivo è sotto gli occhi (e nelle tv) di ognuno: campagne banali e noiose che si assomigliano un po’ tutte. Considerando il trend relativo agli ultimi anni di comunicazione dei maggiori big spender del mercato (Telecom, Vodafone, 3, Wind), appare chiaro che tutti ricorrono allo stesso espediente, quello dell’utilizzo di testimonial famosi. Il problema è che sono lontani i tempi in cui Massimo Lopez impazzava davanti ad un improbabile plotone d’esecuzione, cercando di guadagnare tempo e risparmiare soldi con una telefonata. E non solo perché all’epoca 44

la campagna si sforzava di essere almeno divertente, ma soprattutto perché a distanza di quindici anni tra le compagnie telefoniche c’è molta più concorrenza, e sarebbe il caso di fare un passo in avanti. Oggi, in sostanza, se escludiamo campagne pensate per target specifici, come la campagna che Tim ha ultimamente lanciato sul concetto di Tim Tribù, continuiamo a vedere declinato lo stesso cliché, rimescolato e riadattato alla meno peggio, in base a quelli che sono di volta in volta gli idoli del pubblico: De Sica, Decaro e Signoris per Tim; Totti, Gattuso, la Blasi e Facchinetti per Vodafone; Littizzetto e Gerini per 3; Aldo, Giovanni e Giacomo per Wind... In particolare, le questioni connesse all’uso dei testimonial in pubblicità sono molteplici. Prima di tutto un testimonial rischia di limitare in maniera significativa la creatività, in favore della sua semplice presenza scenica, e questo è spesso causa di campagne noiose e quindi meno memorizzabili. Secondo: i testimonial sono personaggi ben noti al pubblico già prima della campagna, e portano con sé un bagaglio valoriale che non sarà mai in grado di rispecchiare pienamente quello della marca (basta pensare a tutti i tifosi di squadre diverse da quelle a cui appartengono Totti e Gattuso). Terzo: quando il pubblico viene colpito dalla presenza di un testimonial, tende troppo spesso a


ricordare solo lui, a scapito della marca stessa. Quante volte vi sarà capitato, ad esempio, di ricordare perfettamente una pubblicità ma di ignorare quale prodotto stesse promuovendo? Inoltre, il pubblico è – a differenza di quello che spesso pensano gli addetti ai lavori – sempre più informato e smaliziato, e fa sempre più fatica a fidarsi di personaggi ingaggiati, e dunque pagati, per “mentire” davanti a una telecamera. In questo periodo storico il consumatore tende a costruire un rapporto più “umano” con la marca, più strettamente collegato al proprio vissuto. Sia chiaro, l’uso dei testimonial, soprattutto se associati a una grande pressione pubblicitaria, continua a essere un metodo potenzialmente e relativamente valido, ma il fatto è che in alcuni casi attraverso la creatività è possibile trovare soluzioni di gran lunga più economiche e altrettanto, se non maggiormente, efficaci rispetto al sostanziale conformismo a cui assistiamo. A tal riguardo vorrei citare una campagna premiata a Cannes nel 2007 creata per Arnet, una compagnia telefonica argentina. L’agenzia pubblicitaria era stata chiamata a promuovere la nuova offerta per la telefonia fissa e internet. L’idea è stata semplicemente folle, ma molto economica da realizzare ed efficace. È stata pianificata una campagna formata da sei soggetti diversi, mandati in onda a distanza di due settimane l’uno dall’altro e contemporaneamente caricati sul sito della compagnia. L’investimento televisivo è stato ridotto all’osso, per abbassare i costi, e concentrato esclusivamente a promuovere i primi soggetti. Il potere dell’idea ha fatto il resto, portando la maggior

parte del pubblico sul sito, pronto a godersi le nuove creatività via via sviluppate. Ma veniamo all’idea: un uomo dai modi di fare strani ma divertenti si presenta al pubblico avanzando una particolare richiesta. Lui è calvo, ma ha scoperto di recente che esistono cliniche in grado di effettuare trapianti di capelli. Purtroppo, però, non ha abbastanza soldi per effettuarne uno, di conseguenza ha sottoscritto un particolare contratto con la compagnia telefonica in questione. L’accordo prevede che per ogni persona che lui convincerà a passare ad Arnet (approfittando della speciale offerta), corrisponderà al trapianto di un capello. Nel secondo soggetto, vediamo lo stesso protagonista, con una lunga chioma di capelli, che però gli copre solo metà testa. Naturalmente, lui ringrazia i nuovi abbonati che gli hanno permesso di raggiungere questo traguardo, e invita tutti gli altri a seguirli per completare l’opera. Via via, come avrete capito, il nostro eroe riuscirà ad esaudire il suo sogno, grazie alle migliaia di nuove sottoscrizioni, fino a quando non sarà posto dinanzi a 45

un nuovo problema: la mancanza di spazio per i successivi trapianti. Alla fine l’uomo sarà trasformato in una specie di yeti, e sarà costretto a chiedere nuovamente l’aiuto del pubblico, questa volta per far rispettare un nuovo contratto: per ogni nuovo cliente che sottoscriverà la speciale offerta, lui riceverà gratuitamente l’epilazione definitiva di un capello. Andando ad analizzare la campagna nel dettaglio (interamente disponibile sul link [http://www. youtube.com/watch?v=-owS9uwRQgs], si capisce che l’idea è stata talmente originale e impattante che non solo non ha avuto bisogno alcun testimonial, ma anzi, di fatto, ne ha creato uno suo, plasmandolo a immagine, uso e somiglianza della marca. La campagna in questione, insomma, oltre a permettere un notevole risparmio ha avuto un altro pregio particolarmente apprezzato da chi fa il mestiere del creativo: quello di dimostrare che le idee, quando sono forti, possono avere un potere grandissimo che va oltre quello fornito dai grandi budget.


di Redazione

“SIAMO DESIGNER... DISEGNIAMO ANCHE BISCOTTI” Intervista a Marco Pietrosante Brand Care magazine: Innanzi tutto, Dottor Pietrosante, di cosa si occupa il Food Design? Marco Pietroasante: Da qualche anno è iniziato un bel dibattito, ancora in corso, su questo argomento. L’equivoco di fondo era su quale fosse il tema della disciplina. Da una parte c’era chi definiva il Food Design come materia inerente la cucina, il mondo degli chef e, per banalizzare, l’impiattamento; dall’altra chi, come noi designer, preferiva puntare l’attenzione sull’aspetto industriale della materia perché questo deve essere chiaro il designer lavora per prodotti che vengono serializzati e distribuiti a livello industriale. Marco Pietrosante Designer, Responsabile Accademico IED Roma e del Master in Food Design (insieme a Francesco Subioli). Si occupa di prodotto industriale, comunicazione, organizzazione e allestimento di eventi culturali per la committenza pubblica e privata. Fa parte della delegazione ADI Lazio.

BCm: Il Food Design si occupa dunque di studiare il settore alimentare a livello industriale? MP: Sì, l’elemento imprescindibile è proprio il rapporto con l’industria perché altrimenti parliamo di artigianato, che è un’altra cosa. Noi non siamo chef, siamo designer e lavoriamo per l’industria: disegniamo sedie, disegniamo tavoli e 46

disegniamo anche biscotti. Quando abbiamo elaborato il master in Food Design abbiamo pensato all’industria – Barilla, McDonald’s... – escludendo tutto il mondo degli chef. Prevediamo visite di istruzione alla Città del Gusto [www. cittadelgusto.it] e allo Slow Food [www.slowfood.it], ma il cuore della materia resta il prodotto alimentare legato all’industria. BCm: Come è strutturato didatticamente il master in Food Design? MP: Le aree che abbiamo evidenziato sono 3: 1. il design del cibo, ovvero la forma del prodotto; 2. il packaging, sia strutturale che grafico, che attiene a competenze diverse perché non necessariamente chi progetta il packaging ne cura poi anche la grafica e la comunicazione; 3. e infine la fruizione del cibo, sempre a livello di prodotto riproducibile in “n” esemplari, sia riguardo il consumo diretto – catene di ristorazione, Autogrill... – sia rispetto ai luoghi dove esso


BCm: La cosa sarebbe diversa se la “stoviglia” servisse a impacchettare il prodotto e magari anche a consumarlo...

BCm: Come definirebbe il settore industriale alimentare italiano? MP: Questo master nasce perché abbiamo in Italia un tessuto produttivo notevole, una quantità di aziende alimentari diffuse sul territorio in maniera uniforme, cosa che non capita in altri settori industriali. Un tessuto produttivo diffuso su tutto il territorio, ma una presenza di designer non così diffusa. Chi è che disegna per le aziende 47

alimentari? Ingegneri, uomini di marketing... L’ingegnere disegna le merendine in base ai macchinari che ha: se ha una macchina per fare determinate forme progetta pensando a quelle determinate forme. L’uomo di marketing cerca di capire quali sono le richieste del mercato ed esprimere questi concetti raccontandoli agli ingegneri... ma in generale non esiste una prassi consolidata per cui ci si rivolge a un disegnatore per progettare le merendine. Detto questo, esistono delle aziende avanzatissime, ad esempio l’Algida che, al

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viene venduto, come ad esempio le grandi distribuzioni (Coop, Gs e così via). C’è poi qualche designer che si definisce Food Designer e disegna le stoviglie, il che non è del tutto sbagliato però, se ci pensiamo, i designer hanno sempre disegnato stoviglie, sono 50 anni che lo fanno, quindi non è lì, secondo me, l’originalità di un corso in Food Design ma, lo ripeto, va ricercata nell’ambito della serializzazione del prodotto alimentare industriale.

MP: O se avesse una sua particolarità molto forte rispetto all’uso specifico. Mi viene in mente il Moscardino, che è un cucchiaio/ forchetta biodegradabile. È un prodotto che ha vinto anche il Compasso d’oro nel 2001 ed è ascrivibile al mondo del Food Design perché è pensato per un particolare consumo del cibo. Ecco, questi sono aspetti che noi analizziamo nel master perché sono aree “di confine” talmente particolari da riuscire a raccontare come si evolve questo mondo. È chiaro che non è interessante analizzare tutte le collezioni di forchette mentre ci interessa, invece, capire qual é la particolarità del Moscardino, che interpreta uno stile di vita contemporaneo. Una volta, per esempio, non si facevano i party in piedi e non si aveva certo bisogno di uno strumento del genere.


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BCm: Quanto è determinante il packaging del prodotto per aumentare il suo appeal? MP: Il packaging nell’acquisto di un prodotto è un elemento determinante, non solamente dal punto di vista della comunicazione grafica ma anche dal punto di vista della comunicazione strutturale. Mi spiego: ci sono alcuni prodotti in cui la definizione del packaging anche a livello strutturale – come è fatta la scatola – diventa un ele-

mento talmente forte di comunicazione di qualità che addirittura supera la percezione della qualità del contenuto. Pensiamo ad esempio alle scatole della Golia, o ai biscotti Gentilini. In alcuni casi di prodotti alimentari il packaging è addirittura acquistato al posto del prodotto. Questo perché spesso capita di acquistare prodotti senza poterne vedere il contenuto – pensiamo a una scatola di fagioli – e a quel punto dobbiamo fidarci della marca, dell’etichetta. BCm: Quanto conta invece il posizionamento del prodotto? MP: Sugli scaffali della grande distribuzione il posizionamento ha un ruolo determinante sia per il successo del prodotto che per il rapporto che c’è tra la distribuzione stessa e il produttore: se prevedi una distribuzione di un certo tipo la grande catena posiziona il prodotto in un posto “x”, altrimenti te lo mette in un posto “y”. Queste scelte concorrono a definire anche il tipo di prodotto, il suo livello qualitativo e il suo posizionamento economico. BCm: Quali sono gli errori comuni che si compiono nel posizionare i prodotti? MP: Un errore tipico che si fa è quello di ideare un’etichetta con un packaging di qualità “alta” per un bene di fascia inferiore, e questo spesso determina l’insuccesso del prodotto. Oppure l’inverso: capita che ti venga chiesto di realizzare un’etichetta che venga percepita come di qualità “bassa”, anche se in verità il packaging avrà un contenuto di qualità elevata, e questo solitamente accade quando la merce deve essere venduta a prezzi molto concorrenziali. Infine non va dimenticata la funzione primaria 48

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contrario, progettano delle collezioni di gelati come se fossero dei capi di moda.

del packaging: esso deve essere progettato anzitutto per proteggere il contenuto durante il suo lungo viaggio su diversi mezzi: aerei, navi, treni... BCm: Una curiosità legata alle grandi distribuzioni e al packaging: perché spesso si sceglie di creare una grafica essenziale, stilizzata, bianca per indicare una sorta di “sobrietà” nella vendita del prodotto? La presunta assenza di comunicazione è a sua volta uno stile di comunicazione? MP: Questo è un tema che affrontiamo regolarmente: qual è il livello di posizionamento dell’azienda rispetto a quel settore? E il ruolo dei discount, dei GS, ecc.? Ma aggiungo che è altrettanto importante riflettere su come viene pensato l’allestimento dei locali, su come viene comunicata l’ambientazione dal punto di vista grafico. C’è una relazione molto forte. È chiaro che i discount (e i prodotti in esso venduti) si presentano in quella maniera perché vogliono esprimere un concetto di “morigeratezza”, ma non è sempre vero che costa di meno realizzare questo tipo di grafica.


BCm: I discount fanno un po’ l’effetto del “dietro le quinte”. Per fare un’equazione: stanno al mercato alimentare come i backstage ai film. MP: Certo, e fateci caso: entrando in un discount non sentirete mai la musica. Ecco, ora pensate al costo della musica: ha una incidenza economica irrilevante. BCm: Sensazioni, esperienze, ricordi, il cibo stesso diventa un mezzo di comunicazione, come nella Recherche di Proust: il protagonista mangia un dolcetto e si immerge in ricordi infantili compiendo un vero e proprio viaggio interiore. È anche questo il Food Design? MP: In generale tutti gli oggetti che ci circondano hanno questa caratteristica. Amiamo un tessuto, una sedia perché ci riportano ad altre esperienze... Gli oggetti hanno con noi dei legami che nemmeno riusciamo a definire con esattezza. Ci sono alcuni sensi in particolare, come il gusto e l’olfatto, difficili da sistematizzare e quindi più “profondi” di quello visivo. Questi sensi scavano dentro il nostro passato e nel nostro immaginario. Sono... profondi, appunto.

BCm: Nella fase di ideazione del prodotto è importante pensare anche a un eventuale aspetto emotivo? MP: Sicuramente sì. Il designer quando progetta tira fuori queste “urgenze” che ha dentro di sé. Nel mondo del food questo è ancora più forte. Teniamo anche conto del fatto che il Food Design è una materia molto “contemporanea” che si profila come “design dei sistemi” e non solo come “design degli oggetti”. Il Food Design è una cosa complessa: implica una serie di competenze diffuse e specifiche allo stesso tempo. Per poter disegnare una merendina non c’è solo bisogno di un creativo che la disegni fisicamente, ma anche di un pasticciere che poi la realizzi. Quindi non è che il designer cerchi dentro di sé: tutto nasce da sinergie molto strette, da un sentire collettivo del gruppo di lavoro. Recentemente abbiamo realizzato a Spoleto un’iniziativa sul Food Design e un nostro giovane designer ha pensato a un gadget da proporre al pubblico: un leccalecca. Ecco, per poter fare il leccalecca come voleva, il progettista ha passato una settimana nel laboratorio del pasticciere.

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BCm: Vorrei concludere chiedendole un’opinione sul futuro: nei film di fantascienza siamo abituati a vedere i protagonisti mangiare malissimo: pillole, “papponi” e robaccia insipida. Come lo vede lei il nostro futuro alimentare? MP: All’interno del master abbiamo un intervento molto interessante di un food designer, Daniele Bedini, che ha lavorato con la Coop e con la NASA per elaborare il cibo destinato agli astronauti. Ha fatto uno studio su come si mangia nello spazio e ha immaginato questo kit di ristorazione per astronauti con delle microporzioni di prodotti che possiamo definire “normali”. Non ha immaginato pasticche. Probabilmente quell’immaginario delle pasticche faceva parte di un mondo in cui si pensava che l’industrializzazione avrebbe portato benessere, ricchezza ma anche un pessimo rapporto con la tecnologia... BCm: Il messaggio implicito era: “con la tecnologia distruggeremo gli alieni, conquisteremo Marte... ma mangeremo malissimo” MP: Fortunatamente oggi andiamo verso una direzione opposta, basta guardare a Slow Food, a TerraMadre [www.terramadre.it], che mirano a mantenere e preservare i cibi locali interpretandoli come prodotti del futuro. Dove prima immaginavamo pasticchette ora immaginiamo, per esempio, la farina dell’altipiano sudamericano. Quindi niente “papponi” nel futuro ma cibo biologico e naturale. Anzi, nonostante il proliferare dei fast food c’è sempre più attenzione alle tematiche legate all’ecologia e alla sostenibilità. Quando si parla di packaging oggi, per esempio, è diventato normale chiedersi come smaltire il materiale. Ecco, i veri temi del futuro sono questi.


di Pasquale Napolitano e Stefano Perna

KINDER SORPRESA:

il doppio strato comunicante Comincia nel 1974 la storia di Kinder Sorpresa. Un piccolo uovo bianco e arancione che si prefissava l’intento di prolungare per tutto l’anno l’atmosfera della Pasqua: una sorta di uovo di Pasqua monodose che congelasse nei bambini il “plaisir” legato al meccanismo dell’attesa, suscitato dalla sorpresa, e rassicurasse le loro mamme (nello stereotipo di casalinghe spasmodicamente apprensive per il valore nutrizionale degli snack) grazie al celeberrimo claim “più latte meno cacao”. Da quando Kinder Sorpresa è nato, sono stati venduti quasi 30 miliardi di ovetti che, si legge nella comunicazione aziendale del prodotto, se messi in fila, coprirebbero cinque volte la distanza andata e ritorno dalla terra alla luna. Ogni anno vengono immessi sul mercato 140 nuove sorprese frutto del lavoro di creativi, designer, tecnici, medici, uomini marketing. In trent’anni generazioni di bambini hanno conosciuto, desiderato e provato (p r o b a b i l m e n t e ) delusione ver-

so l’ovetto Kinder; hanno giocato e collezionato Tartallegre, Ranoplà, Coccodritti, Happypotami, trasformandoli in oggetti di culto. Le sorprese infatti hanno conquistato negli anni anche gli adulti, generazioni di genitori una volta figli affascinati da questo aggregato di forme e colori dalla sublime inutilità, come schiere di Proust al cospetto della “madaleine”, rimando memoriale alla “recherche” dell’età mitica dell’infanzia; o ancora come clienti vogliosi e spaesati della “Bella di Giorno” Catherine Deneuve, meretrice borghese che conserva il suo segreto in una scatolina dal fascino feticista, e lo offre con la consueta discrezione: proprio come la sorpresa del celebre ovetto, oggetto affascinante perché occultato. Questo fascino “discreto” è stato decantato in libri, riviste e siti

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internet dedicati allo scambio e alla vendita degli oggetti, o ancor meglio alle sorprese contenutevi, pertanto al contenuto degli oggetti, o alla loro anima, o all’oggetto in senso stretto, di cui il cacao al latte è solo zavorra. Alcuni pezzi hanno raggiunto cifre da capogiro tra i collezionisti (per un Puffo alle Olimpiadi o un Puffo sui trampoli ci sono appassionati pronti a sborsare fino a 900 euro). Per festeggiarne il trentennale, nel 2004 sono state realizzate tre mostre: una prima a Francoforte, al Museo di Arte Applicata, una seconda ha occupato le sale del Complesso del Vittoriano a Roma, e una terza allestita alla Fondazione Ferrero di Alba, luogo di nascita del prodotto. Anche lo scrittore Osvaldo Soriano si è lasciato ammaliare da questa tendenza e nel 1995, nel romanzo L’ora


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senz’ombra (Einaudi), raccontava di Esteban, appassionato collezionista delle sorprese Kinder nella provincia argentina. Un miliardo e mezzo di ovetti venduti in un anno in 60 Paesi, quattro milioni di pezzi in un solo giorno: Kinder Sorpresa non è solo un prodotto fortunato, entra piuttosto in quelle mitologie del quotidiano contemporaneo già descritte da Roland Barthes come un linguaggio: archetipi, ma anche segni. Il successo Kinder fu immediato e in continua ascesa, tanto che negli anni Ottanta la direzione dell’azienda commissionò il confezionamento delle sorpresine a soggetti esterni: attorno ad Alba nacque un indotto fatto di cooperative di disoccupati e casalinghe in grado di produrre giornalmente fino a 6.000 sorprese. Del resto, quando fu lanciato sul mercato, spiega il creatore di sorpresine, William Salice, “in alcune regioni italiane la disponibilità per acquistare giocattoli ai bambini, non era ancora quella di oggi, eppure in un solo giorno, in un bar di Augusta, in Sicilia, furono venduti tutti quelli disponibili: i bambini potevano avere un giocattolino per pochi soldi”. La popolarità del prodotto è infatti da ricercarsi innanzitutto nella sorpresa, un oggetto a tutti gli effetti interclassista e intergenerazionale, capace da un lato di una fusione uterina con il proprio contenitore, dall’altro di rendere lo slittamento cognitivo contenuto-contenitore, per il quale il prodotto in senso stretto diviene una componente modulare, composto da un subprodotto transeunte che incide sulla dimensione sensoriale (il cioccolato), e un nucleo ontologicamente duraturo (la sorpresa). Questo accoppiamento strut51


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turale così profondo tra golosità e collezionismo, tra temporaneità culinaria e oggettività plastica pone delle questioni particolarmente rilevanti sul versante del packaging, mescolando le carte della consueta distinzione tra packaging primario e secondario. Il packaging ha essenzialmente due funzioni: da un lato vi sono gli aspetti relativi alla conservazione/protezione del contenuto (funzione primaria del packaging), dall’altro quelli riferiti agli interventi sulla superficie ai quali viene riconosciuta una funzione orna-

mentale/deduttiva (funzione secondaria). Il sostantivo packaging trova nella “faccia del prodotto”, il fulcro della sua definizione. L’introduzione del termine faccia ci porta immediatamente nella sfera delle discipline della comunicazione visiva, ponendoci di fronte a tematiche come quelle dell’identità-immagine, della fisiognomica dell’oggetto e all’insieme delle modalità atte a esprimerle. L’identità-immagine di Kinder Sorpresa è marcata da una forte continuità: uno stagnino colorato con un pattern bianco e arancio con

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al centro impresso il logo Kinder e il claim “più latte, meno cacao”. A evolversi è stato solo il lettering di “sorpresa” che, se in un primo tempo era in bianco e nero, ora si presenta arcobaleno. Per quanto riguarda la fisiognomica è sufficiente rilevare che si tratta di un sottile guscio di cioccolato ovale. Analizzando la prima funzione, Kinder Sorpresa presenta un packaging molto semplice. Si tratta infatti di un sottile foglio di alluminio colorato. Verrebbe spontaneo pensare che un packaging del genere, con la sua veste decisamente rétro, sia efficace in termini di branding, ma non del tutto sotto il profilo della sicurezza igienica; in realtà la Ferrero assicura, naturalmente, che il vecchio ovetto rappresenta un prodotto igienicamente sicuro e conforme ai vari criteri di certificazione. A sopperire a queste mancanze Kinder si affida pertanto a contenitori, espositori da banco, a un packaging di 2° livello che soddisfi le condizioni di raggruppamento, trasporto, presentazione sul luogo di vendita, impilabilità. Per quanto riguarda invece la seconda funzione del packaging, e cioè quella ornamentale/seduttiva, dove il


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se serie speciali, vere e proprie famiglie di personaggi legati tra loro da una storia (generalmente raccontata attraverso spot televisivi). Alle “tre emozioni” che hanno fatto la storia Kinder (faccio riferimento alla leccata formula dello spot pubblicitario: la scoperta della sorpresa, il gioco, il gusto del cioccolato), si è aggiunta dal 2002 una “quarta emozione” che si concretizza su internet; ogni sorpresa infatti contiene un codice che permette di collegarsi al sito [www.magic-kinder.com] (disponibile in 17 lingue, fino ad ora 37 milioni di visite), dove i gadgets acquistano una veste 2.0: le sorprese si animano e ci sono giochi e gadget da scaricare. Ogni personaggio Kinder è un artefatto assolutamente peculiare, il risultato progettuale di un processo che inizia da una serie di bozzetti su carta, passando per la creazione di modelli “a cera persa” che simulano l’oggetto finale. La fase successiva è la creazione dello stampo che prelude alla produzione in serie. Una volta finiti i personaggi vengono dipinti a mano. Dietro ogni sorpresina, dunque, c’è una squadra di professio53

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prodotto si relaziona all’immaginario, è in questa fase che avviene il corto-circuito per cui a un packaging fatto di stagnola atto a proteggere il prodotto organico, si avvicenda a un livello immediatamente successivo un packaging organico (lo strato di cioccolato), atto a proteggere un “oggetto culturale” costruito seguendo i canoni dell’arte applicata (riproducibilità, modularità, quoziente estetico) e ascrivibile a tutti gli effetti in quella categoria di oggetti di un neo-barocco immaginario (con le parole dello studioso di estetica Fulvio Carmagnola) postfordista e già post-baudrillardiano, che fungono da vettori di senso per se stessi, in quanto svincolati da ogni oggettivo elemento narrativo, pienamente aderenti ai canoni della simulazione, al pari delle opere di Takashi Murakami o di Jeff Koons. Contemporaneamente merchandising del prodotto e prodotto stesso. Facendo un fulmineo excursus, si è passati dai giochini degli anni Settanta, da montare, all’introduzione dei primi personaggi dei Cartoon negli anni Ottanta. Nel decennio successivo hanno poi fatto la loro comparsa le famo-

nalità legate al mondo delle arti applicate che inventa e sviluppa l’oggetto (oltre a operatori dell’infanzia che ne valutano la sicurezza) in un’ottica di modularità piena, che chiaramente si pone come un’ulteriore dimensione progettuale da tenere in considerazione. Un oggetto culturale, questo all’apparenza innocente prodotto dell’infantilismo contemporaneo, pienamente inserito nell’economia politica del segno, o, con un termine più attuale, nel dibattito della “fiction economy”.


di Viviana Gravano

TATE: una tag sul muro

dell’arte contemporanea Per capire l’importanza eccezionale della Tate Modern di Londra occorre immediatamente considerarla come un progetto complesso studiato in ogni suo dettaglio, a iniziare dalla semplice immagine coordinata per finire alla sua notissima struttura architettonica. La nuova sede della Tate sorge a Bankside, un’area degradata e molto povera di Londra che grazie all’arrivo di questo nuovo museo ha radicalmente cambiato non solo aspetto ma anche la sua microeconomia. Che la costruzione di uno spazio culturale possa mutare fortemente un’area metropolitana lo dimostrano in Europa diversi esempi già più che consolidati come il MACBA di Barcellona nel Barrio de l’Angel o ancora prima il Centre Pompidou a Parigi. Ciò che però differenzia la Tate è l’idea di partenza di concepire uno spazio completamente aperto, che comprenda “anche”

una collezione e un’attività espositiva, ma che già nelle sua struttura, si pone come un luogo di incontro e di scambio quotidiano, che diviene una sorta di contemporaneo “centro servizi”. Quando i due architetti svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meroun hanno iniziato a lavorare alla riconversione della Bankside Power Station a Southwalk, un’antica centrale elettrica realizzata in vent’anni tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, si sono trovati davanti a un edificio compatto, in mattoni rossi, imponente e insieme chiuso, e invece che assecondare questa sua natura al limite del fortilizio, hanno costruito uno spazio concettualmente aperto al territorio e all’uso. Un elemento centrale della Tate è la grande rampa d’ingresso, molto larga, simile quasi all’acceso a un hangar, che fa

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visitatore la possibilità di vedere l’opera installata da numerosi punti di vista. Il fatto che Tate dia il suo benvenuto ai cittadini e ai turisti con uno spazio tanto monumentale, aperto, con dentro sempre opere di altissimo profilo, il tutto prima di entrare nell’area per la quale occorre pagare un biglietto di ingresso, potrebbe essere considerata l’azione simbolo di questo museo. Perché Unilever, che di fatto possiede importantissimi brand legati al cibo o all’igiene personale, sponsorizza, quasi a scatola

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entrare senza rendersene conto in un “tempio” della cultura contemporanea. Già questa entrata rompe completamente la tradizione dell’ingresso al museo, in genere subito segnato da barriere che impongono all’utente la sua immediata identificazione come visitatore. Questa grande area, detta la Turbine Hall, è dal 2000 la sede di una serie di mostre che presentano opere site specific, realizzate da artisti del calibro di Louise Bourgeois, Anish Kapoor, Bruce Newman, Rachel Whitereade e Olafur Eliasson, a ingresso completamente gratuito, grazie a un accordo tra la Tate e la Unilever. La serie di istallazioni ha un valore enorme proprio perché fa parte di un progetto che prevede un finanziamento a lungo termine da parte di un colosso economico che garantisce continuità al progetto e fornisce a chiunque la possibilità della fruizione di opere di grande impatto visivo e emotivo al di fuori dei circuiti a pagamento. La grande hall che ospita questa rassegna è lunga oltre 150 m e alta 30 m ed è visibile da ogni piano del museo, divenendo così una sorta di punto di riferimento ovunque ci si trovi, e fornendo al

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chiusa le istallazioni per la Taturbine Hall? Quale è la ricaduta d’immagine per questa azienda in una simile operazione? La risposta l’ha in qualche modo “inventata” la stessa politica della Tate, e di altri spazi espositivi del contemporaneo – un esempio tra tutti Palais de Tokyo a Parigi – che hanno iniziato a costruire l’idea che contribuire a migliorare la conoscenza culturale della contemporaneità sia una sorta di “servizio al cittadino”, per cui sempre più spesso l’intervento in certi ambiti non è più strettamente connesso al settore


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produttivo del brand ma piuttosto al prestigio sociale che talune operazioni si portano dietro. Ci si può chiedere allora inversamente perché Tate ha scelto di far finanziare a Unilever un’area free senza biglietto? Questa risposta è strettamente concatenata alla precedente: perché l’area aperta d’accesso funziona come area welcome, destinata a tutti, destinata anche a chi non spende e non spenderebbe soldi per un biglietto d’ingresso, destinata a chi va al Tate per prendere un tè o un caffè, per chi va a comprare un gadget o un libro allo shop, o per chi va a seguire una delle numerosissime iniziative che ogni giorno questo spazio propone al di là delle mostre. Per capire meglio quest’idea di apertura del progetto Tate occorre navigarne il sito [www.tate.org.uk] per poter notare il grande rilievo che viene dato ai cosiddetti Members, cioè a quei visitatori che un tempo venivano definiti come “Amici del Museo”. La Tate prevede diverse forme di associazione che riconoscono ai tesserati un programma molto articolato di benefit: da visite guidate a con56

ferenze in esclusiva, a ingressi gratuiti per mostre e eventi, fino al privilegio di avere una sala caffè riservata solo ai members, posta nella magnifica vetrata che sovrasta il corpo dell’enorme museo e che permette l’affaccio sul Times. La Tate fornisce anche a un semplice cittadino, che aspirerebbe magari a essere un collezionista, ma non ne ha le possibilità economiche, di sentirsi comunque parte di una piccola élite, membro di una cerchia, di una micro-comunità che riceve benefit e si identifica con l’idea di sostenitore della cultura. Ciò che offre Tate al proprio pubblico sono sì una serie di sconti e prodotti, ma prima di tutto il prestigio d’essere un piccolo mecenate e al contempo dona ai tesserati la possibilità identitaria di sentirsi moralmente co-proprietari della cultura del proprio presente. In altre parole queste tessere, che nella loro formula basica hanno un costo davvero irrisorio, alla portata di tutti, anche di un semplice studente, certamente producono un forte effetto di fidelizzazione che spinge il “cliente” di Tate a frequentare questo spazio molto oltre il solo tempo dedicato alla fruizione di una mostra o della collezione stabile. Tate, proprio per questa sua natura tenacemente ricercata di spazio polifunzionale, ha lavorato sulla costruzione di un’immagine che fosse assolutamente identificabile e fortemente caratterizzata, ma che portasse in sé un concetto nuovo di apertura, di variabilità e persino di adattabilità alle circostanze. Per poter analizzare questo aspetto bisogna ricordare che il marchio Tate comprende in realtà ben quattro sedi: Tate Britain, Tate Modern, Tate Liverpool e Tate St. Ives. Quando lo studio


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la Turbine Hall e la sua enorme rampa d’accesso sono spesso “disseminate” di ragazzi seduti a terra che sostano in quell’area libera come starebbero in un altro cortile di uno spazio pubblico e “respirano” intanto un po’ di sana “aria creativa”.

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solo ma una moltitudine di sguardi, attraverso non uno solo ma una moltitudine di pensieri – look again, think again”. Il corpo stesso del logo varia in un sistema di libertà che appare molto innovativo in un contesto in cui il logo viene in genere invece ripetuto in maniera molto tradizionale. Il lettering di Tate non è solo un elemento identitario forte ma è un “gioco”, un elemento di design da utilizzare in qualsiasi gadget possibile, un vero e proprio “tag” alla maniera dei writer che serve da elemento virale in tutta la comunicazione di Tate. Questo spazio ha chiaramente e volontariamente aperto le sue porte a un’utenza meno scontata nei musei, ha guardato in maniera chiara alle fasce di utenza giovani e addirittura agli adolescenti, e questa scelta di un logo che potrebbe quasi sembrare uno stencil che in quanto tale non viene mai uguale e cambia continuamente, è indirizzata proprio a catturare una tipologia di sguardo abituata a una certa estetica street. Tornando all’ingresso da cui siamo partiti per questa rapida passeggiata dentro questo spazio, a mio modo di vedere vero e proprio modello per il futuro del museo contemporaneo,

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di grafica Wolf Ollins è stato incaricato di studiare l’immagine coordinata e il nuovo logo di Tate si è quindi trovato in primo luogo davanti alla necessità di costruire più che la sola identità del nuovo museo una sorta di identità di gruppo, declinata nelle diverse accezioni. Si è così scelto di lasciare per tutti lo stesso identico logo e conseguente immagine, mutandone però per ognuno il colore creando così, anche nel sito web per esempio, una certa unità visiva, lasciando però alle singole sedi una propria autonomia d’immagine. Il logotipo scelto è di fatto un semplice ma efficacissimo lavoro di lettering, in un carattere appositamente disegnato ex novo per Tate, che non varia nella sua scrittura ma viene solo assottigliato o ingrossato nelle linee fino quasi a scomparire o a diventare una macchia appena leggibile. Come scrive Cinzia Ferrara nel suo saggio La comunicazione dei Beni Culturali: “Il carattere si presenta nei vari corpi sfocato o messo a fuoco, con il contorno più o meno netto, e stabilisce in tal modo un forte rapporto tra il contenuto, l’arte da guardare, e la forma, ovvero guardare l’arte, attraverso non uno


di Davide Bennato

IL MERCATO DELLE CONVERSAZIONI esistono i media sociali, le cose stanno profondamente cambiando. Infatti le persone quando indossano i panni dei consumatori nel momento in cui cercano informazioni in rete, non si accontentano più di trovare siti dai quali acquistare il prodotto oggetto del loro desiderio (e-commerce) o collezionare avidamente informazioni tecniche così da scegliere il prodotto che sarà acquistato nel negozio di fiducia, meglio se vicino casa (infocommerce). Sempre più spesso i consumatori online cercano consumatori come loro per Da quando internet è diventato uno strumento strategico per il marketing, diverse sono le tecniche che si sono appropriate delle caratteristiche sociali e tecnologiche per far incontrare in maniera efficace chi offre un prodotto (o servizio) e chi lo cerca online. Il SEO (Search Engine Optimization) è una di queste tecniche: far sì che i motori di ricerca siano in grado non solo di indicizzare in maniera pertinente le informazioni di un sito, ma anche che il consumatore potenziale nel momento in cui va alla ricerca di specifiche parole chiave – che esprimono il suo inte-

resse verso un bene – riesca a trovare l’azienda che fa al caso suo, l’offerta più allettante o comunque il sito che è stato più bravo nell’offrire informazioni strutturate ai motori di ricerca (termine generico che di solito sottende Google). La cassetta degli attrezzi del SEO è rimasta praticamente invariata da quando esistono i search engine: opportuna scelta delle parole chiave, organizzazione funzionale delle aree del sito, editing del file robots.txt che dà informazioni interessanti allo spider del motore stesso, uso dei metatag HTML e così via dicendo. Da quando però 58


avere informazioni sul prodotto da acquistare. Non più informazioni, ma consigli sull’acquisto. Non più recensioni tecniche, ma impressioni d’uso. Non più messaggi pubblicitari, ma conversazioni su questo o quel prodotto. Lo aveva profetizzato il famoso Manifesto Cluetrain, le 95 tesi programmatiche scritte nel 1999 da un gruppo di esperti di marketing e pubbliche relazioni (tra cui David Weinberger e Doc Searls, veri blog evangelists ) che avevano capito una cosa importante: con lo sviluppo dei media digitali il marketing broadcast avrebbe lasciato posto al

marketing conversazionale. Cosa vuol dire? Vuol dire che la comunicazioncommerciale – ovvero la comunicazione che ha lo scopo di vendere qualcosa: un frigorifero, un software, un’ideologia – avrebbe dovuto cambiare stile, abbandonando la logica shoot’em up tipica della televisione, a favore di una strategia dialogica atta cioè a instaurare un dialogo con il cliente, tipica dei media legati al web 2.0. D’altro canto qual è la caratteristica dei blog? I commenti. Quale il successo dei social network? La chiacchiera. Bisogna avere ben chiaro che il marketing conversazionale non vuol dire solo avere un blog su

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Wordpress, una presenza su Facebook, mandare messaggi con Twitter. No. Vuol dire che se il cliente solleva un dubbio, quel dubbio va fugato. Se il cliente si lamenta, il lamento va consolato. Se il cliente si arrabbia per un disservizio, il cliente va calmato. Insomma l’azienda non può vendere un prodotto e scappare, ma deve vendere un prodotto e stare al servizio di chi si è fidato della pubblicità, dell’offerta speciale o di qualunque altro strumento che lo ha portato a dire “Sì. Acquisterò il prodotto X della marca Y”. Strategia dialogica si diceva, ma cosa vuol dire? Facciamo un esempio.


Due persone parlano fra loro, su un tema qualsiasi. A meno che non siano presi da una conversazione che sta loro a cuore - il calcio, la politica, le donne, magari la stessa donna – la conversazione procede serena. Si danno il cambio, prima parla uno, poi l’altro. Come fanno a rispettare i turni di parola? Semplice: ascoltando. Una delle più importanti caratteristiche delle conversazioni è che prima si ascolta e poi si interviene, ed è questa la killer application del marketing conversazionale ispirato alle tesi del manifesto Cluetrain: prima ascoltare, poi rispondere. Ascoltare cosa? Cosa i clienti hanno da dire sul prodotto acquistato: cosa va bene, cosa va male, in cosa sono soddisfatti, in cosa delusi. Internet diventa così un costante, continuo, sistematico focus group in cui le aziende pescano a piene mani per sapere qual è l’immagine del loro brand e del loro prodotto. Il termine che si usa è ORM, Online Reputation Management, ovvero gestione della reputazione online e significa che le aziende devono saper ascoltare e – quando necessario – intervenire per

difendere il loro buon nome, o più prosaicamente, garantire che il cliente continui ad avere fiducia verso il brand. Ma come fare per ascoltare? Semplice: le persone parlano attraverso i media sociali, perciò lasciano tracce delle proprie conversazioni. Verba manent, verrebbe da dire. Quindi si possono usare una serie di strumenti – liberi o a pagamento – per monitorare le conversazioni online e per vedere cosa si dice in rete su aziende, prodotti, servizi. Diverse sono le applicazioni specificamente progettate per questo scopo. Un esempio è Social Mention [http://www.socialmention.com] in grado di ricercare all’interno di un numero molto grande di fonti, dai blog ai video, inoltre ha una serie di widget facilmente incorporabili in un blog, così da monitorare in tempo reale alcune parole-chiave – come brand, prodotti, servizi, persone – di nostro interesse. Se ciò non bastasse, Social Mention fornisce anche un utile servizio di sentiment analysis, ovvero analisi dell’orientamento (positivo, negativo, neutro) dei messaggi ricercati: funziona ottimamente in inglese, meno bene in italiano.

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Sulla stessa falsariga c’è Trendpedia [http://trendpedia.com], capace di ricercare l’andamento delle parole chiave all’interno dei blog, con tanto di rappresentazione grafica della quantità di conversazioni legate allo specifico argomento. Allo stesso modo Technorati [http://technorati.com] famoso motore di ricerca per blog, ma anche dotato di utili strumenti per il monitoraggio delle conversazioni. Strumento un po’ più professionale è senza dubbio Blogpulse [http://www.blogpulse.com] servizio gratuito di un’applicazione commerciale della società di ricerche di mercato Nielsen, applicazione molto efficiente con ottimi strumenti di visualizzazione in grado di comparare l’andamento di diverse parole chiave nella blogosfera. Tutti concordano che è Twitter l’applicazione in cui meglio si sviluppano le conversazioni più interessanti e un po’ per le policy di libero accesso al database di Twitter, un po’ per la crescita costante dell’applicazione, davvero tanti sono gli strumenti per attivare il monitoraggio delle conversazioni in questa piattaforma per il microblogging.


Ma perché ascoltare Twitter? Basti pensare che è recentemente salita all’onore delle cronache dei media mainstream per il suo ruolo strategico nel diffondere le informazioni sui fatti relativi alle elezioni in Iran. Tweet Volume [http://www.tweetvolume.com] consente di comparare graficamente l’andamento di alcune parole chiave all’interno dell’universo dei messaggi scambiati in questa piattaforma. Twitter Streamgraph [http://www. neoformix.com/Projects/TwitterStreamGraphs/view.php] è una via di mezzo fra un sofisticato progetto di design e un motore per visualizzare keyword: infatti il suo output è un sofisticato grafico in grado di visualizzare il trend delle conversaziorni in Twitter. Se il nostro scopo è farci un’idea di quante volte una parola chiave – un brand, un prodotto – ricorre nei discorsi dei twitters, basta utilizzare Twitter Search [http://search.twitter. com] e avere così un indicatore, grezzo ma interessante, di ciò che accade nella twitter-sfera. Specificamente dedicata all’andamento dei trend in Twitter è Twist [http://twist.flaptor.com],

utilissimo per intercettare come si sviluppano i trend sui più diversi temi, trend che poi andranno ad impattare tutto l’universo dei media sociali, grazie alla viralità e della libera circolazione di notizie e informazioni. Le persone su internet parlano, anche quando si confrontano su acquisti, prodotti e tutto il resto. È un ottimo sistema per un’azienda per sapere cosa dicono di sé i suoi maggiori esperti, ovvero i clienti. Al marketing conversazionale resta però un impegno gravoso, ma affascinante: instaurare un dialogo tra clienti e mercato, far capire non solo la bontà del prodotto, ma anche dell’azienda. La rete è la più grande risorsa reputazionale esistente, intorno alla quale è possibile costruire strategie basate sulla fiducia e sul reciproco rispetto, in quanto azienda, in quanto cliente. Nasce così un mercato delle conversazioni, che non vuol dire far mercimonio dei discorsi, ma ascoltare per costruire un rapporto. Perché acquistare non vuol dire solo dare soldi in cambio di un bene, acquistare vuol dire anche costruire una relazione sociale. 61


di Redazione

SEO - OTTIMIZZAZIONE WEB PER MOTORI DI RICERCA Intervista a Davide Vasta

Ph. by Marianna Santoni

Brand Care magazine: Ciao Davide, innanzi tutto grazie per aver accettato di fare due chiacchiere con BCm sul tuo ultimo libro S.E.O. Ottimizzazione web per motori di ricerca, ormai nelle librerie da qualche mese. Davide Vasta: Grazie a voi per l’opportunità. Anzi, devo dire che un po’ mi emoziona trovarmi tra le pagine di una iniziativa appena nata.

Sviluppatore web, fa parte del team ufficiale Adobe Guru, in qualità di esperto per Dreamweaver e Fireworks. Molto attivo nella comunità italiana dei blog legati al web design in genere, nutre un forte interesse per la Rete, che lo ha portato a guardare con molta attenzione le cosiddette “killer application” del Web e studiare le logiche e le particolarità che rendono i siti “appetibili” per i motori di ricerca. Autore di numerosi testi informatici, per Apogeo ha firmato Dreamweaver 8, Dreamweaver CS3, Dreamweaver CS4, eBay (editi nella collana Pocket) e SEO. Una lista completa di tutte le sue attività è disponibile sul suo sito: [www.davidevasta.biz]

BCm: Allora, le procedure di Search Engine Optimization vengono spesso recepite dal cliente – con varie sfumature – in questo modo: “voglio comparire primo su Google”. Quindi ti chiedo: quanto è utile avere una pretesa del genere e, soprattutto: è realizzabile? DV: Hai proprio ragione, più che una richiesta è sovente una pretesa. Una pretesa che nessuno è

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davvero in grado di garantire… Il problema peraltro non è solo di posizionamento. Mi spiego meglio, se un sito si trova tra le prime posizioni, per una determinata keyword, ma lo “snippet” presente nelle SERP è mal costruito… non è detto che gli utenti decideranno di cliccarvi. Quante volte si assiste, ahimé, a pagine ben posizionate, il cui title corrisponde al semplice nome dell’azienda, o peggio è “untitled”? Molte, purtroppo. BCm: Quanto dovrebbe durare il processo di ottimizzazione di uno spazio web per essere efficace? Perché di solito si pensa che sia sufficiente fare qualche scambio di link o banner per salire nei risultati. DV: Le mie campagne SEO si evolvono almeno per sei mesi, a volte un anno. Il problema principale


è che, per verificare il principio di azione e reazione, bisogna attendere ogni volta che i motori di ricerca “valutino” le ottimizzazioni apportate alle pagine, e “decidano” se queste meritano di cambiare posizione. Forzare la mano, modificando le cose in maniera più rapida, crea solo confusione, e si rischia di non riuscire a mettere in relazione le azioni di ottimizzazione, con i risultati. Ovviamente le aziende hanno sempre fretta, e spesso tendono a minimizzare l’azione SEO, perché appunto, in giro, sentono che con un po’ di link e affini si riesce ad ottenere posizionamento…

BCm: Da dove inizia dunque il lavoro per ottenere un buon posizionamento sui motori di ricerca? DV: Dall’analisi dell’esistente. Dall’identificazione del settore merceologico dell’azienda, per comprendere il grado di competizione. Dalla lettura e interpretazione dei dati statistici. Prima di mettersi a giocare col codice, coi tag, coi link, bisogna avere ben chiaro come muoversi, su quali keyword puntare, in quali contesti, in che tempi. Bisogna fare un piano preciso degli interventi, e bisogna mettere in campo un sistema preciso per la misurazione e validazione di ogni step che si compie. Muoversi a macchia di leopardo non ha alcun senso… BCm: Parliamo del PageRank di Google: puoi descrivere ai nostri lettori cos’è e perché è così importante per i loro siti? DV: Il PageRank (abbreviato spesso con PR) è una valore attribuito, esclusivamente da Google, alle pagine web. Questa metodologia tende a valutare i link provenienti da siti molto “famosi” (come ad esempio Repubblica.it) in modo maggiore rispetto a siti meno frequentati o anonimi. Il PageRank è

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misurato con un valore crescente che va da 0 a 10. In genere gli incrementi di valore su numeri bassi (2-3) sono abbastanza semplici da raggiungere, anche con pochi link, mentre invece quando un sito ha già un PageRank elevato (7-8) crescere ulteriormente diventa molto difficile. Il PageRank è uno di quei valori ampiamente ricercati dagli esperti SEO, perché riuscire ad ottenere un voto alto da Google, permette poi di “spendere” questo valore in molti modi. Sebbene il PageRank concorra al posizionamento, non deve essere inteso solo per questo. Avere un PageRank elevato permette di stabilire relazioni con altri siti di valore, per aumentare ulteriormente il proprio. BCm: Che valori di PageRank dovrebbe avere un sito aziendale, secondo te, per ottenere un buon livello di indicizzazione e di autorevolezza? DV: Prima di tutto permettimi di dire una cosa: a mio modo di vedere si confonde spesso il PageRank con la Link Popularity. Un sito potrebbe infatti avere un PageRank non molto elevato (diciamo 2/3), ma essere ben


posizionato su alcuni termini (Link Popularity). Allo stesso modo, un sito web, potrebbe non essere ben posizionato su alcune keyword, ma godendo di un ottimo PageRank, sarebbe comunque in grado di instaurare relazioni con altri siti di valore. Per me, in sintesi, il PageRank rappresenta una sorta di moneta di scambio: più ce n’è, più la propria posizione è forte nei confronti degli altri. La Link Popularity serve invece unicamente ad aumentare il numero di visitatori, a partire da keyword specifiche: meglio si è posizionati, più visite si otterranno. Detto questo, posso solo dire che spannometricamente, la maggior parte dei siti di medie proporzioni ha un PR che oscilla tra 2 e 4. Un PR pari ha 3 è il minimo decoro che un’azienda dovrebbe avere. Queste mie considerazioni però non possono essere prese in assoluto: non è detto infatti che il perseguimento del PR, per un’azienda sia strategico, qualora questa voglia solo aumentare il numero di visitatori. Per quanto riguarda l’autorevolezza, credo sarebbe utile approfondire scindendo tra il significato del termine se rivolto ai motori di ricerca, o agli utenti. BCm: Il tuo sito [www.davidavasta.biz] ha un invidiabile PageRank 5: hai usato formule segrete o solo le procedure che consigli nel tuo libro? Nel secondo caso, puoi suggerire ai lettori, che presumiamo essere utenti medi come noi, un paio di strumenti fondamentali per iniziare a occuparsi in maniera seria di SEO, a parte il tuo libro ovviamente? DV: C’è voluto del tempo, ma in effetti la mia homepage (e solo quella) ha un PR 5. Per un libero professionista quale sono, è pra-

ticamente un miracolo. Come ho fatto? Semplice (si fa per dire): ho costruito un intrico di link che puntano verso questa in anni di lavoro. Mi ci sono voluti circa 8500 link diretti alla homepage. Per la seconda parte della domanda invece, la cassetta degli attrezzi SEO, dovrebbe contenere almeno: • Google Web Master Tools [www.google.com/webmasters/tools/?hl=it]: assolutamente imprescindibile per impostare correttamente dominio, sitemap e controllare errori del sito; • Un sistema di Web Analytics: Google Analytics [www.google.it/analytics] va benissimo, ma se si hanno esigenze particolari, come il tempo reale, meglio una soluzione a pagamento. Io mi trovo benissimo con Shiny Stat Business [http:// w w w. s h i n y stat.com/it/biz/ biz_costi.html]. Un sistema di analisi della “coda lunga”: Hittail [http://www. hittail.com] è già disponibile anche in versione gratuita. • Google Alert [http://www.google.it/alerts]: per intercettare le informazioni provenienti dalla rete, su keyword di rilievo per la propria azione SEO; • Strumenti di keyword phishing: Good Keywords [http://www. goodkeywords.com] costa pochissimo e funziona bene. • Strumenti per generare sitemap: XML Sitemaps [http:// www.xml-sitemaps.com] funziona molto bene. Questi sono gli strumenti basilari, ci sono poi strumenti specifici per la profilazione degli utenti e per l’analisi delle inter64


facce, ma qui si scivola verso le Web Analytics… BCm: Se scrivo “SEO” o “Posizionamento motori di ricerca” su Google vengono fuori milioni di siti che propongono, chi più chi meno, ricette da seguire di vario tipo: di chi fidarsi? DV: Ahah… domanda da 100 milioni di dollari! Impossibile rispondere… direi solo di non fidarsi di chi garantisce posizioni precise… e direi di fidarmi di chi può offrire esempi riscontrabili di posizionamento per aziende in rete.

ad un seminario sul SEO, all’interno della manifestazione OnWeb, che si terrà a Corciano (Perugia) il 2 e 3 Ottobre. La prima tappa che si è tenuta a Palermo il 29 e 30 Giugno, ha avuto un gran successo, che spero di replicare :-) Info e prenotazioni sul sito [http://logicamente.org/#seocorciano] BCm: Grazie Davide, è sempre un piacere parlare con te. DV: Grazie a voi, e complimenti ancora per la nascita di questo magazine!

BCm: Ci dici una cosa che non si dovrebbe mai fare per ottenere più visite sul proprio sito? DV: La prima che mi viene in mente, per la quale a suo tempo uno dei miei siti è stato penalizzato da Google: il Keyword Stuffing.

Ph. by rooneyjohn - Flickr

BCm: Per finire volevo ricordare che il tuo libro sul SEO: S.E.O Ottimizzazione web per motori di ricerca edito da Apogeo è in vendita in tutte le librerie e anche sul tuo sito personale [www.davidavasta.biz] al prezzo di 29 euro. DV: Sì, e aggiungo che tra l’altro le vendite stanno andando molto bene. Ho numerose mail di utenti felici dell’acquisto, e si moltiplicano in rete segnalazioni positive. Colgo l’occasione per dirvi inoltre che, chi volesse, può partecipare

Per approfondire: - S.E.O. Ottimizzazione web per motori di ricerca (Apogeo, 2009) [www.davidevasta.biz/libro_seo_ottimizza zione_motori_ricerca.html] -[www.davidavasta.biz] il sito ufficiale di Davide Vasta: autore di libri su SEO, Web Design e Graphic Design, nonché esperto di Adobe e Adobe Guru. 65


di Alessia Cremonini

SEO E LE STRATEGIE DI MERCATO DI GOOGLE L’accesso alla vastità di informazioni presenti nel Web può avvenire attraverso due modalità principali. L’utente può accedere alla fonte digitando direttamente l’indirizzo oppure utilizzare degli strumenti ausiliari, come i motori di ricerca. La navigazione nel Web ci porta sempre più ad utilizzare i motori di ricerca, i quali cercano di soddisfare i nostri bisogni informativi. L’utente palesa le proprie esigenze formulando delle interrogazioni attraverso delle parole chiave, note come Keywords. In questo modo, viene espressa una vera e propria domanda di ricerca (query), che il motore di ricerca elabora selezionando le risorse di siti web pertinenti. I risultati vengono ordinati in relazione all’aderenza con la query e vengono generate così una o più pagine di risultati. L’insieme dei risultati delle ricerca prende il nome di SERP (Search Engine Results Page). Di conseguenza, risulta evidente l’importanza dell’essere visibili all’interno delle prime pagine di risultato dei motori di ricerca. Un sito Web per attestare la propria

presenza e avere delle discrete chances di visibilità si deve posizionare almeno all’interno delle prime tre pagine di un motore di ricerca. Come si può evincere dall’indagine italiana Sems/OTO, condotta su un campione di 27.000 utenti residenti in Italia (il totale dei rispondenti è stato pari a 1500), il 68% degli italiani online utilizza i motori di ricerca su base quotidiana: • il 95% degli italiani ritiene i motori di ricerca lo strumento più efficace per cercare informazioni, prodotti e servizi; • l’83% degli italiani online utilizza i motori di ricerca per trovare informazioni decisive per un acquisto; • il 91% di questi, una o più volte, ha deciso l’acquisto di un prodotto o di un servizio basandosi sulle informazioni ottenute attraverso i motori di ricerca. L’indagine mette in evidenza che l’86% degli utenti preferisce collegarsi a Google e che il 61% ha il medesimo motore di ricerca come Homepage preimpostata sul proprio browser internet. Da tutto ciò emerge l’importanza

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delle tecniche finalizzate all’ottimizzazione dei siti Web e le strategie per raggiungere un buon posizionamento all’interno dei motori di ricerca, in particolare in Google. L’insieme di queste pratiche prende il nome di SEO, Search Engine Optimization. Il processo di ottimizzazione rientra all’interno del Search Engine Marketing (SEM), il ramo del Web Marketing che si applica ai motori di ricerca. Lo scopo è portare a un sito, attraverso il posizionamento


e la pubblicità, il maggior numero di utenti realmente interessati ai suoi contenuti. Per la promozione via Web, quindi, diviene di fondamentale importanza: • assicurarsi che il proprio sito sia accessibile e visibile; • integrare il SEM nel “piano media”; • monitorare il giudizio da parte degli utenti, manifestato attraverso post e commenti su forum e/o blog, e utilizzare questi contenuti a proprio vantaggio. Quest’ultima tipologia di informazioni risulta essere tra quelle più incisive nel processo decisionale di acquisto da parte degli utenti: secondo la survey, dopo le informazioni presenti sul sito istituzionale, le recensioni e i commenti su i siti di comparazione (60%), le informazioni sui forum e blog (41%) sono quelle più tenute in considerazione da parte dell’utenza. Tale aspetto è alla base di tutta una serie di nuove attività che determinano le strategie di Search

Engine Marketing: da un lato si pone il Reputation Management che punta a valorizzare le informazioni con connotazioni positive, dall’altro si collocano tutte le pratiche di Social Media Optimization, che puntano a stimolare l’utenza a condividere in Rete l’esperienza positiva avuta con un prodotto o servizio, per esempio curandone una recensione su un sito di comparazione, condividendone le immagine su Flickr, pubblicandone un video su YouTube e facendo in modo che questi contenuti appaiano tra le pagine di risultato di Google. Nel 2007 Google ha lanciato la Universal Search: nelle pagine di risultato non compaiono solo i link testuali, ma anche immagini, video, mappe e news. Questa novità ha modificato anche la modalità di fruizione della pagina dei risultati da parte degli utenti. Infatti, prima del 2007 pochi italiani hanno utilizzato motori di ricerca

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verticali per immagini (es. Google Images), video (YouTube), news (Google News), blog (Technorati) o mappe, mentre con il lancio di Universal Search gli italiani hanno iniziato a interagire con risultati anche differenti dalla semplice pagina testuale. Da tutti questi dati risulta evidente come Google sia il motore di ricerca per antonomasia e, come tale, porta la maggioranza dei web developer a ottimizzare i propri siti Web in base alle caratteristiche richieste dall’algoritmo di funzionamento. Basato sullo specifico carattere “democratico” del Web, il PageRank sfrutta la vastissima rete di collegamenti associati alle singole pagine per determinarne il valore. In pratica, Google interpreta un collegamento dalla pagina A alla pagina B come un “voto” espresso dalla prima in merito alla seconda.


Tuttavia, non si limita a calcolare il numero di voti, o collegamenti, assegnati a una pagina. Google prende in esame la pagina che ha assegnato il voto: i voti espressi da pagine “importanti” hanno più rilevanza e quindi contribuiscono a rendere “importanti” anche le pagine collegate. È evidente che oltre a essere importanti, le pagine devono corrispondere ai termini ricercati. Quindi, Google integra il PageRank con sofisticate procedure di ricerca di testo per trovare le pagine che sono rilevanti e rispondono ai criteri di ricerca indicati. Il motore di ricerca non si limita solo ad esaminare il numero di volte in cui una parola specifica è pre-

sente nella pagina, ma esamina tutti gli aspetti del contenuto della pagina (e dei contenuti delle pagine correlate a essa) per stabilire se risponde o meno ai criteri di ricerca indicati. Google mette a disposizione numerosi strumenti per l’ottimizzazione dei siti e per rendere accessibile anche ai meno esperti una via più semplice per ottenere un buon posizionamento all’interno del motore di ricerca. Alla base vi è una strategia di promozionale volta al consolidamento del proprio mercato: la possibilità di poter utilizzare, anche gratuitamente, delle applicazioni capaci di semplificare in parte il processo

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di ottimizzazione risulta essere vincente. Ad oggi, Google è tra i pochi motori di ricerca che mette a disposizione software capaci di selezionare le parole chiave più idonee, strumenti efficaci di monitoraggio del traffico web e applicazioni che rendono possibile, a pagamento, il posizionamento all’interno delle prime pagine di risultato. Le Keywords Come accennato sopra, le Keywords sono alla base del funzionamento di un motore di ricerca. Di conseguenza, si può intuire l’importanza di far partire l’attività di promozione di un sito da una accurata selezione delle parole chiave.


Le keywords possono essere raggruppate in due categorie principali: • keywords long tail, composte da tre o più termini; • keywords short tail, composte da uno o due termini. Le keywords short tail hanno la particolarità di veicolare un ampio volume di traffico web e sono le parole più usate nelle ricerche: ciò rende la short key altamanete inflazionata e dominio quasi incontrastato dei siti con posizionamento consolidato nelle SERP. Il volume di traffico veicolato, invece, dalle keywords long tail è nettamente inferiore a quello delle short: gli utenti usano la long key quando cercano qualcosa di ben definito o come raffinamento di una ricerca iniziale che non ha prodotto risultati soddisfacenti. Gli indicatori che risultano molto utili per l’analisi delle parole chiave sono principalmente due: • popularity, numero approssimativo di query basate sulla specifica keyword ed eseguite in un determinato intervallo di tempo; • competition, numero di siti che concorrono nella SERP per la stessa parola chiave nello stesso intervallo di tempo. Questi due parametri compongono l’indice sintetico KEI (keyword effectiveness index). Tale indice aumenta il proprio valore con l’incremento delle quantità di richieste degli utenti e diminuisce con l’aumento del numero delle pagine concorrenti che si posizionano nella SERP con la stessa keyword: più è alto il valore del KEI e più la parola chiave ha possibilità di posizionamento.

Gli strumenti e le strategie di Google Google mette a disposizione uno strumento per poter determinare il volume approssimativo di ricerche per una o più parole chiave nel mese di calendario precedente o come media calcolata sulle ricerche che sono state condotte negli ultimi dodici mesi. Tali informazioni possono essere filtrate per paese e/o lingua di destinazione. Questo tool è un ottimo “suggeritore” di keyword correlate a una specifica parola chiave e come indicatore delle rispettive popolarità. Google fornisce, inoltre, il servizio Analytics: un tool che supporta l’implementazione di un processo di Web Analytics. Questo strumento fornisce supporto nella valutazione della provenienza, della qualità e della profittabilità del traffico web e, conseguentemente, nel precedere con azioni orientate all’ottimizzazione negli ambiti di ma rketing e SEO. Google Analytics può generare oltre ottanta rapporti utili nel determinare il rendimento delle campagne di marketing.

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Il processo di Web Analytics può essere definito come “il complesso dei dati acquisiti da varie fonti (traffico web, transazioni online, misure prestzionale su web server, misure di usabilità, dati immessi da utenti) ed elaborati al fine di costruire una comprensione generalizzata dell’esperienza di navigazione dei visitatori di un sito”. Questo elemento rientra all’interno dei cinque passi che determinano il macro processo di Web analytics: 1. Web Strategy: classificazione del sito web e definizione degli obiettivi online; 2. Parameter Synthesis: individuazione dei parametri e degli indicatori; 3. Web Measurement: monitoraggio e misurazione dei parametri individuati al punto precedente; 4. Web Analysis: analisi delle misurazioni e definizione di un piano di azione commisurato agli obiettivi attesi; 5. Web Optimization: esecuzione del piano di azione.


Google mette a disposizione uno strumento a pagamento, AdWords, in grado di portare avanti una campagna pubblicitaria su Google e sui siti partner. Il suo funzionamento avviene attraverso annunci che vengono visualizzati insieme ai risultati di ricerca su Google e su siti di ricerca e di contenuti facenti parte della Rete Google, che include siti web come AOL, EarthLink, HowStuffWorks e Blogger. Ogni giorno, attraverso gli annunci pubblicati tramite AdWords, vengono visualizzate moltissime pagine nella Rete Google, rendendo così possibile il raggiungimento di un pubblico molto vasto. Ogni anno Google bandisce il concorso “Online Marketing

Challenge”, una competizione internazionale di marketing rivolta agli studenti universitari. Questa scelta del colosso del web rientra nella più ampia strategia di diffusione dei propri tools, facendo in questo modo conoscere le proprie applicazioni anche ai non addetti ai lavori e coinvolgendo aziende che non applicano strategie promozionali via web, come nel caso degli studenti di un Master de La Sapienza. Alla competizione del 2008 del Google Challenge hanno partecipato gli studenti dell’edizione 2008 del master IMC de La Sapienza Università di Roma, raggiungendo dei buoni risultati: uno dei tre gruppi del master si è posizionato come semifinalista al livello europeo.

Il Challenge ha previsto l’utilizzo di AdWords come strumento principe e ha contemplato la seguente struttura: • gli studenti sono stati suddivisi in tre gruppi, guidati da un docente, i quali avevano a disposizione un voucher pari a 200$ da spendere attraverso AdWords nell’arco di tre settimane, durata della online campaign; • i gruppi hanno reperito un’azienda da promuovere, con meno di 100 dipendenti e in possesso di un sito web, che non avesse mai utilizzato AdWords prima; • ogni gruppo, assieme all’azienda, ha creato un account e strutturato la online marketing campaign; • durante le tre settimane, finestra in cui è stata aperta la competizione, i gruppi hanno affinato e migliorato la propria strategia promozionale al fine di far ottenere visibilità alle aziende coinvolte. Inoltre, pena l’esclusione, hanno fornito alla commissione giudicatrice di Google due report dettagliati; • i vincitori sono stati scelti in base al successo della loro campagna e alla qualità dei report prodotti.

Per approfondire: - Sems Survey 2008 – Cosa e come comprano gli italiani dopo una ricerca nei motori [ http://www.sems.it/ricerche.htm ] - Baker L., Social Media’s Direct Influence on Search Engine Ranking, in Search Egine Journal, 2007 - Toscano L., SEO strategy. Conoscenza, tecniche e strumenti per essere visibili su Google e Social Media, Uni Service, Trento, 2009 - Peterson T. E., Web Analytics Demystified, Paperback, 2004 70


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di Patrizio Di Nicola

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GLI INCENTIVI SOPRAVVIVERANNO ALLA CRISI GLOBALE? attivismo, ma in realtà stavano semplicemente riposandosi. Ciò avveniva, secondo Taylor, perché il modo di pagare loro lo stipendio disincentivava l’aumento della produttività. La retribuzione, in fondo, era solo in piccola parte legata allo sforzo che ciascuno faceva. Da buon ingegnere, ideò un sistema retributivo che definì “cottimo differenziato”, in grado di premiare economicamente i lavoratori maggiormente produttivi. Il sistema, come noto, si diffuse rapidamente negli Usa. In Europa,

1.

Tra i primi ad accorgersi che le persone, per lavorare in maniera più produttiva (almeno dal punto di vista dell’azienda) hanno bisogno di un incentivo, fu l’ing. Frederick W. Taylor. Nato a Philadelphia nel 1856, Taylor aveva passato alcuni anni della sua giovinezza come operaio di fabbrica, e aveva imparato che gli operai, per evitare di farsi sfruttare troppo, spesso facevano finta di lavorare. Come i plotoni di soldati, infatti, “segnavano il passo”: muovevano mani e piedi, davano l’idea di grande 72

il metodo fu adattato da un meccanico francese, Charles Bedeaux, che semplificò il calcolo della produttività basandosi sul concetto di “lavoro da svolgere in un minuto”. Il metodo era tanto efficace che fu adottato un po’ ovunque, e rimase in vigore per molto tempo: addirittura un sistema non dissimile esisteva, ancora negli anni Settanta, nella fabbrica Pirelli.

2.

Con l’avvento della società post industriale crescono “i colletti


aziendali, di costruire veri e propri sistemi incentivanti, che puntino alla valorizzazione delle risorse umane, non esclusivamente da un profilo economico, ma anche con benefici immateriali, ad esempio affidando agli individui sempre maggiori responsabilità e permettendo una progressione di carriera.

3.

Uno dei primi ad affrontare in chiave moderna il problema degli incentivi personali fu, sul finire degli anni Trenta, un manager della American Telephone and Telegraph Company, Chester Barnard. Per Barnard l’unico modo per raggiungere l’efficienza consiste nel

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bianchi”: impiegati che svolgono lavori “di concetto”, sottratti allo sforzo fisico e al rapporto con i macchinari industriali. Per loro il lavoro diventa un complesso mix di quantità di prodotto e di qualità della soluzione trovata, spesso per soddisfare un cliente di cui si è l’interfaccia verso l’azienda. Il lavoro è a volte svolto “per progetti”, e alle persone è affidato un incarico che condiziona il lavoro di altri, così che un fallimento individuale può rappresentare una failure dell’intero sistema. Il rapporto di lavoro, quindi, si fa più soft, e il processo di incentivazione richiede una maggiore fantasia da parte del datore di lavoro. Nasce così la necessità, per le direzioni

motivare i membri dell’organizzazione, in modo che essi cooperino agli scopi collettivi. Gli incentivi saranno, a secondo dei casi, di tipo materiale (aumenti retributivi, premi di risultato, ecc.) o immateriali (gratificazioni sociali, stima, aumento dell’autorevolezza in azienda, ecc.). I primi, secondo Barnard, permettono di raggiungere in fretta obiettivi di breve durata; i secondi, al contrario, hanno effetti strutturali nell’organizzazione aziendale. Il buon manager, quindi, deve dare attenzione a entrambi gli incentivi, ma soprattutto a quelli che motivano psicologicamente le persone. Non molto dissimile


4.

Un buon manager, quindi, più che avere una strategia di incentivazione, deve costruire un sistema incentivante, che tenga conto della complessità degli esseri umani, della tipologia dei lavori che essi svolgono, delle differenti aspettative che le persone sviluppano nel corso del tempo. Puntare tutto sull’aspetto economico, che esista o meno una gerarchia nei bisogni, di certo non paga. Lo dimostra il fallimento della politica delle stock option, che nel tentati-

5.

È sempre molto difficile conoscere gli stipendi dei manager, e ciò sia per la naturale riservatezza delle imprese, sia per la complessità delle buste paga dei top executive, che prevedono almeno quattro voci oltre la retribuzione: la quota variabile con i risultati, le opzioni azionarie, i benefit e le gratifiche. Negli Usa, secondo Business Week, i CEO delle cinque maggiori aziende private nel 2007 hanno incassato tra i 16,7 e i 31,9 milioni di dollari. In media, il capo azienda di una delle 500 imprese del listino azionistico S&P guadagna in tre ore quanto un dipendente in un anno. In Europa la situazione non è molto diversa. Fortune International ha individuato i 25 manager più pagati d’Europa, trovando redditi che vanno da 4,5 ai 32 milioni di dollari, solo in minima parte (tra il 5 e il 20%) erogati in forma di sa-

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vo di legare la retribuzione dei top manager all’andamento di borsa delle imprese, ha di fatto creato le condizioni per operazioni di borsa che, mentre ottimizzavano i guadagni a breve termine dei CEO, conducevano le imprese verso il fallimento. Insomma una specie di effetto Hanoi: durante l’era coloniale i francesi, nel tentativo di derattizzare la città, offrirono un compenso per ogni topo catturato. I vietnamiti, per contro, iniziarono un fiorente allevamento di topi da vendere ai colonizzatori.

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il pensiero di Abraham Maslow, uno psicologo americano, che nel 1954 pubblica un volume in cui spiega che i bisogni delle persone sono organizzati come in una piramide: al livello più basso vi sono i bisogni primari, fisiologici (ad esempio: lavorare in un ambiente pulito, svolgere un lavoro sicuro, ecc,). Al livello più elevato vi sono i bisogni che portano le persone a migliorare il loro potenziale umano, e che li portano, attraverso un processo di aumento dell’autostima, a realizzarsi nella propria attività. Una teoria interessante, quella di Maslow, ma anche contestata: molte ricerche, ad esempio, non sono riuscite a dimostrare l’esistenza di una scala dei bisogni, mentre da altra parte si sostiene, forse non senza fondamento, che i bisogni umani fondamentali non sono organizzati gerarchicamente, ma sono ontologicamente universali per loro natura.

lario. I più pagati sono i manager francesi, ma nell’elenco figurano un po’ tutte le nazionalità.

6.

Stranamente, non sempre esiste una relazione tra performance aziendali e premi erogati ai manager. Negli Usa, ad esempio, il manager più pagato del 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che in quell’anno ebbe la crescita azionaria più deludente: appena 3,6% se comparata al +24,3% della ExxonMobil, il cui CEO si è portato a casa “soltanto” 16,7 milioni di dollari, cioè la metà dell’altro. Una evidente ingiustizia nei piani alti del capitalismo mondiale. Tali disparità sono diffuse in tutta l’economia americana, ove non esiste un valore di riferimento che lega le compensazioni dei manager con i guadagni dell’impresa. Vi sono poi presidenti e amministratori che, dopo aver portato le imprese sull’orlo del fallimento, se ne vanno con bonus milionari. Quella dei top manager è una vera e propria giungla retributiva, che si è espansa rapidamente a partire dagli anni ‘90. In quel decennio le retribuzioni dei lavoratori americani sono aumentate mediamente del 37%,


mentre quelle dei manager del 571%. Questi, all’inizio del 1980, avevano una retribuzione circa 40 volte un lavoratore medio, mentre all’inizio del 2000 il rapporto era passato a 500.

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7.

Molti cittadini si attendono che, nei tempi di crisi che stiamo attraversando, gli incentivi, in particolare quelli principeschi, si ridurranno. E in effetti ciò è accaduto nelle aziende in crisi – sostanzialmente banche e case automobilistiche – che si sono rivolte ai governi per non fallire. Obama, dopo aver tuonato sulla scarsa sensibilità dei presidenti di Ford, Chrysler e General Motors (che si erano presentati in Senato a spiegare la pessima situazione che attraversavano le rispettive aziende usando i loro tre jet personali), ha imposto la riduzione di tutti gli stipendi e benefit dei manager delle imprese assistite dallo stato. E lo stesso ha fatto la Cancelliera tedesca Merkel e il Presidente francese Sarkozy. Ma non sarà questa la strada futura. Le aziende, appena possibile, torneranno a compensare i manager con incentivi milionari, con la giustificazione che altrimenti perderebbero i migliori dirigenti. In realtà non è vero: i manager migliori, se l’azienda non

è profittevole e stimolante se ne andrebbero comunque. In realtà esiste una complicità sociologica “da classe governante” che lega a doppio filo gli azionisti ai manager, e fa si che l’arricchimento degli uni e degli altri debba viaggiare su binari paralleli.

zione della retribuzione aziendale legata alla produttività. In fondo, in moltissime aziende si inizia a pensare che, in tempi di crisi di incentivi economici non vi sia bisogno: tenersi il lavoro – in una fase di crescente disoccupazione – è già un forte incentivo. Per contro, potrebbero aumentare gli incentivi immateriali, principalmente la possibilità di svolgere il lavoro con orari flessibili, magari anche da casa (tecnicamente si chiama telelavoro) o lavorare in team su progetti stimolanti. Ma le aziende migliori, consapevoli degli insegnamenti di Herzberg, sapranno offrire incentivi che sono un mix di fattori economici e motivazionali, e in tal modo faciliteranno la ricerca della felicità dei propri dipendenti.

8.

A seguito della crisi cambieranno invece molto le politiche di incentivazione nei confronti dei lavoratori “normali”. In questo caso le aziende faranno di tutto per stringere i cordoni della borsa, nonostante che l’accordo quadro siglato il 22 gennaio 2009 tra Governo e parti sociali (documento non firmato dalla CGIL) preveda la detassa-

Per approfondire: - Barnard C., The Functions of the Executive, Harvard University Press, 1938 - Herzberg, F., The Motivation to Work, John Wiley and Sons, New York, 1959 - Kirkland, R., Burke, D., “The Real Ceo Pay Problem”, Fortune International (Europe); 7/10/2006, Vol.154 Issue 1, pag. 44-50 - Maifreda G., La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella storia italiana, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pag. 300 - Maslow, A., Motivation and Personality. New York, Harper, 1954 - Max-Neef M., Human Scale Development Conception Application and Further Reflections, Apex Press, 1989 - Nelson, D., Taylor e la rivoluzione manageriale. La nascita dello scientific management, Einaudi, Torino, 1988 - Vann M.G., “Of Rats, Rice, and Race: The Great Hanoi Rat Massacre, an Episode in French Colonial History,” French Colonial History Society, n. 4, May, 2003, pag. 191-203 - Wahba, A, Bridgewell, L “Maslow reconsidered: A review of research on the need hierarchy theory”, Organizational Behavior and Human Performance, n. 15, 1976. pagg 212–240. 75


È un Network Relazionale di professionisti nel mondo del marketing e della consulenza in comunicazione globale e integrata, che crea relazioni, interazioni e scambi tra il mondo accademico, professionale,as sociativo e mediatico. Mette in collegamento gli operatori del settore con i decision maker ed opinion leader del marketing, della comunicazione e delle relazioni pubbliche realizzando eventi aggregativi,conviviali e sociali, conferenze, manifestazioni, fiere, convegni e seminari formativi. È il più grande Network al servizio della Business Community Italiana che anticipa scenari e soluzioni, descrive

esperienze e prodotti concreti, offre occasioni di dibattito, confronto, scambio commerciale e networking tra aziende, istituzioni e mercati. Ha ideato il ConnectingDay® che è l’unico evento “Dove aumentano le relazioni”. [www.connectingday.com]. Connecting-Managers® ha aderito ai principi del “Global Compact” sottoscrivendo il Patto Sociale ideato dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, ha ricevuto infiniti riconoscimenti ed è stato inserito fra le prime cento aziende recepite dal governo Italiano fra le iniziative di corporate social responsability. Oggi è considerato il punto di riferimento italiano della filiera di operatori nel

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settore del Marketing, della Comunicazione e delle tecnologie ICT e multimedia. La Community si esprime attraverso due grandi portali ([www.connecting-managers.com] e [www. vetrina-eventi.com]), annovera numerosi iscritti tra responsabili Marketing, Commerciali e Vendite di Aziende italiane ed internazionali del largo consumo e dei beni industriali, titolari e responsabili di agenzie di pubblicità, promozione, incentivazione, organizzazione congressuale, relazioni pubbliche, concessionarie di pubblicità e strutture di servizi inerenti l’articolato mondo del Marketing, nonché professionisti dell’informazione: stampa, tv, radio e web.


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di Marta Trotta

Dirigere significa, di fatto, prevedere e controllare il comportamento degli essere umani. Secondo Lawrence Appley, ex presidente dell’American Management, “il management è la gestione degli uomini e non la gestione delle cose”. Un buon dirigente o un buon manager è pertanto colui che è in grado di gestire le persone che concorrono al raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. Tuttavia i metodi e le modalità adottate per dirigere, controllare, motivare e incentivare sono legati ai postulati antropologici di ogni dirigente: in sostanza, alla concezione che si ha dell’uomo al lavoro. Henry Ford, colui che inventò la famigerata catena di montaggio e che adottò metodi di lavoro scientifici basati su mansioni semplici e ripetitive, nella sua autobiografia scriveva:

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A partire dalle considerazioni sulla natura e il comportamento degli esseri umani, vengono elaborati i principi che regolano l’esercizio dell’autorità, le norme dell’organizzazione e i relativi stili di leadership. Qualora chi fa parte del management ritenga che gli esseri umani siano poco inclini Ph. by ndwariga - Flickr

“Il lavoro ripetitivo, il fare continuamente, sempre nello stesso modo, un’unica cosa, è una prospettiva terrificante per un certo tipo di mentalità. È terrificante anche per me. Io non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri tipi di persone, e direi forse per la maggior parte delle persone, le operazioni ripetitive non sono motivo di terrore. In realtà per alcuni tipi di mentalità il pensiero è veramente una pena. Per loro il lavoro ideale è quello in cui l’istinto creativo non deve esprimersi. I lavori nei quali è necessario mettere il cervello e muscoli hanno pochi aspiranti. Noi abbiamo sempre bisogno di uomini a cui piace un determinato lavoro perché è più difficile; ma un operaio medio, mi spiace doverlo dire, desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto un lavoro nel quale non debba pensare. Coloro che hanno quella che potremmo definire una mente di tipo poco creativo e che aborrono totalmente la monotonia sono portati a ipotizzare che tutte le altre menti siano altrettanto irrequiete e quindi riversano una simpatia non desiderata sull’uomo lavoratore, il quale svolge dal mattino alla sera un’operazione che è quasi sempre la stessa.”

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L’IMPRESA HA UN LATO UMANO?


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al lavoro e scarsamente disponibili ad assumersi responsabilità, lo stile di gestione adottato sarà orientato alla direzione e al controllo cercando di definire meccanismi di premi e punizioni. Come spesso capita, i presupposti e le concezioni da cui un soggetto si muove generano una sorta di profezia che si autoavvera e le persone, considerate come poco inclini all’autonomia e alla produzione di novità, si comporteranno in maniera pedissequa e conforme. Un psicologo sociale americano, Douglas McGregor, ha provato a immaginare cosa potesse accadere qualora si invertissero i “presupposti” che regolano le concezioni dell’impresa. La sua idea, infatti, era che i valori degli stili di gestione determinassero fortemente i carattere dell’impresa oltre che la forza

degli sforzi innovatori. Qualora si ipotizzasse che le persone siano per natura inclini al lavoro, disponibili a lavorare in autonomia e propense ad assumersi delle responsabilità, con tutta probabilità l’impresa risulterebbe un luogo di espressione della propria personalità e di creazione di innovazione. Rassicurando i manager, McGregor afferma che incoraggiare e perfezionare l’utilizzo delle capacità, delle cognizioni e delle abilità delle persone che si gestiscono non significa rinunciare alla direzione, né acquisire uno stile morbido. È possibile infatti dare meno importanza alle forme esterne di controllo qualora si riesca a ottenere la responsabilizzazione verso gli obiettivi dell’organizzazione. In questa direzione, i manager assumono il ruolo di facilitatori dell’integrazione tra individuo e organizzazione. Tuttavia, l’obiettivo di McGregor non è tanto quello di far vincere una concezione dell’uomo come

persona pigra o piuttosto come teso all’autonomia, quanto invitare i manager ad abbandonare le retoriche della delega e della finta creatività organizzativa. Lo scopo è dar credito a una concezione umana dell’azienda, nella convinzione che ci sia realmente un potenziale nelle persone che i dirigenti si trovano a gestire. In questa direzione, già dagli anni ’60 ai manager erano invitati a impegnarsi non solo nel perseguimento degli obiettivi economici dell’organizzazione, ma anche nell’elaborazione di metodi di gestione e, soprattutto, nel generare presupposti antropologici che valorizzassero l’aspetto umano della propria azienda. Alla base della professione del manager, pertanto, deve esistere una concezione etica del proprio ruolo a partire dalla consapevolezza che si è responsabili della professione (e spesso di buona parte della vita) delle persone che si dirigono.

Per approfondire: - Ford H., Autobiografia, Rizzoli, Milano, 1982 - McGregor D., L’aspetto umano dell’impresa, Franco Angeli Editore, MI), 1972 79


Soft Strategy è una giovane azienda italiana specializzata nella progettazione e realizzazione di soluzioni ICT, nonché nella governance dei processi di gestione IT per organizzazioni di medie e grandi dimensioni. Soft Strategy risulta un interlocutore preferenziale in grado di: analizzare i requisiti del cliente e progettare la migliore soluzione in funzione degli obiettivi di business che l’azienda intende raggiungere; sviluppare la soluzione progettata e supportare l’azienda cliente nel suo utilizzo; assistere il cliente nel miglioramento dei propri processi di governance dell’Information Technology. Soft Strategy propone un approccio di gestione integrata del progetto, finalizzato all’ottimizzazione delle risorse disponibili, in modo da valorizzare le risorse messe a disposizione dal cliente e garantire il raggiungimento del risultato atteso. Sotto la guida dei Project Leader, le risorse del team integrato svol-

gono le attività secondo il piano di progetto concordato da Soft Strategy con il referente del Cliente. Il progetto, inoltre, viene guidato da un Comitato di Progetto, che si riunisce periodicamente su convocazione del Project Leader ed è responsabile di attività come: • allocazione dei budget, • valutazione dell’avanzamento delle attività, • coinvolgimento delle parti interessate al progetto, • risoluzione delle criticità del progetto. Una costante verifica della qualità del lavoro è garantita da un’apposita figura di Qualità Assurance assunta da un nostro referente non impegnato operativamente nel progetto.

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di Claudio Biondi

CUCINA E CINEMA un’accurata preparazione;

• entrambi sono frutto di un lavo• • • •

Cucina e cinema hanno in comune, oltre alla generale ed errata convinzione che basti una padella, un po’ d’olio e un uovo per cucinare o una telecamera digitale, qualche amico e una bella giornata per fare cinema, molti più punti di quanti non appaiano ad un primo sguardo: • entrambi partono da un desiderio creativo che si manifesta attraverso un’idea intuita; • entrambi si fondano sulla ricerca e sulla scelta meticolose degli ingredienti e dei contenuti; • entrambi si realizzano mediante

ro di squadra coordinato da un unico responsabile; entrambi risultano da una sapiente fattura con scelta di dosi e di tempi; entrambi sono imprevedibili nei loro risultati; entrambi obbediscono ad un’alchimia nascosta e segreta; e, infine e soprattutto, entrambi sono un atto d’amore.

L’idea. Un sapore nuovo. Una storia nuova. Gli scettici dicono che ormai tutti i sapori sono già stati inventati e tutte le storie raccontate. Sbagliano. Non c’è mai un sapore che sia uguale a se stesso, come non c’è storia che, seppure copiata o ripetuta, abbia lo stesso significato. Per quanto uno spaghetto aglio e olio può sembrare simile ad un al-

tro, il sapore cambierà a seconda dell’olio e dell’aglio utilizzati, da come l’aglio sia stato fatto indorare e per quanto tempo li avremo saltati in padella. Così, una storia d’amore non sarà la stessa se lei o lui s’innamorano in tempi diversi, se si incontrano al caffè o se sono amici di famiglia, se lui è impaziente o lei petulante. E potrete immaginare di ritrovare il sapore di quel piatto cucinato da vostra madre, ma se gli toglierete la vostra infanzia o l’appetito che avevate dopo una partita a pallone, quel sapore non sarà più lo stesso. E così potrete immaginare di ritrovare il magico significato delle peripezie di un eroe di ritorno da una lunga guerra che resiste alle Sirene e giace con una Maga, ma se gli toglierete l’emozione della prima lettura e vi aggiungerete tutti i vostri anni, quel Nostos non vi avvincerà nello stesso modo.


La cucina inizia dal mercato. Spesso, se non sempre, è lì che, a seconda di quello che i banconi ti offrono, l’idea di un sapore ti prende e non ti molla fino a quando non l’hai realizzato. E il cinema inizia dalla vita di tutti i giorni ed è lì che, a seconda di quello che ti ha colpito, l’idea di una storia si fa strada nella mente e diventa obbligatorio tentare di raccontarla. I personaggi, le ambientazioni, i tasselli della storia, i costumi di un film devi saperli scegliere così come scegli dai banconi del mercato i colori, gli odori e la forma e il peso degli ingredienti. Carni di manzo o di maiale, di vitello o di cinghiale, le caccia-

gioni, i frutti di mare, le spigole o le orate, gli astici o i moscardini, le patate, i pomodori, le verze, gli spinaci, i cavoli, il basilico o la mentuccia, tutto quello che ti offrono i banchi del mercato va giudicato, selezionato, pesato, acquisito così come il viso di un attore, il taglio di un abito, una battuta da dire o una musica da ascoltare, la luce di un tramonto o i contorni di un panorama, il traffico di una strada o l’ombra di una scala nell’androne di un palazzo misterioso. La preparazione. E quello che hai scelto, che hai valutato e pesato, con in mente un sapore o un racconto ancora

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imprecisati, e che sai però che prenderanno forma, va predisposto sui banchi della cucina in tazze, piatti, caraffe, misurini e vassoi oppure va ordinato sulle pareti della tua stanza, con foto, disegni, scarabocchi, pezzi di carta sparsi con appuntati su idee, note e dubbi. Gli ingredienti della cucina vanno ordinati in maniera che sia possibile scartare quello che non ti serve tagliuzzando, sfilettando, passando al setaccio, riscegliendo e riscartando, in modo da esser sicuro che potrai servirtene al momento che ritieni giusto, che intuisci che è quello – e mai un altro – per mescolarli, lavorarli, metterli in padella.


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Così, per il cinema, i visi degli attori, le espressioni, le parole che vuoi sentire pronunciate, i gesti che devono accompagnarle, i colori di un’ambientazione, la luce che intendi usare, tutto deve essere al suo posto, pronto ad essere ripreso ad un tuo cenno appena riterrai che sia quello il momento ed il modo – e non un altro momento o un altro modo - perché possano amalgamarsi tra loro di fronte alla macchina da presa.

La squadra. Ma sai che non puoi fare tutto da solo. Sai che dovrai fidarti di altri. Del loro modo di tagliare, di battere, di impastare, di mettere in padella, di versare e ritirare, di dosare e infarinare. Di vestire o truccare, di mandare a memoria o di eseguire un passo di danza, di inquadrare, di illuminare o di mettere in posizione. E sai che è proprio dal modo in cui tutti gli altri avranno capito e condiviso il risultato a cui vuoi arrivare, sia esso un sapore o un’emozione, un retrogusto o una risata, un’acquolina o una lacrima, sai che è proprio dal modo in cui essi faranno quello che ciascuno deve fare, nei tempi e nei modi giusti – e non in altri tempi e in altri modi – sai che il sapore o l’emozione dipenderanno in gran parte da loro. E sai anche che per quanti errori possano esser commessi, per quante regole possano esser disattese, sai che toccherà a te ripararli, a te farle rispettare. Sai, cioè, che solo tu sei il responsabile e solo tu dovrai decidere se quella luce è esattamente quella che immaginavi perché si dicano quella frase in quel modo, se quel-

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l’impasto è quello che volevi per la sfoglia o se quella salsa dovrà essere rimontata o addirittura nuovamente eseguita e quella scena nuovamente rifatta e ripresa. La fattura. La cottura è veloce o lenta. La ripresa può durare pochi secondi o lunghi minuti. E quel tempo di cottura, la temperatura che hai scelto, quella tonalità di luce che hai voluto, quel movimento e quella pausa o quella postura, quella fiamma o quell’obbiettivo sono ora lì ad importi i propri limiti, e le loro proprietà. Se di rame o d’alluminio, se a focale corta o lunga, se con il manico lungo o se digitale, quella padella e quel fornello, quella macchina da presa o quel riflettore, ti condizioneranno e insisteranno sul sapore che stai creando o sulla storia che vuoi raccontare. Tutto il tempo che hai passato al mercato chiacchierando con il pescivendolo, con il macellaio, o l’ortolano si riduce ora, durante la cottura, a pochi minuti febbrili. Tutto i mesi che hai trascorso discutendo con gli sceneggiatori o con il casting, scegliendo quell’ambiente o mostrando una foto o un disegno si riduce ora, durante le riprese, a poche settimane che sembrano trascorrere con la velocità di secondi. Non puoi fermarti, durante la cottura, e ritornare sui tuoi passi. Il dado è tratto. Puoi solo assaggiare di tanto in tanto e correggere se manca un po’ di sale, se una battuta o un’espressione è fiacca o non come l’avevi immaginata. Un attimo in più del necessario e il soffritto si è bruciato. Una pausa non rispettata e quella battuta è persa. Ma non puoi fermarti. Il sapore non c’è ancora, la storia è ancora informe. Così passi a me-


L’alchimia. E sai anche che quel sapore di stasera, non sarà mai quello di domani. La storia che hai appena raccontato non potrà mai essere raccontata allo stesso modo. Perchè quel sapore o quella storia sono unici e frutto di un’alchimia di cui tu stesso, pur essendo il cuoco o l’autore, non arrivi e non arriverai mai a conoscere in tutti gli infiniti suoi risvolti, in tutte le infinite sue condizioni, in tutti i suoi componenti e in tutte le sue misure e in tutti i suoi tempi. Basterà un nonnulla perché l’alchimia agisca

L’amore. Ma qualsiasi sia stato il risultato, qualsiasi l’emozione che hai tentato di trasmettere o il sapore che hai tentato di far gustare, qualsiasi il gusto di quella storia e il racconto di quel sapore, sai, devi sapere, che quel sapore o quella storia vivono solo se altri li gustano o le provano. Sai, cioè, che nessun sapore e nessuna storia è un sapore o una storia per te solo. Sai che scegliendo di creare, di cucinare o di raccontare, hai scelto di essere con gli altri e per gli altri. Perché senza quelle infinite tonalità di gusto o di sfumature di significato che appartengono ognuna ad ogni altro che ha gustato o visto ed ascoltato, sai bene che quel sapore o quella storia non esisterebbero. Non vivrebbero. Non potrebbero vivere. E sai, infine, devi sapere e non dimenticarlo mai, che è solo l’amore che tu hai messo in quel sapore o in quella storia che gli altri percepiranno, ameranno o rifiuteranno. Perché, come in tutti gli atti d’amore, corri sempre – e da solo – il rischio di essere amato o rifiutato. Perché l’essenza del creare e dell’amare si nutre di questa possibilità e non vi sono eccezioni. Non in cucina, non nel cinema e, forse, nemmeno nella vita. 85

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L’imprevedibilità. E anche quando il sapore è quello giusto per te o l’emozione è lì presente, sai bene che non sarà così per tutti i commensali o per tutti gli spettatori. Sai bene che non potrai mai sapere quale gusto ognuno di essi abbia provato o a quale film ciascuno di essi abbia assistito. Non saprai mai se quella sigaretta che quel tizio ha fumato poco prima di mettersi a tavola o se quel litigio con l’amato che quella tizia ha appena avuto prima di entrare in sala non faranno diventare sciapo quel sapore che tu hai creato giusto di sale o se quella risata non si sia mutata in una lacrima versata.

sul sapore o sul racconto in modo diverso. Magari migliore o peggiore del precedente. Ma sempre ed assolutamente diversi. E sarà sempre nascosta, segreta, indecifrabile, come segrete e nascoste ed indecifrabili sono le ragioni e le contraddizioni dei sentimenti e dei rancori, dell’amore e dell’odio, della vita e della morte, del vuoto e del pieno.

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scolare, a montare, a scegliere se tutta la salsa va usata o soltanto una parte, se va aggiunto appena appena un altro po’ di brodo. Passi ore a provare e decidere se, tagliando in quel punto quella scena passando alla successiva, è lì che si forma l’emozione giusta, perché l’emozione o il sapore che stai creando devono prima di tutto convincere te, devono avvicinarsi quanto più possibile a quel sapore e a quell’emozione che hai intuito di poter creare.


di Redazione

EUROCHOCOLATE: ROMPETE LE RIGHE!

AGENDA Save the date

dal 16 al 25 ottobre Perugia

L’appuntamento italiano più goloso con il cioccolato in tutte le sue forme è giunto ormai alla sua sedicesima edizione e quest’anno Eurochocolate vuole dare il via libera alla creatività, perché ciascuno possa amare il cioccolato a modo proprio. Fondente o al latte, tavoletta o cioccolatino, femmina (cioccolata) o maschio (cioccolato) che sia, non importa: c’è spazio per tutti. Immagini simbolo della nuova campagna di comunicazione sono infatti il martello che simboleggia la “rottura” e il righello ribattezzato “Golosimetro”. A interpretare nello spirito di Eurochocolate i due oggetti e a farne originali gadget sono stati due importanti firme del Design italiano, Matteo Ragni, food designer che da anni collabora con Eurochocolate nella realizzazione di prodotti al cioccolato sempre curiosi e d’impatto e Paolo Ulian, appartenente alla nuova generazione di designer italiani, i cui oggetti sono caratterizzati da una semplicità disarmante, a cui però, non si può restare indifferenti. Programmi, eventi e informazioni turistiche sul sito di riferimento dove è anche possibile acquistare in anticipo la Chococard (al prezzo di 5 euro), con la quale ottenere omaggi e sconti durante la dolce manifestazione. [www.eurochocolate.com]

MANUALMENTE

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Giunto ormai alla sesta edizione, Manualmente è uno degli eventi più qualificati del settore hobby e creatività. All’appuntamento saranno presenti espositori italiani ed esteri che con tecniche e materiali d’avanguardia daranno vita a corsi e dimostrazioni, spaziando dalla pittura al restauro, dal cucito al ricamo, dal dècoupage al patchwork, dalla ceramica alla bigiotteria, dalla lavorazione della carta a quella del legno e tanto altro ancora. Manualmente è un evento coinvolgente perché permette agli espositori di presentare e illustrare lavorazioni manuali, ed effettuare dimostrazioni pratiche a un pubblico attento che avrà così l’occasione di un contatto diretto con persone esperte e qualificate. L’obiettivo di Manualmente è di fare emergere e stimolare le potenzialità creative delle persone attraverso un percorso ideale che parte dalla scuola per svilupparsi nel tempo libero come hobby o diventare una vera e propria professione e costituire un’alternativa risorsa economica. [www.manualmente.it].

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dal 1 al 4 ottobre 2009 Torino, Lingotto Fiere

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CIBUS TEC: FOOD PROCESSING & PACKAGING TECHNOLOGY EXHIBITION

CONNECTING DAY 29 Ottobre Verona Fiere

al 27 al 30 Ottobre Parma

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Cibus Tec è il Salone dedicato alle tecnologie per la produzione, il packaging e la logistica dell’industria alimentare che si svolge presso la fiera di Parma con cadenza biennale. L’intera filiera produttiva è protagonista di Cibus Tec, importante manifestazione di interesse internazionale punto di riferimento indiscusso per tutti gli operatori interessati all’innovazione e alla ricerca nell’ambito delle tecnologie applicate al settore alimentare. Tecnoconserve è l’area dedicata alla conservazione vegetale: macchinari e tecnologie per la selezione, la raccolta, la trasformazione, il confezionamento e l’imballaggio del prodotto. Milc è la sezione dedicata alla lavorazione e al confezionamento di latte e derivati, fiore all’occhiello di Cibus Tec. L’ultima sezione è Multitecno: sistemi di controllo, igiene negli stabilimenti, packaging del prodotto e tecnologie applicate alla logistica, per ottimizzare la movimentazione di merci nell’industria alimentare riducendo tempo e risorse. Un evento completo che offre soluzioni efficaci e concrete a tutte le aziende del settore, chiamate costantemente a mantenere gli elevati standard richiesti da un mercato fortemente competitivo. [www.fiereparma.it] 87

ConnectingDay è un evento firmato e organizzato da Connecting-Managers [www.connecting-managers.com], il più grande Network Relazionale al servizio della Business Community Italiana. L’evento si basa su una giornata di meeting one to one tra imprenditori, agenzie e clienti. L’ampia categoria degli espositori è rappresentata da aziende qualificate operanti nel settore della comunicazione e del marketing e da professionisti specializzati che propongono servizi originali e innovativi. Durante questa giornata domanda e offerta si incontrano in un clima informale che favorisce il confronto su problematiche, soluzioni, progetti e budget creando reali opportunità di business tra i partecipanti. Il principale obiettivo del ConnectingDay è infatti gestire e coordinare le relazioni tra gli espositori e i visitatori in modo organizzato e consapevole. Con l’edizione 2009, ConnectingDay festeggia il suo terzo anno. Sul sito della manifestazione è possibile consultare il programma completo. [www.connectingday.com]


WIENER ADVENTZAUBER, IL MERCATINO DELL’AVVENTO VIENNESE

dal 14 Novembre al 24 Dicembre Vienna

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NATALE IN... A PERUGIA

dal 05 al 23 Dicembre 2009 Perugia

Come ogni anno, si svolgerà a Vienna nella piazza del municipio il Mercatino dell’Avvento Viennese ovvero il Wiener Adventzauber. La manifestazione è parte integrante dell’atmosfera natalizia austriaca come i biscottini al forno, il profumo di panpepato, i fiocchi di neve e i regali di natale. Tra le principali attrattive ricordiamo il Teatro del Kasperl ovvero l’Antica Giostra Viennese. Inoltre, per il 2009, è prevista la partecipazione di numerosi gnomi che attenderanno i visitatori nelle loro caratteristiche dimore di legno. Il Wiener Adventzauber, con i suoi alberi, stelle, caramelle e angioletti illuminati, si presenta come il mercatino ideale per i bambini ma anche come un luogo suggestivo per gli adulti con gli oltre 140 stand di prodotti tipici e artigianato locale. [www.christkindlmarkt.at]

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Natale In... è, da 17 anni, la più grande mostra mercato dell’enogastronomia e dell’artigianato artistico umbro. Durante il periodo natalizio, il centro storico di Perugia si popola di numerosi espositori che occupano la piazza principale e la Rocca Paolina con “negozi” di legno artigianale. Il mercato presenta, oltre ai tipici prodotti artigianali ed enogastronomici, anche una sezione di alto artigianato artistico con l’esposizione e la vendita di merletti, presepi napoletani, creazioni orafe d’alto prestigio e molto altro ancora. È possibile prenotare e acquistare (al prezzo di 5 euro) la “Natale in.. card”, con la quale avrete diritto a sconti e omaggi per tutto il periodo della manifestazione. [www.nataleinperugia.net] 88


ARTI E MESTIERI EXPO: MOSTRA MERCATO DELL’ARTIGIANATO & DELL’ENOGASTRONOMIA dal 17 al 20 Dicembre Roma

IL MERCATINO DI NATALE DI STOCCARDA

dal 25 Novembre al 23 Dicembre Stoccarda

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Con oltre 250 stand e milioni di visitatori, il Weihnachtsmarkt è, probabilmente, il più antico, affascinante e decorato mercato natalizio d’Europa. I suoi elementi caratteristici, oltre al delizioso aroma di cannella e vaniglia e alle decorazioni fiabesche, sono senz’altro i concerti natalizi dell’antica corte rinascimentale della Rocca e le deliziose prelibatezze enogastronomiche: caldarroste, Lebkuchen (biscotti natalizi speziati), mandorle tostate e le specialità bavaresi come i bratwürst e il vin brulé. Le innumerevoli casette di legno che si dipanano sulla Schillerplatz e sulla Marktplatz espongono un numero pressoché infinito di oggetti e prodotti tipici che possono essere acquistati ogni giorno dalle 10 alle 21 (le domeniche dalle 11 alle 23). [www.weihnachtsmarkt-deutschland.de]

Presso la fiera di Roma oltre 400 artigiani espongono i loro prodotti incontrando i 50 mila visitatori. Arti & Mestieri Expo è la fiera mercato dedicata alla tradizione, alla cultura, all’arte e al folklore in cui emergono la qualità e l’eccellenza delle produzioni artigiani provenienti non solo dalle regioni italiane ma anche da numerosi Paesi del Mediterraneo. Qui le micro e piccole imprese possono dar vita a nuovi rapporti commerciali e soluzioni professionali mentre i visitatori si divertono passeggiando tra gli stand e acquistando regali natalizi originali che uniscono arte e mestiere, riscoprendo così la bellezza e l’unicità degli oggetti “fatti a mano”. Ecco solo alcuni dei principali settori merceologici in esposizione: abbigliamento e accessori artigianali, arredamento, oreficeria e gioielleria, servizi per la persona, la casa e le imprese, prodotti enogastronomici. Sono inoltre previsti spazi dedicati ai bambini e ai giocattoli artigianali. [www.artiemestieriexpo.it]

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di Raffaella Di Lorenzo

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COME SI DIVENTA SOMMELIER

“Mi siedo a un tavolo accanto alla finestra e ordino del vino. “Un vino o un vinello?” chiede il cameriere. Senza pensarci ripeto che voglio bere del vino. Poco dopo il cameriere ritorna portando un qualcosa che può benissimo servire da vaso di fiori, e che contiene poco meno di un litro di vino. Non conviene dimenticare i diminutivi nel sud del mondo.” [L. Sepulveda, Patagonia Express, 1995]

Dal maggiordomo del vino al Sommelier Tranne pochi “sfortunati” tutti bevono vino. Ma il vino è una bevanda delicata e i suoi misteri deliziosi sono difficili da scoprire e da gustare in modo adeguato. Per riuscire ad apprezzare le sottigliezze del colore, del profumo e del sapore sono necessari particolari conoscenze e accorgimenti che si acquisiscono solamente con il tempo e attraverso una tecnica della degustazione che aiuta a “ricordare”, a “valutare” e soprattutto a “introiettare”: per essere padroni della vera arte 90

del bere si sceglie di diventare Sommelier. L’origine del termine Sommelier ha in realtà poco a che fare con la sua professione; deriva dal provenzale antico saumelier che significa, letteralmente, conduttore e si riferisce al conduttore di bestie da soma che trasporta bauli e barriques (fondamentali per la conservazione e l’invecchiamento-affinamento del vino). I primi Sommelier della storia risalgono al XVII secolo a.C. e vengono raffigurati su vasi e orci egiziani come maggiordomi del vino che servono nelle mense regali. Con i romani tale servizio venne affidato in un primo momento a uno schiavo con il compito di mescolarlo con resina e miele poi a gli haustores (coloro che bevono), degustatori esperti nell’arte dell’assaggio. Inizia dunque a farsi strada, a piccoli passi, l’antesignano del moderno assaggiatore di vini che nella Francia di XII secolo ancora ricopriva solo il compito di assaggiatore “preventivo” per tutelare la salute dei consumatori. Ma il Sommelier ha origini proprio nella corte papale con Sante Lancerio, bottigliere di papa Paolo III che, per aver classificato e qualificato i vini allora conosciuti e aver


Da qui la strada è stata lunga ma gli esperti di vino si sono sempre più professionalizzati fino a quando re Vittorio Emanuele II, nella sua corte, ha dato vita a un

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Sulla funzione del Sommelier intervenne anche Domenico Romoli, “un gentiluomo fiorentino, esperto delle cose di cucina non meno che di quelle di corte” (cit. anonimo) meglio conosciuto come il Panunto che nel suo testo, La Singolar dottrina edito a Venezia nel 1560, suggerisce che per il bottigliere e il coppiere è necessario “di aver gusto, sapore e odore e che essi siano bevitori e non bomboni (beoni), voi saprete in ciò usar sopra tutto buona diligenza, acciocché possiate conoscer tutti i difetti che potesse aver quel vino che più piacerà al vostro padrone”. Parole valide ancor oggi come modus operandi per tutti i Sommelier che hanno fatto della degustazione un’arte della qualità.

originale e sfarzoso cerimoniale di corte con diverse figure addette all’acquisto del vino (Provveditore), alla sua degustazione per garantire l’incolumità del re e dei suoi ospiti (Gentiluomo di bocca), alla sua mescita nei bicchieri di vetro: il Somigliere. Per alcuni aspetti il “rituale dei Savoia” è presente ancora oggi con l’unica differenza che il moderno Sommelier è un professionista che riassume tutte le figure del passato. Il “gentiluomo di bocca” del XX secolo deve infatti essere in grado di: provvedere alla selezione e all’acquisto dei vini, curare la cantina, stendere la carta dei vini, effettuare l’analisi organolettica delle bevande per determinarne le caratteristiche fisico-olfattivedegustative, la qualità, la conservazione, effettuare un corretto abbinamento vino-cibo ed evidenziare le differenze che caratterizzano i vari prodotti; consigliare in modo adeguato il consumatore, senza imporre mai il proprio pensiero e, non da ultimo, servire a tavola attraverso regole e ritualismi precisi.

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proposto dei “proto-abbinamenti”, viene considerato il padre del moderno Sommelier.


La formazione del Sommelier La preparazione del Sommelier è vasta e deve comprendere la conoscenza dell’intero processo produttivo del vino, dal terreno su cui la vite è coltivata e del territorio di appartenenza, le varietà dei vitigni, i processi enologici, le tecniche di vinificazione, di invecchiamento, affinamento e, per gli spumanti, il metodo di spumantizzazione, le eventuali malattie e difetti del vino. Non bisogna inoltre dimenticare lo studio dei vini speciali, dei distillati 92

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Il Sommelier non è un enologo Attenzione però a non confondere la figura del Sommelier con quella dell’enologo. Quest’ultimo decide l’attimo giusto per la raccolta, le modifiche da apportare al prodotto, segue il processo di maturazione dell’uva e studia la conservazione del vino con l’obiettivo di dare alla luce il miglior prodotto possibile; i Sommelier invece sono coloro che osservano, annusano, sorseggiano e gustano quello che fanno gli enologi e... ne parlano (citazione da Edoardo VII,1841-1910).

e delle birre, un universo altrettanto ampio e affascinante e, per concludere, la conoscenza della legislazione italiana e europea in materia e dei vini internazionali. Un mestiere completo ma soprattutto complesso che richiede conoscenza, professionalità, capacità relazionali-comunicative e anche un pò di psicologia per intuire le esigenze, le inclinazioni, le “manie” del cliente, tutte competenze che possono essere acquisite attraverso specifici corsi per diventare Sommelier.


FISAR e AIS Le due associazioni più importanti che rilasciano il diploma di Sommelier professionista e organizzano corsi su tutto il territorio italiano sono la FISAR Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori e l’AIS

- Associazione Italiana Sommelier. Sebbene gli argomenti trattati nei corsi e la loro scansione siano uguali per entrambe, da Sommelier FISAR ho una conoscenza più approfondita dei corsi realizzati direttamente dalle Delegazioni territoriali della FISAR sotto la supervisione e il controllo del Centro Tecnico Nazionale e della Segreteria Nazionale della Federazione. I corsi FISAR I corsi per Sommelier FISAR si articolano su tre livelli, alla fine dei primi due è previsto un esame scritto, mentre alla fine dell’ultimo corso è necessario sostenere sia una verifica scritta volta a esaminare tutte le conoscenze acquisite nel corso dei diversi livelli sia un esame orale con una parte pratica. Il primo livello ha per oggetto le funzioni del Sommelier, la fisiologia dei quattro sensi e come un esperto dovrebbe essere in grado di effettuare un’analisi sensoriale quanto più precisa. In un secondo momento si passa a conoscenze più tecniche: dalla viticoltura alle nozioni di enologia e vinificazione dei vini bianchi, rossi e rosati, allo 93

studio e approfondimento dei diversi metodi di spumantizzazione, gergalmente detto “metodo per far venire le bollicine”, alla realizzazione dei vini speciali come le mistelle, i vini liquorosi (da non confondere con i liquori), i vini aromatizzati come il vermouth piemontese. La parte centrale del primo livello è invece dedicata alle alterazioni, difetti e malattie di un vino che un buon Sommelier deve conoscere al fine di identificare, in fase di degustazione, eventuali deterioramenti del prodotto; Ph. by VinoFamily - Flickr

Se pensiamo a un Sommelier sicuramente ci viene in mente una persona di mezza età di sesso maschile vestito di tutto punto e con un fare altero e manierato; non siamo del tutto fuori strada ma i Sommelier del XXI secolo sono anche, e soprattutto, donne (basti guardare il numero degli iscritti di sesso femminile in ogni corso) e giovani di ogni età che, sia per interessi personali sia per lavoro, decidono di iniziarsi all’arte del bere bene. Il mestiere di Sommelier offre infatti molti e variegati sbocchi lavorativi sia nei ristoranti, nelle strutture alberghiere che nei villaggi turistici; nel settore enogastronomico dei grandi supermercati, nelle ricercate ed elitarie enoteche e wine-bar fino alle aziende di produzione vinicola presenti su tutto il territorio italiano; per non sottovalutare la possibilità di entrare a far parte di squadre nazionali, di curare rubriche giornalistiche o blog/siti di settore o lavorare nel marketing di qualche grande azienda del settore. Gli sbocchi professionali sono dunque tanti: basta un pò di fantasia, intraprendenza, capacità e soprattutto professionalità e competenze specifiche acquisite attraverso i corsi di formazione.

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4 Gli aspiranti sommelier e il mondo del lavoro


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Il secondo livello ha per oggetto “la geografia vitivinicola” e lo studio delle diverse zone di produzione, delle caratteristiche dei diversi terroire e dei prodotti di ogni zona a partire dalle regioni italiane, studiate singolarmente e in modo approfondito, per arrivare all’etnografia straniera e internazionale con particolare attenzione sia ai maggiori produttori mondiali di vino che ai nuovi Paesi emergenti nel settore (America, Oceania, Africa). Bisogna sottolineare che, in ciascun livello, la seconda parte di ogni lezione è dedicata alla degustazione, attraverso una specifica scheda tecnico-pratica, di almeno due o tre vini nazionali e internazionali, un’ottima occasione per assaggiare, spesso per la

prima volta, prodotti nuovi e unici e provare sconosciute e incredibili sensazioni sensoriali. Il terzo livello è forse quello più piacevole e “gustoso” poiché riguarda la metodologia dell’abbinamento cibo-vino. A prima vista potrebbe apparire la parte più semplice ma quanti sanno abbinare un buon vino a un piatto come l’umido di moscardini coi ceci o sanno cosa va servito con una crostata di frutta rossa rispettando sempre la regola della gradazione alcolica? Attraverso prove di assaggio e abbinamento di vini a piatti diversi che vanno dagli antipasti ai primi senza trascurare le salse e i condimenti; dal pesce alle diverse tipologie di carne; dalle verdure ai formaggi e ai dolci, si impara l’arte dell’abbinamento perfetto valido sempre e in qualsiasi occasione, sia quando vogliamo sorprendere amici e parenti, sia quando dobbiamo consigliare i clienti nella scelta del vino, sia quando vogliamo allenare i nostri sensi da intenditori con nuovi e opportuni “matrimoni in e di cucina”. Il corso termina con il riepilogo delle funzioni del Sommelier, il suo stile, i suoi strumenti, le temperature di servizio di ogni vino e i tipi di bicchieri da utilizzare a seconda della bevanda servita. E alla fine di tutto... non resta che comprare lo smoking e agitare il bicchiere!

Per approfondire: - FISAR, Il Sommelier- manuale pratico, Poggibbonsi (SI), 2006 - FISAR, Il Sommelier - rivista di enologia, gastronomia e turismo. - [www.fisar.com] - Sito uff. Fed. Italiana Sommelier - Albergatori - Ristoratori - [www.ilsommelier.com] - Sito Ufficiale della rivista Fisar - [www.sommelier.it] - Sito ufficiale dell’Ass. Italiana Sommelier 94

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e alla legislazione vitivinicola italiana ed europea il cui ultimo provvedimento prevede, tra le altre cose, una uniformazione delle norme in materia di etichettatura per cui dovremmo dire addio alle nostre Igt, Doc e Docg per passare - come per i cibi - alle Igp e alle Dop. Nella parte finale del corso l’attenzione è invece spostata sull’affascinante universo delle birre - alla degustazione delle quali oggi sono dedicati ulteriori corsi di approfondimento - e dei distillati per evidenziarne le caratteristiche, la metodologia e le zone di produzione internazionale: a ogni paese il suo distillato!


4 I Sommelier italiani e la legge

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Il 30 maggio 2009 alcuni senatori hanno presentato un disegno di legge (n. 720) con oggetto “La Disciplina della professione di sommelier”. Il testo della legge evidenzia infatti che “La figura professionale del sommelier e le attività a questa riconducibili hanno assunto negli ultimi anni un’importanza sempre crescente nel nostro Paese, legata indiscutibilmente alla sua speciale vocazione enogastronomica e vitivinicola, che lo collocano al vertice mondiale in questi ambiti...” e per tal motivo si vuole investire il Governo del compito “...di provvedere a una regolamentazione organica e uniforme della professione di sommelier, che ne disci-

plini le caratteristiche, i contenuti e i limiti dell’attività, le forme e i requisiti di accesso, la formazione”. Come ben evidenziato dal testo della proposta, le associazioni di carattere privatistico tra cui la FISAR e l’AIS non sembrerebbero in grado di garantire “uniformità e omogeneità qualitativa della figura del sommelier”, come invece hanno sempre cercato di fare garantendo serietà e professionalità. Qualora il decreto dovesse essere approvato, per diventare Sommelier bisognerà seguire una specifica formazione didattico-professionale conseguita con diploma di laurea, diploma di Istituto professionale, oppure mediante corsi di specializzazione almeno biennali presso scuole di specializzazione universitaria ovvero presso istituti, associazioni o aziende, ma anche sostenere un esame abilitante ed essere poi iscritti in uno specifico albo professionale.

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A ben guardare, e basta visitare i siti delle due associazioni più importanti per rendersene conto, questo regolamento non aggiunge nulla di nuovo: i corsi previsti sono già omogenei, uniformi e di durata biennale (almeno!), prevedono uno specifico esame finale, formano figure professionali, professionalizzate, riconosciute a livello contrattuale, famose e invidiate in tutto il mondo. Come già è stato evidenziato, il Sommelier è una figura poliedrica con una vasta cultura e conoscenza del settore, che può operare in ambiti differenti e svolgere varie funzioni. Non bisogna poi dimenticare che tutte e due le associazioni promuovono da anni campagne volte a favorire “il bere con giudizio” scagliandosi contro le stragi del sabato sera. Dunque, non basta essere iscritti ad un “albo-etichetta” come vorrebbe la proposta di Legge per essere professionisti dell’arte della degustazione.


BRAND CARE TRAINING FORMAZIONE AZIENDALE E PROFESSIONALE Queimada - Brand Care Queimada - Brand Care, a completamento della sua struttura e sperimentata offerta di servizi nel campo del marketing, della creatività e della comunicazione, da oggi è in grado di fornire ai suoi assistiti un ulteriore strumento per aumentare il valore aggiunto del proprio brand, nonché il bagaglio esperenziale della propria azienda: Brand Care training (BCt), l’offerta Queimada - Brand Care per la formazione aziendale e professionale. L’offerta BCt propone un approccio brand-oriented: gli interventi sulle persone producono benefici sensibili solo se pianificati tenendo conto dei valori peculiari legati all’identità di marca. L’obiettivo è che ogni risorsa si senta parte del progetto impresa in cui è inserita. I corsi BCt sono stati pensati per qualsiasi tipo di interlocutore business interessato a rendere la propria azienda più efficiente e tecnologicamente aggiornata: PMI e micro imprese, Pubblica amministrazione, enti locali, società multinazionali e multisede, professionisti e consulenti. Con BCt Queimada - Brand Care avrà cura di modulare i propri interventi a seconda delle caratteristiche specifiche del richiedente e tenendo conto del budget e dei destinatari dell’intervento formativo anche nella scelta del materiale didattico multimediale e degli strumenti di lavoro da utilizzare e

presentare. Tra le molteplici tematiche d’intervento figurano: • Brand: costruzione, gestione e utilizzo strategico dei valori aziendali • Marketing: le migliori strategie per ogni occasione • Azienda 2.0: tecnologie di comunicazione, e-commerce e community • Problem solving: management e team-working a qualsiasi distanza • Team building & Incentive: affiancamento e soddisfazione Brand Care training prevede una metodologia multimediale, improntata all’interattività e alla praticità senza trascurare le fondamenta teoriche dei concetti impartiti. I momenti formativi, tenuti da docenti di alto profilo, professionisti ed esperti di settore, potranno essere organizzati secondo diverse modalità di erogazione, come ad esempio: • Corsi one-to-one, da uno a più giorni • Coaching, one-to-one • Workshop, seminari e conferenze • Team building, esperienze di gruppo • Viaggi incentive • E-learning, tutorial video e multimediali • Affiancamento Tutte le soluzioni BCt prevedono, inoltre, un incontro di valutazione a distanza di 4/8 settimane, durante il quale si verifica l’effettiva ricezione e circolazione dei contenuti e – ove necessario – si innescano procedure di ottimizzazione e problem solving. Per maggiori informazioni: www.brandcaretraining.com 96


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di Francesca Mangano

MARKETING

Il termine inglese ‘marketing’ deriva dal sostantivo ‘market’, il quale a sua volta deriva dal latino ‘mercatus’, ossia ‘commercio’, ‘mercato’: un termine assunto per finalità commerciali, a sua volta derivato dalla parola latina ‘mercari’ ‘commerciare’, ‘comprare’, in stretta correlazione con ‘merx’ (‘merce’, ‘bene’, ‘mercanzia’). La radice italica a cui probabilmente bisogna riferirsi è *merk-, forse di derivazione etrusca e usata in riferimento a vari aspetti dell’economia. In origine con il termine ‘market’ si intendeva il luogo dove compratori e venditori convenivano e si accordavano sui prezzi, anche in modo plateale. Dal punto di vista cronologico il significato di ‘market’ nel senso di “edificio pubblico dove sono tenuti i mercati” risale al 1250, mentre il significato di “vendita controllata dalla domanda e dall’offerta” risale al 1689.

BRAND

Il sostantivo inglese ‘brand’ (‘marchio o marca’) deriva dall’anglosassone brand, legato ai verbi ‘bærnan’ e ‘beornan’ (‘accendere, bruciare’) con un significato originario di “pezzo di legno bruciato”, ‘torcia,’ mentre nel linguaggio poetico aveva assunto l’accezione di ‘spada’. Probabilmente attraverso il “brand” era possibile risalire al produttore di un oggetto attraverso il segno di un ferro ardente apposto sopra di esso, come se fosse una firma, o in termini più moderni un... marchio di fabbrica. 98


PACKAGING

‘Packaging’ (‘imballaggio’) viene dal sostantivo inglese ‘pack’, ossia ‘fascio’, ‘fagotto’, ‘pacco’, il quale è a sua volta etimologicamente connesso al termine Medio Inglese ‘pak’, rintracciabile a partire dal 1199 e legato in origine ai commercianti di lana. Come verbo assume il significato di ‘impacchettare’, ‘raccogliere’, mentre il senso più moderno del termine è attestato a partire dal 1722.

SOMMELIER Il sostantivo francese ‘sommelier’ discende dal termine provenzale ‘saumalier’, col significato originario di ‘conducente di bestie da soma’. Tale accezione mutò col tempo, fino a denotare il cantiniere. Il termine saumalier è inoltre connesso etimologicamente al termine latino ‘sagma’, che significa ‘soma’, intendendo il carico trasportato dagli animali. Tale significato risulta meglio comprensibile se si pensa all’organizzazione del lavoro e dei servizi alimentari nelle case dei nobili del medioevo, dove la responsabilità dei lavori stagionali era a carico della servitù. Le prime testimonianze del termine sommelier nella nostra lingua risalgono al 1299, ma più tardi l’esploratore veneziano Marin Sanudo (14661536) cita nei suoi diari ‘i somoglier’, ossia gli addetti al servizio del vino. I diari di Sanudo sono una cronaca minuziosa dei fatti accaduti nell’arco della sua vita e dei personaggi coinvolti sia nella storia di Venezia che nelle altre città del Mediterraneo di cui aveva notizia. Tali cronache riguardano il periodo che va dalla fine del 1400 ai primi trent’anni del 1500.

FONTI: - Bosworth – Toller An Anglo-Saxon Dictionary, Oxford 1898 - Online Etymology Dictionary - John R. Clarkhall, A Concise Anglo-Saxon Dictionary, 1916 - Pier Luigi Nanni, Il sommelier dalle origini ai nostri giorni 99


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