La matta di varanasi - Cecilia Allegra

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LA MATTA DI VARANASI Dicevano che a Varanasi c’era un matta. Veniva da lontano, dicevano. E aveva un naso strano, di quelli che tagliano l’aria come una sciabolata, imponente e deciso. La mattina si alzava all’alba e, con il suo passo felpato, sgattaiolava fuori dalla casa buia e ostile che se ne stava stretta fra due templi nel cuore della parte vecchia della città. Rientrava solo a tarda sera, quand’era sicura che intorno ogni rumore fosse stato schiacciato dal sonno dei bambini e fatto a pezzi dalla grata spossatezza degli adulti. Doveva pur tornare a casa e riposarsi, dicevano, ma nessuno l’aveva mai vista: come un animale misterioso, si fondeva con le tenebre, si liquefava nella polvere dei muri scrostati, decadenti, e giocava a confondere gli uomini, entrando e uscendo dai loro incubi. La notte del cinque luglio se la ricordavano tutti, rimaneva stampata come un’impronta indelebile nel fango dei ghat, e neanche il Gange era riuscito a lavarla via. Nella città vecchia c’era stato un blackout e ogni ventilatore aveva capitolato chinando il capo in un gesto di estrema rinuncia: Varanasi era rimasta senz’aria, con l’afa che era riuscita a conquistare persino i vicoli più reconditi e aveva imposto il suo dominio nelle case, sconvolgendo le ordinate fila degli insetti che sciamavano per acquattarsi nei loro angoli. Tutti erano scesi in strada temendo di restare soffocati, non c’era nient’altro da fare. Avevano protestato fino alle prime luci dell’alba: ce l’avevano con gli alberghetti sudici che rubavano la corrente, con i ricchi che tenevano nascoste le scorte d’emergenza, con chi lasciava accesa la radio a qualunque ora del giorno. La matta non protestò; di lei neanche l’ombra. Alla matta sembrava interessare una cosa sola, la Ganga Aarti, una cerimonia che si consuma ogni giorno all’alba e al tramonto nel Dasaswamedh Ghat, il molo più ampio. Milioni di indiani raggiungono Varanasi per assistervi. Eppure la matta non era indiana e, pare, forse neanche indù: con gli spettatori del rito comunicava a gesti, acconsentendo paziente a tenere in braccio il loro ultimo figlio mentre questi tentavano di rubare qualche scatto dello spettacolo senza perdere l’equilibrio difficilmente raggiunto su una delle piattaforme sopraelevate. Un’infinità di persone si raduna all’occasione nel molo sacro: babus, santoni, big mamas coi sari dai colori squillanti, oratori di ogni tipo, bambini irrequieti, sposi novelli, tutti cercano di accaparrarsi la posizione migliore per assistere alla puja, il rito giornaliero dei pandit. I più ricchi affittano gli albergucci che circondano il molo per godere della vista migliore, mentre i più intraprendenti svegliano i barcaioli che sonnecchiano vicino alla riva e si accoccolano vicino a loro. A Varanasi si tengono diverse Maha Aarti in altri ghat. Addirittura, si crede che in uno di questi sia caduto del nettare portato nel becco dall’uccello sacro Garuda. Eppure, neanche la leggenda ha impedito che siano in pochissimi a frequentarli: il proprietario del Dasaswamedh Ghat è riuscito ad imporsi come il più influente, e a soggiogare i cuori degli indiani allestendo una cerimonia imponente come una decina di matrimoni messi insieme. Durante la Ganga Aarti è l’aspetto spettacolare a prevalere. Giovani maestri di religione, i pandit, sono introdotti in un recinto sacro disseminato di fiori: sfoggiano ampi vestiti color 1


zafferano e mostrano con spavalderia i loro corpi forti. E’ in ragione della loro bellezza e del loro vigore che vengono scelti. Seguendo lo sguardo di molte giovani che occultano la propria indiscrezione sotto i veli colorati, si svela una trama di segnali tutt’altro che religiosa. Le buone apparenze sono però mantenute dirottando l’attenzione generale sulla bellezza del rito. Tutto comincia quando i pandit innalzano le conchiglie sacre e producono un suono simile a quello di un corno, capace di scuotere dal sonno qualsiasi essere vivente. Quindi procedono facendo oscillare stecche di incenso secondo uno schema rituale, e ruotando lampade ad olio che formano nel cielo violaceo ghirigori infuocati. Seguono il ritmo degli inni e il suono dei cembali; intanto, nell’aria si diffonde l’odore di sandalo. Ogni giorno alle cinque, la matta era già lì, sul primo gradino, ad aspirare l’aria fredda del mattino. Se ne stava appollaiata cingendo le gambe in un molle abbraccio. La cerimonia la lasciava estatica, con una strana luce sul viso: i santoni che gironzolavano molestando i turisti con la litania “daaaas ruuuupies, daaas rupies ma’dam”, volgevano lo sguardo altrove e si allontanavano come se temessero di svegliarla dallo stato di trance. I bambini invece le si affollavano intorno toccandole le trecce e nascondendosi fra i suoi capelli, come se giocassero tra i rami flessuosi di un albero secolare. I pandit, infine, la guardavano negli occhi, ancorandosi alla sua presenza per non sbagliare nessun gesto, nessuna posa. Terminata la Ganga Aarti la matta non si allontanava mai seguendo il formicolare della folla, ma rimaneva a lungo a fissare dondolandosi le acque del fiume. Poi, puntualmente, in risposta ad un semplice cenno, si inoltrava misteriosa nel gruppo dei pandit, veniva inghiottita e non la si vedeva più. I frequentatori abituali della città vecchia sostenevano che intraprendesse tutti i giorni un percorso simile, protetta come da un’aura che la rendeva invisibile: oltrepassava il piccolo campo da cricket senza infastidire i giocatori, poi il rosso Kedar Ghat e il molo dei lavandai. Qui, dopo averle aiutate a deporre i bianchi panni sulla terra secca e calda, si immergeva con le altre donne nel fiume. Quindi prendeva un riksho, attenta a scegliere sempre lo stesso conducente sikh vecchio e macilento, e si fermava a prendere un chai accanto ad una ciclofficina frequentata solo da ragazzini curiosi. Di fronte, si stendeva il regno di Yama, l’area riservata ai funerali. Le processioni funebri che si snodavano per le stradine del centro sembravano, a questo punto, ipnotizzare la matta costringendola a tallonarle con impudenza. I guardiani del ghat la lasciavano passare affinché raggiungesse le pire su cui si cremavano i morti per poi immergerli nelle acque del Gange purificatore. Qui, le donne si stringevano attorno alla più anziana, la quale faceva ondeggiare un legno di sandalo infuocato sul corpo del parente defunto. Tutte badavano bene di non lasciare il braccio della vicina, mentre gli uomini, in disparte, innalzavano inni funebri. Quindi, l’intero gruppo si girava verso il Gange, e compiva la stessa azione. La matta se ne stava accanto ai gruppi familiari: ritta, proteggendo con il suo sguardo la sacralità della scena. Fin quando non si riscuoteva e prendeva a scavalcare le pire con stravagante insolenza, e si univa ai barcaioli che, storditi 2


dal calore del sole, si allontanavano dai fumi pestilenziali e si assiepavano all’ombra delle palme striminzite ai bordi del fiume. Per una donna, era un atteggiamento sconveniente, ma nessuno sembrava accorgersi di quella presenza immancabilmente aliena, immancabilmente diversa. Parecchi anni più tardi, anche le minime tracce che la matta aveva seminato a Varanasi erano incredibilmente sparite. Alcuni sostenevano che fosse tornata in Nepal, da dove si pensava provenisse, mentre altri, cinici, insistevano che era inutile cercare di scovarla: doveva essersi uccisa infilandosi nel Gange con una pietra al collo e aspettando la fine. Ma il lustrascarpe che, speranzoso, si posizionava ogni giorno davanti alla sua casupola, era d’altro avviso. Non era stato il fascino della morte ad averla consumata, né la nostalgia della patria a sradicarla da Varanasi, dove viveva ormai da tempo, ma l’amore. Aveva lasciato la città con uno dei pandit che, dicevano, assediava da tempo alla Ganga Aarti. Alla morte del padre di lui, questi aveva mandato a monte il matrimonio combinato che l’attendeva ed era fuggito trascinandosi dietro la matta sul sedile posteriore della sua sgangherata motocicletta. In fondo, la matta, tanto matta non era.

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