Il Rugby, un gioco per tutti - Storia nr. 21 tratta da "Storytelling di Volontariato"

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Per ripartire Insieme Storia nr.21



incontri Il Rugby, un gioco per tutti “Se tutti si danno a tutti, più nessuno si dà a nessuno” Parto da questa citazione di J.J. Rousseau: mi occupo di disabilità, lo faccio volendolo, credendoci intensamente, sono convinto che assistere una persona disabile, non voglia dire conportarsi con lei in modo diverso che con chiunque altro. Nessuno dovrebbe selezionare aprioristicamente quale desiderio suscitare nell’altro, nessuno dovrebbe permettersi di selezionare quali emozioni sono utili per qualcun altro e quali non lo sono, questo forse nemmeno per se stesso, perché non lo si sa. Ci sono cose che non debbono essere calcolate, perderebbero la loro leggerezza, la libertà profonda, la vita... il movimento che ci fa simili al sole, alla terra, l’impulso buono della propria esistenza: di qui sono partito e qui mi ritrovo. Mi chiamo Enrico Colzani, sono un volontario, oppure un progetto di me stesso, un pioniere senza ricchezze, per il tempo degli altri. Mi confronto con il mondo di chi da e lo fa per dare. Lo faccio da dieci anni, autenticamente, per essere più del destino al quale sono nato, per squadernare l’ordine delle cose, per dare un colpo al timone, vedere che succede... per evocare, nel prevedibile, l’anomalia che ci fa generosi e altruisti. Una parte di me ha studiato fin nel dettaglio come fare ad esser volontari: quale particolare tipo di volontà, di libertà, usare, per non essere mai esposti al rischio di aver qualcosa, un giorno, su cui recriminare, per poter essere certi, mentre si vuole, di sapere cosa si vuole. La parte più contagiata di me stesso, la più entusiasta, la più libera, mi è venuta facendo il volontario; muovendo la mia intenzione di essere, qui in questo mio mondo, nel modo in cui riesco, nel gusto del farlo. Scoprendo gli altri, la loro intesa profonda, qualcosa che unisce, uno slancio degli uni verso gli altri: adulti, sereni, attivi, efficaci. Un noi, vivo, vociante. L’efficacia mi ha salvato la vita, l’ho vista in moto nella natura, nelle 95


incontri piccole cose, quando avevo bisogno di aiuto al di là di quanto mi immaginassi. L’efficacia di ciò che segue indifferibilmente una meta, un progetto, la vita: l’efficacia stupenda dei fiori. E allora che cosa c’è di differente, nel fare il volontario? È come un bagno di umiltà, una simpatica lavata di testa a esame della realtà: l’esplorazione di un limite profondamente umano. Stop: tutto il resto è il piano di lavoro, lo scambio, lo sforzo comune, il gran cimento, la serietà dell’impegno. Il resto, quello che resta, mi ricorda tanto lo sport, allora facciamolo questo sport Mixed Ability, non facciamo piovere sulla testa di chi partecipa, il nostro giudizio, sempre affrettato da qualche preoccupazione, da qualche disimpegno. Comunichiamo lo sport, condividiamo lo sforzo collettivo, le gioie, la liberazione nel gesto sportivo! Riporterò un’esperienza personale: quella di essere il presidente e l’allenatore di una squadra di rugby, per passione, per senso del dovere, per atto libero e volontario. Negli ultimi dieci anni abbiamo pensato molto a come lavorare, per abbattere le barriere alla partecipazione ed è proprio questo, secondo noi, il “fatto” della disabilità. Continuo a parlare al plurale, di un noi: senza il quale nessuna esperienza di volontariato si può precisare. Il contatto fisico è parte costruttiva del rugby, che pone il corpo come unico e solo strumento in gioco; permette di misurare le proprie forze nel confronto con la prova di realtà della fatica, della difficoltà, del fronteggiare il limite insuperabile nel gioco e nella relazione con gli altri giocatori, dà il senso al conoscere il corpo dei compagni e degli avversari; nel gioco siamo gli uni per gli altri. Siamo avversari, per chi ci fronteggia e nello stesso momento siamo compagni. Questo metterci in essere nel contatto, il far scorrere in questo modo il senso di appartenenza reciproco, ci dà la misura, la giusta distanza, quando per qualche motivo ce la siamo persa, e siamo in crisi. La corporalità nel rugby non è fonte di equivoci, né di esclusione, nel rugby possono giocare tutti senza possedere qualità atletiche particolari, è fonte d’inclusione, a ciascuno il suo ruolo naturale: quello per 96


incontri i più pesanti, muscolari, quello per gli agili, per i più fragili, il ruolo per chi ha buone mani, quello per chi ha buoni piedi, quello per chi ha visione degli spazi del campo, quello per chi ha coraggio e quello per chi non ama il protagonismo, ma la collaborazione. È tutto nel confronto soggettivo con il contatto fisico allenato, mediato dall’apprendimento delle regole, sostenuto dalla presenza dei compagni di gioco, dall’abitudine, dall’orientamento dei corpi, è qui che si ha la più alta forma di rispetto che le discipline sportive prevedono: il tentativo perfettamente sportivo di sconfiggere l’avversario, il cimento per non essere sconfitti. E poi, la palla, si passa: quando proprio non si può più avanzare da solo, allora devi fidarti e passare! Nel rugby il passaggio della palla di mano in mano è fatto all’indietro, che il pallone non cada a terra, è responsabilità sia di chi passa sia di chi riceve. Questo precisa la natura del gioco, per andare in meta il portatore deve avanzare nel campo con il proprio corpo, con il sostegno dei propri compagni, affrontando gli avversari, impegnandosi al massimo perché almeno uno dei suoi compagni possa ricevere la palla e il diritto a procedere. Il passaggio costringe chi lo compie a giungere in perfetto orario all’appuntamento con l’altro/altra, a tenere conto dei suoi tempi e dei suoi limiti; il corpo dell’altro va conosciuto nelle sue dinamiche perché il sistema-gioco possa andare avanti bene. L’accadere dell’evento che muove altro è il desiderio il limite in sé, e quello fra sé e l’altro, mettondo in connessione mere abilità: questo è il modello Mixed Ability, che rappresenta un approccio innovativo che mira alla promozione dell’inclusione sociale e della partecipazione alle attività sportive, per incoraggiare i giocatori, portatori di disabilità e non, i volontari e gli allenatori a interagire, facilitati dai partecipanti più esperti. Il modello è differente da quelli previsti per l’attività sportiva per disabili, come i Giochi Paralimpici o gli Special Olympics, infatti non classifica i differenti livelli di abilità, né separa giocatori disabili in differenti categorie. 97


incontri Il Mixed Ability non è solo rivolto ai disabili, ma parte dal presupposto che tutti, nel corso della vita, possiamo sperimentare una qualche forma di disabilità per un breve o per un lungo periodo: affrontando limiti sociali, fisici o mentali. Gli obiettivi del Chivasso Rugby sono: aumentare l’offerta e la partecipazione allo sport per normoabili e disabili, di tutte le età e abilità ingaggiando nuovi giocatori e volontari; aumentare la consapevolezza delle disabilità mentali o fisiche, per combattere stereotipi e pregiudizi, superare l’abituale percezione della disabilità portando i giocatori con le loro abilità, a facilitare l’incontro e la socializzazione; incoraggiare le persone disabili a divenire membri attivi dei club e avere peso nelle decisioni prese dalle istituzioni sportive, rinforzando così l’uguaglianza e l’inclusione sociale. Nel rugby Mixed Ability i giocatori disabili non indossano particolari indumenti distintivi. Si è riflettuto molto su questo dettaglio, sia in Italia che con i nostri partner europei. L’oggetto-simbolo per eccellenza delle emozioni dello sport, la maglia, è davvero uno straordinario centro di investimento emotivo da parte del giocatore e del tifoso. Noi pensiamo che sia un motivo di orgoglio poter indossare la maglia ed essere identificati dal pubblico, da coloro sui quali investiamo i nostri affetti a partire dai genitori e distinti rispetto ai compagni soltanto tramite il numero sulle proprie spalle. La divisa è parte integrante dell’identità del gruppo: il numero sulle proprie spalle viene ottenuto allenandosi con i propri compagni durante l’anno; il veder riconosciuti i propri sforzi con il numero sulle spalle, per sostenere il diritto di partecipare senza essere giudicati. Nel gioco educativo l’esperienza del mettere se stessi in gioco è un atto di volontariato consapevole. Il senso del limite, il contatto con la durezza dell’equilibrio precario, l’impegno davanti al rivolgimento di fronte, la bontà delle mani per il compagno, lo sforzo per una meta desiderata, il liberarsi dall’ansia e dall’oppressione della prova. Non si prescinde dai vincoli che ci sono al mondo, dai limiti dello strumento e del gioco, ma utilizzandoli, come totalità, per farne esperienza in relazione alla centralità del corpo proprio, disponibile all’atto volontario. 98


incontri Tutti con le medesime regole, non appiattendo la pratica a ciò che le persone non possono fare, ma costruendo assieme l’ambiente e le regole comuni del vivere nella diversità di ognuno, secondo la propria disponibilità. Enrico Colzani Associazione Chivasso Rugby Onlus nasce per portare la palla ovale nel mondo del disagio e della disabilità

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