Per ripartire Insieme Storia nr.49
incontri La STORIA DI ORIANA Sono appena giunta in questo posto; un posto dove non avevo fretta di arrivare. E’ molto affollato, tante persone che conosco, ma soprattutto ho ritrovato lei: Sonia, la mia seconda figlia disabile che ho amato più di me stessa e che è vissuta solo 40 anni. Mia figlia era spastica, viveva adagiata nella carrozzella, non parlava e non vedeva, ma comunicava con il sorriso, con gli occhi brillanti e con dei suoni che mio marito ed io avevamo imparato a interpretare. Quando mi chiedevano come avessi fatto ad essere felice, con un impegno così grande rispondevo che, dopo un primo smarrimento in cui avrei voluto farla finita con la vita, avevo compreso quale avrebbe dovuto essere il mio compito e lo avevo accettato e accolto, spendendomi per lei e per le famiglie che, come me, dovevano affrontare le risposte negative delle istituzioni. Ho sentito una grande forza e ho benedetto la nascita e ho cominciato a guardarmi in giro per vedere cosa fare: ho incontrato diverse famiglie ed abbiamo cominciato a conoscerci e a sostenerci. I primi gruppi di genitori si formano a Pino Torinese e a Chieri, intorno alla metà degli anni settanta, per aggregare e promuovere il coinvolgimento di volontari e genitori con figli disabili, l’occasione è offerta dalla scuola, grazie agli spazi di partecipazione garantiti al suo interno dai decreti delegati. Essere un gruppo unito da un interesse comune come il benessere dei nostri ragazzi, da rapporti di stima, fiducia reciproca e amicizia, avere tutti una buona dose di ostinazione nel perseguire quello che ritenevamo giusto... furono le componenti fondamentali che ci aiutarono a vincere lo sconforto di non poter dare ed ottenere tutto l’aiuto che avremmo desiderato per le nostre famiglie. Inoltre, comunicandoci i nostri pensieri, desideri, riflessioni, confidenze, accogliendo nel nostro cuore e nella nostra vita tutta la ricchezza di esperienza e di sofferenza delle nostre famiglie e dei nostri figli, e con i volontari, che si erano uniti a noi, avemmo la preziosa occasione di formare le nostre menti e i nostri cuori a un vero, genuino sentimento di solidarietà e umanità, sfrondandolo da tutti gli 225
incontri inutili sentimentalismi e dagli esecrabili autoincensamenti. Al momento di iniziare la scuola scoprii che il territorio chierese non offriva quasi nessuna risposta ai molti bisogni dei disabili e delle loro famiglie: la scuola era lontana una decina di chilometri, con due locali con personale insufficiente dove parcheggiare per poche ore alcuni ragazzi. Gli insegnanti erano insufficienti come numero e come preparazione per l’inserimento scolastico nella fascia della scuola dell’obbligo. Niente trasporti, niente aiuti a domicilio, niente fisioterapia, logopedia, assistenza psicologica alle famiglie, niente diagnosi e cure specialistiche per i disabili. I nostri figli sono stati i primi che non sono andati all’Istituto Cottolengo di Torino, ma non è stato facile garantire loro la possibilità di fare e vivere anche fuori casa; trovavamo tutte le porte chiuse, eravamo alla ricerca di un aiuto per gli spostamenti su Chieri, dove dovevamo andare quattro volte al giorno per accompagnare i nostri figli alla scuola speciale di Borgo Venezia. Mia figlia dovevo portarla e andarla a riprendere in braccio, da sola, con il pulman... Poi si è presentato anche il problema di rendere possibile ai nostri figli la frequenza al Centro diurno. Le assemblee scolastiche, allora momenti molto partecipati, diventarono un luogo in cui portare a conoscenza di tutti i genitori i problemi delle famiglie con figli disabili. A questi momenti parteciparono anche madri di ragazzi gravissimi che non frequentavano la scuola, ma che permisero, attraverso i loro racconti, uniti a quelli di alcuni insegnanti, di rendere evidenti a tutti, da un lato, la drammaticità dei problemi che le famiglie dovevano affrontare in solitudine e, dall’altro, le difficoltà della scuola stessa nel realizzare un vero inserimento nelle classi, per la mancanza di strumenti di integrazione e di insegnanti di appoggio, delle “persone handicappate e caratteriali”, così come allora erano definiti ragazzi e bambini con vari gradi di disabilità fisica e/o intellettiva. Grazie a questi primi momenti di sensibilizzazione, all’interno dell’assemblea dei genitori, nasce a Pino Torinese il primo gruppo di 226
incontri lavoro formato da genitori e volontari per capire la natura dei problemi e cosa era possibile fare per affrontarli. A Chieri, il gruppo di genitori che, unendosi successivamente a quello di Pino, darà vita all’Associazione, si aggrega attorno all’attività dei giovani volontari del GAH, Giovani Amici degli Handicappati, un gruppo di base spontaneo giovanile che rappresentarono, per alcune famiglie, un’importante alternativa alla partecipazione agli incontri dell’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici) presente sul territorio. Portatori di una cultura e pratica del volontariato diffusa in quegli anni, basata sui valori della condivisione e della scelta dei più deboli, in modo pluralista e laico, i giovani del GAH, offrirono la loro disponibilità a condividere i problemi quotidiani che le famiglie incontravano e ad accompagnarle nell’affermazione dei diritti di cittadinanza dei propri figli, anche mettendo a disposizione conoscenze acquisite sulle normative e sui diritti esigibili. Furono anni di lotte, riunioni, assemblee, incontri con le varie autorità, furono anni difficili, non è stato semplice creare rapporti di fiducia reciproca, di comprensione delle reali esigenze dei genitori, è stato soprattutto difficile scegliere il modo di portare avanti nei confronti delle istituzioni, le giuste richieste dei genitori. Il gruppo di genitori partecipa anche attivamente al dibattito pubblico che accompagna la costituzione delle USSL (Unità Socio Sanitaria Locale) sul territorio, grazie al coinvolgimento diretto di alcuni genitori che investono maggiori energie e motivazioni nel creare legami e movimento attorno alla disabilità dei propri figli e che saranno una componente fondamentale del comitato di partecipazione dell’USSL che, composto da operatori socio sanitari si avvaleva anche della partecipazione dei genitori e del volontariato. Si concretizza così un’intensità di relazioni nel quotidiano, che permette di costruire dei legami in cui il “prendersi cura” va al di là dell’handicap, assumendo maggiormente le caratteristiche di un’assunzione di responsabilità nel condividere l’incombenza dell’accompagnamento, le fatiche del vivere, ma anche le sue gioie. Qualche volta penso con un po’, anzi con parecchia rabbia, che le 227
incontri cose che abbiamo ottenuto dalle istituzioni pubbliche in quei primi undici anni, si sarebbero potute ottenere in un anno se la sensibilità, la capacità, l’immaginazione, la disponibilità a mettersi in gioco dei nostri funzionari pubblici non fossero state così carenti e se le scelte politiche di destinazione di risorse finanziarie fossero state fatte tenendo conto anche dei più deboli... ma la realtà era quella. Sono stati undici anni mitici, con molti volontari e genitori impegnati, le cui testimonianze sono state raccolte da Adriana Sumini sotto il titolo: “La strada di Vivere”. Oggi l’Associazione è viva e propone un’infinità d’iniziative, grazie al lavoro delle tante persone che quotidianamente donano parte del loro tempo agli altri, in uno slancio di solidarietà e umanità che non ha equali. Giovanna Associazione VIVERE In memoria di Oriana Oggi abbiamo salutato per sempre Oriana, 43 anni fa, lei e altre due mamme hanno dato origine al nostro gruppo di volontariato e noi ci sentiamo un po’ orfane. La nostra storia di volontarie é iniziata così: Quando nel 1976 mi sono trovata in un’Assemblea a Pino Toeinese ed ho sentito l’invito del Presidente a formare un gruppo di lavoro per approfondire il problema del trasporto di tre famiglie che dovevano portare le loro figlie alla scuola speciale, io ho alzato la mano con slancio: per quel problema forse potevo fare qualcosa. Almeno per il trasporto potevo insieme ad altri porre rimedio. Un desiderio di riparazione: se la vita toglie qualcosa a qualcuno, forse altre persone possono restituire briciole di qualcosa d’altro; non sarà la soluzione ma è pur sempre qualcosa, meglio che niente. Il bisogno di sentirsi utili, d’imparare a fare qualcosa, di vivere la libertà di ‘fare’, fuori dal legame contrattuale del lavoro che avevo vissuto molto felicemente, ma che era altra cosa. Quando ho alzato quella mano c’era un po’ di tutto questo in me ma mischiato in modo 228
incontri confuso. Tutto è iniziato così, ma la vera solidarietà è arrivata dopo: io mi sentivo un genitore come gli altri, ma non capivo nulla di leggi, diritti, competenze, burocrazia, partecipazione, allora mi sono ritagliata un ruolo all’interno del gruppo, ho chiesto ed ottenuto di fare l’unica cosa che pensavo di saper fare: i verbali. Avevo sempre fatto la segretaria di direzione e sapevo fare le relazioni, il mio aiuto è stato quello: raccogliere le parole e trasformarle in memoria scritta, così avevo il tempo di capire, ero in prima linea ma un po’ arretrata, protetta dagli altri più grandi; sono diventata così la segretaria del gruppo, tenevo l’archivio mobile che ci seguiva in tutti i nostri spostamenti, chiedevo autorizzazioni, scrivevo lettere, facevo elenchi, leggevo di tutto e cercavo di capire. Quante volte nel vedere i nostri figli correre spensierati e felici oppure dormire sereni o mangiare di gusto senza bavaglie, senza busti, carrozzelle ed altro ancora, quante volte io e mio marito ci siamo guardati e abbiamo pensato con amore e dolore a quegli altri figli che conoscevamo e sentivamo un po’ nostri! Eravamo genitori, sapevamo amare da genitori ma non potevamo neanche immaginare quanto si possa amare un figlio disabile. Furono anni di lotte, riunioni, assemblee, incontri con le varie autorità, ma furono anni anche difficili. Non è stato semplice creare rapporti di fiducia reciproca, di comprensione delle reali esigenze dei genitori, è stato soprattutto difficile scegliere il modo di portare avanti nei confronti delle istituzioni le giuste richieste dei genitori. Essere un gruppo unito da un interesse comune: il benessere dei nostri ragazzi, da rapporti di stima, fiducia reciproca e amicizia, avere tutti una buona dose di ostinazione nel perseguire quello che ritenevamo giusto, furono le componenti che ci aiutarono a vincere lo sconforto di non poter dare e ottenere tutto l’aiuto che avremmo desiderato per le nostre famiglie. Inoltre, comunicandoci i nostri pensieri, desideri, riflessioni, confidenze, accogliendo nel nostro cuore e nella nostra vita tutta la ricchezza di esperienza e di sofferenza delle nostre famiglie e dei loro figli, noi volontari avemmo la preziosa occasione di formare le nostre 229
incontri menti ed i nostri cuori ad un vero, genuino sentimento di solidarietà e umanità, sfrondandolo da tutti gli inutili sentimentalismi e dagli autoincensamenti. I primi corsi di formazione ce li hanno fatti i genitori che avevano un figlio disabile, abbiamo imparato cose che in seguito ci sono servite per accompagnare altri ragazzi, ma a volte, sono stati utili anche nella nostra esperienza personale, io ad esempio ho messo a frutto le cose imparate con mia madre anziana e non più autosufficiente. L’Assemblea mensile era il luogo dell’ascolto delle necessità vecchie e nuove delle famiglie, la cosa più difficile per me è stata quella di rendermi conto che, spesso, quello dell’ascolto era l’unico modo che avevo per porgere aiuto, prendere coscienza di questo è stato lacerante. L’Assemblea era diventata per tanti genitori un luogo dove, sentendosi capiti, mai criticati o giudicati, potevano dare sfogo a tutto il loro dolore, la loro ribellione, la loro impotenza e dove potevano anche trovare il capro espiatorio, vale a dire tutti i presenti che cercavano di suggerire rimedi o di trovare risposte consolatorie. è inutile, non riuscirete a fare nulla: questa frase quante volte l’ho sentita! E avevano ragione, perché dietro alla richiesta del trasporto piuttosto che della mensa, c’era la dolorosa realtà di avere messo al mondo un figlio destinato alla sofferenza e a questo dolore e a questa sofferenza né io, né il gruppo poteva offrire rimedi. Se penso a come ero trent’anni fa, non mi riconosco, ero timida, la sola idea di parlare in pubblico mi faceva sudare, sapevo cosa era giusto chiedere ed ottenere, ma non avevo parole per esprimermi, non conoscevo le leggi, i regolamenti, i vari settori e ordini burocratici, la mia timidezza mi ostacolava, ma il pensiero dei ragazzi e dei loro problemi mi ha dato la forza di uscire da me stessa e così sono cresciuta umanamente e ho imparato un’infinità di cose e la timidezza è sparita lavorando accanto a tante persone. Sono cresciuta, ma è cresciuta anche la capacità del nostro gruppo nell’affrontare senza paure tutte le sfide e le difficoltà che dovevamo affrontare. Fare una sorta di mappatura di tutte le situazioni di disagio presenti nel territorio di Pino Torinese, partendo dalla scuola fino alle età più 230
incontri adulte, era territorio sconosciuto. Utilizzando i medici di base e altre figure significative che a quel tempo potevano dare indicazioni ho fatto la mia prima ricerca, è stata un’esperienza fondamentale per me sotto molti punti di vista, raccoglievo l’indicazione, contattavo direttamente ogni famiglia presentando il gruppo di lavoro e chiedendo loro di farne parte. Un porta a porta inimmaginabile, così ho attivato molti legami importanti, ho imparato a guardare negli occhi la sofferenza, ad ascoltare a pensarci su con dolore, con speranza, a inventare qualcosa con fiducia, a imparare a riproporlo, a porgerlo, ad aspettare, a respirare nel dolore mio e altrui che nasce dall’impossibilità di aiutare senza giudicare senza rompere, cercando di rimediare marginalmente senza forzare il precario equilibrio di chi soffre. È stato il mio tirocinio sul campo: imparare quanto è difficile cercare di aiutare e quanto è difficile accettare l’aiuto. Erano gli anni in cui si applicava la “517” per l’integrazione scolastica, ma la scuola non sapeva come realizzare le indicazioni di legge, i Comuni e la Provincia erano nel caos, la confusione regnava ovunque ed il gruppo si pose il problema di fare da mediatore tra i genitori e le istituzioni. In mezzo ci siamo infilati noi come gruppo spontaneo, un cuneo che è poi diventato una cerniera, adesso si direbbe forse interfaccia che è più evoluto, non è mai stata una vera mediazione perché il mediatore non fa suo l’oggetto di mediazione, ma lo tratta soltanto; il gruppo invece era innanzitutto un vero gruppo unito perché ne facevano parte i genitori ma era anche composto da altri genitori volontari che potevano più facilmente allacciarsi al territorio. Dipendevamo dai burocrati, dai medici, dai politici e dagli operatori assistenziali. I genitori avevano bisogno che i loro ragazzi frequentassero il Centro diurno e pur lamentandone tutte le disfunzioni non volevano interventi troppo drastici. Noi volontari comprendemmo che l’unica soluzione consisteva nel cercare, attraverso il dialogo di far entrare nella testa e nel cuore, di tutti coloro che in un modo o nell’altro avevano a che fare con i nostri ragazzi, il concetto dell’importanza di sapere prendersi cura, di conoscere i loro bisogni e rico231
incontri noscere i loro diritti. Abbiamo fatto errori di forma, di procedura e qualche volta anche di contenuto, ma ce ne siamo quasi sempre accorti in tempo utile ed abbiamo rimediato ed imparato, abbiamo in quel tempo tessuto collaborazioni anche con altre associazioni del territorio perché siamo sempre stati convinti che l’evoluzione delle cose debba passare attraverso un fare il più possibile in raccordo ad altri, insieme. Oggi si dice concertare, ma allora questo verbo era usato solo in campo artistico, però noi siamo stati dei veri concertatori, costruttori di trame, oggi si direbbe di reti, io ho sempre vissuto così il lavoro del gruppo: una via di mezzo tra il rammendo e la costruzione di nuova tela, una sorta di costruzione ad intarsi dove gli spazi di congiunzione sono interconnessioni che vanno costruite inventando forme nuove o ripristinandone alcune vecchie in modo più funzionale. Il 3 marzo 1987, davanti al notaio genitori e volontari, firmavano l’atto di costituzione dell’Associazione denominata “VIVERE”, Associazione di volontari e famiglie con figli portatori di handicap, tutti molto fieri e soddisfatti. Anna e Renata Associazione VIVERE Volontari e famiglie con figli portatori di handicap
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