Anno L - n. 2 - Ottobre 2014
PROTAGONISTI DELLA PROPRIA EDUCAZIONE
EDITORIALE
“Rischiate con speranza per cose grandi” Papa Francesco ci chiama a non mettere la nostra vita in un cassetto. Bisogna rischiare e non risparmiarsi, altrimenti la vita diventa inutile “Sarebbe triste che un giovane custodisse la sua gioventù in una cassaforte: così questa gioventù diventa vecchia, nel peggiore senso della parola; diventa uno straccio; non serve a niente. La gioventù è per rischiarla: rischiarla bene, rischiarla con speranza. È per scommetterla su cose grandi. La gioventù è per darla, perché altri conoscano il Signore. Non risparmiate per voi la vostra gioventù: andate avanti!”. Così Papa Francesco, di fronte alle cinquantamila persone presenti alla Convocazione del Rinnovamento nello Spirito a Roma lo scorso giugno, ha esortato i giovani - e non solo i giovani, verrebbe da dire, perché chi può dire di sentirsi escluso da un invito di questo genere? - a scommettere positivamente sulla loro condizione. Poche, affilate parole, che ci provocano e ci chiedono di misurarsi con esse, che spingono a chiedersi “io sto facendo così? Sto vivendo la mia vita scommettendo?”. Però dobbiamo sapere che a scommettere a caso - così, tanto per giocare - sono capaci tutti, basta non sentire su di sé la responsabilità del risultato di questa scommessa. E il risultato è il raggiungimento del nostro destino, ciò per cui siamo stati fatti. La scommessa di cui parla il Papa non significa trovarsi di fronte a un bivio,
chiudere gli occhi, fare la conta e prendere con fatalismo la strada che capita, ma mettere in gioco tutto, non risparmiarsi in nulla, arrivare alla fine della corsa avendo chiesto ai propri polmoni tutto il fiato possibile. Questo significa “scommettere su cose grandi”; vuol dire avere uno slancio ideale che ci fa vedere la positività della realtà che abbiamo intorno, avere sempre presente che gli ostacoli sono parte del percorso e che non si deve gettare la spugna al primo sasso che ci fa inciampare. Perciò serve una compagnia. Perché noi da soli siamo deboli, siamo un fuscello che si spezza al primo soffio di vento. In una compagnia diventiamo forti, troviamo qualcuno che ci accompagna nel percorso e che ci aiuta a contenere le nostre intemperanze. Qualcuno che ci ricorda qual è il risultato della nostra scommessa, qual è la posta in gioco. Quella a cui ci chiama Francesco, alla fine, è una scommessa in cui dobbiamo sì mettere tutti noi stessi, con un’ultima certezza. Che c’è una controparte a cui possiamo affidarci, Qualcuno a cui possiamo dire: “io metto in campo tutto quello che ho, metto tutto nelle Tue mani. Gioie, dolori, abbracci, sberle, risate, lacrime, pacche sulle spalle e sputi in faccia. Tutto. So che Tu sei con me, e che mi aiuterai”. Così la scommessa si trasforma in un’avventura grandiosa in cui ogni giorno scopriamo qualcosa in più del percorso che dobbiamo compiere, sempre con la sicurezza che abbiamo un Compagno che non ci molla mai. E ci rendiamo conto che alla fine la nostra scommessa, indipendentemente che il risultato corrisponda o meno alle nostre aspettative, è vinta in partenza.
A padre Romano Scalfi il Premio Cultura Cattolica RICONOSCIMENTI - VENERDÌ 17 OTTOBRE 2014
Il fondatore di Russia Cristiana premiato per aver saputo fare della fede cultura. Una vita da missionario nella Russia del samizdat e del dissenso. La cerimonia di consegna venerdì 17 ottobre al Teatro Remondini a Bassano Nel 1960 usciva il primo numero della rivista Russia Cristiana ieri e oggi, e il fondatore di quella rivista scriveva che era “destinata a colui che ha un cuore cattolico, cioè universale e che, posto di fronte a qualunque valore umano, non lo può sentire estraneo a se stesso”, come a dire che il cattolicesimo non toglie nulla, ma consente di aprirsi alla realtà in modo più profondo e più bello. A scrivere quelle parole era padre Romano Scalfi, grande figura missionaria che la Scuola di Cultura Cattolica ha deciso di insignire del suo Premio Internazionale (la cerimonia di consegna si terrà venerdì 17 ottobre alle 20.30 presso il teatro Remondini di Bassano), riconoscimento che ogni anno viene conferito a quelle personalità che nel proprio campo di attività abbiano testimoniato in modo eccellente di saper “fare della fede cultura”, secondo la felice espressione di Papa
Wojtyla. Classe 1923, trentino di nascita e - si potrebbe dire - russo di adozione per la sua incessante opera di diffusione e promozione della cultura e della spiritualità russe, padre Scalfi mise per la prima volta piede in terra sovietica nel 1960. I suoi viaggi continuarono fino al 1970, quando venne considerato persona non gradita dalle autorità. Erano gli anni del dissenso dal regime comunista, e fu anche attraverso la rivista diretta da padre Scalfi che ebbe voce il samizdat (la grande esperienza di autoeditoria clandestina) in difesa dei diritti religiosi ed umani. Dal “germe” di Russia Cristiana sarebbero poi nate una Scuola iconografica, un Coro, una Fondazione culturale, una realtà che organizza viaggi-pellegrinaggi in Russia e nell’Oriente cristiano. Nel 1993, su suo impulso, è nato a Mosca il Centro culturale Biblioteca dello
Spirito che, in dialogo con la Chiesa ortodossa, vuole riscoprire le comuni radici cristiane. Il grande lavoro di Romano Scalfi, si legge nella motivazione del Premio, “ci ha fatto conoscere i valori di religiosità, responsabilità, libertà presenti nel ‘dissenso’ russo (in ciò superandone una lettura riduttiva in chiave soltanto antisovietica) in continuità con i tesori della cultura russa e più in generale dell’Oriente cristiano”. “Padre Scalfi non ha lavorato solo per far conoscere ai russi gli occidentali, ma anche per restituire ai russi tanti teologi e pensatori religiosi in tempi in cui, per acquistare un testo di uno di essi, non bastava lo stipendio mensile di un operaio; ha lavorato insomma per restituire ai russi la loro stessa cultura, che era stata loro proibita dal comunismo”.
MANIFESTAZIONI
Quarant’anni di Marcia Biancoverde Un anniversario storico festeggiato con il record di partecipanti e la partnership con la AIA per la prima Referee Running
Andrea Mariotto
LA DIECI
Beatificazione di don Mario Ghibaudo, si è conclusa la fase diocesana La fase diocesana del processo della beatificazione di don Mario Ghibaudo (che senza conoscere direttamente don Didimo Mantiero aveva abbracciato fino in fondo l’esperienza de La Dieci da lui fondata), iniziata il 31 maggio dello scorso anno, si è conclusa. Lo scorso 5 giugno a Boves (CN) si è tenuta la cerimonia di chiusura alla quale hanno partecipato mons. Giuseppe Cavallotto, Vescovo di Cuneo, e don Gianmichele Gazzola, Presidente della Commissione storica della Causa di Beatificazione. “Rimasero accanto ai loro parrocchia-
ni fino al sacrificio supremo della loro stessa vita”, ha evidenziato il postulatore don Bruno Mondino. Il quale ha anche sottolineato la loro funzione di veri e propri “pastori”, che si impegnarono per la salvezza del loro gregge. Don Bernardi e don Ghibaudo erano disarmati in confronto ai soldati delle SS e poco potevano fare per fermare la loro furia, ma si fecero carico fino in fondo della responsabilità di essere preti: “quel giorno - ha sottolineato don Mondino - lo Spirito ha suggerito loro come parlare: portando il perdono di Dio.”
VDG
Ci vuole fiato per spegnere cinquanta candeline Nel 1954, dalla voglia di uno sparuto gruppo di ragazzi del Comune dei Giovani di mettersi in gioco e dare un giudizio sulla realtà che li circondava, nasceva questa testata. Dopo mezzo secolo, tra gli alti e i bassi che fanno parte del temperamento di giovani amici che si dilettano a fare gli artigiani della parola e della produzione di un giornale, siamo ancora vivi, vegeti e pieni di fiato per spegnere le nostre cinquanta candeline. Lunedì 1 dicembre, alle
20.30 presso l’hotel Palladio a Bassano, in occasione della conferenza “La sfida di comunicare la fede” tenuta da don Gabriele Mangiarotti (fondatore e responsabile del portale CulturaCattolica.it), celebreremo questo traguardo così importante con un momento particolare dedicato alla Voce dei giovani. Siamo tutti invitati a prendere parte alla festa per questa straordinaria ricorrenza.
Domenica 14 settembre, presso il Campo Comunale di Atletica di S. Croce, è andata in scena la 40a edizione della Marcia Biancoverde, tradizionale manifestazione podistica a carattere ludico-motorio organizzata dal Comune
dei Giovani, che rappresenta un evento unico tra natura, sport e socializzazione. La manifestazione, aperta a tutti, mira da sempre a coinvolgere il numero più ampio di partecipanti, senza distinzione di cultura, sesso, età e nazionalità, al
fine di favorire, nella pratica motoria, uno stato ottimale di benessere fisico, la reciproca conoscenza e la relazione con gli altri. Quest’anno si sono raggiunti numeri da record, più di tremila partecipanti
per una manifestazione di sicuro riferimento nell’ambiente podistico e di grande interesse per il comprensorio bassanese. La partenza, favorita dal bel tempo, prevedeva la possibilità di scegliere fra tre percorsi di 6, 12 o 20 chilometri, a seconda delle proprie esigenze e capacità, con lo scopo di valorizzare il territorio, mediante lo stretto contatto con l’ambiente naturale e l’interesse storico-culturale dei luoghi attraversati. L’evento ha visto anche la partecipazione dell’Associazione Italiana Arbitri, sezione di Bassano del Grappa, che ha festeggiato i 60 anni di fondazione appoggiandosi all’organizzazione della Marcia Biancoverde, con la prima Referee Running. Per l’occasione, è stato pubblicato anche un opuscolo informativo con la storia di tutte le 40 edizioni e con le voci dei protagonisti che hanno fatto grande questo evento. La prima edizione, in particolare, si è svolta il 4 novembre 1975 (allora era una data festiva), già con un ottimo riscontro di
partecipanti, ben 1.300. Nonostante l’età, la Marcia Biancoverde ha saputo rinnovarsi grazie alla vitalità del Comune dei Giovani, diventando così un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati. Tanti sono i modi per definire questa manifestazione: da qualcuno è chiamata la marcia dei giovani perché tanti ragazzi e ragazze, nonostante la sveglia mattutina, si presentano sorridenti ai punti di ristoro, controllo e transito stradale, per garantire la serenità dei partecipanti. Altri la definiscono la marcia delle salsicce, per l’apprezzatissimo ristoro. Tutto ciò riempie d’orgoglio gli organizzatori e sprona a continuare con impegno e dedizione a rendere questa manifestazione unica nel suo genere, per offrire ai gruppi, ai singoli e alle tante famiglie che vi partecipano la possibilità di passare una giornata in serenità, a contatto con la natura e con i sapori del territorio.
Comune dei Giovani, rinnovato il Consiglio Direttivo
Carlo Teosini
VITA, SCIENZA, LEGGE
DALL’INFERNO CON CALORE
Tra madre e figlio Le grandi domande sull’uomo, sulla vita e sulla dignità della persona e i pericoli di una scienza e di un diritto senza la giusta dose di realismo mai mutato come individuo. Quindi, se vogliamo dare un titolo a questo individuo della specie umana, se lo chiamiamo persona, se io sono una persona, allora io non posso chiedermi quando ho iniziato ad essere persona o quando smetterò di esserlo, non è una cosa che cresce o cala. Se la scienza ci dice che non c’è mai stato mutamento identitario in questo processo di sviluppo, devo concludere che io sono persona fin dall’inizio. Insomma, la dignità legata all’essere persona non è un concetto misurabile, non è un concetto quantitativo ma di qualità.
In occasione del convegno “Madre e figlio: tra concepimento e nascita”, tenutosi il 10 maggio all’Ospedale San Bassiano di Bassano del Grappa per festeggiare i 35 anni di attività del Centro Aiuto alla Vita cittadino, abbiamo intervistato il magistrato Giuseppe Anzani, già presidente del Tribunale di Como. In un articolo apparso su Avvenire in occasione della Giornata per la Vita del 2002 (“L’embrione: un paziente speciale”, 3 febbraio 2002) lei scrisse: “Ciò che la scienza riesce a vedere, e a farci vedere, dei primissimi stadi della vita umana, ha del prodigioso” perché ci svela che “quello che noi siamo, noi siamo dall'inizio alla fine” ma nonostante questo “qualcuno va dicendo allora che l'essere umano non c'è [nei primi stadi di vita dell’embrione, n.d.r.]”. Può aiutarci a capire questo aspetto, anche dal punto
Il diritto come si pone di fronte a questo tema? di vista giuridico?
Che cos’è che si accende nel grembo di una donna quando si accende un’altra vita? Chi è questo altro? Questa è la domanda fondamentale, perché se si riduce tutto questo solo all’epifenomeno, qualcuno può parlare di un grumo di cellule, allora qualcuno potrebbe dire che anche l’uomo adulto è un grumo di cellule, solo un po’ più grosso. Ma quello che ci interessa di capire in ogni caso è chi è questo grumo di cellule nel quale senza soluzione di continuità ma progressivamente si verifica poi questa specie di miracolo che è l’autocoscienza, il pensiero. Cos’è l’uomo, quindi.
Sì. La domanda è antropologica. Che cos’è l’uomo? La scienza ci dice che non c’è soluzione di continuità, che non cambia l’identità, che non c’è stato in questo corpo un altro e io non sono
Guardando al modo in cui il diritto ha incrociato questo problema dell’essere persona, tutt’ora c’è un forte “balbettio”. Come ha ricordato anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo, negli stati membri - ed è questo un atteggiamento quasi “infantile” - non esiste una definizione univoca di persona né si dice quando “comincia” la persona. Quella cosa che abbiamo descritto prima come un assioma talmente evidente dentro di noi non c’è nel diritto, non viene detto. Non per motivi economici, ma c’è una specie di ottusità, nebbia, incomprensione, buio, le cui manifestazioni sono cominciate secondo me quando negli Stati Uniti la Corte Suprema ha introdotto l’aborto: per la prima volta la vita prenatale è stata in qualche maniera segmentata, esisterebbe un periodo in cui la presenza nel grembo materno di un’altra vita non
determina la consistenza personale, e quindi è rimasto alla scelta, choice della donna. A partire da questa frantumazione la naturale alleanza biologica tra il corpo della mamma e quello del figlio si è spezzata, si è prospettato un conflitto. E in Italia?
In Italia con la famosa sentenza 35 la Corte Costituzionale ha pesato sulla bilancia da un lato la salute della mamma nel caso in cui la gravidanza la compromettesse, dall’altro la salute del figlio, e ha parlato - giustamente - di un diritto alla salute e di un diritto alla vita e ha ritenuto l’uno e l’altro dei valori a livello costituzionale. Ma mettendoli a confronto ha finito per dire che il diritto alla salute della madre è prevalente nel caso in cui non fossero compatibili le due cose; che la madre - e questa è una risposta clamorosa - è una persona e l’embrione non lo è ancora. È tutto qui il nodo, secondo me. Addirittura è stato negato da tanti per l’embrione il concetto di soggetto giuridico portatore di diritti, che invece da noi per la prima volta è stato fissato dalla legge 40, all’articolo 1. Il titolo del suo intervento al convegno di Bassano è stato “Vita e scelta: l’etica delle obiezioni incrociate”. Che punti ha toccato?
Il mio intervento è molto drammatico perché riguarda la vita del figlio malato, malformato, e la costellazione dei problemi psicologici e di angoscia che possono cogliere la madre quando interroga la scienza per sapere se il figlio
che porta in grembo è sano, e l’ombra di questo pensiero: se per caso non è sano cosa succederà? Il problema del rifiuto del figlio dopo queste diagnosi, per chi ha questa visione antropologica secondo la quale si tratta di una persona umana, va affrontato e risolto in un modo coerente considerando che si trova di fronte a una persona, che ha il diritto di vivere anche se è malato, il diritto ad essere curato anche prima della nascita, il diritto della madre a non essere abbandonata nella sua angoscia che la potrebbe portare all’abbandono, al pensiero abortivo, ma ad essere accompagnata, incoraggiata, assistita in un momento che esige grande coraggio e amore alla vita. Mentre lo preparavo pensavo che il mio intervento è malinconico! E soffrivo, perché consideravo che il medico responsabile della diagnosi prenatale penserà: a cosa servirà la mia diagnosi? È la parte difficile, e la donna è in dubbio, è in angoscia. È normale, possibile, che venga questo pensiero. È sbagliato invece il caso in cui l’autorità sanitaria faccia una specie di screening sottomettendo alla diagnosi prenatale tutte le donne o una categoria di esse al solo scopo, per esempio, di individuare chi ha la trisomia, così se c’è il problema lo eliminiamo; ci sono alcuni paesi nel mondo dove i down sono scomparsi. Ma siamo riusciti a debellare la malattia? No. Sono stati sterminati, allora, se è così! E questa è una deriva terribile. Francesca Meneghetti
OMOFOBIA O ETEROFOBIA?
“Su famiglia, educazione e vita andiamo verso uno stato totalitario” Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita, a ruota libera su un disegno di legge farlocco e contro l’omo-pensiero unico dominante che vuole eliminare il dato naturale “È possibile che nel ventunesimo secolo uno stato democratico si trasformi in totalitario senza che il popolo se ne accorga? Sì, sta accadendo oggi in Italia”. Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita, non usa mezze misure. Durante un incontro tenuto a Bassano è tutto uno snocciolare di dati e fatti che fanno pensare che non ci troviamo tanto di fronte a un fenomeno di omofobia diffusa - fattispecie che l’approvando disegno di legge Scalfarotto vorrebbe combattere e che, commenta Amato, non esisterebbe perché l’incidenza dei reati legati alla sessualità sono “statisticamente irrilevanti” quanto piuttosto porterebbe a pensare al contrario. E cioè che, a furia di dare dell’omofobo a chiunque esprima un’opinione contraria al gayo mainstream, si possa semmai parlare di eterofobia. Difendi la famiglia naturale? Omofobo. Sostieni che è giusto che un bambino cresca in una famiglia in cui sono presenti un padre e una madre? Omofobo. Leggi pubblicamente un passo di San Paolo - come è capitato ad uno dei tanti street preachers inglesi, i predicatori di strada - in cui l’apostolo condanna
la pratica omosessuale? Omofobo tu e anche l’apostolo. Ebbene, ha detto Amato, in Italia siamo più o meno allo stesso livello, con la sola differenza che non possono (per il momento) denunciarti perché il d.d.l. Scalfarotto non è (per il momento) legge dello Stato. Oltre ai diversi motivi che renderebbero questo disegno di legge incostituzionale (perché introdurrebbe nel nostro ordinamento un reato senza prima definirlo e si arriverebbe a punire non l’azione ma l’intenzione, cose che fanno pensare allo “psico-reato” di orwelliana memoria), ci sono due pericoli che spingono ad opporvisi, ha commentato, e cioè che esso “tocca due pilastri: la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa. Questo è tipico degli stati totalitari”. “Mai come oggi - ha affermato Amato - ci siamo trovati di fronte a una tale quantità di attacchi concentrici e simultanei sui temi fondanti: come si nasce, come si muore, la famiglia, la vita, l’educazione”. Sono brutti tempi, ma prepariamoci perché ne arrivano di peggiori, insomma. Gli esempi li abbiamo già tutti sotto gli occhi, e sono
quotidiani. L’approvazione da parte del tribunale di Grosseto del “matrimonio” contratto a New York da una coppia di omosessuali, l’assoluzione in aprile di una coppia di milanesi che hanno comprato un figlio in Ucraina per cinquantamila euro (per la precisione, hanno acquistato l’ovocita di una donna fatto impiantare poi nell’utero di una seconda donna), il tentativo di introdurre nelle scuole i famigerati opuscoli dell’UNAR con lo scopo di convincere i ragazzi fin da giovani che avere un papà e una mamma o avere due papà è la stessa cosa, sono solo i casi più eclatanti passati all’onore delle cronache. (Tanto per aggiungerne un altro di cui quasi nessuno ha parlato, il 30 maggio Magistratura Democratica ha organizzato un convegno nel cui documento preparatorio si diceva, in sintesi, questo: il Parlamento non legifera sulle nozze gay? Poco male, ci penseranno i giudici con le sentenze a sanare quella che essi stessi definiscono una “emergenza democratica”). “Il tempo della fede a costo zero è finito”, ha concluso Amato. “Ci stiamo avviando in una prospettiva futura
in cui chi in virtù della propria fede mantiene una posizione antropologica naturale rischia conseguenze serie”. È arrivato il momento in cui “dobbiamo cominciare pensare a che cosa siamo disposti a rinunciare per testimoniare che quello in cui crediamo è vero”. È ovvio che se siamo soli di fronte a questa prospettiva crolliamo, “ma se abbiamo la consapevolezza di essere in una compagnia e in un popolo riusciamo a resistere”. D’altra parte,
questa nuova antropologia rovesciata trova come unica resistenza la religione cristiana e “gli uomini di fede sono rimasti gli unici difensori della ragione umana”. Lo diceva già Chesterton che “spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi d’estate”. I segnali che probabilmente quel giorno è arrivato sono tanti.
A.Ma.
CARO AMICO, TI SCRIVO…
S’avanza all’orizzonte una nuova renziana Dottrina Sociale Al direttore - Mio figlio qualche giorno fa è tornato a casa da scuola, una scuola media di Bassano, e mi ha parlato di quello che avevano fatto in classe. È emerso che avevano dovuto fare un tema commentando un non meglio precisato testo in cui tre sacerdoti sostenevano che né nella Bibbia né nel Vangelo c’è una parola contro l’omosessualità. Lascio a lei immaginare il resto.
Fabio Brunello nuovo Presidente del Calcio Santa Croce La sezione Calcio dell’A.S.D. Santa Croce ha chiamato a raccolta i suoi associati e sabato 31 maggio si sono tenute le elezioni per la carica di Presidente. A succedere a Giovanni Meneghetti, in carica dal 2011 al 2014, sarà Fabio Brunello, che ricoprirà l’incarico fino al
2017. La redazione della Voce dei Giovani si congratula con il neo Presidente e augura a lui e a tutti i suoi collaboratori di poter svolgere il compito a cui sono stati chiamati con entusiasmo e passione.
Se vorrà farci pervenire il testo saremo lieti di commentarlo insieme premurandoci di far notare ai non meglio precisati sacerdoti che la Bibbia si legge tutta dall’inizio alla fine, senza saltare Genesi 18 e un paio di letterine che Paolo scrisse ai Romani e ai Corinzi. Così, tanto per citare i primi passaggi che ci vengono in mente. Del resto, in questi tempi di gara sfrenata ad aggiudicarsi l’applauso del mondo (gara che coinvolge anche più di qualche prete,
purtroppo), non stupiscono amnesie questo tipo, molto simili a quelle che colpiscono i guardiani della Costituzione-più-bella-del-mondo (che sarebbe la nostra). I quali però la leggono passando direttamente dall’art. 28 al 30. Che sia perché all’art. 29 sta scritto che la famiglia è tutelata come “società naturale fondata sul matrimonio”? Al direttore - Leggo sul sito dell’Agenzia SIR un’intervista al sociologo Franco Garelli, dal titolo “Nell’impegno di Renzi in chiave pluralistica c’è la Dottrina Sociale”. Io non sono né un sociologo, né un esperto di Dottrina Sociale, ma c’è qualcosa che non mi quadra. Garelli sostiene che «Renzi è un cattolico, non lo ha mai negato, anzi ogni tanto lo ricorda. Però in qualche modo non fa della sua ispirazione cattolica un castello. Lui invece affascina o attrae a partire dalle idee, e solo in parte a partire dalla militan-
za cattolica di lungo corso negli anni giovanili […] La Chiesa era abituata a pensare che chi si impegnava doveva farlo per promuovere i valori cattolici, mentre lui si impegna in chiave pluralistica, per affermare anche istanze tipiche della dottrina sociale». Renzi sarà anche stato un ottimo boy scout, ma non è sostenuto da una maggioranza che ha appena approvato il divorzio breve e che non ha mai fatto mistero di voler introdurre unioni civili e adozioni gay? Nemmeno noi siamo esperti di Dottrina Sociale e non siamo sociologi (quest’ultima cosa però non ci turba più di tanto), e neppure a noi i conti tornano. Si dovrà avvertire il Vaticano che bisogna aggiornare il magistero secondo il nuovo verbo renziano e chiamarlo, magari, Dottrina Sociale 2.0.
DENTIFRICIO E SPAZZOLINO RIFLESSIONI ALLO SPECCHIO PRIMA DI ANDARE A DORMIRE
La Solitudine & l'esperienza dell'amore Direttore: Giovanni Meneghetti Coordinatore di redazione: Carlo Teosini Ministro del giornale: Jacopo Bertoncello Redazione: Antonio Artuso, Claudio Battaglia, Giovanni Battaglia, Martina Battaglia, Nicolò Bertoncello, Marina Bizzotto, Matteo Bozzetto, Enrico Fietta, Giulia Fietta, Beatrice Lorenzato, Paolo Mariotto, Michela Meneghetti, Andrea Impaginazione: Giovanni Battaglia Direzione e amministrazione: Bassano del Grappa (VI), casella postale n. 220, Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana. Autorizzazione: Tribunale di Bassano del Grappa, 7 Agosto 1964, n. 2. Pubblicità inferiore al 45% Scriveteci all’indirizzo: c.p. 220, 36061 Bassano del Grappa (VI), oppure a info@comunedeigiovani.it www.comunedeigiovani.it facebook.com/comunedeigiovani twitter.com/cdgbassano
È tardi ed è ora di andare a dormire, ma prima di infilarsi sotto le coperte, come si insegna ai bambini, bisogna lavarsi i denti. Così, mentre spazzolo incisivi e molari mi guardo allo specchio. Ed è allora che la mia mente va... Va e pensa all'esperienza del giorno trascorso, alla difficoltà di esprimersi, di rendere partecipi gli altri delle proprie emozioni. Ciò è stato vero in ogni epoca ella storia umana, ma particolarmente oggi stride la quantità dei mezzi per comunicare e il quanto solo vive ogni essere umano, chiuso nell'in-
comunicabilità del suo essere verso il mondo. Siamo sordi gli uni agli altri, non riusciamo a non essere soli di fronte alla vita, non riusciamo a trovare la corrispondenza che cerchiamo. È quindi così grande lo stupore di questa situazione che ci avvolge rare volte nella nostra vita, ma da quei pochi istanti resta in noi la grande nostalgia, la consapevolezza che lì, in quel preciso momento eravamo più vivi e belli che mai. La risposta a cosa è stato a travolgerci e smuoverci, lo chiamano amore e non servono tanti studi per sentire come sia davvero una cosa dell'Altro Mondo! È
quel misto di gratuità e corrispondenza a noi stessi che ci incanta e che è proprio della esperienza dell'amore che ci fa pensare se sia questa l'essenza del Paradiso. Quanto dura il sentire ogni nostro pensiero essere compreso e noi gratuitamente essere accolti? Tanto quanto il tempo della abluzione dentale, poi torniamo nel comune vissuto, l'alito pulito e profumato, pronto per il sonno. Notte. L’incisivo
Se devi distruggere qualcosa, non dimenticarti mai della superbia Caro amico, devi sapere che nella primavera dell’anno 1959 il mio babbo Belzebù mi disse: “Va’ in Italia a tentare un prete pazzo e pericoloso di nome Didimo. Ha in mente uno strano progetto educativo denominato Comune dei Giovani. Bisogna fermarlo ad ogni costo. Se realizza il suo progetto la nostra conquista dell’Italia è messa in pericolo”. Mi consegnò lo zainetto da scout infernale e mi imbarcò sul primo ascensore libero che faceva servizio per Bassano del Grappa. Oltre ai ferri del mestiere mise dentro allo zainetto un sacchettino di sementi selezionate e mi disse: “se non funziona il manuale del piccolo diavolo, prendi un pizzico di queste sementi e piantale. Buttale sull’anima di quelli che ti stanno vicino e vedrai che avrai un infallibile e immediato successo”. Diedi un bacio alla diavolessa mia madre che faceva il mestiere di prostituta e in un baleno giunsi a Bassano del Grappa, in una località che non posso nominare e che tanto ricorda ancora la morte del peggiore nostro nemico che mio nonno mise in Croce in una periferia di Gerusalemme. Qui di notte tentai di entrare nella casa canonica di don Didimo. Ma quella era sorvegliata oltre che da una donna di nome Madonna, neanche lontana parente delle cantante, anche da un gruppo di guardie del corpo di pazzi scatenati di nome Stelvio, Lino, Aldo, Guido, che avevano costituito una banda celeste di trafficanti di anime chiamata La Dieci. Tentai di farmi aprire la porta di notte dalla perpetua Edvige, vestito da mendicante, ma quella mi conobbe subito e mi buttò addosso un secchio di acqua santa. Girai per il paese alla ricerca di un complice, ma senza fortuna. Troppa gente stupida e bigotta. Mi ricordai del sacchettino di sementi che avevo nello zainetto. Mi sedetti vicino al cimitero, Le tirai fuori e lessi le istruzioni: sementi di superbia, avarizia, lussuria, ira, invidia, menzogna, ignoranza. Era scritto: seminale nel cuore dei giovani che girano attorno a don Didimo e vedrai che il Comune dei Giovani sparirà dalla mente del prete. Allora mi fabbricai una tana nei pressi della canonica e attesi di conoscere i giovani con i quali don Didimo si incontrava per illustrare il suo progetto educativo. Seminai tutte le sementi e attesi con pazienza che fruttificassero. Ma quel maledetto prete aveva la medicina opposta. Preghiera e conferenze. Allora pensai di mettere inimicizia tra il prete e i giovani. Occorreva un evento traumatico per screditare i giovani davanti al popolo e davanti a don Didimo. Chiamai allora in soccorso le potenze dell’inferno. E l’occasione venne. Era la settimana di fine giugno, in cui viene liberata dall’inferno per otto giorni la madre di San Pietro. E quella, al momento giusto provocò una tempesta tale che il vento abbatté la cima del campanile della chiesa vecchia con gravi danni. Il campanile rimase mutilato per oltre un anno. La gente si chiedeva come mai il parroco non lo rifaceva e cominciava a mormorare. Allora io entrai nel cuore dei giovani di don Didimo e suggerii una impresa che doveva far notizia e far crollare quella fama di bravi giovani e per di più catechisti, che don Didimo esaltava nelle sue prediche in Chiesa e che dovevano costituire la struttura del nascendo Comune dei Giovani. E poi bisognava rompere il feeling di reciproca stima esistente tra don Didimo e i giovani. Perché non coprire di ridicolo il campanile, edificio sacro, con un magnifico ombrellone da bar con scritto “Chinotto Recoaro”? L’idea fu subito abbracciata dal gruppo dei giovani più noti: Franco, Nini, Pio, Marco, Sergio, Piero, Mario, Lino, Bruno, Luigi. Si programmò il piano strategico. Quindici giorni prima dell’intervento si rubò nottetempo l’ombrellone con le sagome di due cuochi alla trattoria Corona d’Italia in viale delle Fosse a Bassano. Una settimana prima si addossò l’attrezzatura occorrente alla mura del cimitero verso i campi sportivi: scale, corde, stracci, ferri. Salire sul campanile non era impresa da poco. Bisognava salire dall’interno. Ma oltre alla cella campanaria non esistevano scale. Poi bisognava realizzare una struttura in legno sopra la cella campanaria ove inserire l’ombrellone con supporti tali che il vento non lo abbattesse. Si passarono quindi alcune serate a disegnare la struttura e calcolare il peso dell’ombrellone. Mario era un carpentiere che lavorava in un’impresa edile. A lui toccava salire sulla cima del campanile e realizzare la struttura. Franco e Pio, due dalle mani robuste avrebbero alzato la scala per permettere agli altri di lavorare sulla piattaforma sopra le campane. Nini era incaricato di fasciare i batocchi delle
campane ed evitare che suonassero per i movimenti creati dalla merce che doveva essere sollevata. Sergio, che non era contadino, era addetto alla sorveglianza a terra e segnalare l’arrivo di auto o persone. E venne la sera del sabato fatidico, antecedente l’8 dicembre, festa dell’Azione Cattolica e delle Acli. Prima di mezzanotte era tutto in ordine. Si cominciò a lavorare dopo la mezzanotte per evitare il suono dell’orologio, che non poteva essere disattivato e per aspettare che il cappellano don Luigi andasse a dormire. Alle quattro del mattino l’ombrellone era issato, aperto e ben piantato sulla sommità del campanile. Era la bandiera del gruppo che imitava la conquista del K2. Tutto era filato liscio. Nessuno era caduto dal campanile. Nessuno si era insospettito. Nessuno aveva fatto domande indiscrete. Anch’io apprendista diavolo, pieno di soddisfazione, mi appostai vicino al monumento ai caduti ed attesi divertito le reazioni della gente. Alla messa delle cinque e mezzo le donne cominciarono ad alzare lo sguardo verso il campanile e a domandarsi cosa fosse successo. Alle otto del mattino già mezza parrocchia era agitata. Chi diceva che avevano abbattuto il campanile, chi diceva che ignoti malviventi avevano compiuto un atto sacrilego. Chi invece avvertiva i vigili del fuoco. E questi durante la messa del fanciullo delle 8.30 si precipitarono con automezzi, scale e pompe. Bloccarono il traffico e si arrampicarono dall’esterno sul campanile. Immaginarsi i bambini all’uscita della messa! Ma don Didimo non disse una parola. Allora i fabbricieri (consiglio pastorale del tempo) e il comitato delle Acli si recò in delegazione in canonica a chiedere l’intervento deciso del parroco. Non si poteva passare sotto silenzio un tale atto sacrilego, mentre l’intera e cattolica città di Bassano esprimeva il suo sdegno per l’orribile vilipendio alla religione di Stato. Qualcuno cominciò a chiedersi chi fosse stato a compiere un tale gesto. Impossibile farlo da solo. Occorreva un’impresa edile ben organizzata. Forse era stata la massoneria. Qualcuno cominciò a parlare della compagnia dei giovani che giravano attorno alla parrocchia. Ma il cappellano non ne sapeva niente. Alla messa grande delle 10.30 il parroco non fece cenno di nulla. I giovani autori dell’impresa cominciarono a chiedersi cosa stesse succedendo. Ai vespri delle 14.30 tutti i giovani si presentarono in chiesa come se nulla fosse. E fu in quella cerimonia che don Didimo, davanti a tutta la popolazione (in quei tempi andavano ancora in chiesa) fece una memorabile predica sulla sacralità dei luoghi di culto e sulla necessità che gli autori andassero subito a confessarsi per il sacrilegio compiuto. Io ero gongolante e pensavo tra me e me: con questa ramanzina i giovani si allontaneranno da don Didimo e del Comune dei Giovani non se ne parlerà più. Invece don Didimo approfittò dell’occasione per valorizzare quel gruppo pensando: se questi hanno scalato di notte un campanile possono ben fondare di giorno il Comune dei Giovani. E infatti due anni dopo apparve la notizia che era nato il Comune dei Giovani. Mio padre fuori di sé mi chiamò e mi disse perché non avevo compiuto il mio dovere di diavolo. Eppure era stato fatto tutto secondo il manuale del diavolo perfetto. Allora mio padre, che di diavolerie se ne intende, mi interrogò su dove e come avessi buttato le sementi che avevo nel sacchettino. Tirai fuori il sacchettino per mostrare che le avevo seminate. Purtroppo una semente, quella della superbia, non l’avevo per disattenzione seminata nell’animo dei futuri fondatori del Comune dei Giovani. E quelli, nonostante la predica di don Didimo, non lo avevano abbandonato ed erano andati a confessarsi. Ed il Comune dei giovani era potuto nascere sulla base dell’umiltà e della collaborazione. Per questo grave insuccesso, mio padre mi ha condannato a vivere cento anni nelle acciaierie infernali. Ti saluto con affetto. Tuo Malacoda, apprendista diavolo