SHOOT-SHOT-SHOT Cecilia Della Longa
SHOOT - SHOT - SHOT
v. tr. 1. To hit, wound, or kill with a missile fired from a weapon. ... v. intr. 1. To take pictures. ...
STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA E LINGUAGGI DELLA COMUNICAZIONE VISIVA ELABORATO DI FOTOGRAFIA _ CORSO DI LAUREA IN DESIGN DELLA COMUNICAZIONE SCUOLA DEL DESIGN POLITECNICO DI MILANO _ A.A. 2012/2013 ELABORATO DI: CECILIA DELLA LONGA _ DOCENTE: SERGIO GIUSTI
‘LEWIS PAYNE’, ALEXANDER GARDNER, 1865 ‘MORTE DI UN MILIZIANO’, ROBERT CAPA, 1936 ‘THE EYES OF GUTETE EMERITA’, ALFREDO JAAR, 1996 -
Lewis Payne, Alexander Gardner, 1865
"Fotografia e morte sono in uno stretto rapporto sancito dal modo in cui la fotografia esprime il tempo. Il paradosso è che l'immagine fotografica è viva, nel senso che mi anima; ma insieme mi presenta la morte, essendo la sua temporalità rappresa e ferma" Roland Barthes, La camera chiara, 1980
‘LEWIS PAYNE’. RITRATTO DI UN CONDANNATO A MORTE. FOTO SCATTATA NEL 1865 DA ALEXANDER GARDNER, FOTOGRAFO NOTO SOPRATTUTTO PER IL SERVIZIO DI REPORTAGE SULLA GUERRA CIVILE AMERICANA E SUL PRESIDENTE ABRAMO LINCOLN. LEWIS PAYNE ERA IL GIOVANE CHE TENTÒ DI ASSASSINARE IL SEGRETARIO DI STATO W.H.STEWARD E QUI LO VEDIAMO IMMORTALATO IN ALCUNI SCATTI, IN MANETTE, MENTRE ATTENDE LA SUA ESECUZIONE.
Roland Barthes ne ‘La camera chiara’ nel 1980 scrive: “La foto è bella, il giovane anche: è lo studium. Ma il punctum è: sta per morire. Lo leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco.” In questa fotografia si assiste ad una strana destrutturazione della linea temporale: possiamo parlarne al presente, perché guardandola vediamo un giovane ancora in attesa del suo processo ma dovremmo parlarne al passato, in quanto siamo a conoscenza della sua morte. Roland Barthes riconosce in questo un meraviglioso paradosso: il giovane nella foto “è morto e sta per morire”. È proprio in questo particolare dettaglio, probabilmente sfuggito alla volontà di Gardner, che vive il fascino di questa fotografia e che la innalza, da semplice documento, a esperienza. Barthes diceva che l’essere fotografato consegna al momento stesso in cui si diviene da soggetto oggetto, una micro-esperienza di morte: “io divento veramente spettro”. E ancora: “ciò che vedo è che io sono diventato Tutto-immagine vale a dire la Morte in persona, gli altri - l’altro - mi espropriano di me stesso, fanno di me, con ferocia, un oggetto, mi hanno in loro mano, a loro disposizione, sistemato in uno schedario, pronto per tutte le solite manipolazioni”.
“ È MORTO E STA PER MORIRE”
Seguendo questo ragionamento posso dire che Lewis Payne muore due volte: muore nel momento in cui diventa foto e muore poco dopo sul patibolo d’esecuzione. Tuttavia, morendo in quel primo caso, diventa storia e ne entra a far parte come “oggetto da museo” trasformandosi così in ‘essere’ immortale: Lewis Payne continua a vivere in quella fotografia e vivrà in eterno nell’attimo precedente la sua vera morte. ‘Essere’ come l’infinito del verbo che Barthes identifica come noema della fotografia in generale: “è stato”. La fotografia è passato; tuttavia in questo ritratto noi vediamo nello stesso tempo il passato e il futuro che rimangono nel presente, congelati in un istante che vivrà per sempre: “Ma ciò che è nella fotografia diventa assoluto: ossia immobile, non più modificabile.” La fotografia diventa tempo, Lewis Payne diventa tempo, come un taglio, una interruzione dell’unità. La fotografia crea così una nuova realtà, un tempo parallelo non più capace di invecchiare.
Lewis Payne, Alexander Gardner, 1865
C’E UNA RELAZIONE PIÙ AMPIA TRA FOTOGRAFIA E MORTE SECONDO BARTHES; È QUALCOSA CHE AVVIENE IN TUTTE LE FOTO E CHE CHIAMA: “CATASTROFE”
Tre sono i ritratti del condannato, tre attimi appartenenti allo stesso momento di attesa, tre scatti che significano la stessa cosa: Lewis Payne andrà a morire.
In ‘morte di un miliziano’ uno solo è stato lo scatto possibile: un unico brevissimo attimo, quasi “l’idea di una puntura”, che ha permesso a Robert Capa di immortalare il soldato proprio nell’istante in cui veniva colpito a morte.
“Un senso di morte che congela quell’attimo che non si ripeterà più.”
Morte di un miliziano, Robert Capa, 1936
“questo aleggiare di un senso di morte - accade a causa della posa - un senso di morte che congela quell’attimo che non si ripeterà più.” Roland Barthes, ‘La camera chiara’, 1980
LA FOTO NON È BELLA TECNICAMENTE, IL SOGGETTO È FUORI FUOCO E L’INQUADRATURA NON È DELLE MIGLIORI, MA LA FORTUNA CHE HA AVUTO ROBERT CAPA, IL FOTOGRAFO DI GUERRA PER ECCEZIONE, È STATA QUELLA DI COLPIRE IL SUO BERSAGLIO PROPRIO NEL MOMENTO IN CUI LO STESSO BERSAGLIO VENIVA COLPITO DA UN ALTRO TIRATORE.
Fantastica espressione di “death in the making”: il miliziano da soggetto diventa oggetto nello stesso momento in cui il suo stato si trasforma da vivo a morto; muore così nella finzione e muore così nella realtà. A differenza di Lewis Payne, quest’uomo (che probabilmente era in posa attendendo istruzioni dal fotografo) muore una sola volta ma in due ‘mondi’ differenti e così continuerà a morire per sempre in quel tempo senza tempo che appartiene allo spazio fotografico. “l’importante è che la foto possieda una forza documentativa, e che la documentatività della Fotografia si fissi non sull’oggetto ma sul tempo. Da un punto di vista fenomenologico, nella fotografia il potere di autenticazione supera il potere di raffigurazione. Sembra quasi che la fotografia ci mostri un fantasma: uno spettro.” In questa fotografia, ciò che scrive Barthes, sembra raggiungere la più estrema realizzazione in quanto sembra cogliere l’esatto momento nella quale soggetto, oggetto, corpo e fantasma convivono e si mostrano. Si potrebbe immaginare quel fantasma, che Barthes identifica con il soggetto fotografato, sprigionarsi da quel corpo che sta teatralmente morendo sotto i nostri occhi: Barthes avrebbe detto “è morto e sta morendo”. Il punctum è: sta morendo.
“ È MORTO E STA MORENDO”
Il taglio nella realtà, quel prelievo istantaneo nell’unità temporale, è stato compiuto inconsapevolmente dal fotografo, è stato un caso fortunato, un gesto non ricercato che in tal modo suggerisce autenticità profonda. Manifestazione di come la realtà si è imposta sul volere del fotografo; il punctum, così, fa letteralmente scomparire la fotografia come medium lasciando emergere il referente. “La fotografia è statica, ferma come un corpo senza vita, fissa l’istante, ferma il momento: estrae cioè quanto ritrae dal flusso dinamico degli eventi, proprio come la morte ci porta al di fuori della vita”. Ma in questa foto è stato catturato un movimento - non un semplice spostamento - ma un vero avvenimento, ovvero il passaggio dalla vera vita alla vera morte. Si potrebbe dire che in quella morte la fotografia acquista più vita, più vita di quanta ne abbia ancora quell’uomo morente: la fotografia si impossessa della vita di quell’uomo morente.
DOVE È QUI LA “CATASTROFE” ? NELL’IMMORTALARE DUE OCCHI CHE HANNO GIÀ AVUTO ESPERIENZA DI MORTE, DI VERA MORTE, OGGI RICORDATA TRAMITE QUELLA MICRO-ESPERIENZA CHE È LA MORTE FOTOGRAFICA.
Vedo gli occhi di chi sta andando a morire, li vedo ancora aperti, lucidi, vivi. Vedo gli occhi di un uomo ancora in grado di parlare, testimoniare, raccontare.
In ‘morte di un miliziano’ non mi è permesso di vedere gli occhi dell’uomo che sta morendo perché, colto di sorpresa, sta cadendo ucciso da un colpo di fucile.
Qui vedo occhi il cui unico collegamento con la morte è il fatto di averla guardata da vicino. Sono occhi che hanno visto la morte in altri occhi e che oggi sono qui per poterla raccontare.
The eyes of Gutete Emerita, Alfredo Jaar, 1996
“Vedo gli occhi che videro l’imperatore, essi sono qui presenti di fronte a me, ora. [...] In particolare scoprii questo. Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta, essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente […] essa è il particolare assoluto, la contingenza suprema, spenta e ottusa, il tale (la tale foto e non la foto) in breve la Tyche, l’occasione, l’incontro, il reale” Roland Barthes, ‘La camera chiara’, 1980
SONO GLI OCCHI DI UNA DONNA SOPRAVVISSUTA AD UN MASSACRO. JAAR NE FA UNA INSTALLAZIONE: MILIONI DI DIAPOSITIVE DISPOSTE SU DI UN TAVOLO LUMINOSO, MILIONI DI COPIE DEGLI OCCHI DI UNA DONNA CHE HA VISTO MILIONI DI OCCHI SPEGNERSI IN QUEL GENOCIDIO LUNGO CINQUE MESI.
“Ricordo i suoi occhi, gli occhi di Gutete Emerita” scrive Jaar alla fine del racconto che accompagna la sua installazione. Ecco che la fotografia racconta, documenta uno sterminio; Jaar non lo fa attraverso immagini crude e sanguinose ma mostrando un particolare assoluto: il dolore negli occhi di una donna. Metafora di una strage. Questa immagine riproduce all’infinito ciò che ha avuto luogo una sola volta: la morte di milioni di persone, negli occhi di una sola. Quale è il punctum? Io credo che risieda proprio in questo: sono occhi che videro qualcosa. Qualcosa che noi non vedremo, qualcosa di cui non avremo documenti fotografici che testimonino visivamente il momento del massacro. Guardiamo gli occhi dell’unica donna che può, oggi, raccontarci la strage di cui miracolosamente non fu vittima. Il punctum sta quindi nel valore di questa immagine e nel significato che lo stesso Jaar ha voluto imprimergli: due occhi che ci guardano in memoria di quei milioni di occhi che mai più potranno vedere. Quello sguardo rappresenta lo sguardo che vede ma non fa vedere, il punto di vista è rovesciato ed è l’opera che guarda lo spettatore e trasmette, attraverso l’immaginazione di ciò che quello sguardo ha visto e vissuto, tutto l’orrore del genocidio.
“ VEDO GLI OCCHI CHE VIDERO”
“Vedo gli occhi che videro l’imperatore, essi sono qui presenti di fronte a me, ora.” scriveva Barthes. Ecco cosa facciamo noi di fronte a questa foto: vediamo gli occhi che videro la strage. Gli unici occhi ancora vivi, immobili nella foto, ma vivi; custodi di atroci fotografie di morte. Quella di Jaar è fotografia documentaria di denuncia, ossia nasce come desiderio di documentare e, forse consapevole della dissertazione Barthiana su fotografia e morte, la arricchisce di significato spingendo lo spettatore a pensare. Così, in modo molto diverso dai due esempi precedenti, Jaar racconta la morte non solo attraverso gli occhi di un fotografo di reportage ma con un senso critico ricercando nella fotografia e nell’installazione una via poetica per denunciare un eccidio per molto tempo taciuto.
Fotografia e morte: Barthes ne ‘La camera chiara’ ne discute molto attentamente creando di questa relazione una interessante dissertazione filosofica. Io lettrice, grazie alle sue riflessioni, ho avuto una conferma del fatto che la fotografia non sia una semplice immagine di realtà o finzione, piuttosto la rappresentazione di un pensiero, di un’emozione, di una poesia. Così mi sono lasciata trasportare dalle sue parole e seguendo il suo esempio ho scelto tre fotografie connesse in qualche modo alla morte. Tre fotografie-documento: testimonianze, pezzi di storia, memorie. Uno stesso obiettivo: attestare. Tre interpretazioni del ruolo della fotografia, tre diverse costruzioni di significato. > Lewis Payne sembra essere in posa nonostante non gli sia stato chiesto di sistemarsi davanti alla camera: risultato studiato. Gardner studia l’immagine per scattare una bella fotografia. STUDIO DEL SOGGETTO ATTRAVERSO L’OBBIETTIVO > Il miliziano viene colto di sorpresa mentre aspetta di essere fotografato: risultato diverso dalle aspettative. Robert Capa scatta una foto di cui probabilmente non è l’unico artefice. CASUALITÀ CAMBIA L’INTENZIONE > La donna sa di essere fotografata e conosce il suo ruolo come soggetto fotografato: risultato premeditato. Jaar studia l’immagine in base al significato che ha intenzione di far emergere, in lui c’è maggiore consapevolezza della potenza della fotografia come strumento di narrazione e di riflessione. STUDIO DELL’EMOZIONE
“Ognuno dovrebbe ricevere del veleno quando diventa maggiorenne. Dovrebbe essergli consegnato con una cerimonia solenne. Non per incitarlo al suicidio. Al contrario, perché possa vivere con maggior serenità e sicurezza. Perché possa vivere sapendo di essere padrone della propria vita e della propria morte.” Milan Kundera, Il valzer degli addii, 1973
Nessuno, in queste storie raccontate, è stato padrone della propria morte.
Nessuno.
Bibliografia La camera chiara. Nota sulla fotografia (La chambre claire, Paris 1980), Roland Barthes, casa editrice: EINAUDI L’analisi del racconto (1966), Barthes, Greimas, Bremond, Eco, Gritti, V.Morin, Metz, Todorov, Genette, casa editrice: Studi Bompiani Lezioni teoriche di Sergio Giusti, docente Politecnico di Milano