Quaderni del Volontariato
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Edizione 2013
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provicia di Perugia Via Campo di Marte, 9 06124 Perugia tel. 075.527.19.76 Sito Iternet: www.pgcesvol.net Visita anche la nostra pagina
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Con il Patrocinio della Regione Umbria
Edizione: Novembre 2013 Progetto grafico e videoimpaginazione: Chiara Gagliano Stampa: Digital Point (Ponte Felcino)
Tutti i diritti sono riservati Ogni riproduzione, anche parziale è vietata
ISBN: 978-88-96649-24-4
I QuaDErNI DEl VOlONTarIaTO, uN VIaggIO aTTraVErSO uN lIBrO NEl MONDO DEl SOCIalE
Il CESVOl, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. l’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. la collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento
a cura di Simonetta Marucci Associazione “Avulls�
la medicina integrata nel paziente oncologico
la medicina integrata nel paziente oncologico
Indice Presentazione N. Scarpelli Primario Responsabile Reparto Oncologia ed Oncoematologia Ospedale di Spoleto 10 Introduzione di Simonetta Marucci
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CAP. I - Il Malato Esperto parla ai medici sulla necessità della Medicina Integrata in Oncologia L. Guarneri - Malato Esperto 19 CAP. II - Esistenza e possibilità: la domanda Filosofica nel Paziente Oncologico Paola Bianchini- Filosofa 28 CAP. III - Curare vuol dire “Prendersi cura” Simonetta Marucci - Endocrinologa - Medicina Integrata 32 CAP. IV - Burn-Out Negli Operatori dell’equipe Oncologica: Fattori di rischio, prevenzione e interventi Leda Carciofi - Psicologa, Psicoterapeuta Cure Palliative 43 CAP. V - la morte nella medicina e le Cure Palliative F. Conforti - Coordinatore Servizio Aziendale Cure Palliative ASL 2 Umbria 51 CAP. VI - Qualità alla fine della vita: la torre sul colle M.S. Gallina - Responsabile organizzativo Hospice “La torre sul colle” ASL n2 Umbria 61
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CAP. VII - una Buona Occasione: l’atto di cura al termine dell’esistenza M. Venezi - Psichiatra, Omeopata 64 CAP. VIII - Come la Mente Modifica Il Cervello: Psiconeurobiologia dell’effetto Placebo M. Piccirilli - Cattedra di Psichiatria e Psicologia Clinica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Perugia, sede di Terni 78 CAP. IX - Il Protocollo Mbsr (Mindfulness Based Stress reductionCome terapia Complementare nella cura cel cancro B. Pescatori - Istruttore protocolli Mindfulness Based Centro Italiano Studi Mindulness 89 CAP. X - la Prevenzione dei Tumori attraverso il Cibo: Wcrf 2007 A. Villarini - Epidemiologa, Nutrizionista Istituto Tumori Milano 102 CAP. XI - Interferenti Endocrini E Salute umana: Il rischio Neoplastico C. Lubrano - Palma Specchia Dipartimento di Medicina Sperimentale “Sapienza” Università di Roma) 111 CAP XII- Il Trattamento Omeopatico: Dalla prevenzione alla palliazione - Franco Desiderio Specialista in Oncologia ed Endocrinologia Responsabile Prevenzione Oncologica Rimini Esperto in Omeopatia 113 CaP. XIII - I Fattori di differenziazione delle cellule staminali in Oncologia Pier Mario Biava Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Multimedica - Milano 130 CaP: XIV - la Prevenzione e il trattamento degli effetti collaterali indotti dalla radioterapia - Alberto Laffranchi Radioncologo Omeopata Istituto Europeo dei Tumori, Milano 144 8
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CaP XV- la Medicina antroposofica per un’oncologia della persona Emanuela Portalupi Oncologa Omeopata Antroposofa 163 CAP. XVI - Contributo dell’agopuntura e della medicina tradizionale Cinese nel trattamento del Paziente Oncologico - Lucio Sotte, Direttore di Olos e Logos: Dialoghi di Medicina Integrata www.oloselogos.it 166 CaP.XVII - Tumori ed attività fisica: “aspetti Preventivi e riabilitativi” - Primo Pensi Specialista in Medicina dello Sport 172 CAP. XVIII - agricoltura Biologica: questione di interesse strategico Nazionale Priorità e criticità nei Programmi agroambientali europei e regionali per la tutela dei diritti inviolabili alla salute ed all’ambiente Giuseppe Altieri, Agroecologo Docente Ordinario di Fitopatologia, Entomologia, Agricoltura Biologica Studio AGERNOVA - Servizi Avanzati per l’Agroecologia e la Ricerca. 178 CaP. XIX - le Fonti rinnovabili: Illuminare la propria casa o il proprio futuro? - Paride De Masi Imprenditore-Ingegnere Energie Rinnovabili 190 CaP. XX - l’eclissi di luna e quella del sole ovvero cosa siamo in realta’ quando ogni cosa ci sembra irreale. la floriterapia nello spazio-tempo del malato oncologico. Maurizio Lupardini - medico-chirurgo specialista in psichiatria psicoterapeuta. 193
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PrESENTaZIONE Mille nuovi casi di tumore al giorno nel 2012, oltre 2 milioni di persone con diagnosi di tumore nella vita e circa 1 milione di persone con diagnosi di tumore a cinque anni con il 33% di disabilità ed inabilità complessivamente riconosciute dall’INPS, e con il 4% della popolazione che ha avuto una diagnosi di tumore. un impatto socio economico, in termini di spese sanitarie e perdita di produttività, pari allo 0.6% del PIl e con un costo complessivo che supera gli 8 miliardi di euro: questo è il cancro. Tali dati testimoniano del fatto che il tumore rappresenta una patologia sociale. Esso richiede uno sforzo di adattamento da parte di chi il tumore lo subisce perché, dal lavoro alla assistenza, la società non è ancora in grado di dare quel supporto di cui ormai c’è urgente bisogno. Quando si parla di supporto, come afferma giuseppe De rita, “si intende qualcosa di molto articolato, che è fatto certo di assistenza diretta per i momenti più difficili, quelli post operatorio quando la non autosufficienza è alta, ma anche di forme immateriali, di tipo psicologico, di vicinanza umana, di sostegno, laddove tanti sono gli esiti psicofisici del tumore ai quali, per ora, risponde soprattutto la capacità di adattamento dei pazienti”. la sempre più approfondita conoscenza degli aspetti genetici ed epigenetici alla base della crescita caotica della cellula, che dà origine al tumore, se da un lato appaga la nostra curiosità scientifica, dall’altra distoglie la nostra attenzione e ci impedisce di alzare gli occhi dai nostri “microscopi” e di parlare con chi di quella alterazione è portatore. una diagnosi di tumore ha effetti dirompenti non solo nella persona che ne è affetta, avvicinando improvvisamente il suo orizzonte progettuale, ma determina un completo sconvolgimento dell’organizzazione sociale familiare che, attratta dalla forza centripeta della malattia, è costretta a rivedere, modificandola, la propria organizzazione. Questo rende ragione della necessità di un approccio quanto più multi disciplinare e multi professionale, che riesca a concretizzare il concetto di presa in carico globale del paziente on10
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cologico e che sia in grado di accompagnarlo nelle sue varie fasi di evoluzione della malattia. Questo impone un cambiamento culturale sia medico che sociale nell’approccio al paziente oncologico. al miglioramento sempre maggiore nella nostra capacità di diagnosticare il tumore nei suoi aspetti clinici, strumentali, istologici e genetici, non corrisponde un analogo miglioramento culturale nella gestione della persona affetta da una patologia oncologica e non risulta coeva la consapevolezza che la perdita di capacità di regolazione della crescita cellulare (il Tumore) è espressione di una nostra incapacità a riappropriarsi di un equilibrio di convivenza con il mondo in cui viviamo. aspetti apparentemente lontani, quali il controllo genetico ed epigenetico della crescita cellulare, e l’inquinamento dell’ambiente che pervicacemente perseguiamo, sono tra loro strettamente collegati. la capacità di gestione dei pazienti oncologici assume quasi il significato di una spia sul livello di civiltà e culturale di una società. la necessità di farsi carico delle varie sfaccettature di gestione della persona affetta da tumore, gestione tecnico specialistica, ma soprattutto la capacità di entrare nel vissuto di quella persona e di capirne gli sconvolgimenti e le reazioni che una diagnosi di tumore può determinare, rappresentano una necessità ineludibile. ritengo che molta di tale arretratezza dipenda da un deficit formativo della classe medica, troppo spesso arroccata su una visione eccessivamente biologica e di terapia basata sulla evidenza, trascurando un elemento fondamentale che è la capacità di ascolto del paziente e la necessità di assecondare le sue richieste, anche abdicando a trattamenti convenzionali a favore di interventi apparentemente meno ortodossi. Ciò richiede una visione non pregiudiziale ed un atteggiamento più interessato e curioso da parte del professionista. Come affermava Einstein “il cervello è come un paracadute funziona solo se è aperto”. Tutte le relazioni presentate nel libro, come frammenti di un puzzle, hanno affrontato il problema del tumore nei sui vari aspetti, diagnostici, terapeutici, evolutivi, preventivi, sociali, psicologici, ma tutti all’interno di una visione unitaria che ne esalta la in11
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terdipendenza dandone un quadro oltremodo definito e nitido. Spero che in un prossimo non lontano futuro si potrĂ parlare del tumore come una malattia guaribile non solo terapeuticamente ma dai pregiudizi sociali e culturali che ancora su di essa gravano.
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INTrODuZIONE
“...La sua ferita fioriva, il suo dolore Spandeva raggi, mentre il suo io confluiva Nell’Unità... ...In quell’ora Siddharta cessò di lottare Contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere pieno di compassione e simpatia, aderente all’UNITÁ...” Herman Hesse Siddharta, il futuro Buddha, errando in cerca della verità, offre se stesso in sacrificio per ottenere l’Illuminazione, per la salvezza di tutti gli esseri. Egli muore alla vecchia vita e “un nuovo Siddharta s’è ridesto da quel sonno”. l’Illuminazione gli giunge nell’intimo come comprensione intuitiva che l’uomo deve essere parte di un universo, dal quale smette di essere separato, ed alla fine capisce che quello che importa veramente non è “spiegare” il mondo, ma amarlo. l’Illuminazione richiede il sacrificio di sé, necessita di abbandonare il proprio Io, morire per rinascere ad una nuova vita che rappresenta la consapevolezza di una appartenza e non più una separazione rispetto all’universo. Odino, Dio scandinavo, alla fine del proprio ciclo, sacrifica se stesso per lasciare il posto ai discendenti. attis, dio frigio, si sacrifica per poi rinascere. 13
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Nell’antica grecia è Dioniso il dio che muore e rinasce, il dio del dolore e della morte ma che prelude ad una rinascita, ad un cambiamento rappresentato sì dal dolore che si prova a staccarsi dal passato, ma anche dall’ebbrezza dionisiaca di superare i limiti, dalla consapevolezza che per rinascere è necessario morire. Nel mondo egeo pre-ellenico erano, invece, gli alberi sacri ad essere sacrificati per simboleggiare la morte annua della vegetazione senza la quale essa non potrebbe rinascere. Nel mito, in tutti i tempi, si riconosce un simbolismo etico, una sorte di codice cifrato che suggerisce l’esistenza di una virtù universale, sottraendosi alla quale si va incontro alla morte. Il sacrificio di sé ha dovunque lo stesso significato di dono totale, in cui la vittima sacrificale dona se stessa per il bene di tutti. Consumato il sacrificio, torna a nuova vita, resuscita. gesù Cristo salva gli uomini attraverso la sua morte e resurrezione. un Dio che muore per sacrificarsi, dove la morte prelude però alla resurrezione ed alla Immortalità, rivela la fecondità del sacrificio volontario e dell’oblio di sé. la vita non è un fenomeno individuale ma un evento collettivo e la nostra stessa identità si costruisce sempre in relazione agli altri. Che l’uomo sia un “animale” sociale lo sanno tutti e nessuno potrebbe mettere in dubbio il fatto che, nella evoluzione, la costituzione delle società umane ha costituito un vantaggio per la sopravvivenza. Non tutti sanno, però, che alcuni studi hanno rivelato che l’altruismo e la generosità si associano ad uno stato di salute migliore e, addirittura, ad una maggiore efficienza del Sistema immunitario. Se poi dalle società degli uomini ci spostiamo a considerare le “società” di cellule, scopriamo che anche qui esiste una sorta di spirito gregario che, nella misura in cui i suoi componenti formano un insieme solidale comunicando tra loro e mantenendo il loro “patto”, garantiscono l’organizzazione della vita ed il suo svolgersi ordinato. la PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI), scienza che ci chia14
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risce le relazioni tra i grandi sistemi di regolazione dell’organismo, conferma che l’uomo è un sistema aperto, continuamente in comunicazione con se stesso e con il mondo, e che il suo equilibrio e la sua salute dipendono dalla capacità di mantenere comunicazioni e scambi di informazioni efficienti in tutto il sistema: dove la comunicazione si interrompe, dove il sistema si isola, lì si crea un terreno fertile per la malattia. Nel meccanismo di adattamento, nel plasmarsi della materia fisica, nel suo ricomporsi ed adattarsi, nel gioco costante tra la vita e la morte, è proprio l’ “altruismo” delle cellule che decidono di privilegiare l’interesse dell’organismo rispetto al proprio, che “scelgono” la cooperazione anziché la competizione, a permettere al sistema di vivere. l’apoptosi è una sorta di “suicidio” cellulare programmato ed è strettamente dipendente dai legami che ogni cellula stabilisce con le altre, un patto che permette ai vari organi di crescere, plasmarsi, auto-organizzarsi. grazie a questo “sacrificio” cellulare l’embrione può attuare la sua metamorfosi, ed è la morte cellulare che scolpisce gli organismi viventi e ne definisce le differenze. gli stessi meccanismi molecolari che possono provocare la morte cellulare, sono alla base della auto-organizzazione che caratterizza la vita. la vita quindi, non solo dal punto di vista sociale ma anche biologico, presuppone un’idea di legame, di vincolo sociale, di insieme finalizzato a garantire l’organizzazione del vivente. la cellula che sceglie di servire la logica della vita, rinuncia al proprio narcisismo ed antepone l’interesse generale del sistema di cui fa parte al proprio istinto egoistico di immortalità e di crescita illimitata. Per una cellula pensare in maniera individualista, al punto tale da spingersi moltiplicare se stessa indefinitamente, vuol dire isolarsi, perdere i contatti col sistema a cui appartiene, fino a provocarne la morte. una cellula siffatta, noi la chiamiamo “cellula cancerosa”: il cancro rappresenta per l’organismo una perdita di coesione, la rot15
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tura di un vincolo di solidarietà tra le cellule che lo compongono, tra le quali prevale la spinta egoistica all’autoaffermazione sull’amore e sul senso di appartenenza ad un insieme più ampio. Qualcuno potrebbe considerare azzardato, o quanto meno fantasioso, attribuire alle cellule delle pulsioni inconsce o addirittura un senso etico, eppure è proprio la scienza più moderna, rappresentata dalla PNEI, che ci conferma le influenze della Psiche addirittura sulle cellule del Sistema Immunitario che, come si sa, sono il baluardo principale nella difesa dell’organismo contro la trasformazione di linee tumorali. lo Psichiatra argentino luois Chiozza, caposcuola di una nuova Medicina Psicosomatica, afferma che il cancro riflette lo spirito della nostra epoca, che pensa e si comporta in modo individualista. la cellula che, anziché il sacrificio, l’apoptosi, sceglie l’autoaffermazione, prolifera fino ad uccidere l’organismo, così come l’uomo che, dimenticando di far parte di un ecosistema più ampio, assume nei confronti della natura un comportamento simile a quello della cellula cancerosa. Dietro alla malattia non c’è solo una predisposizione biologica ma anche un aspetto culturale e sociale, che diventa modalità di espressione del vivere: Freud affermava che, laddove predomina l’Io narcisistico, l’odio precede l’amore. Se questo è vero, allora la cura inizia al di là dell’individuo, nella società, in una convivenza solidale dove, per dirla con le parole di Siddharta, quello che conta è “ poter amare il mondo, non disprezzarlo, non odiare il mondo e me; a me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto”. Questa pubblicazione è il frutto di un Convegno dedicato alla Medicina Integrata in oncologia, durante il quale si è cercato di far dialogare gli aspetti tecnico-scientifici della Medicina Convenzionale con quelli della Medicina cosiddetta Non Convenzionale che oggi si stanno sempre più facendo strada, rispondendo ad una domanda di integrazione che non è più, oramai, solo dei pazienti 16
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ma anche dei medici. Dato il grande interesse suscitato dall’evento, abbiamo pensato di lasciare una testimonianza ed uno spunto di riflessione, nel considerare in questa, come in molte altre malattie, una componente talmente multifattoriale da rendere immediatamente evidente la necessità di un approccio integrato e multidisciplinare. abbiamo voluto ascoltare anche la voce dei pazienti, spesso trascurata, ed a loro vogliamo dedicare questa pubblicazione, destinando il ricavato ad associazioni di Volontariato operanti nell’ambito oncologico. un ringraziamento al CESVOl che ne ha reso possibile la realizzazione, e a tutti i relatori per il loro contributo.
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CaPITOlO I Il MalaTO ESPErTO Parla aI MEDICI Sulla NECESSITÀ DElla MEDICINa I NTEgraTa IN ONCOlOgIa Ludovico Guarneri Sono un malato esperto , mio malgrado, e sono qua perché ho una storia da raccontare. Il malato che ha una storia da raccontare spesso nasconde nella trama la vera causa della malattia. un vecchio medico guaritore che ho conosciuto negli anni settanta mi diceva: – la malattia nasce nell’anima si sviluppa nella mente e poi si impossessa del corpo ed è solo allora che c’è bisogno delle medicine – .Scoprire e sciogliere i nodi di quella causa profonda, quella che nasce nell’anima per intendersi, è il rimedio che rende il malato più forte della malattia e lo porta alla guarigione. Sono guarito, in questi giorni festeggio i miei primi 10 anni dall’autotrapianto del midollo. Ho vissuto sette anni, dal 1995 al 2002, insieme alla malattia; un linfoma non hodgkin follicolare, scoperto quando era già al quarto stadio. Ho scelto per curarmi in buoni ospedali, il Centro Tumori e il San raffaele di Milano. Sono andato a chiedere un secondo parere a Francoforte e presso lo Sloan Kettering di New York. Ho consultato medici ayurvedici, cinesi e tibetani. Ho avuto al mio fianco uno degli omeopati più bravi al mondo. Ho incontrato – nella mia carriera di malato esperto – medici curanti e attenti ma anche medici “incuranti” troppo impegnati a mostrare la propria bravura per poter perdere tempo a guardare negli occhi il paziente. Non odio i medici non ho risentimenti contro di loro, li ammiro. Penso sia il lavoro più difficile del mondo, ascoltare gli ipocondriaci, storie di vite ripugnanti e meschine e dovere lo 19
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stesso impegnarsi a guarire. Vivere sommersi dalle carte e assillati dalla burocrazia e , nonostante tutto, conservare l’amore per la cura Io ammiro talmente i medici che ne ho sposata una. E lei mi ha sposato sapendo che ero malato e che la mia malattia era definita “inguaribile”. Contro ogni evidenza e contro tutto quello che aveva imparato all’università e nella pratica quotidiana di medico ha accettato che io – ad un certo punto – rifiutassi le cure scientifiche che mi venivano offerte per provare un’altra strada, quella alternativa, o meglio, complementare D’altronde dopo 9 pesanti chemio, ho dovuto aspettare meno di un anno per vedere la malattia ricomparire sul mio corpo. E con questa recidiva attaccata al mio collo non volevo più essere rassicurato dai medici ma volevo la verità. alla domanda diretta fatta ad un ematologo del Centro Tumori di Milano su quali fossero le speranze di guarigione se mi fossi curato mi fu risposto: del 5%– E se non mi curo? Del 5% Decisi allora di vivere la ricerca della mia cura. avevo maturato un bagaglio enorme di conoscenza sulle terapie alternative e mi misi a cercare il rimedio per il cancro e non lo facevo solo per me ma anche per gli altri. avevo capito, osservando dal basso della mia condizione di ammalato, che la medicina non è una scienza esatta e che avrei dovuto prendere in mano il volante della mia macchina corpo che stava per schiantarsi contro il muro della morte. I medici che avevo incontrato fino ad allora cercavano di curare la mia malattia, io volevo curare me stesso. Studiando i giornali di oncologia trovati nella biblioteca medica di Francoforte scoprii che ad Heidelberg c’era stato un convegno sulle guarigioni inspiegabili dal cancro e trovai quel 5% di guariti che avevano rinunciato alle terapie ufficiali e ce l’avevano fatta. Ne parlavano i medici e i pazienti portavano le loro testimonianze. una dottoressa gravemente malata 20
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con metastasi aveva scelto il digiuno, la meditazione l’ayurveda e...ce l’aveva fatta! Io durante le prime 9 chemio avevo scoperto un tè degli indiani canadesi Ojibwa e la storia di un’infermiera straordinaria che, negli anni 30 dello scorso secolo, era riuscita – per otto anni – a gestire una clinica che legalmente e ufficialmente poteva mostrare una targa di ottone con scritto” Clinica per la cura del cancro” – e lì somministrava a malati rifiutati dalla medicina ufficiale il tè degli indiani. alla sesta chemio, con l’aiuto del tè, gli effetti collaterali si erano attenuati e gli esami del sangue migliorati. Mia moglie Margherita, col suo occhio clinico, mi incoraggiava a continuare a prenderlo e così arrivai alla nona chemio senza particolari problemi e con un’ottima forma fisica. ancora non lo sapevo ma, usando il tè, ero entrato a far parte di quel 60% di pazienti malati di cancro che all’insaputa del proprio oncologo fanno uso di rimedi alternativi. Ero così convinto della sua efficacia che scrissi il mio primo, urgentissimo, libro: “la formula di rene Caisse” che poi ho corretto e aggiornato nel corso degli anni fino alla definitiva settima edizione. È un libro molto apprezzato dai malati di cancro che contiene consigli che sono ancora validi 12 anni dopo la prima pubblicazione. Quando decisi di non curarmi più con le chemioterapie mi affidai a Caisse Formula insieme all’aiuto di medici ayurvedici e tibetani, omeopati e maestri di yoga. Queste sarebbero stati gli strumenti pacifici contro la malattia che mi stava palesemente attaccata al collo e fra le gambe con il suo tipico gonfiore. Prendevo sempre più coscienza che la malattia era parte di me – che la malattia ero io stesso e solo cambiando vita e modo di pensare avrei potuto sconfiggerla. Non bevevo vino né alcolici di nessun genere, non mangiavo carne, facevo yoga e praticavo la meditazione, viaggiavo e godevo dell’amore di mia moglie Margherita. In quel periodo di incertezza ci siamo anche sposati, come se nulla fosse. Durante quei tre anni senza terapie oncologiche che i medici – a posteriori – chiameranno “watch and wait” cominciai a scrivere un secondo libro autobiografico sugli sviluppi del mio vivere col cancro in cui anno21
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tavo gli incontri con i medici, i loro errori e la loro umanità, nel bene e nel male. Nel 2000 dopo tre anni vissuti in salute durante i quali la malattia era sotto controllo, improvvisamente si scatenò. Era diventata più forte di me. un’ecografia mostrava che il mio corpo era invaso da quei linfonodi che punteggiavano un drammatico aggravarsi del mio stato di salute. Seguendo il consiglio di mia moglie decisi di consultare alcuni ematologi e ripetere la stessa domanda di guarigione alla medicina scientifica moderna. Sapevo che da poco (in Italia dal 1999) erano stati introdotti nella terapia del linfoma i nuovi farmaci biologici come il retuximab. Seguendo un metodo intelligente, decisi di consultare più di uno specialista prima di decidere il da farsi. Ne consultai 7 – ricevetti risposte contraddittorie ma la maggioranza di loro consigliava il trapianto del midollo autologo qualora mancasse un donatore compatibile al 100%. Passai così nove mesi di ricoveri e dimissioni presso Ematologia del San raffaele di Milano. Mi ricoveravano in una stanza enorme tutta per me dove nessuno poteva entrare se non mascherato da persona asettica. Per nove mesi affrontai le chemio necessarie alla raccolta delle cellule staminali per poi effettuare il trapianto. In quei mesi incontrai la morte. un’infezione causata dal porter o catetere centrale, installato perché le mie vene erano distrutte dalle chemio, fece salire la temperatura del mio corpo a 42 gradi. Deliravo ed ebbi la chiara sensazione che stavo morendo. Non avevo paura, mi lasciai andare. la morte, come un alito di vento, mi passò sopra senza portarmi via. Fu una sensazione chiara, distinta, inequivocabile. Mi risvegliai e sorrisi per sciogliere la ruga di preoccupazione dalla fronte di mia moglie. Io avevo un computer portatile e sulle lenzuola scrivevo il mio libro che cresceva. Osservavo i malati che dividevano la stanza con me e ne descrivevo le paure, ne capivo lo smarrimento e insieme capivo quanto fosse importante l’affetto e la partecipazione che alcuni infermieri dimostravano. l’ospedale era come il mondo fuori – tutto da capire. Nel novembre del 2000 mi iniettarono in vena le mie cellule pulite dalla malattia. uscii dall’Ospedale distrutto 22
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ma con un midollo nuovo di zecca. Sei mesi dopo ricevetti una telefonata mentre smuovevo la terra del mio giardino prima che cominciasse a piovere. la seconda TaC di controllo mostrava delle lesioni ai polmoni. Dovevo tornare in Ospedale. Mia moglie ed io eravamo abituati a prendere delle decisioni immediate, eravamo diventati capaci di reagire subito – senza abbattersi. Tiziano Terzani mi dette tutte le informazioni necessarie ad avere una seconda opinione dal suo ematologo di New York, la dottoressa Portlock dello Sloan Ketering Institute di New York e angela Terzani ci procurò un appuntamento con un medico cinese di KuN MINg nella regione dello Yunnan in Cina. Tornai in Ospedale e vissi l’episodio più deprimente della mia storia di malato esperto. Mi ricoverarono con la prospettiva di fare una biopsia al polmone e definire la natura della malattia e mi proposero di fare una chemioterapia. Entrando nel reparto di trapianto del midollo avevo avuto la sensazione e il presentimento che ne sarei uscito morto. ragionando nella solitudine della stanza dove avevo trascorso lunghi inutili mesi in attesa del trapianto, presi una decisione – avrei rifiutato la biopsia per poter andare all’appuntamento di New York e solo dopo il parere della dottoressa americana avrei preso delle decisioni. lo comunicai al medico di riferimento. Così descrivo nel mio libro La cosa più stupefacente al mondo la conversazione col primario che io chiamo il dottor Zero: – “Evidentemente allarmati dalle mie decisioni si presentarono due camici bianchi, il medico responsabile della corsia, il dottor Ceneri e il nuovo primario il dott. Zero. “Ho sentito che vuole cambiare istituto!” Iniziò Zero appena entrato nella camera, me lo disse guardandomi con risentimento come se gli rubassi qualcosa, come se lo avessi offeso a morte, gli spiegai gentilmente che non mi fidavo più ciecamente dell’ospedale e prima di affrontare nuove chemioterapie volevo una seconda opinione, che era un mio sacrosanto diritto e che l’Istituto americano a cui mi rivolgevo era uno dei migliori del mondo, dissi che sarei tornato dopo il consulto e ripetei che non 23
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facevo la biopsia ai polmoni perché volevo intraprendere il viaggio in perfetta forma, senza dolori fastidiosi post operatori. Il dottor Zero disse che avrebbero provveduto all’operazione immediatamente che sarei stato pronto in una settimana e che sarei potuto partire per N.Y. subito dopo. gli dissi che sapevo cosa vuol dire levarsi un linfonodo dal collo e quanto tempo ci voleva per rimettersi, figuriamoci dopo una operazione ai polmoni. Era il 6 giugno l’appuntamento a N.Y. era fissato per il 22 giugno, Zero insisteva che una chemio era necessaria, anzi indispensabile e per rendersi più convincente disse: – “Signor Guarneri il 22 giugno potrebbe essere troppo tardi per lei”. Ero seduto sul letto, questi due medici davanti, uno che avevo considerato fino ad allora un amico, il dottor Ceneri e l’altro che sentivo essermi nemico, li guardai negli occhi e risposi: – “Io vado a New York e so benissimo che non è troppo tardi, ho aspettato tre anni senza curarmi nonostante il parere dei medici e so benissimo che il mio linfoma non è mutato, sicuramente non è diventato fulminante come vuol farmi credere lei in questo momento per spaventarmi. Questo vi sembrerà irrazionale, ma ho imparato ad ascoltarmi!”. Zero, indomito continuò ad insistere: “Se proprio non vuole fare la chemio si operi almeno, è un operazione facilissima una sciocchezza con i mezzi di oggi” “Se è una sciocchezza se la faccia lei, dottor Zero!” – Così andai in america dalla dottoressa Portlock che si aspettava di trovarsi davanti un mezzo cadavere e invece – sorpresa – mi disse subito: “Ma lei sta benissimo!” e con quelle parole mi somministrò la medicina che mi aspettavo perché quel”potrebbe essere troppo tardi” del dottore di Milano mi aveva intimamente turbato e aveva scosso quella volontà di guarire che è fondamentale per la riuscita di qualsiasi terapia. ad agosto tornai al San raffaele per fare 4 applicazioni di retuximab come consigliato dalla dottoressa americana. le metastasi ai polmoni sparirono. I medici del San raffaele non si misero mai in contatto con la dottoressa americana che si era resa disponibile a discutere qualsiasi dubbio con loro. l’atmo24
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sfera era cambiata, percepivo una certa ostilità malcelata da parte degli ematologi. Dopo andai in Cina da un colonnello dell’armata rossa figlio di una sciamana che ha fondato un ospedale dove cura il cancro con l’uso di rimedi erboristici. la diagnosi del medico cinese avvenne dopo avermi tastato il polso e indicato che il mio problema era nei polmoni ma che tutto sarebbe andato bene. Comprai una cura da prendere per sei mesi. In Cina avevano cominciato ad affliggermi dei dolori a tutte le articolazioni che in pochi mesi divennero talmente forti da ridurmi in carrozzella, spinta dalla mia straordinaria moglie. Dopo mesi di indagini una risonanza rilevò un linfoma di 12 centimetri nella tibia sinistra. Per fortuna un medico del San raffaele che mi era diventato amico, mi aveva consigliato di cambiare ospedale perché la mia fuga a N.Y. non era piaciuta al primario che nutriva verso di me sentimenti non proprio amichevoli. Mi disse: – “In tanti anni di professione non ho mai visto tanta acredine nei confronti di un malato.” Mi ero spostato in umbria dal professor Brunangelo Falini che prese la decisione pensando a me e non alla sua curiosità scientifica – niente biopsia ma radioterapia ad alte dosi. aveva posto il paziente al primo posto, al secondo posto la curiosità scientifica sulla natura delle cellule che interessavano la tibia. Ed eccomi qua 8 anni dopo, senza mai ricadute, col mio libro di testimonianze scritto e pubblicato in due edizioni diverse. Qualcuno dei vostri colleghi chiama questo tipo di libri Misery Reports. E li considera fuorvianti per il sapere scientifico. Io so che centinaia di malati, dopo aver letto i miei libri mi hanno scritto perché vi si riconoscono e perché si sono affidati a medici incuranti. li ho indirizzati, senza dare consigli medici, verso medici coscienti sia allopatici che complementari. Ho spiegato loro che nel momento che diventano pazienti di una aSl si trasformano in oggetto aziendale e che se anche a posteriori l’Ospedale dirà loro che le cure sono standardizzate e che dappertutto troveranno la stessa assistenza, nel momento del ricovero gli diranno invece che quella che hanno 25
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scelto è la migliore struttura possibile e la più avanzata. Non è vero che gli ospedali e le cure sono tutte uguali. Non essendo la medicina una scienza esatta è la capacità umana e professionale del medico di capire la peculiarità della persona malata a fare la differenza. Se io non avessi rifiutato le cure, se avessi accettato quei farmaci che mi venivano offerti nel 1997, nel 2000 non avrei potuto procedere al trapianto. È stata la medicina complementare e le buoni abitudini alimentari a ridarmi quella forza necessaria ad affrontare, tre anni dopo, 9 mesi di chemio ad alte dosi. Effetto placebo? anche questo è parte della cura. I buoni medici scatenano l’effetto placebo. Con cosa si misura l’efficacia delle nuove medicine? Chi studia l’effetto placebo? Come dice il dottor Morino della FIlE di Firenze, specializzato in cure palliative. “Non davanti né dietro al malato ma accanto a lui” È il reparto e chi lo gestisce a fare la differenza. un primario che pensa alla sua carriera più che ai suoi malati non sarà mai un buon primario e di conseguenza tutto il suo reparto sarà un disastro. la medicina integrata è una necessità dei malati oncologici, va istituzionalizzata perché in ogni caso il 60% di loro ne fa uso e, spesso, tacendo la verità all’oncologo. I malati finiscono nelle mani di stregoni e fattucchiere per colpa di quegli oncologi che guardano alle medicine complementari come un pericolo per il proprio potere. Quante sciocchezze vengono dette per terrorizzare il malato e indurlo a rinunciare alle erbe, all’omeopatia e tutte le altre terapie! Poi quando al paziente o ai suoi parenti viene detto: Abbiamo provato tutto non possiamo fare più niente – cosa resta? L’accanimento terapeutico? Le cure palliative ammesso che siano disponibili? E la speranza? Quella rimasta nel vaso di Pandora come unica risorsa per il genere umano? Non esiste la cura per il cancro, per tutti i cancri. Ma esistono i guariti nonostante prognosi negative. E allora non si possono vietare le strade che il paziente ha scelto di percorrere per gua26
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rire. Ben venga il reparto di medicina complementare presso l’ospedale di Merano. Il gruppo METECO del dottor alberto laffranchi che si è formato presso l’Istituto Tumori di Milano. Ben vengano congressi come questo dove si ascoltano i malati sopravvissuti. È importante chiedersi – cosa mi ha guarito. Io non so a cosa attribuire questa guarigione che i medici scientifici trovavano improbabile, alcuni mi dettero 20 giorni di vita altri tre mesi. Furono le medicine cinesi? O la miscela di erbe canadese? Fu il rimedio omeopatico o l’amore di mia moglie? Non lo sapremo mai e sinceramente per me non ha molta importanza. abbiamo ancora tanti misteri da svelare e come scriveva Tiziano Terzani – quando lo scienziato trova la chiave di una porta entra in una stanza con altre porte chiuse di cui dovrà trovare la chiave. Vi ringrazio di avermi ascoltato, per un malato è un sogno che un solo medico lo ascolti per 20 minuti, figuriamoci 100.
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CaPITOlO II ESISTENZa E POSSIBIlITÀ: la DOMaNDa FIlOSOFICa NEl PaZIENTE ONCOlOgICO Paola Bianchini una volta, mentre il violinista Itzak Perlman si esibiva in concerto,all’improvviso, è saltata una corda del suo violino. Tutti si aspettavano che sospendesse il concerto per sotituire la corda...non lo fece... . Continuò. Tutti sanno che è impossibile suonare una sinfonia con tre corde, ma quella sera Itzhak si rifiutò di saperlo e suonò...ricomponendo il pezzo dentro la sua testa. Quando smise di suonare, il pubblico rimase in solenne silenzio e si alzò in piedi... se ne andarono con la sensazione di aver assistito a qualche cosa che non riguardava solo la musica. Qualche volta non possiamo fare altro che far scoprire quanta musica sia ancora possibile suonare con ciò che resta. Questa metafora richiama ad una massima di un filosofo del ’900 Walter Benjamin: “quando si ha poco bisogna imparare a custodire il poco...e non è detto che questo poco non si riveli come il massimo che è possibile avere”. Vero è, che l’uomo vive nei confronti del mondo in uno stato ontologico d’indigenza: l’uomo è formatore di mondo, costruttore del valore della propria esistenza. Per questo ognuno vive in un suo mondo, la conoscenza del quale non è oggettiva ma frutto di interpretazione soggettiva alla quale contribuisce un intreccio di natura sia cognitiva che emotiva, pensieri e sentimenti una sorta di ermeneutica della vita: cioè della comprensione, della cura, intesa come indugiare intorno all’essere e alla vita dell’uomo. la persona umana rimane al centro della domanda filosofica sulle condizioni della sua esistenza: essere uomini è un processo sempre nuovo,non una mera ripetizione o un prolungamento del passato, ma un’anticipazione di cose a venire. Essere uomini è una sorpresa, non una conclusione scontata e il 28
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rapporto che l’uomo intrattiene con il mondo non è dato, scontato. Umwelt: l’animale vive nell’ambiente della propria specie, mentre l’uomo ha il mondo. l’esistenza umana si proietta sempre al di là di se stessa, si rivolge sempre ad un significato. la domanda fondativa è sul senso della propria esistenza: essere – nel – mondo non significa starci dentro come una cosa, ma assumere il mondo come orizzonte del progetto. l’esserci ek–siste nel senso stesso della parola, “sta fuori” ed “oltrepassa” la realtà in direzione della possibilità. L’essenza dell’essere umano è l’esistenza. l’esistenza si basa su di un patto di fiducia con il proprio corpo e con la propria salute e quando scopriamo che questa alleanza si è rotta ne veniamo immediatamente minacciati, qualcosa di nuovo ed imprevisto si frappone tra noi e il rapporto con la vita ed è il dolore del limite, di scoprirsi limitati, esseri finiti. Esiste un’esperienza solitaria nella vita di ognuno, ed è l’esperienza della malattia. al suo esordio è come scoprire di avere un altro corpo, diverso, minacciato violato. Non è quindi solo un corpo a soffrire, non è solo una persona, ma è come se tutto il senso della vita venisse messo in discussione da questa esperienza. la malattia è il lato notturno della vita, quella cittadinanza più onerosa che ci costringe, prima o poi, a riconoscerci cittadini di quell’altro paese. Se c’è la malattia, ci deve essere un colpevole. Forse perché la capacità di manipolare l’altro attraverso il senso di colpa è una delle abilità più coltivate dagli uomini, forse perché i sensi di colpa ci sono dolorosamente necessari, tanto da sentirci inadeguati ad affrontare la realtà senza la difesa che essi ci forniscono. resta il fatto che l’associazione malattia, morte e colpa risorge immutata da tutti i rivestimenti culturali che assume. Se c’è la malattia, ci deve essere un colpevole. Forse perché la capacità di manipolare l’altro attraverso il senso di colpa è una delle abilità più coltivate dagli uomini, forse perché i sensi di colpa ci sono dolorosamente necessari, tanto da sentirci inadeguati ad affrontare la realtà senza la difesa che essi ci forniscono. resta il fatto che l’associazione malattia, morte e colpa risorge immutata da tutti i rivestimenti culturali che assume. Fino 29
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ad arrivare alla versione moderna della colpevolizzazione del malato: la malattia colpisce chi non si impegna a conoscerla, ricorrendo alla sterminata offerta di screening, check–up e diagnosi precoci, o chi se l’è andata a cercare con il proprio stile di vita. la presunzione, si presenta come trionfo di una razionalità che promette il controllo sulla propria vita, non esita a fare ricorso a programmi “educativi” che riescono a far sentire in colpa o a disagio il soggetto che assume comportamenti giudicati non sani. la responsabilità per l’evento patologico, attribuita al medico, al familiare, o al malato stesso, rimbalza dall’uno all’altro, con protagonisti disposti ad addossarsi le colpe e altri determinati a cercare nuove spalle su cui farle ricadere. Tuttavia questi tentavi di razionalizzare li danno, la malattia, attraverso la colpevolizzazione si presenta come una seducente scorciatoia per rispondere alle domande che ci poniamo sulla malattia. Può darsi che dia le risposte che amiamo ascoltare. Ma le domande non sono quelle giuste. Ekner, noto poeta, dopo la morte della piccola figlia scrive questa poesia: Chi è ferito gravemente per strada, o in una guerra ingiusta, ha sì ragione di sentirsi amareggiato, ha ragione di lamentarsi, perché le fa l’uomo – guerre, bombe e congegni sono opera sua. Ma di questa – la malattia che hai, nessuno ha colpa, è venuta senza che potessimo sapere come. Puoi chiamarla disgrazia, puoi chiamarla Destino. Dobbiamo sopportarla, fare tutto il possibile per ridurre il male, per diventare migliori, un po’, quand’è possibile. Mi hai ascoltato in silenzio – per dire poi quello che dice tutto: «Una cosa così ti viene, perché si vive». Penso, quindi, che prendersi cura di una persona nel momento della sua malattia sia accoglierlo nel suo progetto esistenziale, restituirlo a quell’orizzonte di domande in grado di orientarlo in una delle sfide 30
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più importanti e che costituiscono la sua umanità. Prendersi cura è vedere il progetto esistenziale di quell’individuo e aiutarlo nel promuoverlo, nel chiarirlo. Prima di essere vissuta la vita deve essere pensata con adesione incondizionata e pienezza ricordando che: – Il reale non esaurisce tutto il possibile. Il passaggio dalla realtà, e quindi, dal suo orizzonte di scelte e da quello della possibilità è ben descritto da un pezzo di Musil: – Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è. Il cammino della storia dunque non è quello di una palla da biliardo che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciate, e giunge infine in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare. L’andamento della storia è un continuo sbandamento. Il presente è sempre un’ultima casa al margine, che in qualche modo non fa più completamente parte delle case della città. Ogni generazione si chiede stupita: chi sono io e chi erano i miei antecessori? Farebbe meglio a chiedersi: dove sono io. Saper accogliere la possibilità è accettare il rischio di vivere , ricordando il monito Socratico: – Una vita che non sia stata messa alla prova non è un’ autentica vita. affidiamo la conclusione della nostra riflessione dalle parole del filosofo Derrida: – Lo vogliamo o no, disponiamo di un numero incalcolabile di età, di ore e di anni, di storie intempestive, più grandi e insieme più piccole le une delle altre, attenendosi ancora l’un l’altro, saremmo incessantemente più giovani e più vecchi, in un’ultima parola: infinitamente finiti.
CaPITOlO III 31
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CurarE VuOl DIrE “PrENDErSI Cura” Simonetta Marucci Il rapporto dell’uomo col mondo ed il senso della sua esistenza, si realizzano attraverso la “cura”. Non c’è esperienza umana che possa prescindere dal prendersi cura, e non c’è sofferenza che non sia legata ad una mancanza di cura e di accudimento. Nella lingua inglese, così sintetica ed essenziale, troviamo ben tre diversi termini per indicare la malattia: si usa illness quando si vuole intenderne l’aspetto soggettivo, la sofferenza che essa comporta per l’individuo; con disease si indica la classificazione della particolare patologia da parte della scienza medica, mentre si utilizza il termine sickness per indicare l’aspetto sociale dell’essere malati, e come ciò possa influire sui rapporti interpersonali. Il più delle volte la Medicina si occupa solamente della malattia come disease, racchiudendola in una classificazione ed applicando ad essa delle terapie standardizzate in protocolli, trascurando gli aspetti esistenziali e sociali di essa, con la conseguenza di averne una visione ristretta e parziale. rimanendo nell’ambito della lingua inglese, oggi lingua ufficiale del mondo scientifico, essa ha, a fronte delle varie sfumature semantiche per indicare la malattia, un solo termine per significare la cura: to care traduce il curare, ma vuol dire anche “avere a cuore”, “prendersi cura”, “avere interesse”. Nel curare, inteso in questo senso, si travalica la semplice terapia, intesa come somministrazione di farmaci o la messa in atto di interventi che possano influenzare l’andamento della malattia, intervenendo sui suoi meccanismi biologici. Il senso che, nel mondo medico, si attribuisce convenzionalmente al termine terapia, si discosta però dal significato che esso ha, in origine, nella lingua greca di “servizio reso agli dèi ed alla verità”. Nel senso letterale profondo, che indica la modalità di fronte ad una malattia, è insita una idea di missione, che rappresenta molto di più della semplice somministrazione di un ri32
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medio chimico o di un intervento chirurgico. Il termine farmaco, a sua volta, ha una accezione ambigua di rimedio, ma anche di veleno, e viene inteso, comunque, come qualcosa che ha il potere di allontanare la malattia. Nell’usanza greca si indicava con questo termine un animale, utilizzato come “capro espiatorio”, che prendeva su di sé tutti i mali e li allontanava; ma pharmacos era anche una persona ritenuta portatrice di forze maligne, la quale, proprio per questo, veniva allontanata dalla città per salvare la popolazione (1). Il farmaco è, quindi, strumento di cura che diventa inseparabile dalla identità di colui che lo utilizza. Nella “cura” medica, che si indirizza verso un particolare stato fisico, mentale e sociale perturbato, l’aspetto razionale di chi si fa carico di essa non può essere disgiunto dal suo “sentire”, il pensiero deve incontrarsi con la sensibilità, ritrovando il vero senso del “medicare” inteso nel significato letterale che deriva dall’origine latina medèri, la cui radice indoeuropea med è comune anche al termine “meditare”(2). la Medicina, oggi, manifesta un grande bisogno di ricongiungere l’approccio biomedico con le Scienze umane, quali l’antropologia e la Filosofia, che ne hanno costituito le radici da Ippocrate in poi, e che possono contribuire al suo arricchimento, rendendola più adeguata alla domanda di salute, sempre più attenta ai vari aspetti della sofferenza. La cura del corpo Intorno al tema della salute c’è sempre grande interesse, anche da parte dei Mezzi di Comunicazione di Massa, i quali enfatizzano però la cura del corpo, del suo aspetto, della sua performance, in sintesi si occupano per lo più della sua esteriorità. la cura del corpo viene fatta passare per una sorta di “manutenzione” (3) della facciata, che viene ridotta ad una serie di “restauri”, finalizzati al disperato tentativo di fermare il tempo, medicalizzando anche processi fisiologici e del tutto naturali quali l’invecchiamento, la menopausa, interpretati spesso come malattie, cercando di esorcizzare, in tal modo, l’ango33
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scia legata allo scorrere del tempo verso la morte. In realtà, la ricerca del corpo ideale racchiude un giro economico che, oggi, sta superando forse anche quello della industria farmaceutica la quale, in ogni caso, si inserisce in questo delirio di modificazione del corpo proponendo, ad esempio, la tossina botulinica per spianare le rughe, nonché una serie sempre più nutrita di psicofarmaci che vengono proposti come un modo facile e sicuro per intervenire anche sui meccanismi della mente. Ci si interroga, sempre più, sul significato della cura e sul ruolo di chi cura, e si può capire bene come certe situazioni, come quelle sopra esposte, possano creare confusione. Per parlare di “cura”, allora, dobbiamo riprendere in considerazione gli obiettivi, i destinatari della cura, rimettendo al centro della relazione terapeutica l’individuo sofferente che si affida al medico per ottenere sollievo e beneficio. In questo senso anche la stessa malattia va riconsiderata nella sua dimensione di perdita di un rapporto armonico con il mondo e con la propria interiorità. Il curare assume, allora, il senso di ricreare una sincronia dei ritmi interni ed esterni, ricreare l’armonia partendo dal corpo sofferente, riconoscendolo come punto di incontro tra emozioni e percezioni. rivolgere l’attenzione alla sofferenza, piuttosto che alla malattia come evento biologico, ripropone un diverso significato della cura e della guarigione, non più come rimozione meccanica del male ed, eventualmente, delle sue cause, ma di recupero di un equilibrio globale fisico, psichico e sociale che corrisponde poi alla definizione di salute che ha dato l’Organizzazione Mondiale della Sanità. La Medicina tra Scienza e Arte Il Paradigma biomedico, di quella Medicina che ama autodefinirsi “scientifica”, non soddisfa più né i pazienti né i medici. Quando si utilizza il termine “scientifico”, esso si fa coincidere con il concetto di “convenzionale” e, spesso, si traccia una linea di demarcazione rispetto a discipline cosiddette “non convenzionali” che, come tali, 34
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vengono tacciate di non scientificità. Ma, cosa è scientifico in Medicina? la Medicina può definirsi “Scienza”? Secondo la tradizione cartesiana, è scientifico tutto ciò che è misurabile e riproducibile, e la Medicina, una volta acquisito tale modello, ha sempre più rincorso la osservazione e la misurazione di fenomeni oggettivi, possibilmente traducibili in cifre, applicando ad essi modelli matematici e finendo però per trascurare ed escludere dal proprio campo di osservazione tutto quello che non può essere quantificabile. la Medicina si occupa dell’uomo, dell’uomo sofferente e, certamente, non esiste una unità di misura da applicare alla sofferenza, soprattutto quando riguarda il profondo dell’Essere. Il fatto che, dell’essere umano, si possano misurare parametri quali la Pressione arteriosa, la Temperatura corporea o il livello di Colesterolo, non ne fa certo un essere misurabile nella sua globalità. la Medicina, rincorrendo lo studio del particolare, la superspecializzazione, ha finito col perdere di vista l’insieme, le dinamiche complesse psichiche, fisiche ed ambientali che sono alla base della maggior parte delle patologie osservate. Il Medico, per recuperare il fondamento della sua professione, deve prendersi cura delle situazioni di sofferenza appellandosi alla propria conoscenza ma anche deve coltivare la saggezza di avere sempre la consapevolezza del limite, sia il proprio che quello della medicina stessa. Sulla base di questo criterio, ad esempio, il medico può decidere, davanti ad un malato terminale, di interrompere l’accanimento di terapie invasive e rivolgersi ai bisogni emotivi del paziente e della sua famiglia. l’archètipo di questo tipo di Medico lo fornisce il Mito di Chirone. Il Mito rappresenta una sorta di storia interiore dell’uomo, in cui si compenetrano i sentimenti umani, le forze della natura e l’idea della trascendenza, e attraverso il quale gli uomini hanno cercato modelli che fornissero la spiegazione di eventi naturali e dinamiche psicologiche che non sapevano interpretare. Chirone è un Centauro, saggio ed esperto nelle arti, ed è lui che insegna l’arte medica ad Esculapio. Egli ha una profonda, dolorosissima ferita provocata da una freccia 35
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di Ercole, avvelenata con il veleno dell’Idra, che non può provocare la sua morte, poiché egli è di stirpe divina, ma che, essendo inguaribile, gli causa atroci sofferenze. Chirone è portatore di una profonda sofferenza, di una ferita sempre aperta, di un eterno dolore. Prometeo gli offre una via d’uscita dal dolore, proponendogli di porre fine alla sofferenza in cambio della sua immortalità, ed egli accetta di poter morire in pace. gadamer(4) prende in prestito il mito di Chirone, che egli chiama “il guaritore ferito”, per evocare una tipologia di Medico intimamente consapevole del dolore e della sofferenza, in quanto è egli stesso portatore di una ferita e, pur essendo esperto dell’arte del guarire, è contemporaneamente cosciente dei propri limiti. accetta, infatti, l’idea della morte, la condivide con l’uomo sofferente, lascia a Prometeo l’illusione della immortalità racchiusa nel sapere tecnico, ma persegue fino in fondo lo scopo di dare sollievo alla sofferenza. rinunciando alla immortalità, si cala a livello dell’uomo, e ne condivide la condizione di dolore e di finitezza: ritroveremo poi nella tradizione cristiana un Dio che sceglie di essere mortale, assumendo la condizione umana, e di donare la sua vita all’uomo che acquista, in questo modo, un attributo divino. Il medico-guaritore è consapevole del fatto che egli stesso può fare l’esperienza della malattia, ed è proprio quando questo si verifica che si trova a vivere il conflitto tra la pratica medica, legata alla tecnica, e le scelte legate ai bisogni profondi della persona nella sua complessità. Come Chirone, egli privilegia il sollievo dalla sofferenza al quale, accettando la morte, sacrifica il sogno prometeico di immortalità, per cui non si accanisce davanti al morente, ed impiega la sua arte per rendere meno doloroso il momento estremo. Il Medico diventa guaritore quando accetta la sua identità di “paziente”, quando non cerca di sentirsi estraneo alla sofferenza, e solo allora entra in un rapporto empatico con il paziente, riuscendo ad evocare il “medico” che è dentro ciascuno e che determina la possibilità di guarire. l’umanità e la soggettività del medico non sono ostacoli alla cura, 36
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bensì elementi fondamentali , insieme alle risorse tecniche, le quali riacquistano, però, il giusto ruolo di strumenti da utilizzare nel modo più opportuno, e solo nel caso in cui portino reale beneficio al paziente. anche in questo caso, il mito di Prometeo, che ruba il fuoco agli Dèi per donarlo agli uomini, diventa fortemente suggestivo del ruolo che la “tecnica” sta sempre più assumendo nell’ambito della Medicina. “Spensi all’uomo la vista della morte...poi lo feci partecipe del fuoco” (5): in questa frase del “Prometeo incatenato” di Eschilo è forse racchiuso il senso più profondo suggerito dal Mito. Il fuoco rubato e donato agli uomini rappresenta il sapere tecnico, che darà l’illusione della possibilità di dominare il mondo e di diventare immortali. Il Mito, nella sua simbologia universale, è validissimo ancora oggi, soprattutto se lo estrapoliamo al campo della Scienza e della Medicina: i progressi scientifici hanno raggiunto livelli impensabili, abbiamo la possibilità di entrare nella cellula, all’interno del codice genetico, nella “stanza dei bottoni” della vita. Si è però così finito per invadere campi che sono nel dominio della filosofia e dell’etica, creando una serie di problematiche che solo un nuovo ricongiungimento della Medicina con le Scienze umane, da cui deriva, potrà permettere di affrontare nel modo giusto. la stessa formazione del medico tende ad enfatizzare particolarmente gli aspetti tecnico-scientifici della professione, a creare grandi entusiasmi sulle biotecnologie (6) fino a proiettare su di esse ogni fantasia di vittoria sul male. Man mano, però, che la “tecnica” si è sempre più intromessa tra medico e paziente, la medicina, sedotta dalla tecnologia e preoccupata della propria scientificità, è diventata via via sempre più “scienza” e sempre meno “arte” di curare, considerando sempre più la malattia collocata nel corpo fisico, strettamente biologico, ed ignorando completamente che essa è fortemente integrata nella storia della persona malata, ed assume connotati esistenziali esigendo la risposta ad una domanda di senso, che la medicina non può dare. Il paradosso che oggi stiamo vivendo è che, più la medicina diventa 37
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tecnologicamente evoluta, avendo a disposizione strumenti sempre più raffinati e sofisticati, più appare incapace di assolvere il compito primario di dare sollievo alla sofferenza, non solo fisica, e di rendere anche la morte più umana... (7). Gli strumenti del “guaritore” gli strumenti tecnici sono senza dubbio importanti, ma il “guaritore” non esaurisce in essi il proprio intervento: la parola, il contatto della mano che può percepire i segni che il corpo esprime attraverso i sintomi, lo sguardo che comunica la partecipazione empatica, ed anche la Speranza, sono delle risorse importanti per tirare fuori le capacità di guarigione, che ogni essere vivente possiede e che favoriscono la vittoria sulla malattia, che non si sostituiscono ai farmaci, ma ne potenziano certamente l’efficacia. Nella alleanza col paziente il medico sa che non può essere lui solo l’artefice della guarigione, che può curare solo rendendo il paziente partecipe della cura, attivo nel combattere la malattia, aiutandolo a recuperare tale esperienza come parte della propria storia. anche il medico porta, nella relazione di cura, una parte di sé e della propria storia, porta la sua personale “ferita” e, quando il malato migliora o guarisce, si sente partecipe del sollievo e del benessere raggiunto. la relazione di cura rappresenta l’incontro tra due storie, ruota intorno alla aspettativa, comune ad entrambi, di trasformare la sofferenza in benessere. Entra in gioco la Speranza. anche qui il Mito di Pandora è fortemente suggestivo: Zeus dona agli uomini, attraverso la donna, Pandora, il famoso vaso da cui dovranno fuoriuscire tutti i mali che invaderanno il mondo, il quale conoscerà così le malattie, la vecchiaia, la morte. Nel fondo resta, però, la Speranza e Zeus ordina a Pandora di chiudere il vaso, per evitare che fuoriesca. anche se il Male si disperde nel mondo, la Vita, grazie alla Speranza, non è completamente buia e l’uomo scopre che la fatica, anche se penosa, è compensata da un premio e che Male e Bene sono inscindibili, 38
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come le due facce della stessa medaglia. Pandora stessa, la donna ingannatrice, così come Eva nella tradizione Cristiana, è anche portatrice di vita, sarà colei che permetterà alla vita di perpetuarsi. Nel Male, inteso anche come malattia, è spesso già insito il suo superamento: gli stessi sintomi rappresentano l’espressione della lotta che mette in atto l’organismo per tornare all’equilibrio omeostatico e, come tali, non devono essere considerati come semplicemente qualcosa da rimuovere, bensì da interpretare come necessari per il processo di risanamento. una moderna disciplina, la PsicoNeuroEndocrinoImmunologia ci fornisce la chiave di lettura di come l’individuo, allo scopo di preservare la propria integrità biologica, attivi un sistema di regolazione che coinvolge la Psiche, il Sistema Nervoso, il Sistema Endocrino ed Immunitario, finalizzato ad ottimizzare la reattività e l’efficienza dei meccanismi di sopravvivenza. Nella malattia, la Speranza di guarire, rappresenta uno stato mentale che può contribuire a cambiare il corso della malattia stessa, esattamente nello stesso modo in cui uno stato mentale negativo può aggravarne il decorso clinico. Compito del Medico è anche far leva su queste capacità di reazione, insite nelle dinamiche del Sistema Vivente, coinvolgendo il paziente nel proprio processo di cambiamento verso la guarigione, stabilendo con lui una alleanza verso il comune obiettivo di eliminare la sofferenza. In questo senso la malattia diventa, non uno spiacevole incidente di percorso, ma una occasione di cambiamento inscritta nella propria storia. Purtroppo, la Medicina cosiddetta “scientifica”, appella frettolosamente questo dato di fatto come “effetto placebo”, considerandolo una sorta di interferenza alla terapia farmacologica. Eppure, la realtà è che, quando il paziente si fida del proprio terapeuta, si attiva una reazione positiva che contribuisce a stimolare le capacità reattive e, lo stato mentale positivo che ne deriva, anche secondo il parere di alcuni studiosi, può addirittura funzionare meglio di pillole e pozioni... . Il paziente, nel momento in cui si affida al medico, prende coscienza 39
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della propria condizione di malattia ed avverte la fragilità che tale condizione implica, riconoscendo al medico il potere di guarire. Il guaritore è consapevole del suo ruolo, ma non lo considera un potere, bensì lo vive come una responsabilità rispetto al prendersi cura di colui che gli si è affidato, al farsi carico della sua sofferenza, condividendola ed utilizzando tutti gli strumenti tecnici e le conoscenze che gli appartengono. Egli sa di non essere onnipotente, ha già sacrificato l’immortalità a vantaggio del sollievo dalla sofferenza, è cosciente del fatto che eliminare il sintomo spesso non coincide con lo stato di benessere desiderato, e che anche gli strumenti tecnici più raffinati non possono eliminare il morire. Come Chirone, non si pone l’obiettivo di eliminare la morte, ma di alleviare il dolore e, riconoscendo in ciò la propria missione, non considera la morte come un fallimento e, soprattutto, non si accanisce contro di essa nella illusione di esorcizzarla. Il ruolo del guaritore raggiunge forse la massima sublimazione proprio quando egli, davanti al morente, riconosce la fragilità della condizione umana e la propria limitatezza, ma non rinuncia, in ogni caso, a prendersi cura di colui che gli si è affidato. Nel rapporto tra Medico e Paziente si configura sempre, comunque, la storia di un incontro tra due esseri umani e le loro storie. Certamente oggi i rapporti tra questi due soggetti sono falsati e resi più complessi dalla eccessiva burocratizzazione, che contribuisce a creare distanza, spesso diffidenza, che alza barriere insormontabili fino a rendere nemici quelli che dovrebbero essere alleati. Trafile burocratiche interminabili, moduli da firmare, spesso finalizzati a sollevare il medico dalle responsabilità insite nelle proprie scelte, un linguaggio criptico ed incomprensibile ai non addetti ai lavori, contribuiscono ad accentuare il distacco che, spesso, viene scambiato per atteggiamento professionale. Non possiamo trascurare di considerare la grave crisi di identità di cui oggi sta soffrendo il medico, il quale sembra aver progressivamente perso il senso del proprio ruolo, al punto da arrivare sempre più spesso a situazioni di vero e proprio conflitto con i pazienti. Si parla, insistentemente, di “umanizzazione” della Medicina, lasciando intendere, quindi, che 40
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essa è diventata in qualche modo, “disumana”... . Ippocrate, nel suo giuramento, che ancora tutti i medici pronunciano nel momento in cui si accingono ad iniziare la loro professione, sottolinea come la capacità “tecnica” sia inscindibile dalla virtù e dalla intenzione interiore di curare. In tempi non eccessivamente remoti, quando gli armamentari terapeutici erano veramente esigui e spesso inefficaci, il medico aveva in mano, spesso solo la propria presenza carismatica. Man mano che l’armamentario terapeutico è cresciuto, il medico ha erroneamente ritenuto che questo potesse sostituirsi completamente all’elemento umano, considerato spesso non più necessario. Nessuna epoca ha mai assistito ad un così grande progresso nel campo della salute e, paradossalmente, alla crescita esponenziale della insoddisfazione e della incomprensione reciproca tra medico e paziente, entrambi lacerati da questo conflitto. I medici, spesso accusati di prostituirsi al denaro ed al successo, sono al centro di campagne moralizzatrici, si sentono costantemente sotto accusa e, di conseguenza, assumono atteggiamenti di difesa, prendendosela coi malati, con la burocrazia che sottrae certamente tempo all’atto medico, con l’inadeguatezza delle strutture che spesso non permettono di far fronte alle richieste di pazienti sempre più “impazienti”. Il medico perde così la motivazione, l’idealità, non trova più soddisfazione nel proprio lavoro e, svuotato delle risorse emotive e personali, con la sensazione di non avere più niente da offrire, finisce col diventare cinico e distaccato spesso anche nella vita privata (7). Per ritrovare la sua dimensione etica, la Medicina ha bisogno di ripartire da una condivisione di valori ed obiettivi. la nuova domanda di salute implica un recupero della umanità del paziente, ma non può trascurare quella del terapeuta, affinchè l’atto medico torni ad essere frutto di una alleanza. Nel ritrovare un rapporto diretto col paziente, il medico deve avere il coraggio di prendere le distanze da tutto ciò che può essere di ostacolo a questo, anche a costo di perdere qualcosa in termini economici o di carriera, e correre il rischio di fare autonomamente delle scelte secondo “scienza e coscienza” come dètta il Codice Deontologico. Non si 41
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tratta, necessariamente, di rifiutare in blocco tutto ciò che riguarda il sistema di gestione della Sanità, basato essenzialmente su criteri economici, ma è necessario che esso torni ad essere un mezzo, uno strumento, e non un fine ultimo talvolta, addirittura, presentato con qualità etiche. la saggezza è la virtù che è richiesta al medico per conoscere ciò che è bene e metterlo spontaneamente in pratica, ed è su questi elementi che si rifonda il rapporto di alleanza terapeutica. Il Medico, nel recuperare la coscienza della propria dignità di “guaritore”, deve “essere” Medico e non semplicemente “fare il medico” e, come Chirone, il più saggio tra i Centauri, quando non serve più il “saper fare”, non deve rinunciare al “saper essere”. È solo lungo la strada della ricerca di se stesso che egli potrà ritrovare il suo autentico rapporto col paziente (8). Fonti e cenni bibiografici 1
Cfr. lalli N., Il placebo come perturbante, su web: http://www.nicolalalli.com/confronto/placebo.pdf. 2 Cfr., Stella a., Op.cit., Medicare e meditare, Ed. guerrini Studio, Milano 2001. 3 Cfr., guidieri r., La manutenzione, in Il sapere della guarigione, a cura di Donghi P., op. cit. 4 Cfr. gadamer H.g., Dove si nasconde la salute, raffaello Cortina ed., Milano, 1994 5 Eschilo, Prometeo incatenato, in Tragici greci, tr. it. Mandruzzato a., Sansoni, Firenze 1988 6 Con questo termine ci si riferisce a tutte quelle tecnologie che intervengono sul sistema vivente, modificandone delle caratteristiche: un esempio sono gli OgM, (Organismi geneticamente Modificati) e la Clonazione. 7 Cfr. good B.J., Gli studi culturali nelle bioscienze, nella biomedicina e nella biotecnologia, in Il Sapere della guarigione, (a cura di) DONgHI P., laterza, biblioteca culturale medica, Bari, 1996 8 Cfr. Spiro Hm., Hope helps: placebos and alternative medicine in rheumatology, in Rheum Dis Clin North Am, 1999 Nov, vol 25, n.4, pp. 85560. 42
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Capitolo IV BurN-OuT NEglI OPEraTOrI DEll’EQuIPE ONCOlOgICa: FaTTOrI DI rISCHIO, PrEVENZIONE E INTErVENTI Leda Carciofi Il burnout è una sindrome, che colpisce i professionisti dell’aiuto, quelle categorie di lavoratori che si occupano di alleviare il disagio e la sofferenza ad altre persone, cercando nel contempo di promuovere il benessere, attraverso il rafforzamento e la valorizzazione di atteggiamenti positivi verso il loro sé e gli altri. Il termine non è nuovo, lo si conosceva in gergo sportivo come stress accumulato dagli atleti. Tradotto in italiano con “bruciato”, “esaurito”, “cortocircuitato”, il burnout costituisce un rischio potenziale per tutti coloro che lavorano a contatto con la gente, proprio a causa degli innumerevoli ed intensi rapporti interpersonali che nella maggioranza dei casi risultano essere emotivamente carichi, tesi, caratterizzati da stati di ansia, di tensione, di aspettative e di ostilità. uno degli aspetti più caratteristici delle relazioni d’aiuto è costituito dal fatto che l’individuo, che si trova in uno stato di infermità fisica o psichica sentendosi minacciato dalla paura, dalla sofferenza, dalla morte, tende a mettere in atto un comportamento regressivo ed infantile e a nutrire delle aspettative quasi magiche nei confronti di colui che lo cura. la figura dell’oncologo, dell’operatore sanitario è troppo spesso considerata, più o meno coscientemente, come quella che ha nelle proprie mani il controllo della malattia, della vita e della morte.In questo contesto, l’eventuale fallimento di un intervento medico può scatenare risentimento e squalificazione nei confronti degli operatori. Nella ricerca dei fattori scatenanti del burnout ci si orienta sempre più verso una visione multidimensionale dove interagiscono più variabili. Se è vero che possono essere determinanti le condizioni lavorative intese come stili organizzativi, come soste43
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gno assicurato da colleghi e superiori e soprattutto come conflitti tra ruolo e atteggiamento personale, è altrettanto vero che le persone rispondono in maniera diversa alle situazioni stressanti in rapporto a caratteristiche di personalità e di stile di vita acquisiti. gli atteggiamenti positivi di ognuno di noi si consolidano se siamo capaci di affrontare difficoltà ed eventi stressanti utilizzando strategie adeguate. Questa capacità viene appresa a partire dall’infanzia con l’educazione e grazie alla relazione con le persone significative familiari. Non a caso tutti coloro che operano nel sociale utilizzano come modalità privilegiata il rapporto interpersonale, ed è proprio tale rapporto con il malato, associato a un intenso coinvolgimento emotivo per lungo tempo, che si logora, provocando il burnout. Ma prima di entrare proprio in merito all’argomento è opportuno fare un passo indietro e vedere, analizzare ciò che precede il burnout. uso come metafora il gioco del tiro alla fune. l’unica ovvia differenza è che ad essere colpita da stress non è una persona bensì la fune. È questa infatti, ad essere sottoposta ad una vera e propria pressione, trazione per l’esattezza, che ne mette alla prova la robustezza. Se la fune è sottoposta ad una trazione per essa tollerabile, si tende ma non si rompe. Se al contrario i contendenti posseggono un forza erculea o la fune non possiede la necessaria robustezza, essa inesorabilmente si sfilaccerà ed infine si romperà. Se analizziamo tale situazione, riscontreremo molte analogie con quanto viene chiamato stress. Stress deriva dal latino e sta a significare stringere. Qualora la situazione stressante sia classificata come sfida alla quale si sa reagire positivamente, si percepirà una sensazione piacevole che va sotto il nome di eustress,vale a dire stress benefico, positivo, caratterizzato da un incremento di attività e da performance positive nella relazione d’aiuto. Tale vissuto avrà delle conseguenze positive anche sul piano fisiologico. la stessa accelerazione cardiaca che solitamente viene giudicata come negativa, avrà una valutazione positiva.(...) l’opposto dell’eustress è il distress cioè lo stress negativo in cui le persone lamentano 44
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sintomi psicosomatici, insofferenza verso il lavoro e gli utenti, depressione, ansietà. Si ha distress quando si esprime una negativa, prolungata svalutazione a proposito della propria situazione lavorativa,si accusano sintomi psicosomatici, insofferenza verso il lavoro e gli utenti, depressione e ansietà. le possibili reazioni a questo disagio possono essere l’abbandono del posto di lavoro, l’assunzione di un atteggiamento negativo, cinico e distaccato verso l’utenza. I fattori che facilitano una o l’altra scelta sono legati alla filosofia di vita della persona, alla sua struttura cognitiva ed al suo senso di autoefficacia. Per quanto riguarda la struttura cognitiva si intende l’insieme di processi ed idee. I primi sono modalità mediante le quali veniamo a contatto con la realtà che ci circonda. le seconde sono dei convincimenti personali che tutti noi possediamo. a seconda della qualità dei processi e delle idee, saremo portati a valutare una situazione eustressante o distressante. uno stress cronico può portare allo sviluppo della sindrome di burnout. la sindrome di burnout è associata ai seguenti fattori di stress: sovraccarico di lavoro, tossicità dei trattamenti ed errori terapeutici, insoddisfazione in rapporto allo status professionale, debole gratificazione nella cura dei pazienti, mancanza di risorse materiali per un lavoro di qualità, mancanza di formazione alla comunicazione. Dal punto di vista socio – demografico i fattori predittivi di questa sindrome sono di avere meno di 55 anni e di essere celibe. allo stesso modo essa è più frequente negli internisti che nei colleghi radioterapisti e specialisti in cure palliative. È stato riscontrato che il lavoro nei reparti di cure palliative è meno stressante che nei reparti in cui si trattano malattie in stato acuto: nei primi gli obiettivi terapeutici sono più chiaramente definiti e più facili da mettere in pratica. risulta che coloro che sono più soggetti alla sindrome di burnout, usano come meccanismi di difesa fuga/evitamento, controllo di sè e controllo sugli eventi della vita e l’ambiente professionale; al contrario di coloro che usano meccanismi di pianificazione dell’azione, di rivalutazione positiva, di ricerca del sostegno sociale. 45
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l’uso di queste strategie anti – burnout lascia supporre l’apporto positivo di soluzioni offerte da un maggiore sostegno. anche il sostegno dell’equipe curante costituisce un’eccellente strategia di prevenzione, tale sostegno può essere formale, attraverso l’organizzazione di corsi di formazione e procedure di supervisione, o informale, attraverso l’apporto reciproco delle diverse personalità che compongono un’equipe e la coesione del gruppo di fronte allo stress. Nel 1976 Christina Maslach descrisse il burnout come “la perdita di interesse per la gente con cui si lavora” ovvero la tendenza a trattare i pazienti in modo distaccato e meccanico quando le richieste di lavoro diventano eccessive. l’anno successivo, la stessa autrice definì il burnout come una condizione in cui dopo mesi o anni di impegno generoso, gli operatori si “bruciano”, manifestano un atteggiamento di nervosismo, di irrequietezza o di apatia ed indifferenza fino al cinismo. Il burnout cominciò a delinearsi come una risposta emotiva per uno stress cronico caratterizzato da tre componenti: esaurimento emotivo, mancata realizzazione personale o realizzazione lavorativa e depersonalizzazione. ESaurIMENTO EMOTIVO: sensazione di continua tensione e di inaridimento nel rapporto con gli altri, viene percepito sia dal soggetto in burnout che da osservatori esterni quali colleghi ed utenti. la presa di coscienza dell’esaurimento emotivo può essere vissuto sia come assenza di emozioni sia come una continua tensione manifestata attraverso esplosioni di collera in seguito ad eventi che non hanno alcuna particolarità se non quella di essere la classica goccia che fa traboccare il vaso. la DEPErSONalIZZaZIONE è la risposta negativa nei confronti di chi riceve la prestazione professionale, caratterizzata da un distacco rifiutante ed ostile, il malato è considerato come fonte continua di insostenibili richieste. la depersonalizzazione sarebbe di tipo reattivo, costituirebbe il tentativo messo in atto per affrontare il nuovo stato di cose provocato dal sentire di avere esaurito le proprie risorse psicologiche. Nella relazione con l’utente questo atteg46
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giamento si sostanzia in un ritiro o un allontanamento di tipo sia psicologico che comportamentale. la depersonalizzazione costituisce un tentativo di rispondere all’esaurimento emotivo, accrescendo la distanza fra operatore e ambiente nel quale si trova ad operare, apre le porte alla riduzione della realizzazione personale. la rEalIZZaZIONE PErSONalE può essere descritta come la sensazione, la consapevolezza della diminuzione della propria competenza e del desiderio di successo, per cui non vi è più alcun entusiasmo, insorgono rabbia, frustrazione, senso di fallimento, desiderio di cambiare lavoro. la presa di coscienza della diminuzione della stima in se stesso come professionista va a rinforzare e ad amplificare il processo di burnout. In oncologia il burnout assume delle peculiarità collegate ad una serie di fattori specifici riguardanti in parte gli interventi degli operatori oncologici e in parte le risposte del paziente. FaTTOrI COrrElaTI alla SPECIFICITÁ DElla MalaTTIa Innanzitutto i fattori correlati alla specificità della malattia. la malattia tumorale ha degli aspetti peculiari collegati a una serie di luoghi comuni più o meno discutibili. I vecchi luoghi comuni di inguaribilità, ineluttabilità, imprevedibilità, sono ancora fortemente presenti nell’immaginario collettivo e quindi anche negli operatori. Il vecchio concetto di male incurabile è stato oggi messo in discussione dai progressi della ricerca e delle terapie, tanto che oggi prevale in molti la consapevolezza del cancro come malattia cronica. Nonostante ciò è ancora fortemente presente l’associazione “cancro uguale morte”, basata sull’impatto emotivo prodotto da decorsi a prognosi negativa, evolventi rapidamente all’exitus. Infine la malattia tumorale può determinare un cospicuo deterioramento fisico e notevoli alterazioni della personalità in individui che poco tempo prima erano integri ed apparentemente sani. 47
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FaTTOrI COrrElaTI aglI INTErVENTI DEglI OPEraTOrI ONCOlOgICI I fattori correlati agli interventi degli operatori oncologici sono dovuti alla natura dei trattamenti, alla relazione stabilita con il paziente e all’interazione con gli altri membri dello staff. la relazione stretta e continua con il malato sottopone gli operatori ad una pressione costante sul piano delle richieste terapeutiche anche nelle fasi terminali quando si deve passare da una fase curativa ad una palliativa. un altro fattore generante stress è la scarsa preparazione dal punto di vista delle cure globali. una preparazione rivolta agli aspetti medico – biologici ma non adeguata sul piano della gestione delle dinamiche relazionali. la umanizzazione delle cure pone al centro dell’attenzione la persona con la sua malattia e quindi anche gli aspetti psicologici, relazionali, familiari e sociali, oltre che tecnico – biologici, nella cura del malato. Può anche accadere che, a causa di esperienze e storie di vita simili, l’operatore si rispecchi suscitando coinvolgimenti. È complicata anche la modalità con cui si prendono decisioni cliniche. Durante le diverse fasi del trattamento si devono concordare diverse decisioni; dalla scelta di particolari indagini diagnostiche, alla scelta di particolari protocolli o interventi terapeutici. Tali scelte possono provocare dissensi e/o discussioni con il malato ed i famigliari, possono pertanto generare ansia e confusione tra gli operatori. Infine tutte le difficoltà connesse al lavoro in equipe multi disciplinare. FaTTOrI COrrElaTI allE rISPOSTE DEl PaZIENTE I fattori correlati alle risposte psicologiche del paziente costituiscono un altro grosso gruppo di fattori all’origine di burnout nel personale oncologico. le numerose reazioni del paziente alla diagnosi e all’impatto con la malattia costringono l’equipe ad una altrettanta varietà di risposte di contenimento e di gestione; dalla forte 48
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e costante dipendenza del malato dagli operatori che costringe lo staff ad una tensione terapeutica continua: • malati che manifestano idee suicidare • le reazioni del paziente alla morte e al morire che minano negli operatori il senso di invulnerabilità e li costringono a confrontarsi con il proprio morire. • l’equipe curante risulta fortemente coinvolta nel fronteggiare l’adattamento del malato agli scarsi risultati ottenuti, e dalla disperazione della famiglia. In tutti questi casi diventa indispensabile l’adattamento emozionale che viene raggiunto attraverso un processo di rielaborazione e di revisione interiore, che si svolge in tempi lunghi e che porta all’accettazione della reale esistenza di un limite alla vita. Questo processo non è lineare, poiché mette in gioco gli aspetti più profondi della persona connessi al senso e al valore della propria esistenza. In tali casi può essere fondamentale la supervisione ed il supporto in modo da garantire la continuità della soddisfazione di tali scelte professionali. gli interventi preventivi e terapeutici possono essere effettuati a diversi livelli: individuale, di gruppo, organizzativo. È consigliabile agire preventivamente. Tra gli interventi strettamente preventivi un posto a parte merita la selezione del personale, ipotizzata da vari autori anche se ancora in fase di studio. gli interventi individuali possono essere basati sul sostegno a ciascun membro dello staff curante. Particolare successo nella prevenzione e terapia del burnout ha incontrato il gruppo Balint, gruppo terapeutico guidato da uno psicoterapeuta e costituito da un insieme di operatori che si riuniscono per discutere delle problematiche emergenti dal proprio lavoro attraverso la discussione di casi clinici. l’azione preventiva sulla sindrome del burnout determinata dal gruppo Balint è identificabile in alcuni fattori: l’attenzione posta sulla relazione all’interno del49
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l’equipe e su quella operatore – paziente in particolare; l’effetto gratificante prodotto dal sostegno del gruppo anche sotto forma di suggerimenti e indicazioni specifiche per la risoluzione attiva dei casi; la preparazione all’esperienza emotiva col paziente attraverso l’apprendimento diretto di tutte quelle informazioni verbali e non verbali che sono presenti nel rapporto operatore – paziente e infine la discussione di tutte le problematiche specifiche del lavoro assistenziale compresi i rapporti con i colleghi, con i superiori e con l’amministrazione. Il gruppo Balint non si propone di modificare in senso terapeutico la personalità dei partecipanti, ma soltanto di facilitare un apprendimento emozionale e aumentare la capacità di riconoscere e di assumersi la responsabilità delle proprie emozioni. Per ottenere questo obiettivo è essenziale la capacità dei soggetti di mettersi essi stessi in discussione per poter diventare degli operatori competenti. Il gruppo Balint è un metodo supportivo in oncologia perché ha come caratteristica la possibilità di offrire coesione e confronto diretto tra gli operatori partecipanti, in modo da poter trovare nello stesso gruppo Balint una opportunità di rinnovare le proprie modalità di approccio con il malato. gli operatori all’interno di tale contesto hanno l’opportunità di sperimentare, attraverso un contributo specialistico, una condivisione dei vissuti legati all’attività.
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Capitolo V la MOrTE NElla MEDICINa E lE CurE PallIaTIVE Fabio Conforti È diffuso convincimento cha la società contemporanea tenda ad esorcizzare la morte rimuovendola dalla vita quotidiana e da ogni occasione di discussione pubblica. In verità la morte viene ben rappresentata, spesso spettacolarizzata soprattutto a livello mediatico, come evento violento, ma nella riflessione personale è molto più facile scacciarne il pensiero piuttosto che approfondirlo ed interiorizzarlo, fino a costituirsi in molti, a livello cosciente, una vera e propria paura della morte (1). Tuttavia alcuni indizi sembrano sollevare molti dubbi sulla realtà di questa rimozione e sulla supposta diffusa tanatofobia. Basti pensare ad esempio al crescente favore del pubblico per il cosiddetto testamento biologico (o direttive anticipate), nei Paesi dove è stato già introdotto o anche in Italia dove viene dibattuto in diverse proposte di legge (1). Ma anche altri delicati temi che riguardano la bioetica di fine vita, come l’eutanasia, il suicidio assistito, l’accanimento terapeutico o la sospensione dei trattamenti, trovano nell’opinione pubblica notevole interesse. Comunque, al di là di ogni considerazione sociologica, è innegabile che oggi la morte per malattia, quella cui la maggior parte di noi andrà incontro, appare sempre più medicalizzata, confinata nelle istituzioni, e la sua gestione viene delegata in modo pressoché esclusivo agli operatori della sanità. Questi ultimi, i medici in primo luogo, sembrano, però, avere come obiettivo prevalente, se non esclusivo, la difesa ed il prolungamento della vita, considerando la morte un nemico da combattere con ogni mezzo ed il suo verificarsi una frustrante sconfitta (1). Orbene questo obiettivo, che potrebbe essere concretamente perseguibile ed adeguato nel contesto di molte malattie acute, mal si concilia con la 51
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fase avanzata di quelle malattie croniche evolutive irreversibili di cui la morte è diretta ed inevitabile conseguenza e nella quale il problema principale diventa quello di riuscire ad assicurare al malato la miglior qualità di vita residua possibile compatibile con la malattia, e, quando la fine si annuncia imminente, ricercare una morte il più possibile serena (2). D’altra parte è noto che, a differenza dal passato, in conseguenza del progresso scientifico dell’ultimo mezzo secolo e dell’accresciuto potere medico sui processi biologici, nonché per la maggiore attenzione alla prevenzione di eventi acuti o traumatici potenzialmente letali, oggi la morte è sempre meno spesso un evento improvviso. Essa è invece più frequentemente l’esito di un processo morboso irreversibile più o meno lungo e più o meno prevedibile. In questi casi, però, la morte ha perduto, in una certa misura, il suo antico carattere di inesorabilità, dato che, anche nelle malattie a prognosi infausta, la moderna medicina è in grado di prolungare il processo del morire, spesso ricorrendo a sofisticate terapie invasive vicarianti funzioni vitali irrimediabilmente compromesse(1). È comune osservazione che negli Ospedali la quasi totalità dei decessi è preceduta e condizionata nella sua modalità da decisioni mediche di varia natura. Questa medicina, che potremmo definire causale o della guarigione, dunque, si configura e si atteggia come l’antagonista della morte, imponendo una visione della vita nella quale prevale il messaggio dell’allungamento del tempo da vivere, rispetto a quello di un miglioramento della sua qualità non solo fisica ma anche spirituale. l’effetto è che la medicina della guarigione, della vita, tende sempre di più a diventare inumana, freddamente ipertecnologica, efficientista, parossisticamente competitiva, in cui il malato finisce per costituire, in questo dramma, poco più che l’occasione e il campo di battaglia per la contesa (3). Conseguenza di ciò è il fatto che sono divenute sempre più frequenti quelle situazioni che, in modo forse superficiale ma efficace, vengono definite “infernali” o “prive di dignità”, per le quali da più parti si invoca l’accezione di “accanimento terapeutico” e che periodicamente af52
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fiorano alla consapevolezza pubblica attraverso casi clamorosi (vedi il recente “caso Welby”). appare altresì evidente che la medicina moderna, frutto di quella cultura e di quella formazione scientifica fondata sulle sempre maggiori conoscenze di genetica, biologia, fisiopatologia, immunologia, farmacologia e biotecnologia, costantemente rivolta alla guarigione o al controllo della malattia, “questa straordinaria medicina curativa, di cui siamo giustamente fieri e che vogliamo promuovere e potenziare, non è adatta ad assistere il paziente che muore. Per questo – afferma Sandro Spinsanti – oggi si muore così male” (4). I più recenti progressi della medicina, lo sviluppo della chirurgia dei trapianti, le nuove scoperte sul genoma umano, l’allungamento della vita media con un progressivo aumento delle persone anziane e dei malati cronici e, conseguentemente, della possibilità della maggiore incidenza di sofferenze, hanno obbligato ad una revisione del concetto “vitalista”, considerando come riferimento non più solo la conservazione della vita ad ogni costo, ma anche e soprattutto la sua qualità (intesa nel senso pieno del suo valore esistenziale, interpersonale, sociale) (5). le critiche e la consapevolezza della futilità, quando non addirittura del danno, di terapie rivolte al mero sostegno di funzioni vitali irrimediabilmente perdute hanno recentemente messo in discussione l’uso di tecniche rianimatorie o farmacologiche che non abbiano il senso di allungare sì la vita, ma curando contemporaneamente la malattia primitiva. Ciò ha anche messo in discussione l’assunto oltranzista secondo cui “la medicina è fatta per guarire e combattere la morte”, dimenticando che è suo compito anche “curare” (prendersi cura), lenire la sofferenza rispettando il senso della vita. Malgrado le tante riflessioni etiche, filosofiche e le continue esortazioni, sembra che “l’attivismo terapeutico” sia difficile da rimuovere (5). ancora oggi la medicina, nelle università, viene insegnata come la scienza che può sempre meglio combattere le malattie, ma non come strumento per “curare” nel senso più ampio. ai medici, almeno nel nostro Paese, non si insegna 53
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come muoiono le persone, e cosa è più opportuno fare di fronte ad una persona morente. Era pertanto necessario che qualcosa si muovesse per far breccia prima nella coscienza e poi nella cultura di chi, “non sapendo più cosa fare” di fronte al malato non più guaribile, utilizza tutte le sue risorse, nella migliore delle ipotesi, in un inutile attivismo terapeutico, o, peggio, si rifugia nella totale rinuncia alle cure, abbandonando il morente alla sua sofferenza e al suo destino, presentando invece un modo più corretto di affrontare la fase finale della vita. È con questa premessa che nascono e si sviluppano in Europa prima, poi anche in Italia, le cure palliative, dall’iniziativa di Dame Cicely Saunders, infermiera e assistente sociale, alla quale si attribuisce il merito di aver fondato negli anni ’60 il primo Hospice moderno, il St. Chirstopher Hospice a londra. (6, 7). Partendo dal concetto di “dolore totale”, si è cominciato a parlare di bisogni del morente, evidenziando quelle necessità difficili da quantificare, ma che, se disattese, non permettono ai malati di vivere dignitosamente la loro malattia. la medicina delle cure palliative sposta l’obiettivo dalla malattia alla qualità della vita che resta, dalla terapia causale al prendersi cura, porge attenzione alla sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica, sociale, spirituale, accompagnando la persona inguaribile fino all’incontro con la morte, che viene accettata come componente irremovibile dell’umana vicenda e che diventa solamente lo scenario di riferimento rispetto al quale il malato riguadagna la posizione di protagonista, come persona, come soggetto morale (2, 3).Malgrado però con il tempo si sia affermata una generale condivisione riservata ai principi fondamentali delle cure palliative, la loro diffusione appare ancora oggi fortemente ostacolata in primo luogo perché queste, fondando la loro ragione sulla accettazione della inguaribilità e della morte, vengono percepite come antagoniste, alternative, o persino eretiche, da quella medicina moderna, trionfalisticamente interprete dei successi nella ricerca e nella lotta alle malattie, che rappresenta in questo senso il versante otti54
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mistico della scienza e quindi l’unica meritevole di promozione, di impegno professionale e di risorse finanziarie. Inoltre intorno alla medicina palliativa sono sorti numerosi fraintendimenti, tra cui quello che vede nelle cure palliative un atteggiamento arrendevole, pavido, rinunciatario, pietistico, caritatevole, privo di contenuti scientifici ed a basso grado di professionalità e competenza, o, peggio, quello che attribuisce alle cure palliative il sospetto di favorire pratiche eutanasiche (8). Le cure palliative in oncologia Nonostante gli innegabili successi ottenuti dalla medicina in campo oncologico, grazie alla moderna chemioterapia, allo straordinario sviluppo della radioterapia e della chirurgia, ma soprattutto attraverso il miglioramento degli strumenti diagnostici e la loro diffusione, che hanno condotto alla precoce identificazione di soggetti malati e quindi ampliato le probabilità di successo terapeutico, aumentando la sopravvivenza e le guarigioni, il numero assoluto delle morti causate dal cancro è in costante aumento. I dati ufficiali sulle cause di morte in Italia forniti dall’Istituto Superiore di Sanità (che a sua volta trae la sua fonte dall’ISTaT), riferiti agli anni dal 1982 al 2004, di cui gli ultimi due dichiarati provvisori, mostrano risultati non certo entusiasmanti (9). Il numero complessivo dei decessi causati dal cancro, a fronte di una popolazione residente sostanzialmente stabile, è passato da poco più di 127.000 nel 1982 a circa 151.000 nel 1992 a più di 162.000 nel 2002 ed oltre 164.000 nel 2004. (Fig. 1). la spiegazione di ciò è principalmente da ricercare nel notevole incremento della incidenza delle neoplasie maligne favorita almeno in parte dall’aumento della vita media della popolazione e forse anche dalla maggior esposizione ad agenti cancerogeni tipica dei paesi industrializzati ad elevato tenore socio economico, anche se quest’ultima ipotesi non è da tutti condivisa (10). 55
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Fig. 1
Ma ciò che è rilevante sottolineare è la modalità con cui il cancro conduce alla morte del soggetto colpito. Infatti questa non si verifica quasi mai in modo improvviso ed inatteso, ma nella gran parte dei casi si annuncia come esito finale di un progressivo decadimento delle condizioni generali accompagnato da riduzione del performance status e dalla presenza di sofferenza legata a sintomi fisici invalidanti (tab 3) e a dinamiche psicologiche, emozionali, sociali e spirituali, che conducono di fatto ad un peggioramento della qualità della vita residua. Questa fase di malattia della durata variabile e difficilmente prevedibile, ma generalmente compresa tra qualche settimana e pochi mesi, è definita ormai in tutto il mondo come fase terminale. Numerose affezioni patologiche diverse dal cancro conducono ad una morte annunciata quale inevitabile ed inarrestabile evoluzione del processo morboso, ma soltanto nel cancro si assiste ad una condizione terminale caratterizzata da un periodo di relativo benessere seguito da una fase di rapido declino, che quindi appare ben identificabile ed ampiamente studiata (11) (Fig. 2).
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Fig. 2
Il malato terminale viene definito dalla European Association for Palliative Care come un “soggetto affetto da malattia evolutiva irreversibile, di cui la morte è diretta ed inevitabile conseguenza, nella sua ultima fase, quando le terapie finalizzate al controllo della malattia non sono più efficaci o sono divenute sproporzionate” (12). In questa fase le terapie oncologiche specifiche risultano spesso inutili, se non addirittura dannose, generalmente incapaci di ottenere concreti benefici in termini di prolungamento della sopravvivenza e di miglioramento della qualità di vita. Occorre pertanto modificare l’approccio alla persona malata concentrando gli sforzi e l’attenzione sulla sofferenza piuttosto che sulla malattia, accettando nel contempo l’inevitabilità della morte (3). E le cure palliative (o “end of life care”) appaiono la risposta più adeguata (13). le cure palliative sono state definite nel 2002 dall’OMS come:...un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie in57
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guaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale (13). le cure palliative, quindi, forniscono gli strumenti per il controllo della sofferenza fisica, attraverso la migliore gestione dei sintomi (Fig. 3), integrando gli aspetti psicologici e spirituali della cura dei pazienti ed offrono un sistema di supporto per aiutare i malati, quando possibile nel loro contesto familiare e comunque sempre nel rispetto della loro autodeterminazione, a vivere nel modo più attivo possibile fino alla morte che di fatto non viene ritardata né affrettata. Fig. 3
utilizzando un approccio multidisciplinare in èquipe, le cure palliative rispondono ai bisogni dei malati e delle famiglie, offrendo, quando necessario, un intervento di supporto nella fase di elaborazione del lutto (13). Deve essere sottolineato e sempre più sviluppato il concetto che le cure palliative sono un intervento che può e deve essere reso disponibile durante tutto il percorso clinico, quindi anche contemporaneamente alle fasi nelle quali vengono praticate cure specifiche per il controllo della malattia, per diventare poi 58
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l’unica offerta di cura nelle situazioni più avanzate, quando la morte si annuncia inevitabile ed imminente (Fig 4). (11). Fig. 4
Nel corso degli anni le cure palliative hanno sviluppato una grande competenza nel controllo del dolore e degli altri sintomi, nonchè nella gestione complessiva del paziente nelle fasi avanzate di malattia, e per raggiungere tale obiettivo il ruolo della formazione specifica ha assunto la massima rilevanza (13, 14), non soltanto sul versante clinico, ma anche e soprattutto su quello relazionale, etico, psicologico ed antropologico. È infatti fondamentale migliorare nei diversi operatori sanitari non soltanto le conoscenze, ma soprattutto gli atteggiamenti, i comportamenti e le competenze professionali. un modello vincente per l’erogazione di cure palliative di buona qualità è stato quello di concentrare tale acquisita competenza in team multiprofessionali, costituiti da medici esperti, infermieri, psicologi, assistenti sociali, fisioterapisti, collaboratori non professionisti, ed altri ancora, tutti coordinati tra loro, che lavorano in diversi ambiti, negli ospedali, negli hospice, nei sevizi territoriali. Il ruolo di questi team è quindi quello di prendere in carico il malato fornendo sistemi organizzati di sollievo, garantendo un sostegno globale ai malati ed alle loro famiglie, migliorando la gestione dei 59
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sintomi e ottimizzando la collaborazione con la medicina di base non specialistica. (13). Fonti e cenni bibliografici 1. Forum Italiano per le Cure di Fine Vita Manifesto delle cure di fine vita. 2005 2. Beltrutti D. Il sofferente in fase terminale: la sfida dell’assistenza domiciliare. Quaderni di cure palliative. anno VII n° 1. 1999 3. Corli O. Una medicina per chi muore. Ed. Città Nuova Editrice 1988 4. Spinsanti S. Per un Ospedale più umano Ed Paoline, Milano 1985 5. Di Mola g. Ricordare o dimenticare il malato. Quaderni di cure palliative. anno I n° 3. 1993 6. Caraceni a. Intervista a Cicely Saunders. la rivista Italiana di Cure Palliative. N° 3. 2005 7. Saunders C. l’assistenza ai malati incurabili. Milano. Jaca Book, 2004 8. Mercadante S., C. ripamonti. Medicina e cure palliative in oncologia. Ed Masson 2004 9. www.iss.it/site/mortalita/ 10. le Fanu J. Ascesa e declino della medicina moderna. Ed V&P Milano 2005 pag 421-428 11. lynn J., adamson DM. Living well at the end of life: adapting health care to serious chronic illness in old age. arlington, Va, rand Health, 2003 12. European Association for Palliative Care. Newsletter n° 1. 1989 13. WHO. Suffering at the end of life. The state of world. Ed. by WHO Denmark. 2004 14. Corli O. Le Unità di Cure Palliative e le Organizzazioni non profit nell’Italia del 2000. gPa Edizioni Milano ottobre 2000
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QualITÀ alla FINE DElla VITa: la TOrrE Sul COllE M.Stefania Gallina l’inaugurazione della “Torre sul colle” il 10 ottobre 2007, primo Hospice della regione ad aprire è stato un giorno di festa per tutti. la legge 39/99 ha portato alla realizzazione di circa 200 strutture dal 1999, anno in cui ne erano attivi solo 5. Essi rappresentano la risposta del SSN e del SSr ai bisogni delle 250000 persone malate che ogni anno giungono alla fase finale della vita. Nella fase di realizzazione della struttura sono state di guida le parole di Cecily Saunders (fondatrice del movimento degli Hospice)...“per assistere adeguatamente i malati ricoverati si sarebbe dovuto badare ai minimi particolari per offrire una piacevole sensazione di serenità e fare in modo che il paziente e la sua famiglia si sentissero a proprio agio come a casa propria...”. Il nostro Hospice è infatti, prima di tutto, una casa in cui si viene accolti con professionalità e calore. “la torre sul colle” è struttura residenziale, rappresenta un’offerta socio-sanitaria con bassa tecnologia, ma con elevata“intensità assistenziale”. Si propone come alternativa all’abitazione della persona ogni qualvolta vi siano situazioni non più gestibili a domicilio, sia che si tratti di sintomi dovuti alla malattia difficili da gestire a casa o di esigenze di altro genere. Il modello organizzativo dell’Hospice attua modalità operative, relazionali e ambientali che rispecchiano questa filosofia di cura fondata sull’ascolto e sulla comprensione dei bisogni, delle aspettative delle persone e delle loro famiglie, sulla personalizzazione degli interventi, sull’attenzione ai particolari per creare il più possibile un clima accogliente. l’Hospice si propone di dare sollievo alle famiglie offrendosi come sostituzione residenziale temporanea, rendendo partecipi del piano di cura sia la famiglia che la rete amicale, ed è destinato all’ospitalità delle persone con 61
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malattie in fase avanzata a rapida evoluzione, per le quali ogni terapia finalizzata alla guarigione della malattia di base non è possibile. È un luogo ad alta specializzazione per quanto attiene la gestione dei sintomi fisici e psicologici, e dove si considera il malato primariamente come una persona. È al tempo stesso un ambiente confortevole nel quale stanze singole e personalizzate, e la creazione di spazi di accoglienza per ospiti e familiari, permettono il rispetto della privacy e attenzione ai bisogni primari. un luogo dove si tutelano i bisogni psicologici di sicurezza e di appartenenza al proprio nucleo familiare, amicale garantendo elevata qualità dell’assistenza e relazioni umane autentiche, indispensabili per favorire il mantenimento di una dignitosa qualità della vita. la torre sul colle ha 7 posti letto ,in camere singole con bagno privato e angolo soggiorno. l’area di socializzazione è a piano terra,con la cucina,la cappella, la sala cordoglio. Dal 2007 sono state ricoverate 310 persone del territorio aziendale (Spoleto, Foligno e Valnerina)di diversa età ,nazionalità ,con situazioni familiari molto diverse che hanno impegnato molto la nostra equipe di medici palliativisti, infermieri,operatori socio-sanitari,assistente sociale,psicologa e volontari. l’organizzazione si avvale della collaborazione dell’associazione di volontariato Aglaia che da anni è integrata con il servizio aziendale di cure palliative; i volontari sono presenti quotidianamente nella struttura con funzioni diverse svolgendo una insostituibile attività di sostegno ai malati e ai loro familiari. Il lavoro in equipe permette di sostenere il malato e la sua famiglia attraverso un approccio multidimensionale ,di comunicare ,di dedicare tempo all’ascolto,di riuscire ad avere intimità con il malato e tutto questo migliora la qualità della vita .Il supporto olistico cioè il conforto spirituale, psicologico, il contatto fisico delle ultime ore di vita è molto importante. l’ultimo periodo della vita è appunto quello dove tutto questo deve essere più intenso e poi continuare per chi rimane con l’assistenza al lutto e il cordoglio. I nostri pazienti sono rimasti dentro ognuno di noi e viceversa noi operatori per le 62
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famiglie. Questo si esprime almeno una volta lanno con un incontro di preghiera e conviviale in cui i familiari tornano in Hospice per ricordare: è molto emozionante per tutti. In questi tre anni i pazienti che si sono succeduti ci hanno fatto prendere consapevolezza delle differenze culturali delle persone e dell’effetto che esse hanno sull’esperienza del morire e così il paziente inglese e le sue riflessioni, il giovane paziente cinese con i suoi problemi di comprensione e la drammaticità della sua velocissima malattia,i due dolcissimi bambini i loro genitori e tanti altri ognuno con le proprie peculiarità che rimangono dentro e ci accompagnano nel nostro difficile compito,sostenendoci. Vorrei concludere con una delle riflessioni del nostro paziente John scritta in un giorno di agosto 2008: The Hospice: a place of quiet contemplation, harmony and well being above all, for those to whom it is important, a place to think
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uNa BuONa OCCaSIONE: l’aTTO DI Cura al TErMINE DEll’ESISTENZa Maurizio Venezi Mi sono interessato in passato degli aspetti psicologici che entrano in gioco in campo oncologico e ciò è avvenuto subito dopo la morte di mio padre per epatocarcinoma. l’aggettivo che mi sembra più calzante per dare un’idea di quale sia stata la mia esperienza inquella situazione è DEVaSTaNTE. Ciò nonostante, avverto un senso di profonda gratitudine verso mio padre che mi ha permesso di cogliere l’occasione, la “buona occasione”, di essere partecipe, per la prima volta, al percorso di distacco di una persona dall’esistenza in vita. alcuni mesi prima di quest’evento era nato mio figlio ed avevo avuto la “buona occasione” di essere partecipe, per la prima volta, al percorso di radicamento di una persona nell’esistenza in vita. l’aggettivo che mi sembra più calzante per dare un’idea di quale sia stata la mia esperienza inquella situazione è ESalTaNTE. In entrambe le situazioni mi sono sentito coinvolto affettivamente attraverso il vincolo familiare ed al pari sollecitato a tener attivo lo sguardo professionale. In un caso (morte del babbo) mi trovavo in casa mia, della mia famiglia d’origine e, di ritorno dall’ospedale dove “non c’è più niente da fare”, avevo trasformato la camera dei miei in un ibrido ospedaliero con asta per la flebo, siringhe, stetoscopio, sfigmomanometro, WC chimico e quant’altro. Nell’altro (nascita del figlio) mi trovavo in un ospedale ma comodamente alloggiato in una camera arredata come in un albergo con letto matrimoniale, ampio bagno con vasca da parto, stereo, libreria, frigorifero e telefono. Tutto era preparato affinché la nascita avvenisse nella maniera meno 64
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medicalizzata possibile, pur assicurando un livello di intervento adeguato e pronto in caso di necessità. l’accoglienza in area domesticata (leggi: con atmosfera di casa) estesa ad entrambi i coniugi era molto rassicurante, ma anche aprire la porta e trovarsi nel mezzo di una corsia di ospedale tradizionale contribuiva sensibilmente alla nostra tranquillità. Nel primo caso invece, quel “non c’è più niente da fare” decretava l’uscita di scena della medicina quale sistema organizzato di conoscenze, pratiche e procedure atto a contrastare, antagonizzare, combattere la malattia e mi lasciava, unico ed ultimo avamposto con le armi spuntate a ritardare il più possibile l’evento? assistere, monitorare, indirizzare l’andamento della malattia? Mentre apparecchiavo la stanza con il materiale cortesemente offerto dall’ospedale, il babbo gonfio d’ascite già nel letto, sentivo che eravamo come quei soldati lasciati indietro a rallentare l’avanzata del nemico nell’attesa, senza speranza, di una capitolazione inevitabile. Da quel momento e durante le innumerevoli notti insonni che seguirono ho progressivamente preso coscienza di essere stato formato ed allenato per praticare una medicina “belligerante”. una medicina fatta di “lotta contro questa e quella malattia” di “difesa della salute” di “presidi sanitari, terapeutici, preventivi”, di anticorpi come missili intelligenti alla ricerca del “target” antigenico, di infiammazioni come incendi, di cellule neoplastiche come incursori, di metastasi come avamposti capaci di aprire conflitti su nuovi fronti. una medicina capace di pompare all’inverosimile l’onnipotenza eroica del medico, ma anche di regalare frustrazioni immense come 65
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oceani di sconfinata impotenza. una medicina, un sistema di conoscenza, che tenendomi concentrato sui sintomi e sulla malattia da “combattere” mi aiutava, in quella circostanza per me così particolare, a difendermi dal dover prendere in considerazione la persona del mio congiunto nella sua necessità di accompagnamento all’esperienza degli ultimi tempi di esistenza in vita. a differenza degli altri familiari potevo rifugiarmi nel ruolo professionale ed evitare, almeno apparentemente, che quanto mio padre andava esperendo evocasse in me lo spettro della mortalità, della mia stessa mortalità, riflessa nell’innegabile evidenza della sua che si andava compiendo. Citando Savater: “Moriranno altri uomini, ma ciò accadde nel passato/che è la stagione (nessuno lo ignora) più propizia alla morte” dice Borges all’inizio di un breve e magnifico poema apocrifo “È possibile che io, suddito di Yaqub Almansur/muoia come dovettero morire le rose e Aristotele?”. Per quanto la statistica sia irrefutabile e il nostro stesso corpo non smetta di mandarci segnali inequivocabili, la nostra morte sembra a ognuno di noi non molto di più di un ipotesi, intimamente poco verosimile. Se volete, sappiamo che moriremo, ma non ci crediamo. Sull’argomento Sigmund Freud è assertorio: “Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare l’asserzione che non c’ènessuno che in fondo creda alla propria morte, o, ciò che equivale, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità” (S. Freud,1915: Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. in Id., Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino 1976. p.137).1 66
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Non so definire bene, oggi, quanto allora mi trovavo ad agire in ruolo di medico, dal procedere a misurazione di vari paramentri biologici all’elaborare complesse strategie per evitare il crollo della protidemia e l’ulteriore diffusione dei liquidi in peritoneo Perché lo facevo? E perché mi sembrava inevitabile doverlo fare? Mi stavo occupando della persona di mio padre o della sua malattia? Tentavo di contrastarne il male nell’illusione onnipotente di poterne rallentare se non annullare l’esito? Preoccupandomi della sua malattia, mi prendevo forse l’agio psicologico di non occuparmi della sua imminente morte e della nostra, la sua come la mia, innegabile mortalità? E soprattutto, quella componente del mio agire, diciamo così, tecnico-scientifica, corrispondeva a qualcosa che, anche solo parzialmente, potessi chiamare “cura”? Prendermi cura del male, del suo andamento, del suo procedere nel corpo o prendermi cura di quella persona che, a sua volta, con tanta cura mi aveva allevato? E le due cose insieme, così come apparivano entrambe necessarie, sarebbe stato umanamentepossibile agirle contemporaneamente? Così si esprimeva Igino nell’anno 2: La “Cura”mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la se67
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guente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la “Cura” che per prima diede vita a questo essere, fin che esso vive lo possieda la “Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, sichiami “homo” poiché è fatto di “humus” (Terra). 2 Quanto espresso da Igino è intuizione poetica che una ventina di secoli dopo ha trovato conferma in osservazioni etologiche e psicanalitiche di grande ed affascinante rilievo. Innanzitutto le osservazioni di Renè Spitz negli anni ‘50 sulle carenze totali o sub-totali di cure affettive materne a carico di neonati. Mi riferisco qui, nei termini di “cure affettive materne”, allo svolgere azioni affettivamente significative esitanti in esperienze sensoriali gratificanti quali contatto, abbraccio, sguardo, voce, ecc. Spitz svolse le sue ricerche in istituzioni per infanti abbandonati. laddove non riusciva a trovare una madre sostitutiva per ognuno dei piccoli ospiti, fosse stata costei pur’anche un uomo, propose degli allattatoi meccanici; ma dovette constatare che, pur in presenza di cibo, calore e pulizia ma in assenza di cure affettive materne o di adeguato sostituto, l’infante sviluppava comunque una depressione anaclitica, altresì detta sindrome da abbandono o sindrome da ospitalizzazione, caratterizzata clinicamente dal costante susseguirsi delle seguenti fasi: 1) il pianto del bambino si fa più monotono e meno modulato; si trasforma in grido; 2) dopo 2-3 mesi, in assenza di cure affettive materne, il bambino diviene insonne, rifiuta il contatto, ha un arresto dello sviluppo psicomotorio; l’espressione del viso diviene rigida; assume frequentemente la posizione che Spitz ha considerato “patognomonica”: resta lunghe ore coricato a ventre in basso con scarsa reazione agli stimoli. Nel frattempo ha un calo ponderale ed un crollo delle difese immunitarie; 3) se perdura oltre 3 mesi questa condizione può portare a ritardi 68
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mentali irreversibili; talvolta anche a gravi decadimenti organici generali (marasma) e finanche alla morte. In relazione agli studi di Spitz, ed alla loro integrazione con le risultanze prodotte da John Bolbwy e note come “teorie dell’attaccamento”, si è giunti a collocare il bisogno affettivo del bambino a livello dei bisogni biologici fondamentali ed a definire la dipendenza vitale dalla cura materna nei termini essenziali di fame primaria d’amore (levy). Dunque, pur provvedendo alle necessità biologiche fondamentali quali acqua, cibo, calore ed igiene adeguata, come si può ottenere organizzando ed amministrando una “sufficientemente buona” ospitalità secondo criteri logici e tecnico scientifici, in assenza di veicolazione di affetto, in assenza di quelle funzioni affettive elementari che rendono conto, non a caso, della nostra appartenenza al gruppo dei mammiferi, la vita, constatata la bio-illogicità dell’ambiente, opera un progressivo disinvestimento dal corpo biologico decadendo gradualmente, con danno via via sempre meno riparabile, fino ad estinguersi. In altri termini, se un “dispositivo organico umano” (ma anche solo organico o vivente) viene lasciato senza cura, va in sofferenza ed il danno che può derivarne sarà tanto più grave quanto più tenera è l’età del deprivato e quanto più prolungata è l’assenza di cura o di vicariazione della stessa da parte di altro mammifero. Tra gli animali l’uomo, avendo supposto di poter cambiare assetto posturale (...la sfida verso il cielo), ovvero essendo stato costretto da contingenze evoluzionisticamente significative a passare al bipedismo è andato incontro ad alcune trasformazioni: a) restrizione dei diametri del bacino per assicurare un supporto valido alla deambulazione; b) Trasformazione del treno anteriore dei quadrumani in arti superiori dei bipedi. Con esonero degli arti superiori dal sostenere il peso e specializzazione degli stessi nella funzione esplorativa/manipolativa. Esplorazione che, quando rivolta a materia vivente, diviene 69
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interazione e quindi relazione. Esplorazione, interazione e relazione richiedono sempre maggior complessità e specializzazione che, per essere funzionalmente integrate a livello di sistema nervoso centrale, richiedono un fondamentale prerequisito bio-strutturale: un aumento di dimensione della vescicola cefalica e quindi della testa del nascituro. c) Ne consegue: diminuzione relativa del tempo di gestazione per impedire che i rapporti tra diametri cefalici “aumentati” e diametri del bacino “ridotti” possano confliggere a tal punto, al momento della nascita, da impedire il passaggio della prole attraverso il canale del parto. d) Ne consegue: nascita anticipata di una prole che risulta essere la più inerme di tutti i mammiferi, raggiungendo l’indipendenza nel movimento, dopo 12 mesi circa. e) Ne consegue: necessità vitale di continuare ad essere assistita e protetta una volta fuori dalla pancia, necessità vitale di Cura; di rimanere il più possibile a contatto con i suoni del corpo materno (voce inclusa!), con la temperatura del corpo materno, con la morbidezza del corpo materno e, via via che gli apparati sensoriali si sviluppano, con l’odore del corpo materno, nonché con lo sguardo e la mimica materna in tutte le sue modulazioni espressive e quindi emotive. Il primo ambiente di vita deve pertanto: – rispondere il più possibile alla nostalgia fusionale della “carne materna, prodiga di cura” (Irigaray, 1989); – essere conseguente e congruo all’esperienza di cura totale esperita nella fase prenatale; – essere causa, funzione e stimolo del gradualissimo progresso verso l’indipendenza. la cura quindi, come funzione peculiare della specie; attitudine fondamentale e necessaria alla sopravvivenza ed allo sviluppo della prole. alimento della “fame primaria” la cura 70
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materna radica in noi la prima essenziale tessera engrammatica3 necessaria alla sopravvivenza: quella dell’amore. Tornando all’ esperienza della nascita del figlio, tutto si svolse in armonia e potemmo passare la notte insieme nella stanza più ospitale. Se non ché la nascita prematura di un mese ed un velo di subittero promossero, secondo protocollo, la deposizione del “prematurino” in incubatrice, per irradiarlo con una lampada a raggi ultra violetti. Era Maggio e sarebbe bastato esporre il bimbo al sole nelle ore calde, attraverso la finestra aperta, perché gli ultra violetti naturalmente prodotti dal sole provvedessero a rompere le molecole di bilirubina sulla superficie cutanea. Nonostante le mie conoscenze scientifiche di giovane medico, impiegai un paio di giorni prima di decidermi ad esprimere un motivato dissenso circa le considerazioni tecniche, per altro ineccepibili dal punto di vista procedurale, espresse dal pediatra; firmare la cartella clinica e “dissequestrare” l’infante dal raziocinio scientifico che, incurante del danno che poteva occorrere, ne tratteneva il corpo in incubatrice per svolgere i suoi (...i nostri) protocolli in totale alienazione rispetto ai più elementari principi di cura. rivedendo oggi questi passaggi mi sorprendo a constatare che: – nel caso della morte del babbo in una casa “ospitalizzata”, il ruolo medico, l’agire tecnicoscientifico e procedurale, mi si erano offerti come scappatoia alle tensioni dovute a quanto, attraverso la malattia, si profilava. Se, come accade a molti, avesse prevalso il mio bisogno di fuga dallo spaventoso inevitabile evento, ovvero se mio padre non avesse avuto la lucidità di chiedere di morire nel suo letto, molto probabilmente avrei preteso ed ottenuto che fosse assistito secondo le migliori procedure in reparto specialistico ed infine in terapia intensiva, attaccato a delle macchine fino all’esito. – nel caso della nascita del figlio in un ospedale “domesticato”, le considerazioni tecnico scientifiche del primario della pediatria, portate secondo scienza e coscienza per prevenire danno e malattie, scotomizzavano e nascondevano le effettive priorità della neonata 71
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persona che, evidentemente, erano di stare a stretto contatto con la madre. Se, come accade a molti, mi fossi semplicemente affidato al “procedere delle procedure”, il neonato sarebbe rimasto in incubatrice per scongiurare un rischio reso tangibile dalla colorazione giallastra della pelle, finendo per essere esposto ad altro rischio, meno tangibile ma non per questo di minor portata, quale la separazione dal corpo della madre nel primo periodo di vita. Come un’azione di protezione quando diventa invasiva non risponde più al principio di cura, così un’azione che distrugge non necessariamente ha una valenza negativa se si qualifica come decostruzione di mondi simbolici o di pratiche relazionali che riducono lo spazio di autorealizzazione dell’altro. 5 Continuando ad indagare su senso e significati della cura mi piace includere alcune righe dalla voce Cura dell’Enciclopedia Einaudi: La Cura, presentata dalla logica liberale, formalmente rispettosa della libertà dell’individuo, come un diritto del cittadino, si traduce in un’illusione che consente – attraverso l’esplicazione delle (nuove) tecniche – l’espropriazione del corpo del malato. Se infatti la malattia è diventata una mediazione contro cui lottare per evitare la morte, se cioè la paura della morte si è tradotta in paura della malattia, non è l’uomo malato a lottare contro la sua malattia, pur con l’aiuto del medico, ma è il TECNICO che se ne appropria come oggetto di sua competenza, escludendo ogni partecipazione dell’uomo che, in questo modo, si trova esproprianon solo della malattia, ma dello stesso corpo di cui altri si impadroniscono. 6 la grande ricchezza che, a mio avviso, le medicine non convenzionali portano in dote alla scienza medica, attraverso la proposta delle Medicine Integrate, consiste proprio nel produrre un punto di vista capace di riposizionare il medico rispetto all’oggetto di sua competenza che, allo stato dell’arte, sembrerebbe poter essere solo la malattia. ricollocarne il punto di vista in modo tale che includa la persona oltre che la malattia. ripeto: OlTrE che la malattia, non al POSTO DElla malattia! Ciò che ha sollecitato in me l’interesse professionale e mi ha condotto, ormai maturo, a riprendere gli studi di medicina nella sue va72
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rianti dell’Omotossicologia prima e dell’Omeopatia poi, è stato il fatto che, nell’incontro con il paziente, si dovesse mirare innanzitutto a far emergere la costituzione, il substrato bio-tipico di quest’ultimo. Come dire che, nell’incontro con il malato, la prima domanda che il medico è tenuto a porsi non è: “che sintomi esprime o che malattia ha?” così da comporre rapidamente la diagnosi e veloce passare alla terapia con già in testa la domanda incalzante: “con quale categoria di farmaci, macchinari, manovre operative, posso aggredire la malattia?”. Ma diventa essenziale chiedersi, in anticipo rispetto a queste pur lecite considerazioni: “Chi è? Come sta al mondo? Che postura ha? Come cammina? a quali esperienze è incline? a quali emozioni? Quale Costituzione è sottesa al suo modo di essere? Quale biotipo? Quale carattere?”. E di seguito: “Quale gruppo di rimedi, sottoposti a prooving, ha dato evidenza di sollecitare quella costituzione ad indirizzarsi verso uno stato di maggior benessere?” Ed infine, dopo aver incrociato questi dati con l’analisi dei sintomi ed indagato il modo, a volte deltutto personale, di patirne: – “Come posso coltivare le cause della sua salute?”, che non solo è molto diverso da dare battaglia alla malattia ma, coltivare le cause di salute, è qualcosa che assomiglia da vicino a quanto fanno istintivamente le mamme di mammiferi e che, come abbiamo visto, può essere considerato operativamente fondativo del concetto di cura. Ed allora, trovandoci a trattare di funzioni operative, possiamo arrivare a dire che la cura si puòagire? Certo! la cura è un agito. un agito diffuso in tutto il mondo animale, specifico della classe dei mammiferi, particolarmente sviluppato ed essenziale per la specie umana. le cure primarie, opportunamente agite dalle mamme o da adeguati sostituti, si inscrivono nel nostro organismo come tracce mnestico-sensoriali fondanti il presupposto assoluto dell’esistenza in vita, ed in seguito delle sue declinazioni e rappresentazioni nell’amore, nel piacere, nel benessere, nella salute. le qualità termi73
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che, ritmiche, vibrazionali, in una parola sensomotorie, che sostanziano le cure primarie all’interno della relazione madre-neonato sono le uniche capaci di innescare, laddove ovviamente siano sufficienti i presupposti biologici, il nostro strumento emotivo/sensoriale, il corpo, in-formandolo secondo i principi biologici e zoologici di regno, Classe e Specie, ma anche secondo gli stili culturali e relazionali di etnia, tribù, famiglia, diade e, ovviamente, individuali. Il processo può avvenire in vari modi, più o meno qualitativamente congrui o difettuali; ciò che è dimostratamente certo, è che si arresta completamente per riduzione dei “tempi di esposizione all’amore materno” al di sotto di un limite quantitativamente critico che, almeno negli anni ‘50 del novecento, è stato misurato da Spitz nell’ordine di 6 mesi di assenza continuativa nel corso del primo anno di vita. Se ne deduce che, se la cura è un agito, il requisito essenziale della cura è la presenza di un essere capace di agirla. Cosa possiamo intendere, allora, per presenza? Se manca la persona fisica del caregiver (dall’inglese: colui che profonde cure.) ovviamente non c’è agente e non può esserci cura. Se il caregiver, o presunto tale, è lì fisicamente ma con il flusso dei pensieri è nella memoria (passato) o nella previsione (futuro) quando non trasferito istantaneamente in un “presente altro” dagli strumenti della telecomunicazione, ciò che potrà agire sarà, tutt’al più, una attività di cura, spesso standardizzata e routinaria ma, se l’agente è esperto, anche ineccepibile sul piano tecnico formale. Se invece il caregiver riesce ad essere presente a se stesso e quindi all’altro, se è capace di rinunciare alla propria assenza, se in maniera deontologicamente ed eticamente misurata riesce ad agire la propria “mezza parte” nel fenomeno duale delle relazione, allora ha qualche probabilità di trovarsi a svolgere una azione di cura sinergicamente terapeutica (se è tecnicamente competente) e taumaturgica (se è relazionalmente competente). Performare una azione di cura non è dunque semplice; qui come per altri fenomeni difficilmente 74
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misurabili, conta non solo la quantità di tempo che come curante si trascorre in presenza dell’altro, ma anche e soprattutto la qualità della presenza. l’azione di cura come atto di presenza qualitativamente rilevabile, oltre che tecnicamente competente, può rendere conto di un ritorno a casa della medicina alla sua funzione originaria di arte della cura. un’arte di tipo performativo che, come tutte le arti performative, ha bisogno, oltre che di una formazione teorica ed adeguata pratica, di un sistema di allenamento costante e continuativo che procuri, favorisca e susciti la necessità del performer di trovarsi in un determinato stato esistenziale di particolare disponibilità psicofisica all’esecuzione dell’atto d’arte: in questo caso specifico l’atto squisitamente relazionale della cura. Per concludere, mi piace proporre, ancora una volta, uno spiazzamento semantico che possa essere d’introduzione e stimolo ad un effettivo cambiamento dello stato dell’arte. Proviamo a vedere che succede se consideriamo un retaggio del “bellicismo” medico-scientifico anche il termine centrata che ancora assomiglia a mirato e che evoca un puntatore ed un bersaglio. Proviamo ad immaginare che cosa possa accadere se sostituiamo “medicina centrata sulla persona”, espressione alla quale come sperimentatori di medicine complementari alla medicina tradizionale occidentale siamo già sensibilizzati e fidelizzati, con il termine “medicina BaSaTa sulla persona” o meglio ancora “FONDaTa SullE PErSONE”. Potrebbe essere, se mi passate il paragone, come quando fu scoperto il sistema delle vene e delle arterie: era già lì ma non lo avevamo ancora considerato; una volta che lo abbiamo preso in considerazione si è prodotto un aggiornamento che ha riguardato tutto il sistema delle conoscenze scientifiche sul funzionamento degli animali. Oggi, volendo affermare questa come una scoperta ed aggiornare l’oggetto di applicazione della medicina dalla malattia al malato o, meglio ancora, alla persona, opereremmo un necessario quanto provvidenziale “cambio di paradigma” e potremmo trovarci a stravolgere radicalmente il sistema di conoscenza con un effetto 75
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domino. Nel momento in cui, anche come tecnici, ci troveremo a prendere in considerazione la persona, senza ridurre il campo di attenzione al mero oggetto malattia, dovremo riconoscere di aprire con questa una relazione. Poco simmetrica sul piano dei ruoli, dei poteri e delle conoscenze ma assolutamente speculare sul piano della soggettività: non vi sarà più un soggetto che compie operazioni tecnicamente e scientificamente validabili su di un oggetto, ma due soggetti che si relazionano per produrre salute, o meglio per coltivare salute. la mia personale impressione è che, accettando finalmente di agire una medicina di relazione e di coltivare l’altro profondendo cura, nel senso proprio del termine, potremmo trovarci a dischiudere la medicina del futuro recuperando al mansionario del curante la raffinata ed antica arte della taumaturgia, da affiancare alla collaudata ed efficiente tecnica della terapia. 1 Da Fernando Savater (2007): La vita eterna, Editori glF laterza, roma-Bari 2007. p.35 2 In Martin Heidegger, Essere e Tempo, Milano, longanesi, 1976, p.247; traduzione del testo originale Fabularum Liber dell’autore latino Igino,IIsec. D.C. 3 un engramma è un ipotetico elemento neurobiologico che consentirebbe alla memoria di ricordare fatti e sensazioni immagazzinandoli come variazioni biofisiche o biochimiche nel tessutodel cervello. Il termine engramma risale al biologo tedesco richard Semon (1904). l’engramma era per l’autore un cambiamento permanente nel sistema nervoso, la traccia mnestica che conserva gli effetti dell’esperienza nel tempo. (http://it.wikipedia.org/wiki/Engramma) 5 Da luigina Mortari (2006): La pratica dell’aver cura, Paravia Bruno Mondadori Editore. P.33 6 Da Franca Onagro Basaglia (1978): alla voce “Cura” di Enciclopedia Einaudi vol.4, giulio Einaudi Editore. P.308 76
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Capitolo VIII COME la MENTE MODIFICa Il CErVEllO: PSICONEurOBIOlOgIa DEll’EFFETTO PlaCEBO Massimo Piccirilli
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“Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni. Nessuno sembrava volerne tenere di conto.” Tiziano Terzani (Un altro giro di giostra) l’elemento soggettivo trova collocazione con difficoltà in campo sanitario. una malattia deve essere riconosciuta indipendentemente dall’individuo che ne soffre; l’attenzione deve quindi essere rivolta alla oggettività dei segni clinici eliminando ogni variabile soggettiva potenzialmente in grado di ostacolare il ragionamento clinico. Ciò che viene richiesto è la competenza tecnica necessaria per identificare la malattia svincolata dalle caratteristiche personali dell’individuo che la manifesta. È probabilmente questa la principale ragione che ha imposto un progressivo distanziamento della persona sofferente dal suo terapeuta. Solo in apparenza è paradossale infatti che gli avanzamenti tecnologici della medicina, sempre più efficace nelle sue possibilità di intervento, coincidano con la crescente insoddisfazione di coloro che ne dovrebbero trarre beneficio. la contraddizione di fatto è implicita in quello che è stato definito l’errore di Cartesio: la separazione fra mente e corpo. grazie alla dicotomia cartesiana hanno avuto origine il pensiero scientifico e la medicina moderni: il corpo, considerato alla stregua di una qualunque macchina, è divenuto finalmente oggetto di studio scientifico, non però la mente che, in quanto immateriale, è stata privata degli strumenti della indagine scientifica. Da questo punto di vista l’essere umano viene considerato costituito da due entità, ciascuna dotata di una esistenza autonoma. appaiono allora giustificate due modalità di studio differenti, che in medicina si traducono nella distinzione fra interpretazioni del comportamento umano di tipo biologico e di tipo psicologico, così come in ambito clinico nella distinzione tra 78
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disturbi organici e disturbi funzionali e dei relativi rimedi di tipo somatico e psicoterapeutico. In contrapposizione l’ipotesi che la mente sia un prodotto del cervello ha condotto ad approfondire lo studio sui meccanismi del funzionamento cerebrale fino a considerare le neuroscienze – come ha proposto in modo esplicito Patricia Smith Churchland coniando il neologismo neuro filosofia – l’unica chiave di lettura corretta per trovare risposta alle questioni classicamente affrontate dalla filosofia: la coscienza, il libero arbitrio, l’etica e così via. Il riferimento teorico è il genoma: fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile immaginare come i processi vitali possano essere ricondotti al DNa; allo stesso modo oggi non è ancora possibile immaginare come i processi mentali possano essere ricondotti al tipo di organizzazione delle reti neuronali; tuttavia in ogni caso il cervello può rendere conto della mente come il DNa della vita. la questione fondamentale è dibattuta fin dai primordi della storia dell’umanità: è possibile definire l’essere umano esclusivamente sulla base della sua biologia? Secondo alcuni rimane comunque un residuo non riconducibile alla materia e non conoscibile. la nota metafora di Thomas Nagel “cosa si prova ad essere un pipistrello” suggerisce che la conoscenza, anche dettagliata, della struttura e della funzione del cervello del pipistrello non corrisponde alla conoscenza di cosa si prova ad avere le esperienze sensoriali del pipistrello: in altri termini all’esperienza soggettiva non sarebbe mai possibile fornire una spiegazione puramente biologica. Nella storia del pensiero le due principali ipotesi sulla relazione tra mente e cervello si sono ripetutamente contrapposte; ai nostri giorni tuttavia si assiste al tentativo di sanare una così profonda frattura ideologica. “una menzogna è utile soltanto come medicina per gli uomini. l’uso di tale medicina sarebbe riservato al medico”. Platone (repubblica) uno dei fenomeni più affascinanti che sconcerta chi cerca di comprendere le interazioni fra mente, cervello e comportamento è l’effetto placebo. Il termine “placebo” è derivato dall’errata 79
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interpretazione di un versetto biblico, il Salmo 116, che San girolamo tradusse come “placebo Domino in regione vivorum” (compiacerò il Signore nella terra dei viventi) ed è stato ufficialmente introdotto nel lessico medico nel 1811 con il significato di “medicamento dato più per compiacere il paziente che per fornirgli beneficio” (r. Hooper: a new medical dictionary). In altri termini è definito placebo qualunque sostanza inerte dal punto di vista farmacologico che tuttavia viene deliberatamente somministrata al paziente facendogli credere che si tratti di un trattamento utile e necessario; effetto placebo è il miglioramento clinicamente apprezzabile conseguente a tale somministrazione. Nell’uso moderno il placebo è il farmaco “falso” utilizzato come mezzo di controllo da confrontare con il farmaco “vero” di cui si vuol verificare l’efficacia. un interessante precedente storico delle moderne procedure è stato l’uso di oggetti sacri falsi che venivano sostituiti alle reliquie vere o all’ostia consacrata durante il periodo dell’Inquisizione: per coloro che reagivano con violente contorsioni quando confrontati con gli oggetti falsi veniva ipotizzato che la possessione diabolica non fosse reale. attualmente l’introduzione nella pratica clinica di un nuovo farmaco richiede una procedura definita “doppio cieco”: sia il terapeuta che il paziente giudicano l’efficacia terapeutica ignorando se si tratta del farmaco in sperimentazione o del placebo. Come presupposto teorico ovviamente si ammette che una sostanza per essere considerata farmacologicamente attiva deve mostrare una efficacia superiore a quella del placebo. Tuttavia proprio questa modalità sperimentale ha rivelato le inaspettate virtù terapeutiche del trattamento placebo. Il dato è ormai accertato scientificamente. anche recentemente una metanalisi sull’uso degli antidepressivi di seconda generazione ha documentato come il 34.7 % dei pazienti risponda significativamente al placebo, ma ancora maggiore fu lo scalpore destato dalle indagini in doppio cieco degli anni 60 del secolo scorso su pazienti sofferenti di angina pectoris: un falso intervento, consistente nella semplice incisione cutanea con sutura, 80
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otteneva risultati positivi identici all’intervento effettivo di legatura dell’arteria mammaria interna. Questi dati in realtà non hanno fatto altro che fornire una veste scientifica ad una pratica assai comune; l’uso del placebo in medicina è sempre stato considerato uno dei possibili strumenti a disposizione del terapeuta: famosa l’affermazione del presidente degli Stati uniti Thomas Jefferson (1743-1826) che ricordava come uno dei medici che meglio lo aveva curato gli aveva poi confessato di aver usato “gocce di acqua colorata”. Non destano allora meraviglia i risultati di una recente indagine su 679 medici statunitensi (internisti e reumatologi): il 50% degli intervistati prescrive routinariamente un trattamento placebo, il 62% lo ritiene eticamente corretto e il 68% induce il paziente a credere che la terapia prescritta sia efficace. Per quanto paradossale possa sembrare quindi, una sostanza inerte è in grado di ottenere un effetto benefico sul decorso di un disturbo clinicamente rilevante. un modello elegante ed estremamente convincente per valutare il fenomeno è rappresentato dal cosiddetto protocollo “open-hidden” (o “overt-covert”): mentre nella condizione open la terapia viene somministrata nel modo usuale dal personale sanitario, nella condizione hidden il farmaco viene fornito mediante infusione continua regolata da un sistema computerizzato che stabilisce il momento e la durata della terapia. la differenza sostanziale tra le due condizioni è che nel primo caso il paziente sa quando sta ricevendo la terapia mentre nel secondo non ne è consapevole. Sistematicamente la condizione open provoca effetti più favorevoli. ad esempio, nel caso della terapia analgesica si ottiene una riduzione significativamente maggiore del dolore, misurabile non solo secondo il giudizio soggettivo del paziente ma anche facendo riferimento al consumo totale giornaliero di farmaco richiesto. Va sottolineato che contrariamente alle sperimentazioni classiche il confronto non avviene tra un farmaco ed un placebo ma è lo stesso farmaco che viene somministrato secondo due modalità diverse: la 81
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differenza nei risultati non può che essere attribuita all’effetto placebo. In altri termini ad innescare la risposta non è la sostanza somministrata che per definizione è appunto inerte, ma è la modalità di somministrazione ed il contesto in cui avviene. In definitiva qualunque farmaco agisce attraverso due meccanismi: accanto agli effetti specifici dipendenti dalle proprietà farmacologiche intrinseche è sempre presente l’effetto aspecifico conseguente alla consapevolezza di star ricevendo una terapia. Si tratta allora sia di identificare con precisione le variabili in grado di potenziare, o al contrario contrastare, i meccanismi sottostanti all’effetto placebo, sia di stabilire se esistono o no differenze interindividuali nella risposta e di definirne le eventuali caratteristiche. l’obiettivo è riuscire ad utilizzare consapevolmente l’effetto placebo per ottenere il massimo beneficio possibile dall’atto terapeutico. ad esempio, formalmente è corretto informare il paziente che la sostanza che gli viene prescritta potrebbe essere un placebo; eppure la terapia si rivela significativamente più efficace affermando che il farmaco prescritto è un potente analgesico che agirà rapidamente sul dolore. la semplice consapevolezza che il disegno sperimentale prevede la possibilità di ricevere un placebo può modificare i risultati dell’intervento terapeutico. anche la prognosi a distanza risulta migliore ed un numero maggiore di soggetti risponde al trattamento. Sorprendentemente l’effetto negativo dell’informazione può essere controbilanciato da commenti positivi anche generici come “molte persone ne hanno tratto giovamento”. Questi dati non solo confermano la veridicità e l’opportunità di un uso consapevole del principio di Balint del “medico come medicina”, ma stimolano anche riflessioni profonde sulle attuali metodiche di valutazione dei risultati delle sperimentazioni cliniche, sulla pratica del consenso informato e, più in generale, sui problemi etici in medicina. alla luce di queste conoscenze sarebbe auspicabile che gli operatori sanitari fossero maggiormente edotti sui molteplici significati della relazione terapeutica e fossero soprattutto consapevoli di quanti fattori ine82
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vitabilmente intervengono nell’influenzare l’efficacia dell’atto terapeutico. “le parole sono medicina per le anime che soffrono.” Eschilo (Prometeo Incatenato) una possibile interpretazione dell’effetto placebo può derivare dalle neuroscienze. le conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso sono infatti mutate radicalmente nell’ultimo decennio. Il dogma secondo cui il neurone è una cellula perenne e non sostituibile è stato falsificato dalla scoperta della neurogenesi. Il dogma secondo cui l’organizzazione cerebrale, superata la fase infantile, è stabile ed immutabile è stato sostituito dalla nozione di neuroplasticità. una simile rivoluzione copernicana è stata promossa soprattutto dalle indagini di neuroimaging. In particolare la risonanza magnetica funzionale (fMrI: functional Magnetic resonance Imaging) per le sue caratteristiche di non invasività, a differenza di altre metodiche, non necessita di una motivazione clinica per essere effettuata e permette così di indagare il funzionamento cerebrale in condizioni non solo patologiche ma anche fisiologiche. l’esame visualizza le regioni cerebrali che si mettono in funzione durante l’esecuzione di una qualunque attività: ad esempio, muovendo una mano si osserva l’attivazione della regione motoria, mentre guardando una immagine diventano attive le regioni visive e così via. allo stesso modo è possibile osservare come si modifica il cervello nel corso di uno stato emotivo: uno stimolo pauroso si associa ad un pattern definito di attivazione cerebrale diverso da quello associato ad un sentimento di tristezza e così via. Inoltre le attivazioni cerebrali risultano proporzionali all’entità dell’emozione provata: in altre parole maggiore la paura provata, maggiore l’attivazione cerebrale. In definitiva la metodologia d’indagine è così duttile da poter essere utilizzata per verificare lo stato funzionale cerebrale in qualunque momento ed in qualunque contesto. Cosa cambia nel funziona83
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mento cerebrale dopo l’assunzione di una sostanza placebo? la risposta, ancora una volta sorprendente, è diversa a seconda della condizione clinica. Nel caso dell’analgesia le regioni attivate dal placebo corrispondono a quelle che si attivano dopo somministrazione di oppioidi; il dato concorda con la già nota osservazione clinica dell’abolizione dell’effetto placebo da parte di farmaci antagonisti degli oppiacei come il naloxone. Questo meccanismo non riveste però alcun ruolo in altre condizioni patologiche, come la malattia di Parkinson: in questo caso infatti l’effetto appare legato ad un incremento dell’attività dopaminergica. In altri termini i meccanismi sottostanti all’azione del placebo sembrano essere specifici e mimare l’attività dei farmaci. Questi meccanismi tuttavia vengono innescati dal contesto in cui la sostanza viene somministrata, attraverso cioè eventi mentali come l’aspettativa di ottenere un beneficio e la speranza di miglioramento, la fiducia nell’operatore, le credenze sia individuali che proprie della cultura di appartenenza. Proprio grazie alle attuali tecnologie è diventato possibile verificare come la mente modifica il cervello. un ruolo cruciale in questo senso ha il linguaggio. un semplice disegno sperimentale può essere sufficientemente dimostrativo di come le parole rappresentino uno stimolo potente di riorganizzazione cerebrale: se un soggetto viene informato che alla comparsa di uno stimolo predefinito gli verrà inviata una scossa elettrica, nel momento stesso in cui lo stimolo di preavviso compare il soggetto reagisce come se avesse già effettivamente provato dolore; non c’è bisogno dello stimolo doloroso; lo stesso effetto si ottiene con le parole: le aree cerebrali che si attivano sono identiche. Davvero la lingua può ferire più della spada. In medicina questo meccanismo corrisponde all’effetto nocebo (fenomeno opposto al placebo) ed ancora una volta richiama l’attenzione sulla necessità di un uso consapevole dei processi di comunicazione (non solo verbale) nella relazione terapeutica. Ovviamente è vero anche il contrario: le parole possono avere un effetto fortemente benefico. E’ questo d’altra parte il meccanismo 84
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d’azione della psicoterapia, che queste metodiche riescono finalmente a documentare: ad esempio, dopo un trattamento efficace, uno stimolo fobico non provoca più l’attivazione anomala presente prima della terapia. Inoltre, mediante un training appropriato che si avvale dei feedback provenienti dalle immagini di fMrI, soggetti con patologie psichiatriche possono apprendere ad attivare o disattivare regioni cerebrali specifiche implicate nella elaborazione degli stimoli a valenza emozionale, modulandole a fini terapeutici. “Il cervello è più vasto del cielo” Emily Dickinson (Poesie) Come possano i processi mentali essere all’origine dell’incredibile efficacia terapeutica di una sostanza farmacologicamente inerte dipende verosimilmente dai processi plastici cerebrali, vale a dire dall’attitudine del sistema nervoso a riorganizzarsi continuamente in rapporto agli stimoli che riceve. Il correlato della plasticità può essere osservato a diversi livelli di indagine, dalle molecole al comportamento, ma fondamentalmente riflette la proprietà delle cellule nervose di collegarsi fra loro a costituire delle reti. Cento miliardi di neuroni, ognuno collegato in media ad un migliaio di altri neuroni, costituiscono un totale di cento bilioni di connessioni. attraverso questa rete sconfinata l’informazione (l’impulso nervoso ha una durata di circa un millisecondo ed una velocità variabile da tre a trecento km al secondo) viaggia in tutte e tre le dimensioni spaziali. la connessione tra neuroni può originare quindi una infinità di configurazioni possibili; l’ipotesi è che la rappresentazione del mondo avvenga grazie al graduale costituirsi di connessioni sempre più appropriate a svolgere una funzione specifica. l’organizzazione delle configurazioni neuronali segue un principio piuttosto semplice: due neuroni che sono attivi in modo combinato formano una connessione privilegiata. una volta costituito un collegamento privilegiato, l’attivazione di un neurone trascina con sé l’attivazione dei 85
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neuroni connessi con una specie di effetto miccia. In questo senso i neuroni tendono a costituire dei gruppi, così come avviene per i gruppi sociali in cui i singoli individui scambiano relazioni più o meno intense tra di loro a secondo del grado di coesione; come nei gruppi sociali, le relazioni non sono fissate una volta per sempre ma fluttuano e subiscono continue variazioni cosicché nel corso della vita alcuni collegamenti possono essere rimossi ed altri nuovi venire instaurati. In effetti l’esperienza modifica il cervello: ad esempio, l’uso selettivo di un dito della mano è accompagnato da un allargamento dell’area di rappresentazione specifica, come dimostrato non solo in laboratorio ma anche in musicisti professionisti. l’organizzazione di una rete di neuroni dipende quindi in modo critico dalle informazioni presenti nell’ambiente. gli stimoli ambientali innescano una sorta di competizione, attivando le connessioni più appropriate e disattivando le connessioni che non si sono rivelate utili: il modo principale di procedere sembra essere quello di produrre strutture neuronali grezze e poi attendere informazioni dall’ambiente. attraverso questa incessante opera di selezione delle popolazioni neuronali più efficaci, le esperienze individuali, come un giardiniere che pota un cespuglio di rose, conducono alla realizzazione dell’organizzazione cerebrale. utilizzando questo stratagemma (l’organizzazione dei neuroni dipende dalla presenza degli stimoli appropriati), l’evoluzione è riuscita a fornire l’essere umano di un mezzo capace di adattarsi all’ambiente in modo non precostituito. Il programma genetico predispone una struttura appropriata per la funzione specifica, ad esempio l’emisfero sinistro per il linguaggio, ma la funzione non si realizza se anche le condizioni ambientali non sono quelle appropriate. Sono note e ben documentate le storie di soggetti che, essendo cresciuti in ambienti privi di altri esseri umani, come nel caso dei cosiddetti bambini lupo, non hanno sviluppato la capacità di comunicare verbalmente. Per lo stesso motivo due gemelli monocoriali, assolutamente indistinguibili nel loro aspetto fisico, possiedono organizzazioni cerebrali diffe86
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renti: il cervello non può essere clonato in quanto il sistema nervoso per formarsi necessita di interagire con l’ambiente. “Il mondo é presente all’interno della nostra mente, la quale é all’interno del nostro mondo” Edgar Morin (Il metodo) la conoscenza delle basi biologiche dell’effetto placebo può fornire un contributo innovativo per una migliore comprensione dei fattori che influenzano l’efficacia dell’intervento terapeutico. le moderne tecnologie, pur considerandone i limiti metodologici e la conseguente necessaria cautela interpretativa, documentano inequivocabilmente come i processi mentali possano modificare la struttura ed il funzionamento del sistema nervoso. la mente, prodotto del cervello, si estende nel mondo attraverso la cultura: i prodotti mentali cioè smettono di appartenere al singolo individuo per diventare patrimonio comune; questa dimensione culturale cambia i meccanismi evolutivi in quanto a loro volta i prodotti della mente retroagiscono sul cervello modificandolo: causa ed effetto non sono più distinguibili, mente e cervello non sono più entità separabili. la mente non è meno concreta del cervello: così il significato pieno di attese che il paziente dà alla terapia placebo prescrittagli si traduce in una serie di reazioni cerebrali che inducono modificazioni neurovegetative e produzione di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare a loro volta la percezione del dolore, la risposta cardiovascolare, gli equilibri ormonali, la reazione immunitaria. Nell’essere umano il comportamento non è mai solo il risultato dell’azione dei geni nè mai solo delle influenze ambientali: l’equivoco può essere identificato nell’aver considerato natura e cultura, innato ed acquisito, genetica ed ambiente come processi alternativi; apparentemente invece natura e cultura agiscono in modo complementare: entrambi raggiungono i loro effetti incidendo sulla organizzazione del cervello. 87
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CaPITOlO Ix Il PrOTOCOllO MBSr (MINDFulNESS BaSED STrESS rEDuCTION) COME TEraPIa COMPlEMENTarE NElla Cura DEl CaNCrO Bianca Pescatori
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Questo intervento scaturisce dalla mia relazione, come psicoterapeuta, con pazienti oncologici. relazione particolare ovviamente che mi ha permesso di accedere agli aspetti più intimi del vissuto emozionale ed esistenziale di chi incontra – e a volte se ne accompagna fino alla fine della vita – la malattia, ed assieme ad essa la sofferenza fisica, i profondi cambiamenti, le sfide, il risveglio all’urgenza della ricerca di senso, emozioni dolorose e difficili ed emozioni, sentimenti di grande apertura e gioia. Pazienti per i quali la malattia diventa l’origine della coltivazione di serenità e saggezza, pazienti che viceversa reagiscono con chiusura, disperazione e grande avversione. Troviamo una metafora molto efficace utilizzata dal Buddha in uno dei suoi discorsi “Il discorso della freccia” per spiegare la natura della sofferenza. le pratiche di meditazione per la coltivazione della consapevolezza che vengono proposte in modo graduale nel protocollo MBSr di cui tratta questo intervento, provengono dalla tradizione buddista, e si fondano sul « grande discorso della presenza mentale » cardine della pratica del buddismo Theravada diffuso oggi in particolare in asia meridionale, Birmania, Cambogia, laos e Thailandia da 2500 anni. Il Buddha dunque dice: ...l’uomo quando viene toccato da una sensazione dolorosa soffre, si affligge, si lamenta, piange battendosi il petto, entra in uno stato di grande confusione. Sperimenta due tipi di sofferenza: una sofferenza fisica ed una sofferenza mentale. È come se fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da un’altra freccia cosicché percepirebbe i dolori di due frecce...”. Di fronte alle esperienze dolorose che la vita ci fa incontrare esiste allora una sofferenza data, e poi un’altra sofferenza, che è la reazione automatica avversiva che si avviluppa intorno all’esperienza dolorosa. Cosicché accade il fenomeno apparentemente paradossale che è la stessa mente che, mediante l’avversione, trattiene, reitera, amplifica, aumenta, la sofferenza 89
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originaria, per sua natura legata alle circostanze del momento e dunque come queste in continua trasformazione. Da notare che questo accumulo di sofferenza generata da due condizioni diverse – l’entità della sensazione spiacevole e la modalità di reazione ad essa – viene percepita generalmente come generata unicamente dall’evento doloroso esterno. Elana Rosembaum, psicoterapeuta al Centre for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society dell’università di Boston, autrice del libro “Here for now, living well whit cancer through Mindfulness”, che da vent’anni lavora con i pazienti oncologici, ammalatasi poi lei stessi di cancro racconta: «Ogni tanto qualcuno mi domanda “sei guarita?”,“guarita da cosa?” rispondo. So che si riferiscono al cancro, che nel mio caso è un linfoma, ma non è mai stato il cancro il problema. Quello che è rilevante è come io mi pongo nei confronti del cancro, non se questo si ripresenti». Questo suo modo di porsi ci aiuta a cogliere che vi è una differenza tra la sofferenza inevitabile, insita in una circostanza spiacevole della vita, dalla infelicità creata dal modo con cui la mente si mette in relazione a quella stessa circostanza (in termini psicologici parliamo di stile di copying adottato per fare fronte alla richiesta di cambiamento dell’ambiente). Molta sofferenza nella nostra esistenza infatti è dovuta al tenersi aggrappati all’idea di come pensiamo le cose siano, di come devono essere, di come vogliamo che siano – la rappresentazione della nostra identità e della realtà che ci siamo costruiti nel corso del tempo e che proiettiamo come stabile e permanente nel futuro – e alla reattività mentale del momento, che su quell’idea poggia, che automaticamente rifiuta ciò che viene sentito come spiacevole e si attacca a ciò che viene sentito come piacevole. Questa rappresentazione si sovrappone e distorce la percezione della realtà del momento presente, non permettendoci di cogliere l’esperienza che stiamo effettivamente vivendo. 90
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Cosa accade quando la vita non conferma la realtà di cui noi siamo assolutamente certi? Come quando per esempio l’incontro con una malattia grave, potenzialmente mortale, mette in dubbio la nostra illusione di stabilità? l’incontro con la malattia (e con la malattia oncologica in particolare in quanto ignota, implicita, incontrollabile, sotterranea, fortemente investita di metafore sociali ed esistenziali) rischia di aprire un vissuto ideativo fantasmatico, persecutorio e abbandonico, che si esprime nel malato e nei familiari sotto forma di angoscia di morte, rabbia, ansia, depressione, perdita di controllo, percezione di incapacità, sensi di colpa, vergogna oltre che sofferenza fisica. Possiamo individuare quattro aree di sofferenza: • relativa al corpo: un corpo offeso dal dolore, invaso dalla malattia, un corpo fonte di vergogna, incontrollabile, estraneo, inabile, divenuto inutile; • relativa alla mente: alla possibilità di non essere più in grado di ragionare, di impazzire, della confusione mentale; • relativa alla proiezione temporale: alle aspettative su se stessi, ai propri progetti, l’impossibilità di pensarsi nel futuro, l’ignoto, il nulla, l’assenza del tempo; • relativa alle relazioni: per la perdita di un ruolo in famiglia, nel lavoro, nella società; paura di essere abbandonato, di essere dimenticato, di essere di peso, di non avere più valore, di essere ripugnante, di non essere più degno di amore; paura di cosa accadrà alla famiglia dopo... . Sofferenza dovuta alla reattività mentale non certo meno dolorosa, invalidante e pericolosa per la qualità e la durata della vita della sofferenza fisica. Sono numerosi gli studi che pongono l’attenzione sul complesso legame tra corpo e mente e che mettono in evidenza come la percezione di uno stimolo doloroso, fisico o psichico, e la reazione ad esso sia condizionata dalla qualità del nostro stato mentale che influisce anche sulle prospettive di sopportazione e guarigione della malattia. 91
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Dalle più recenti ricerche attraverso la neuroimaging funzionale si rileva inoltre che le aree cerebrali impegnate nella risposta al dolore fisico e a quello psichico sono le stesse, segno che la distinzione tra i due tipi di sofferenza è in definitiva arbitraria. Il dolore cronico presente nelle malattie degenerative, neurologiche, oncologiche, specie nelle fasi avanzate e terminali di malattia, assume dunque caratteristiche di dolore globale, legato a motivazioni fisiche, psicologiche e sociali, come evidenziato nei documenti dell’OMS. Della sofferenza che deriva dalla prima freccia, nel nostro caso, se ne occupa il chirurgo, l’oncologo, ma come affrontare le numerose ferite delle altre frecce che vengono scoccate dall’ arco della nostra stessa mente? Trovare nella propria pratica clinica strumenti per aiutare le persone che soffrono, nel corpo e nella mente, grandi dolori e turbamenti, è la molla che spinge il terapeuta, ed in particolare il terapeuta della mente, a una continua ricerca, e non solo intellettuale, di percorsi che aiutino prima di tutto egli stesso e che possano essere poi di beneficio ai pazienti che incontra nella sua professione. È quello che è accaduto per quanto riguarda la “mindfulness” e l’elaborazione del protocollo clinico MBSr, mindfulness based stress reduction. la mindfulness come programma clinico, nasce nel 1979, ideato dal Prof Jon Kabat-Zinn, (Centre for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society dell’università di Boston). Kabat Zinn, che da tempo coltivava la meditazione vipassana (o di visione profonda, o di consapevolezza) e si interessava agli effetti benefici di questa sulla riduzione della sofferenza percepita e sul riequilibrio psicofisico, crea, per aiutare i pazienti a ridurre il dolore e lo stress causati da gravi patologie organiche, un percorso strutturato che unisce la millenaria esperienza delle tecniche meditative in particolare trasmesseci dalla tradizione buddista Theravada con aspetti scientifici e psico-educazionali, proprio in ambito medico. Scrive Kabat Zinn su (riprendere i sensi, Tea Edizioni, .109). «Dato il grado di sofferenza che gli ospedali attraggono, uno po92
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trebbe pensare: “Quale posto migliore di questo per offrire formazione alla presenza mentale, visto che un’autorità come il Buddha, nientemeno, ha detto che essa è ‘l’unico sentiero verso la vittoria sulla pena e sul lamento e verso l’eliminazione del malessere e dell’angoscia’, in una parola verso il sollievo dalla sofferenza? Esporsi alla pratica della presenza mentale, quindi, se davvero è tanto potente, fondamentale e universale come dichiarava il Buddha, non potrebbe portare notevole beneficio a molte delle persone che si ricoverano in ospedale?» Così nel 1979, con il sostegno del primario di Medicina Interna del Medical Center dell’università di Worcester (Boston - Massachusetts), fonda la prima Clinica per la riduzione dello stress basata sulla coltivazione della mindfulness. Cosa è la Mindfulness la parola mindfulness, traduzione inglese della parola in lingua Pali (la lingua dell’antico Canone buddista) “Sati”, significa letteralmente presenza mentale o consapevolezza. Significa anche memoria, nella sua accezione di ricordarsi di essere presenti mentalmente al flusso di esperienza del momento presente. È una forma particolare di consapevolezza, non cognitiva, non discorsiva, un modo di essere in contatto (un contatto non filtrato da immagini mentali piene di emozioni dolorose che trasformano e appesantiscono la realtà) con ciò che accade nel momento presente, nello stesso momento in cui accade. È la chiara e decisa consapevolezza di ciò che realmente accade a noi e in noi nei momenti successivi alla percezione. È chiamata nuda poiché riguarda solo i puri e semplici fatti della percezione come si presentano attraverso i cinque sensi o attraverso la mente senza reagire ad essi. lo stato mentale della consapevolezza così intesa è lo stato naturale della mente intrinseca a noi esseri umani quando essa non è agitata dai movimenti di avversione e attaccamento, dalla proliferazione mentale, 93
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dalla confusione, dal torpore che la allontanano dalla chiara visione dell’esperienza del momento; “qualifica la mente nella sua funzione di pura conoscenza/esperienza, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com'è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente” (Teasdale); implica il riuscire a diventare più intimi con la propria esperienza momento per momento attraverso l’esercizio sistematico dell‘osservazione (attenzione intenzionale non giudicante) di ciò che sorge fuori e dentro di sé, con una sospensione intenzionale dell'impulso a definire, valutare e giudicare l’esperienza. la mindfulness non agisce sui contenuti dolorosi, interni o esterni che siano, ma sulla relazione che con essi abbiamo. Porta cioè a non essere più in relazione con la realtà a partire dalle nostre sensazioni, emozioni, pensieri, ma assieme a questi che diventano non tanto abiti della nostra identità, lenti che deformano il mondo con cui entriamo in contatto, ma viceversa oggetti essi stessi facenti parti di quella realtà di osservazione e di consapevolezza di una mente calma e chiara la cui funzione non è tanto quella di giudicare, opporsi, reagire, negare, deformare ma di conoscere, e dunque prima di tutto accettare, la realtà per come essa si presenta e di rispondere ad essa in modo utile e salutare per il proprio benessere. la proposta della mindfulness dunque è di iniziare a spostare l’attenzione dall’evento percepito come doloroso allo strumento che questo evento percepisce, cioè la mente. Dalla malattia a come la mente accoglie l’esperienza della malattia, la percepisce a livello sensoriale e la interpreta a livello cognitivo e reagisce ad essa a livello emotivo. le pratiche mindfulness aiutano a coltivare alcune qualità mentali pazienza, attenzione non giudicante, accettazione, curiosità, chiarezza mentale, serenità, decentramento, compassione, gioia - utili a liberare la mente stessa dalla morsa dell’avversione (che si trasforma in rabbia persecutoria o in depressione); della paura (da cui la negazione e la confusione); dell’auto-referenza (perché proprio a me...); dell’attaccamento ad una identità cristallizzata (che porta al94
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l’impossibilità di rispondere efficacemente alle richieste di cambiamento psicologico, fisico e sociale che la malattia impone). Per chi convive con una malattia oncologica e con il suo carico di dolore, ansia e paura mente mindful significa per esempio poter notare le sensazioni, le emozioni, i pensieri via via che sorgono senza correre in avanti saltando a piè pari in conclusioni a priori; poter fare attenzione alla qualità della sensazione dolorosa, a come pulsa, alla sua temperatura, a come si modifica, osservandola attentamente e in profondità attimo per attimo nel suo manifestarsi cosicché forse è possibile sperimentare che non è un qualcosa di enorme, fisso e spaventoso, ma un processo i continua trasformazione; significa notare la rabbia, la paura che sorge e fare esperienza di queste, di come esse si manifestano nella mente e nel corpo, non come la “mia rabbia”, “la mia paura” che porterebbe automaticamente a giudicarsi, a negarla, reprimerla o agirla contro sé o gli altri, ma come fenomeni che sorgono, occupano uno spazio temporale conoscibile attraverso le impressioni sensoriali e svaniscono. Il protocollo clinico MBSR Il protocollo per la riduzione dello stress è strutturato in 8 incontri di gruppo settimanali di circa due ore e mezzo circa ciascuno, più quattro incontri di follow up a distanza di qualche mese. Il protocollo propone: • un addestramento intensivo alla meditazione di consapevolezza (più conosciuta come meditazione Vipassana), definita anche come “auto-regolazione intenzionale dell’attenzione”. • momenti di condivisione di gruppo sul vissuto dei partecipanti riguardo agli esercizi proposti; con riflessioni su alcuni temi quali l’attenzione non giudicante, la mente del principiante (o di “colui che non sa”), il lasciar andare e il lasciar essere, la fiducia in sé; • movimento corporeo (yoga, streching) per migliorare il livello di consapevolezza durante il movimento • materiale teorico relativo a concetti quali stress , attenzione, con95
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nessione corpo-mente ed altri temi • metodi specifici per favorire la capacità di comunicazione. • compiti a casa giornalieri per la durata di 1 ora, schede riguardo alle attività svolte ogni settimana, il supporto di dispense ed articoli su argomenti scientifici e di CD (per accompagnare la pratica degli esercizi a casa) Alcune ricerche sull’efficacia del protocollo MBSR in oncologia Dai primi anni ’80, l’equipe di Kabat-Zinn, inizia a sviluppare i primi lavori di ricerca, inizialmente sulle applicazioni del protocollo a pazienti affetti da dolore cronico, ampliando poi l’indagine ad altre categorie: psicosomatica e psicologia. Il metodo, validato e confermato in questi ultimi decenni da ricerche svolte grazie a nuove tecnologie neuroscientifiche (brain imaging), grazie ai suoi effetti sulla salute, sull’equilibrio psicofisico (confermate da ricerche sui valori sul sistema immunitario, endocrino, cardio circolatorio) e sulla qualità di vita degli individui, è applicato ormai sia negli Stati uniti che in Europa, in vari ambiti: medico, psicologico, aziendale, scolastico, sportivo. Purtroppo in Italia non sono disponibili ancora molti dati sull’uso del protocollo MBSr in oncologia; una ricerca fatta all’u.O.S. di psiconcologia, Istituto Oncologico Veneto IOV-IrCCS di Padova sull’applicazione di un programma di MBSr è stata presentata dalla dott.ssa Eleonora Cason ultimamente ad un convegno “su meditazione e neuroscienze” svoltosi all’università la Sapienza di roma, dipartimento di psicologia. all’estero viceversa la ricerca in questo campo è molto feconda grazie anche alla passione di linda E. Carlson PhD, Professore associato, Enbridge research Chair in Psychosocial Oncology in Psychosocial Oncology research, Dipartiment di oncologia, Facoltà di Medicina, università di Calgary, Canada In un convegno tenutosi l’anno scorso linda Carlson 96
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ha presentato numerosi studi di efficacia del protocollo MBSr relativamente a quelle che sono le esperienze comuni nel cancro sono: • stress/distress • lo stile di copying relativo al trattamento • il controllo dei sintomi (dolore,nausea, stanchezza cronica) • perdita del controllo • incertezza/paura per le recidive • identità da malato • il tema della morte e del morire gli studi presentati fanno tutti parte del Program research del Tom Baker Cancer Center. Il protocollo clinico di riferimento è il Calgary Mbsr Program sviluppato nel 1966 da Michael Speca, Mauree angen e Eileen goodery il Il programma si basa sull’umass Model, è aperto ai pazienti oncologici e ai loro familiari. Hanno partecipato al programma più di 1.500 pazienti, e sono state condotte ricerche multiple. I Questionari utilizzati sono: • Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI; Buysse, reynolds, Monk, Berman, & Kupfer, 1989): per la valutazione del sonno • I sintomi dello stress Inventory (SOSI; leckie & Thompson, 1979): Il SOSI è stato progettato per misurare le risposte fisiche, psicologiche e comportamentali di situazioni stressanti. • Il profilo degli Stati dell’umore (POMS, McNair, lorr, e Droppelman, 1971): Il POMS è ampiamente usato per studiare gli aspetti psicologici del cancro. Presenterò brevemente alcuni di questi studi: Studio 1 “The effects of a Mindfulness Meditation-Based Stress reduction Program on Mood and symptoms of Stress in cancer outpatients: 6-month follow-up” 97
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linda E. Carlson Zenovia ursuliak Eileen goodey Maureen angen Michael Speca Support Care Cancer (2001) Hanno partecipato alla ricerca 89 pazienti con diagnosi mista di cancro. alcuni in trattamento altri fuori. alcuni facevano l’MBSr, altri erano in lista di attesa. Focus della ricerca: Come cambiavano i sintomi dello stress e i disturbi dell’umore e il mantenimento dei miglioramenti rispetto allo stress e dei disturbi dell’umore per i sei mesi successivi alla fine del programma. risultati: MBSr diminuisce il disturbo dell’umore (profilo di ansia e disturbi dell’umore), ultima colonnina differenza tra il primo e il dopo, attorno ad una riduzione del 50 per cento tra il prima e il dopo. ana-
loghi risultati sono stati ottenuti per lo stress e l’ansia. Studio 2 Effetti endocrino - immunitari Mindfulness-Based Stress reduction in relation to Quality of life, Mood, Symptoms of Stress and levels of cortisol, Dehydroepiandrosterone sulfate (DHEaS) and Melatonin in breast and prostate cancer outpatients. 98
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linda E. Carlson a,b,∗, Michael Speca a,b, Kamala D. Patel c, Eileen goodey a Psychoneuroendocrinology 29 (2004) 448–474 Hanno partecipato alla ricerca 60 pazienti con tumore al seno e alla prostata ad uno stadio inizile valutati a tre mesi dal il trattamento risultati: 1. Miglioramento della qualità della vita 2. rafforzamento della funzione immunitaria 3. Normalizzazione dei patterns della secrezione del cortisolo 4. Mantenimento dei valori ad un follow up dopo un anno Studio 3 Impact of Mindfulness-Based Stress reduction (MBSr) on Sleep, Mood, Stress and Fatigue Symptoms in Cancer Outpatients linda E. Carlson and Sheila N. garland International Journal of Behavioral Medicine Copyright © 2005 by 2005, Vol. 12, No. 4, 278–285 Ha partecipato alla ricerca un campione eterogeneo di 63 pazienti oncologici. Ipotesi: 1. la partecipazione al programma MBSr porterebbe nelle misurazione pre-post intevento a variazioni positive per quanto riguarda la qualità del sonno, i sintomi dello stress, lo stato dell’umore e il livello di fatigue. 2. I livelli assoluti di stress potrebbero essere correlati alla qualità del sonno sia nel pre che nel post-intervento, 3. Modifiche nelle misure del sonno sarebbero correlate a concomitanti cambiamenti nei livelli di stress e nei punteggi dell’umore e della fatigue risultati I disturbi del sonno sono stati ridotti significativamente (p <.001), Significativa riduzione dello stress (p <.001), Disturbi dell'umore (p =.001), Della fatigue (p <.001). 99
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Questi studi completi e diversi altri studi sull’utilizzo e il beneficio del protocollo MBSr in oncologia possono essere trovati sul sito della nostra associazione Centro Italiano Studi Mindfulness www.centrostudimindfulness.net Vorrei terminare questo intervento con le parole di Jon Kabat Zinn
che elaborando il protocollo MBSr ha avuto il grande merito di aver offerto a migliaia persone, che non si sarebbero ma avvicinate alla meditazione nel suo contesto spirituale religioso, queste antiche ed efficaci pratiche per alleviare la sofferenza. «“Medicina” e “meditazione” vengono entrambi dal verbo latino mederi, che significa curare; tuttavia la radice più antica indoeuropea di mederi, porta con se il significato di “misurare”. Non si tratta del nostro solito concetto di misurare ….si riferisce piuttosto al concetto platonico che ogni cosa possiede la propria giusta misura intrinseca, le proprietà che ne fanno quella che è. la medicina dunque può essere intesa come ciò che ripristina la giusta misura intrinseca quand’è alterata, e la meditazione può essere vista come la percezione diretta della giusta misura intrinseca e la profonda conoscenza empirica della sua natura.» (Jon Kabat Zinn, Riprendere i Sensi, Tea 100
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edizioni, p. 111).
Capitolo x la PrEVENZIONE DEI TuMOrI aTTraVErSO Il CIBO: WCrF 2007 G Anna Villarini
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la ricerca nel campo oncologico si sviluppa principalmente su due grandi fronti: 1. trovare le terapie più idonee e più risolutive nella cura dei tumori 2. prevenire l’insorgere delle patologie oncologiche Per prevenzione si intende la promozione ed il mantenimento della salute attraverso interventi individuali o collettivi effettuati sulla popolazione sana che riguarda, tra le altre cose: • l’identificazione dei fattori di rischio ambientali • Il potenziamento delle capacità di difesa individuali • Promuovere interventi sulla dieta e sugli stili di vita I tumori sono la seconda causa di morte tra la popolazione Italiana: I tumori di cui in Italia ci si ammala di più sono: Fonte: I nuovi dati di incidenza e mortalità. 2009, AIRTUM
Il WCrF o Fondo Mondiale per la ricerca sul Cancro ha pubblicato nel 2007 un importante report. la missione del WCrF è quella di promuovere la prevenzione primaria dei tumori attraverso la ricerca
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e la divulgazione della conoscenza sulle loro cause; nel 2007 ha con-
cluso un’opera ciclopica di revisione di tutti gli studi scientifici sul rapporto fra alimentazione, peso, attività fisica e tumori. Vi hanno contribuito oltre 150 ricercatori, epidemiologi e biologi, di circa cinquanta centri di ricerca fra i più prestigiosi del mondo. l’Istituto Nazionale dei Tumori, in cui lavoro, ha gestito la sezione sui tumori della mammella, dell’ovaio e della cervice uterine. Il volume, disponibile su www.dietandcancerreport.org, è molto prudente nelle conclusioni, che riassumono in 10 raccomandazioni solo i risultati più solidi della ricerca scientifica. Di tutti i fattori che si sono dimostrati associati ad un maggior rischio di cancro, quello più solidamente dimostrato è il sovrappeso: le persone grasse si ammalano di più di tumori della mammella, dell’endometrio, del rene, dell’esofago, dell’intestino, del pancreas, e della cistifellea. Successivamente alla stesura del report altri studi hanno evidenziato che il sovrappeso e l’obesità determinano un rischio maggiore quando sono associati ad obesità addominale. l’obesità addominale si stima, approssimativamente, misurando la circonferenza vita delle persone. Mediamente la morfologia europea vede un aumento di rischio nelle donne la cui circonferenza supera 85 cm e negli uomini la cui circonferenza vita supera i 100 cm. 103
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Di qui la prima raccomandazione di mantenersi snelli per tutta la vita e di evitare i cibi ad alta densità calorica, cioè i cibi ricchi di grassi e di zuccheri, che più di ogni altro favoriscono l’obesità: in primo luogo quelli proposti nei fast food e le bevande zuccherate. la vita sedentaria è un’altra causa importante di obesità, ma è una causa di cancro anche indipendentemente dall’obesità: gli studi epidemiologici hanno evidenziato che le persone sedentarie si ammalano di più di cancro dell’intestino, della mammella, dell’endometrio, e forse anche del pancreas e del polmone. la causa principale individuata per la sedentarietà è il troppo tempo trascorso davanti alla televisione o davanti al computer. altri fattori che un gran numero di studi coerentemente indicano come cause importanti di cancro includono: il consumo di bevande alcoliche, associato ai tumori del cavo orale, della faringe, della laringe, dell’intestino, del fegato e della mammella; il consumo di carni rosse, soprattutto di carni conservate, associato principalmente al cancro dell’intestino, ma probabilmente anche ai tumori dello stomaco, e sospettato per i tumori dell’esofago, del pancreas, del polmone e della prostata; il consumo elevato di sale e di cibi conservati sotto sale, associati al cancro dello stomaco; il consumo elevato di calcio, probabilmente associato al cancro della prostata; il consumo di cereali e legumi contaminati da muffe cancerogene, responsabili del cancro del fegato; la contaminazione con arsenico dell’acqua da bere, responsabile di tumori del polmone e della pelle. Sul latte e i latticini e, in generale, sui grassi animali gli studi sono molto contrastanti e non conclusivi: il consumo di latte sembrerebbe ridurre i tumori dell’intestino, che sarebbero però aumentati dal consumo di formaggi, e un consumo elevato di grassi aumenterebbe sia i tumori del polmone che i tumori della mammella; si tratta di aumenti di rischio modesti ma, data l’elevata frequenza di questi tumori, tutt’altro che trascurabili. Si tratta comunque di alimenti ad alta densità calorica, specialmente i formaggi, che se consumati in eccesso favoriscono sia il sovrappeso che l’obesità, che, come abbiamo 104
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detto, sono associati al rischio di alcuni tumori. un ulteriore fattore importante considerato nel volume è l’allattamento, che riduce il rischio di cancro della mammella, e forse dell’ovaio, per la donna che allatta, e riduce il rischio di obesità in età adulta per il bambino che viene allattato. Il progetto EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition, un grande studio prospettico che segue oltre 520.000 persone reclutate in 10 paesi europei con abitudini alimentari molto diverse) ha confermato un chiaro effetto preventivo del consumo di alimenti ricchi di fibre vegetali, sia cereali sia verdura e frutta, per i tumori di stomaco e intestino. Questi risultati giustificano la raccomandazione di aumentare il consumo di verdura e frutta con l’esclusione delle patate il cui consumo non è associato ad alcuna protezione. l’importanza nella protezione dai tumori che sembrano avere le sostanze contenute nella verdura e nella frutta ha stimolato la ricerca a valutare l’efficacia dell’assunzione di queste sostanze attraverso l’utilizzo di integratori alimentari. Questi cocktail di vitamine, antiossidanti e sali minerali ha però dato, nella stragrande maggioranza degli studi, risultati deludenti, e talvolta drammatici: integratori con beta-carotene hanno causato un aumento significativo dell’incidenza del cancro del polmone nei fumatori; alte dosi di vitamina E hanno fatto aumentare le emorragie cerebrali, la mortalità generale e aumento dell’incidenza del cancro della prostata; la crusca di cereali o integratori a base di fibre solubili hanno, in certi casi, fatto aumentare l’incidenza di polipi intestinali; la supplementazione di selenio ha fatto aumentare il diabete; ma in generale i risultati sono stati nulli. le ragioni di questo fallimento non sono note con precisione. le ipotesi principali sono che certe sostanze antiossidanti, ad alte dosi, diventino proossidanti, oppure possano impedire, nelle cellule con alterazioni, i meccanismi che portano al suicidio cellulare, meccanismi che sfruttano vie ossidative. rimane quindi valida la raccomandazione di consumare un’ampia varietà di cibi vegetali ma non di ricorrere ad integratori alimentari ad alte dosi. 105
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Ma veniamo alle raccomandazioni: 1) Mantenersi snelli per tutta la vita. Per conoscere se il proprio peso è in un intervallo accettabile è utile calcolare l’Indice di massa corporea chiamato BMI. Si calcola dividendo il proprio peso in Kg per l’altezza in metri elevata al quadrato. BMI = peso(Kg)/h2(m). Il valore dovrebbe rimanere nell’intervallo considerato normale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità cioè fra 18,9 e 24,9. 2) Mantenersi fisicamente attivi tutti i giorni. È sufficiente una camminata veloce per almeno 30 minuti al giorno. l’uso dell’auto per gli spostamenti e il tempo passato a guardare la televisione sono i principali fattori che favoriscono la sedentarietà nelle popolazioni urbane. 3) Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica ed evitare il consumo di bevande zuccherate. Sono generalmente ad alta densità calorica i cibi industrialmente raffinati, precotti e preconfezionati, che contengono elevate quantità di zucchero e grassi. Si noti la differenza fra “limitare” ed “evitare”. Se occasionalmente si può mangiare un cibo molto grasso o zuccherato, ma mai quotidianamente, l’uso di bevande gassate e zuccherate è invece da evitare, anche perché forniscono abbondanti calorie senza aumentare il senso di sazietà. 4)Basare la propria alimentazione prevalentemente su cibi di provenienza vegetale, con cereali non industrialmente raffinati e legumi in ogni pasto e un’ampia varietà di verdure non amidacee e di frutta. Sommando verdure e frutta sono raccomandate almeno cinque porzioni al giorno (per circa 600g); fra le verdure non sono considerate le patate. 5) Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni conservate. le carni rosse comprendono le carni ovine, suine e bovine, compreso il vitello. le carni conservate comprendono tutti i salumi, prosciutto compreso per le quali non si può dire che vi sia un limite al di sotto del quale probabilmente non vi sia rischio. 106
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6) Limitare il consumo di bevande alcoliche. Non sono raccomandate, ma per chi ne consuma si raccomanda di limitarsi ad una quantità pari ad un bicchiere di vino (da 120 ml) al giorno per le donne e due per gli uomini 7)Limitare il consumo di sale (non più di 5 g al giorno) e di cibi conservati sotto sale. Evitare cibi contaminati da muffe (in particolare cereali e legumi). assicurarsi quindi del buon stato di conservazione dei cereali e dei legumi che si acquistano, ed evitare di conservarli in ambienti caldi ed umidi. 8) Assicurarsi un apporto sufficiente di tutti i nutrienti essenziali attraverso il cibo. Di qui l’importanza della varietà. l’assunzione di supplementi alimentari (vitamine o minerali) per la prevenzione del cancro è invece sconsigliata. 9) Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi. 10) Nei limiti dei pochi studi disponibili sulla prevenzione delle recidive, le raccomandazioni per la prevenzione alimentare del cancro valgono anche per chi si è già ammalato. Comunque non fare uso di tabacco. È bene ricordare che l’alimentazione può influenzare l’insorgenza dei tumori attraverso numerosi meccanismi che sono sempre più chiari grazie ai numerosi studi prodotti. alcuni meccanismi ci espongono al rischio altri ci proteggono. Sono fattori di rischio: - la presenza di sostanze cancerogene nei cibi (ad esempio le micotossine che si formano nella cattiva conservazione dei cereali ed altri alimenti conservati in ambienti caldo-umidi; le nitrosammine che si formano nella conservazione di cibi proteici in presenza di nitriti, in particolare nei salumi; i residui di pesticidi) - la formazione di sostanze cancerogene a causa della cottura (ad esempio le ammine eterocicliche che si formano durante la cottura prolungata delle carni nella cottura delle carni, o gli idrocarburi policiclici aromatici che si formano cuocendo le carni ad alte temperature come la cottura alla piastra e al forno) - le sostanze ossidanti (ad esempio il ferro delle carni rosse, che favorisce 107
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la formazione di N-nitroso composti cancerogeni nel lume intestinale e che formando radicali liberi favorisce l’ossidazione dei lipidi delle membrane cellulari rendendole più esposte all’attacco delle sostanze cancerogene) - i precursori di prostaglandine proinfiammatorie che preparano un ambiente idoneo alla crescita delle cellule tumorali (ad esempio l’acido arachidonico presente prevalentemente nelle carni sia bianche che rosse) - gli attivatori della produzione dei fattori di crescita cellulare ad esempio dell’IgF-I di cui fanno largo uso le cellule tumorali per crescere bene (come il latte o le diete iperproteiche) - le sostanze che stimolano l’eccessiva produzione di ormoni, come l’insulina, che attiva meccanismi correlati alla proliferazione cellulare favorendo la formazione di cellule tumorali (ad opera del largo impiego di alimenti troppo raffinati, fatti con farine 0 e 00, zuccheri e grassi) - la presenza di Sindrome Metabolica (SM) una condizione prepatologica caratterizzata solitamente da alti livelli di insulina. la SM è fattore di rischio anche per molte altre patologie cronicodegenerative come le patologie cardiovascolari, il diabete e le demenze senili. Essere in SM significa avere almeno 3 dei seguenti fattori di rischio: circonferenza vita ≥ 100 cm per gli uomini e 85 cm per le donne; glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl; pressione arteriosa ≥ 130/85 mmHg; HDl < 40 mg/dl per gli uomini e < 50 mg/dl per le donne; trigliceridi ≥ 150 mg/dl. la SM si manifesta principalmente in persone con scorrette abitudini alimentari (iperalimentazione, scelta sbagliata dei cibi), fumatori e sedentari. Sono fattori protettivi: - la presenza di sostanze antiossidanti (le vitamine C ed E, i carotenoidi, i polifenoli e tanti altri composti minori presenti nei cibi vegetali) che proteggono il DNa dai radicali liberi e prevengono l’attivazione metabolica di vari cancerogeni - l’attivazione di enzimi che favoriscono la detossificazione di 108
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sostanze cancerogene di origine ambientale (ad esempio i glucosinolati contenuti nei vegetali della famiglia delle crocifere, che comprende tutti i tipi di cavoli e le rape) - le sostanze che promuovono la differenziazione delle cellule, riducendo la probabilità diano origine a tumori (ad esempio la Vitamina D, che più che trovarla nei cibi siamo in grado di formarla attraverso la luce solare, quindi anche facendo una passeggiata all’aria aperta) - sostanze che aiutano le cellule tumorali a “suicidarsi” (ad esempio gli acidi grassi poli-insaturi omega-3) - i precursori di sostanze ad azione antinfiammatorie e antiproliferative (ad esempio l’acido eicosapentaenoico del pesce, e l’ acido gamma-linolenico di alcuni oli vegetali) -i modulatori della regolazione del ciclo cellulare (ad esempio l’idrossitirosolo dell’olio di oliva) - i modulatori della sintesi di fattori di crescita (come la restrizione calorica, cioè mangiare poco o mangiare cibi integrali ad alto potere saziante) - i modulatori dell’ambiente ormonale, per evitare i picchi di insulina (come i cibi integrali, non raffinati e con pochi grassi) la complessa interazione di questi meccanismi, unita all’estrema varietà delle combinazioni alimentari nelle varie popolazioni e alla diversa costituzione genetica degli individui rende difficile riconoscere l’eventuale responsabilità causale di uno specifico fattore o stile alimentare. Malgrado le difficoltà gli importanti studi epidemiologici prodotti in questo ambito hanno condotto alla conclusione che oltre un terzo delle neoplasie sono teoricamente prevenibili con modificazioni sostenibili della alimentazione. Pur sapendo che un fattore di rischio è una specifica condizione che risulta statisticamente associata ad una malattia e che si ritiene possa concorrere alla sua patogenesi, favorirne lo sviluppo o accelerarne il decorso; che un fattore di rischio non è un agente casuale, ma un indicatore di probabilità che lo stesso possa associarsi ad una determinata condizione clinica, sappiamo anche che la sua assenza 109
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non esclude la comparsa della malattia, ma la sua presenza aumenta notevolmente il rischio.Per questo la prevenzione assume una valenza importante, se non possiamo modificare l’età, il sesso e la familiarità (che pure incidono nella patologie oncologiche) possiamo però scegliere cosa mangiare, se fumare, se correggere il nostro peso, se fare attività fisica, quanto e cosa bere. Il grafico sottostante ci indica, dando le percentuali, che molto nella prevenzione dipende da noi, quindi perché non provare?
Capitolo xI INTErFErENTI ENDOCrINI E SaluTE uMaNa: Il rISCHIO NEOPlaSTICO Carla Lubrano l’esposizione ad un agente ambientale è definita come ogni con-
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tatto tra potenziale agente pericoloso presente in una matrice ambientale (aria, acqua, alimenti) e la superficie del corpo umano (pelle, rivestimento del tratto respiratorio o digestivo). recenti dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-2006) rilevano quanto sia importante l’impatto dell’ambiente sulla salute umana, evidenziando che il 25% delle malattie negli adulti e il 33% nei bambini sembra essere causato da condizioni ambientali evitabili. Tuttavia diventa difficile attribuire uno specifico effetto sulla salute umana ad un singolo agente inquinante, in quanto il fattore ambientale non agisce allo stesso modo sui diversi individui e ogni singolo inquinante interagisce con altri fattori di rischio. gli inquinanti organici persistenti (POPs - Persistent Organic Pollutants) sono un gruppo di composti chimici scarsamente polari (idrosolubili), lipofili (tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo), estremamente resistenti alla degradazione chimica e biologica con una lunga emivita, variabile nell’uomo per i PCDDs tra 7-10 anni. Tra questi i più noti sono gli Idrocarburi Policiclici aromatici (IPa) le diossine tra cui i Policlirobifenili (PCDFs), le Policlorodibenenzodiossine (PCDDs), i pesticidi, gli erbicidi, i metalli pesanti. una recente indagine dell’Environmental Protection agency (EPa) americana ha evidenziato la presenza nell’aria nelle cosiddette “polveri sottili” di circa 40 agenti di accertata tossicità/cancerogenicità, fra i quali: benzene, composti del cromo, formaldeide, arsenico, acrilonitrile, cadmio, piombo, tricloroetilene, 1,3 butadiene, cloruro di vinile, idrocarburi aromatici policiclici, materiale particolato (PM10PM0,1)1. le principali sorgenti sono rappresentate da autoveicoli, industrie chimiche e di raffineria, impianti di riscaldamento, inceneritori, discariche, impianti per la produzione di pasta di legno e carta, incendi, concimi e fertilizzanti utilizzati in agricoltura. Successivamente all’emissione nell’ambiente, tali sostanze possono essere trasportate a grande distanza rispetto alla fonte di emissione, si depositano nel suolo e nelle acque, penetrano nella catena alimentare, attraverso la 111
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contaminazione della flora e della fauna e possono dar luogo a fenomeni di bioconcentrazione e di bioaccumulo negli organismi viventi. Per bioconcentrazione si intende la capacità di deposito delle sostanze tossiche negli organismi viventi caratterizzabile come il rapporto tra la concentrazione di una sostanza tossica nell’organismo e quella nel mezzo circostante; con il termine bioaccumulo si indica quel fenomeno di accumulo irreversibile di una sostanza nei tessuti degli organismi viventi 2. I POPs sono sostanze attive anche in microdosi, per la loro bassa degradabilità ambientale, e quindi cumulabili nell’ambiente e negli organismi. I limiti di riferimento proposti per tentare di “pesare”gli effetti dell’esposizione umana, (livelli giornalieri accettabili), sono basati sul “lowest Observed Effect level”, ovvero sui livelli di esposizione che durante la vita media di un individuo non dovrebbero comportare – sulla base delle attuali conoscenze scientificheun rischio apprezzabile 3. gli inquinanti assunti (inalati o ingeriti), possono interferire sull’assetto epigenetico dei tessuti fetali. l’epigenoma è la componente più dinamica e fluida del programma genetico, in continua trasformazione, in risposta a richieste e sollecitazioni proveniente dall’ambiente e dall’organismo stesso. la risultante alterazione dei meccanismi di trascrizione del DNa, può influenzare la programmazione e lo sviluppo di organi e tessuti, aprendo la strada nella vita adulta a varie patologie di carattere endocrino-metabolico, neurodegenerativo, cardiovascolare e neoplastico. I POPs sono considerati Interferenti Endocrini (IE, Endocrine Disruptors o Endocrine Disrupting Chemicals) essendo in grado di alterare l’omeostasi endocrina. la definizione più comunemente accettata, elaborata da un Workshop Europeo già nel 1996, è la seguente: “un interferente endocrino è una sostanza esogena, o una miscela, che altera la funzionalità del sistema endocrino, causando effetti avversi sulla salute di un organismo, oppure della sua progenie o di una (sotto)popolazione” 4. la fase più sensibile all’azione degli IE è sicuramente quella riproduttiva, considerata come un 112
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continuum che va dalla produzione di gameti alla fertilizzazione fino allo sviluppo intrauterino e postnatale della progenie. Bersagli elettivi di tali sostanze sono i tessuti bersaglio degli ormoni sessuali (asse ipotalamo-ipofisi, tessuto adiposo, ghiandola mammaria e prostatica, testicolo, ovaio e utero). Tuttavia, possono considerarsi potenziali bersagli degli IE tutti quei tessuti/organi (quali il tessuto scheletrico, il sistema cardiovascolare, il sistema nervoso centrale) in cui siano espressi recettori ormonali: tali sostanze, infatti, oltre che interagire con recettori per ormoni tiroidei e steroidei hanno la capacità di interagire con un grande numero di specifici recettori nucleari (PPar rxr, ahr, VDr). Esiste inoltre un’ampia gamma di effetti che prescindono dalla semplice competizione per il legame al recettore. I PCB agiscono come antagonisti a livello dei recettori dei glucocorticoidi e degli estrogeni, interagendo con l’espressione neuronale di tali recettori5, le diossine interagiscono con il metabolismo della protein kinasi C e modulano i livelli di dopamina, attraverso l’attivazione del recettore per idrocarburi arilici (ahr), strettamente correlato con i recettori estrogenici α e β 6. I PCDF interagiscono con ahr,7 gli ftalati sono in grado di comportarsi come antagonisti recettoriali degli estrogeni e di modulare la steroidogenesi8. Il bisfenolo A attiva lo stesso fattore di trascrizione CrEB del 17 β estradiolo, mentre il nonilfenolo inibisce il metabolismo dell'acido arachidonico, presentando anche effetti sulla ciclossigenasi e quindi sull’infiammazione 9. I contaminanti clorurati persistenti (DDT e suoi metaboliti, diossine policlorobifenili - PCB), e diversi gruppi di pesticidi, biocidi ed antiparassitari usati nella filiera agrozootecnica inducono una inibizione della steroidogenesi e del rilascio di gonadotropine ed inibiscono l’enzima aromatasi.10 Inoltre, diversi “xenoestrogeni” organoclorurati mostrano una forte affinità con il recettore per il progesterone, pari o maggiore di quella con il recettore estrogenico α.11 113
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Tra i solventi organici, il Toluene, sembra indurre un danno ossidativo al DNa degli spermatozoi, determinando un effetto tossico a livello riproduttivo.12 I metalli pesanti (Cadmio Piombo, alluminio, Bario, Cobalto, Cromo, Mercurio, Nickel, uranio) sono quei metalli che presentano generalmente una densità maggiore a 4,5 grammi per centimetro cubo. Quando si parla di inquinamento da metalli pesanti, normalmente, però ci si riferisce a quattro di questi elementi, che sono i maggiori responsabili dei danni ambientali, ossia: il Mercurio, il Cadmio, il Piombo e l’alluminio. Nello specifico il Piombo interferisce con diversi meccanismi di azione degli estrogeni. Il Cadmio secondo la concentrazione raggiunta, può presentare azione sia estrogenica che androgenica e, a bassissime dosi, presenta un effetto inibitore sui meccanismi di riparazione del DNa e può essere considerato come cancerogeno di tipo I prevalentemente su polmone, prostata e mammella13. l’uomo può venire in contatto con queste sostanze attraverso tre principali fonti di esposizione: accidentale, occupazionale, ambientale. Per quanto riguarda le diossine, la principale via di introduzione nell’organismo umano è la via alimentare; secondo l’OMS, l’uomo assorbe il 90% di queste sostanze attraverso l’alimentazione. gli alimenti più contaminati sono quelli di origine animale: quanto maggiore è il consumo di carne e di grassi animali, tanto più si innalza il carico di diossine per l'organismo. gli animali d'allevamento, infatti, assumono le sostanze tossiche con il mangime, per poi immagazzinarle nel tessuto adiposo. Questo carico di diossine è evidente nelle persone che si nutrono prevalentemente di carne e pesce. la contaminazione dei mangimi per l’allevamento con queste sostanze determina pericoli reali per la salute umana: esempio eclatante è stata la contaminazione di un grosso quantitativo di uova con PCBs nella provincia di Brescia nel 2003 ed il recente episodio di contaminazione con diossine della carne di maiale in germania14. alcuni studi segnalano che IE, come alchilfenoli e ftalati, possono essere presenti nel suolo dei pascoli, ovvero la via primaria di esposizione a contaminanti durante l'alle114
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vamento. In particolare, gli ftalati risultano avere una certa capacità di bioaccumulo nei tessuti e nel latte di ruminanti, in determinate condizioni di esposizione15 . la probabilità di avere una diagnosi di cancro nell’arco della vita, in Italia è ormai del 50% sia per i maschi sia per le femmine, in altre parole ad un uomo su due ed ad una donna su due sarà fatta una diagnosi di cancro nel corso della vita. Sempre più emerge nella letteratura internazionale che i fattori comunemente ritenuti responsabili del cancro (invecchiamento, stile di vita, tabagismo ecc.) possono spiegare non più del 40% dei casi ed altri fattori, in primis quelli ambientali, devono essere invocati. Sulla base di studi e revisioni della letteratura condotti dall’International agency of reaserch on Cancer (IarC), esistono sufficienti prove per classificare circa sessanta sostanze o processi come probabilmente carcinogeni nell'uomo. Tuttavia sulla base di evidenze epidemiologiche, non è possibile sempre stabilire lo specifico agente causale. attualmente si ritiene che tra i fattori causali di cancro nella specie umana, circa il 10% possa essere attribuito a cause ambientali. Tale stima è in corso di revisione essendo possibile che la percentuale sia molto più elevata16. Nelle popolazioni che vivono in prossimità di impianti di incenerimento di rifiuti, è stato riscontrato un aumento dei casi di cancro dal 6 al 23%. Nel 2008 l’Istituto Statale di Sorveglianza Francese ha rilevato danni alla salute causati dai termovalorizzatori, per le loro emissioni di diossine, prodotte dalla combustione di plastica ed altri materiali. uno degli effetti dell'incenerimento è quello di trasformare la componente già tossica e non riciclabile del rifiuto urbano o industriale, in una sostanza più tossica che, risalendo la catena alimentare, tende ad accumularsi progressivamente nell’uomo.l’esposizione occupazionale e residenziale alle emissioni da impianto da incenerimento di rifiuti è stata associata con neoplasie del polmone, dello stomaco, del colon-retto, linfoma non Hodgkin, sarcoma dei tessuti molli, leucemie infantili17. gli idrocarburi policiclici aromatici (IPa) presentano effetti geno115
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tossici e cancerogeni. ed essendo anche agonisti del ahr, presentano effetti sulla espressione di geni bersaglio analoghi a quelli delle diossine18. È stata osservata l’associazione fra l’esposizione alimentare umana ad IPa e l’induzione di enzimi CYP (es. CYP1a1) regolati da ahr19. Inoltre l’elevata assunzione di IPa può aumentare il rischio di tumori endocrino-dipendenti, quale il carcinoma mammario postmenopausale20 e il cancro alla prostata21. È ormai chiaro che molti di pesticidi hanno un’azione mutagena e cancerogena e numerosissimi sono i tipi di cancro messi in relazione con l’esposizione a tali sostanze, in particolare: tumori cerebrali, tumori alla mammella, al pancreas, ai testicoli, al polmone, sarcomi ed o leucemie, linfomi non Hodgkin (lNH). Possiamo senza dubbio affermare che l’esposizione a pesticidi rappresenta un rischio importante per la salute umana per quanto riguarda sia le malattie neoplastiche che quelle cronico-degenerative tipiche delle società industrializzate. Si sta scoprendo che «quel che ieri era “il trionfo della chimica moderna” è invece una minaccia mortale all’ambiente mondiale»22 . 1
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CaPITOlO xII Il TraTTaMENTO OMEOPaTICO: Dalla PrEVENZIONE alla PallIaZIONE Franco Desiderio 117
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Nell’ultimo ventennio in campo oncologico abbiamo assistito ad un notevole miglioramento sia nella diagnostica che nella terapia, con un progressivo ma significativo miglioramento della sopravvivenza e in particolare della qualità della vita. la medicina accademica si avvale sempre di più della biologia molecolare sia per scoprire con maggiore precisione le più fini modificazioni genetiche che portano alla formazione del tumore che per approntare terapie mirate che abbiano come target solo quelle alterazioni molecolari dalle quali parte la trasformazione o la progressione tumorale, con la finalità di essere sempre più efficaci nella lotta al tumore e nello stesso tempo di minimizzare gli effetti collaterali che sono propri della chemioterapia. Nonostante queste conquiste della “medicina ufficiale” è ancora lunga la strada per sconfiggere definitivamente il cancro e una gran parte dei pazienti, in prevalenza donne, giovani e di elevato tenore socio culturale, si rivolgono ad altre terapie spesso senza neanche avvertire l’oncologo curante. recenti stime, infatti, affermano che dal 30 al 60% degli adulti affetti da tumore usano qualche forma di medicina complementare o alternativa (CaM) durante o subito dopo il trattamento oncologico standard. uno studio conoscitivo, mediante questionario anonimo, sull’uso delle CaM durante il trattamento chemioterapico, effettuato presso il DH Oncologico di rimini nel 1996, confermava che circa il 50% dei pazienti – in maggioranza di sesso femminile e di classe culturale medio-alta – ricorreva a un qualche tipo di medicina non convenzionale in associazione alle comuni terapie mediche. la CaM più utilizzata era l’Omeopatia e, per quanto riguardava il risultato, circa l’80% dei pazienti si considerava soddisfatto o molto soddisfatto delle cure effettuate, soprattutto per il miglioramento della qualità della vita in rapporto all’ansia e alle paure determinate dalla neoplasia e dal suo trattamento. Questo contemporaneo utilizzo di trattamenti differenti tra loro ormai sempre più praticato 118
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dai pazienti oncologici ci permette di parlare di Medicina Integrata e non più solo di medicina alternativa. già nel 1999 presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York è stato costituito il “Servizio di Medicina Integrativa” proprio per integrare l’assistenza medica tradizionale con altre terapie complementari per far fronte alle esigenze emotive, sociali e spirituali dei pazienti e delle famiglie. Perché è importante l’integrazione nella medicina oncologica moderna? In primo luogo per ridurre i rischi in cui i pazienti potrebbero incappare, come rivolgersi a medici non qualificati, rischiare una diagnosi tardiva o mancata, sospendere o rifiutare trattamenti convenzionali efficaci, sprecare denaro inutilmente, riportare effetti dannosi conseguenti ai trattamenti, incluse interazioni indesiderate. E poi soprattutto per migliorare il processo di assistenza che per i pazienti spesso assume importanza pari al risultato. Infatti noi sappiamo che il processo di assistenza può influire sui risultati non solo per quanto concerne la soddisfazione del paziente ma anche il suo stato di salute e l’efficacia del trattamento e non bisogna dimenticare, infine, che i pazienti spesso sono preoccupati dei rischi iatrogeni della medicina moderna più dei medici, che finora ne hanno sottolineato solo i benefici. Perché questa integrazione possa avvenire occorre parlare la stessa lingua, semplice e comprensibile, e avere obiettivi comuni. Ma quali sono gli obiettivi dei pazienti oncologici? Sicuramente la guarigione, evitando possibilmente sofferenze psichiche e fisiche. Ma anche quando queste non si possono sfuggire e la guarigione non può essere possibile, la richiesta più importante è quella di mantenere una qualità di vita dignitosa, per continuare a svolgere il proprio ruolo nella famiglia e nella società; la richiesta, per dirlo all’inglese, è di passare “dalla cura alla presa in cura” (caring vs. curing). gli obiettivi dell’oncologia medica sono invece legati alla sopravvivenza del paziente. l’obiettivo principale è la guarigione, ma quando questa non è possibile ci si deve accontentare di 119
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surrogati quali l’aumento della sopravvivenza globale (OS), cioè la quantità di tempo tra la diagnosi e il decesso, la sopravvivenza libera da malattia (DFS), cioè la quantità di tempo prima che il tumore si ri-manifesti dopo la terapia primaria; la sopravvivenza libera da progressione (PFS), cioè la quantità di tempo in cui la malattia oncologica avanzata rimane stabile prima della progressione. Spesso però, purtroppo, soprattutto questi due ultimi obiettivi non si traducono in un miglioramento della qualità della vita residua del paziente; anzi, a volte questa è nettamente peggiorata dalle ulteriori cure. Omeopatia e oncologia: possibilità di intervento I campi di intervento dell’omeopatia in oncologia sono i più diversi: • nella prevenzione oncologica • nella prevenzione e trattamento degli effetti collaterali da terapia medica oncologica(chemio, radio e ormonoterapia) • dopo terapie mediche oncologiche nel paziente guarito o presunto tale • nel trattamento palliativo delle malattie oncologiche avanzate Omeopatia e prevenzione Oncologica l’omeopatia per sua natura si occupa dei comportamenti dei pazienti intesi sia come stili di vita che di modalità reattive costituzionali alle varie noxe patogene. Da una parte quindi tende a migliorare la reattività costituzionale dalla quale dipende, tra l’altro, la risposta psico-endocrina e immunitaria e dall’altra una consulenza omeopatica prevede una sorta di educazione sanitaria che faccia comprendere ai pazienti quali comportamenti possano ridurre rischi oncogeni quali il fumo, l’alimentazione, la sedentarietà e altri potenziali stili di vita nocivi. Il trattamento omeopatico riduce il ricorso 120
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a farmaci chimici potenzialmente tossici e l’importanza di ciò è notevole in quanto, come è noto, una gran parte delle malattie del genere umano è dovuta all’eccessivo consumo di farmaci chimici. un trattamento omeopatico può aiutare l’organismo a guarire lesioni precancerose che sono precorritrici di alcuni tumori maligni, come le leucoplachie, la craurosi vulvare, le poliposi dell’apparato gastroenterico e genitale, le lesioni cervicovaginali da HPV, le lesioni papillomatose della vescica ed altre ancora, sulle quali la medicina ufficiale può intervenire solo con il bisturi senza riuscire a cambiare i fattori predisponenti, cioè “l’ambiente extracellulare” che è la vera causa della trasformazione neoplastica, quindi senza ridurre il rischio di recidiva. In quest’ottica la medicina omeopatica è da considerarsi una vera e propria medicina preventiva, in alternativa alla moderna farmaco-prevenzione che utilizza farmaci allopatici con potenziali effetti collaterali anche di una certa gravità, in quanto, trattando il malato e non la malattia, con i rimedi costituzionali può essere in grado di inibire la progressione delle lesioni favorendo la normale differenziazione cellulare e normalizzando il processo di apoptosi con successiva riparazione del tessuto affetto. Va comunque detto che in letteratura non vi sono pubblicazioni scientifiche che dimostrino che persone curate unicamente con l’omeopatia si ammalano di meno di tumore, e nemmeno si può pensare che in futuro possano essere disegnati e condotti studi scientifici randomizzati che abbiano queste finalità. Semplicemente noi sappiamo che le persone che seguono stili di vita salubri, che godono di buona salute e che non utilizzano farmaci chimici hanno più probabilità di avere meno malattie croniche e degenerative. Omeopatia nella prevenzione e trattamento degli effetti collaterali da chemio-radioterapia Nella letteratura scientifica pubblicata di recente vi sono alcuni “case report” di guarigioni di tumori con la sola terapia omeopatica; 121
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non ci sono, invece, studi randomizzati eseguiti secondo le regole dalla Evidence Based Medicine (EBM) che dimostrino l’efficacia del trattamento omeopatico nella guarigione dai tumori. Più numerose sono le pubblicazioni scientifiche sul trattamento degli eventi avversi da terapie oncologiche convenzionali. Su questo argomento è stata di recente pubblicata una Review dal titolo “Homeopathic medicines for adverse effects of cancer treatments” (Cochrane library, 2010), il cui obiettivo era quello di valutare l’efficacia e la sicurezza di terapie omeopatiche usate per prevenire o curare effetti avversi di farmaci oncologici durante chemio o radioterapia. Sono stati inclusi nella review solo quegli studi randomizzati considerati validi dal punto di vista della EBM. Solo otto studi controllati soddisfacevano i requisiti scientifici per la pubblicazione dei dati, di cui sette contro placebo e uno contro trattamento convenzionale. Tre studi riguardavano la terapia sugli effetti avversi da radioterapia, tre gli effetti avversi da chemioterapia e due la cura dei sintomi menopausali associati a trattamento per cancro della mammella. I risultati di questi studi sono stati contraddittori, con prove di evidenza di efficacia della medicina omeopatica in uno studio sulla terapia della stomatite con un preparato omotossicologico verso placebo ed in un altro studio riguardante la profilassi della dermatite da raggi con pomata locale a base di calendula verso trattamento con pomata a base di farmaco allopatico standard. Questi risultati non possono essere considerati soddisfacenti ma sono comunque un inizio per proseguire nella ricerca di base. gli scopi di un trattamento omeopatico durante la chemioterapia devono essere: • riduzione degli effetti collaterali delle terapie convenzionali (si utilizzano in genere rimedi sintomatici) • riduzione dei sintomi provocati dal tumore (si utilizzano sia rimedi acuti che organotropici) • miglioramento del tono dell’umore e della fiducia nella guarigione dopo diagnosi di tumore (si utilizzano in genere rimedi costituzionali o di terreno) 122
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•sostegno del midollo osseo e degli altri organi per permettere la dose density farmacologica del protocollo chemioterapico (rimedi organotropici e drenanti). un discorso a parte merita il trattamento dei sintomi menopausali nelle donne operate al seno. Sebbene nella revisione sistematica della Cochrane gli studi sui disturbi da menopausa nelle donne con tumore della mammella siano negativi, molte pazienti seguite a follow up negli ambulatori oncologici utilizzano rimedi omeopatici e riferiscono risultati soddisfacenti, in particolare sulle vampate di calore e sull’insonnia. Purtroppo gli studi clinici pubblicati in letteratura risentono del limite di non aver potuto utilizzare per ogni paziente rimedi omeopatici individualizzati dopo accurata anamnesi, secondo i principi della legge dei simili, come normalmente avviene nella pratica clinica comune. Nonostante ciò, i risultati preliminari di uno studio che si sta effettuando presso l’oncologia di rimini, che prevede la somministrazione di un complesso omeopatico con quattro rimedi (sepia, sanguinaria, ignatia e cimicifuga) verso placebo, mostrano un’efficacia significativa sulle vampate di calore, le sudorazioni e l’insonnia. attendiamo comunque le conclusioni dello studio per valutarne l’effettiva efficacia. Terapia omeopatica dopo trattamenti oncologici la possiamo definire la terapia adiuvante omeopatica. una gran parte parte dei pazienti si rivolge alle medicine non convenzionali dopo il trattamento oncologico per molti motivi: • consapevolezza e quindi paura della possibilità di recidive • per disintossicarsi dalle terapie effettuate • per superare lo shock della diagnosi • per un senso di maggiore fragilità emotiva • per prendersi cura di sé in modo diverso rispetto a prima della diagnosi 123
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In questa fase i rimedi principali sono i rimedi costituzionali e miasmatici, generalmente somministrati ad alte diluizioni dopo drenaggio organotropico Bisogna comunque dire che non vi sono studi di efficacia che consentono di dire che il trattamento omeopatico possa ridurre le ricadute di malattia, per cui la valutazione dell’efficacia del trattamento è soprattutto legata alla qualità della vita percepita dal singolo paziente, che si può misurare ma è e rimane una valutazione soggettiva. Terapia omeopatica nella malattia avanzata la malattia oncologica nella sua fase avanzata e terminale deve essere considerata come una patologia acuta in cui è opportuno somministrare il o i rimedi omeopatici cosiddetti sintomatici e gli organotropici. l’obiettivo principale è contenere i disagi psicofisici e permettere una buona morte, senza dolore e se possibile senza ansia e paura, mentre l’aumento della sopravvivenza resta un obiettivo secondario. In letteratura sono pubblicati alcuni “case report” che confermano l’efficacia di terapie omeopatiche in questa fase della malattia, che rappresenta un campo dove è possibile sperimentare una maggiore integrazione tra trattamenti differenti con la certezza di non arrecare ulteriori danni ai pazienti affetti. I rimedi omeopatici I pazienti oncologici sono una categoria di malati che più di altre necessita di una grande attenzione nella prescrizione di terapie sia convenzionali che non. In omeopatia, l’aggravamento iniziale spesso può essere il preludio del miglioramento e in qualche caso della guarigione. Questo, naturalmente, nel paziente che ha ancora una buona energia vitale. In realtà l’aggravamento omeopatico nel paziente oncologico non è sempre una buona cosa, perché riduce ancora di più la già scarsa energia. Per cui una regola importante è 124
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di evitare l’aggravamento utilizzando rimedi alle diluizioni corrette, tenendo conto delle condizioni del paziente e considerando la fase della malattia oncologica in cui questi si trova in quel momento. In oncologia si distinguono i rimedi omeopatici nelle classi qui sotto elencate: • rimedi sintomatici o acuti • rimedi organotropici • rimedi costituzionali • rimedi miasmatici Si deve dare sempre precedenza alla soluzione dei sintomi acuti. rimedi sintomatici o acuti: tranne quei casi in cui la scoperta del tumore è un evento casuale o è dovuto a un accertamento di screening preventivo in una persona altrimenti asintomatica, la malattia oncologica a un certo punto della sua storia naturale dà segni di sè attraverso una serie di sintomi che possono essere presenti da tempo e che si sono accentuati di recente o possono essere disturbi nuovi mai avuti in precedenza, che mettono in allarme il paziente; questi sintomi che portano alla diagnosi del tumore devono essere i primi da guarire proprio come nelle malattie acute. I cosiddetti rimedi acuti vengono utilizzati anche in presenza di disturbi dovuti alle terapie mediche convenzionali quali la chemioterapia, la radioterapia e altro. alcuni tra i sintomi più frequentemente curabili e i relativi rimedi sono indicati di seguito: • Shock psichici: acon. gels. Ign. • Dolori: aconitum, Bell. Bryonia, Colocynthis, Mag.phosph, aurum metallicum (metast. ossa), Cham. • Diarrea: ars. alb., Veratrum alb, Merc. Corr. (con tenesmo) • Nausea/vomito: Cadmium sulf., Nux vom. (se il paziente non riesce a vomitare), Ipeca (nausea non alleviata dal vomito) Ignatia e Carc. (vomito anticipatorio) • Costipazione: Hydrastis c., lyc. Mag. mur. • Emorragie: Phosph., Millefolium, Nitric ac., China, Kreosotum 125
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• Parestesie/vertigini: Phosp., lyc., Kali carb., Sepia, Cocc., Caust. • Esiti di rT: x ray, radium brom. Rimedi organotropici Sono i rimedi organo-specifici, che coprono la sintomatologia locale e si possono utilizzare in tutte le fasi della malattia e durante la chemioterapia. Questi rimedi si somministrano generalmente a basse diluizioni o addirittura in TM e si prescrivono anche in concomitanza con altri rimedi omeopatici, con farmaci allopatici e fitoterapici realizzando veramente la medicina integrata. Qui di sotto sono riportati i più importanti con il loro tropismo: • aloe: colon e retto • ars. brom: cancro della cute • asteria rubens: mammella ulcerata • aurum muriat.: cavità orale • aur. mur. nat.: cervice uterina • Bar. Carb.: cervello • Bar. iod: linfonodi e sistema endocrocrino • Cadmium sulf: stomaco, pancreas • Carbo animalis: mammella • Ceonothus a.: milza, pancreas, fegato, leucemia • Chelidonium: fegato e cistifellea. • Hecla lava: ossa e leucemia • Symphytum: periostio e metastasi ossee • Hydrastis: stomaco, pancreas, ghiandole mesenteriche, mucose (polmoni ed esofago) • lachesis: mammella, utero, ovaio, cervice ( lateralità sx) • lilium tigr.: utero e ovaio (lateralità dx) • lycopodium: polmoni, fegato, colon e prostata • Nitric ac.: retto/ano • Ornithogallum: stomaco • Phosphorus: tumori sanguinanti, mammella 126
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• Phytolacca: mammella e parotidi • Plumbum iodatum: cervello • Sebal serrulata: prostata • Sanguinaria: mammella, tumori sanguinanti, carcinoma broncogeno • Terebenthina: vescica • Conium, Thuya ed ars. album sono i cosiddetti “organotropici ad ampio spettro”. Rimedi costituzionali Molto importanti, riguardano i rimedi che coprono la totalità dei sintomi e sono gli unici in grado di guarire il paziente. generalmente i rimedi costituzionali sono i più comuni policresti, quali arsenicum album, Thuya, lachesis, Phoshorus, Silicea, lycopodium e molti altri. Questi rimedi devono essere utilizzati a diluizioni inizialmente basse, possibilmente in lM, e solo quando non vi è pericolo di aggravamento possono essere utilizzati in diluizioni centesimali. Qualche volta, soprattutto in presenza di grande defedamento, sono controindicati all’inizio, riservando il loro utilizzo a dopo il miglioramento dei disturbi acuti. la maggiore indicazione è nella terapia dopo il trattamento primario del tumore, dopo eventuale drenaggio, quando il paziente è in discrete condizioni generali. Rimedi miasmatici I rimedi miasmatici o meglio anti-miasmatici sono i rimedi del terreno del paziente, e vengono utilizzati quando il rimedio costituzionale sembra non funzionare o non essere più efficace. Nel suo libro “le malattie croniche” Hahnemann parla di male primario o primitivo che occorre comprendere per giungere alla guarigione. Miasma è una parola che deriva dal greco e vuol dire MaCCHIa, che è la predisposizione individuale ad ammalarsi di alcune malattie piuttosto che di altre. 127
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In termini moderni il miasma rappresenta la combinazione tra ambiente + fattori eredofamiliari che condiziona la comparsa di specifiche malattie. Per Hahnemann vi erano 3 Miasmi principali: • la Psora • la Sicosi • la Sifilide Dopo Hahnemann si sono aggiunti altri due miasmi, tubercolinico e cancerinico I rimedi di uso più frequente sono: • Miasma Sicotico: Thuya, Medorrhinum., Nitric ac. • Miasma sifilitico: Syphilinum., Mercurius. • Miasma psorico: Sulfur., Psorinum • Miasma tubercolinico: TK, Bacillinum • Miasma cancerinico: Carcinosinum, Scirrinum I rimedi miasmatici in genere vengono utilizzati in alte diluizioni quando il paziente ha buona energia, anche se una delle scuole Indiane utilizza i nosodi cancerinici ad alte dosi anche nel paziente terminale. In conclusione l’omeopatia è una medicina per la persona e perciò può essere utilizzata da tutti i pazienti, compresi gli oncologici, in ogni fase della loro malattia.Mentre sono sempre più frequenti gli studi sul tratta128
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mento degli eventi avversi da chemio-radioterapia, molto poco è pubblicato intorno al trattamento della malattia oncologica avanzata e ancora meno riguardo alle possibilità terapeutiche sul paziente guarito dopo malattia oncologica, in particolare sulla qualità della vita e sulle ricadute. un campo di estremo interesse potrà essere in futuro il trattamento delle precancerosi ma occorrerenno studi ben disegnati e con numero congruo di partecipanti per dimostrare l’efficacia dei trattamenti omeopatici.
Capitolo xIII I FaTTOrI DI DIFFErENZIaZIONE DEllE CEllulE STaMINalI IN ONCOlOgIa
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Pier Mario Biava È noto dalla letteratura che il microambiente embrionario è in grado di ridurre o sopprimere lo sviluppo di tumori, quando sono in corso processi di differenziazione cellulare (1,2). Infatti la somministrazione di sostanze sicuramente cancerogene durante l’organogenesi causa malformazioni embrionali, ma non induce la formazione di tumori nella prole. Quando l’organogenesi è terminata, la somministrazione di cancerogeni provoca invece un aumento della frequenza con cui si manifestano tumori nella prole (3,4,5,). Questi dati indicano che il cancro può essere visto come una deviazione del normale sviluppo, suscettibile di controllo da parte di fattori presenti nel microambiente embrionario durante il periodo del differenziamento cellulare. Inoltre è stato dimostrato che il teratocarcinoma si differenzia in tessuti normali, quando impiantato nell’embrione.(6). Del tutto recentemente è stato evidenziato che l’impianto di un melanoma nell’embrione di Zebrafish non ha dato origine a tumori, laddove l’impianto in pesci adulti ha dato invece origine a tumori (7). Inoltre l’iniezione del melanoma nelle membrane extraembrionali di Zebrafish ha dato origine a cellule del sistema nervoso dello Zebrafish stesso, dimostrando così che le cellule tumorali possono differenziarsi in tessuti normali dell’organismo nel cui embrione sono impiantate (8). Tenendo conto di tale background vengono qui riassunti numerosi esperimenti condotti nell’arco di venti anni sia in vitro, sia in vivo e infine studi clinici su casi di epatocarcinoma in fase intermedia ed avanzata, utilizzando i fattori prelevati in precisi momenti del differenziamento delle cellule staminali. Risultati degli esperimenti in vitro Sette diverse linee di tumori umani (glioblastoma multiforme, melanoma, epatocarcinoma, adenocarcinoma del rene, del colon, della mammella, leucemia linfoblastica acuta) sono stati trattate con i fat130
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tori prelevati da embrioni di Zebrafish a quattro diversi stadi di sviluppo: a) stadio di morula, caratterizzato solo da eventi meramente moltiplicativi e pertanto costituito da cellule staminali embrionali totipotenti, b) stadio di medio-blastula-gastrula (50% di epibolia), nel quale le cellule staminali embrionali totipotenti si differenziano in pluripotenti c) stadio di 5 somiti e d) di 20 somiti, nei quali avvengono eventi di differenziazione importanti che caratterizzano la fase intermedia e finale del differenziamento embrionario. Tutte le linee cellulari hanno dimostrato un significativo rallentamento della curva di crescita quando trattate con i fattori prelevati nei diversi momenti del differenziamento cellulare, con percentuali di inibizione che variano dal 73% del glioblastoma al 26% del melanoma. Non si è invece notato alcun effetto di rallentamento della curva di crescita, al contrario uno stimolo alla proliferazione tumorale, quando le diverse linee cellulari sono state trattate con i fattori prelevati nello stadio di morula. Tali dati rafforzano il concetto che gli stadi di differenziazione cellulare sono caratterizzati dalla presenza di networks di fattori, che sono in grado di ri-indirizzare le cellule tumorali in una via di normale sviluppo cellulare e che tali networks compaiono nelle primissime fasi del processo di gastrulazione, mentre sono assenti negli stadi meramente moltiplicativi (9). Numerosi studi sono stati condotti per capire quali eventi molecolari fossero coinvolti nei meccanismi di inibizione della crescita tumorale. È stato dimostrato che le molecole che hanno un ruolo fondamentale nel processo di regolazione del ciclo cellulare, quali p53 e prb sono coinvolti attraverso eventi di regolazione trascrizionale o post-traduzionale. Più precisamente si è dimostrata una regolazione trascrizionale di p53, evidenziata da un considerevole aumento della concentrazione di tale proteina nelle cellule di alcune linee tumorali, quali il glioblastoma multiforme e il melanoma, sia mediante citofluorimetria, sia mediante metodo immunoistochimico, dopo trattamento con i fattori di differenziazione cellulare (10). Su altre linee tumorali, quali ad esempio l’adenocarcinoma del 131
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rene, il rallentamento delle crescita tumorale è dovuto invece ad una regolazione post-traduzionale delle proteina del retinoblastoma (prb), regolazione che porta ad una modificazione del rapporto fra forma fosforilata e non fosforilata di tale proteina, a favore delle forme non fosforilata (11). Come si sa, la forma non fosforilata blocca il cilco cellulare, impedendo la trascrizione del gene E2F-1, che invece si verifica, quando la proteina viene fosforilata. Per comprendere infine quali siano le conseguenze dovute alla regolazione del ciclo cellulare delle cellule tumorali da parte dei fattori di differenziazione sono stati studiati sia gli eventi apoptotici, sia di differenziazione cellulare. l’analisi condotta su cellule di adenocarcinoma del colon ha evidenziato, da un lato, sia l’attivazione di un patway apoptotico dipendente da p73, sia di un patway di differenziazione cellulare. In effetti nelle culture di cellule del tumore del colon è stata evidenziato, oltre ad un aumento significativo dell’apoptosi, anche un aumento considerevole della concentrazione di e-caderine, markers del differenziamento cellulare (12). Pertanto i meccanismi molecolari che stanno alla base del rallentamento della crescita tumorale dovuta al trattamento con i fattori di differenziazione delle staminali si possono sintetizzare nel modo seguente: arresto del ciclo cellulare in fase g1-S o g2-M., a seconda del tipo di tumore, riparazione dei danni genetici e ri-differenziazione cellulare, o, qualora la riparazione sia impossibile per la gravità delle mutazioni, apoptosi delle cellule tumorali.
I risultati degli esperimenti in vivo gli effetti dei fattori di differenziazione cellulare sulla crescita tumorale sono stati studiati anche su animali, utilizzando il tumore di lewis impiantato in topi singenici C57Bl/6J. 132
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Si è notata una differenza altamente significativa (P<0,001) fra trattati e controlli sia per quanto riguarda lo sviluppo del tumore primario, sia per quanto riguarda la sopravvivenza, a favore dei trattati (13). Gli studi clinici uno studio clinico randomizzato condotto dal 1° gennaio 2001 ed il 31 aprile 2004 su 179 pazienti affetti da epatocarcinoma in fase intermedia-avanzata , non passibili di nessun altro trattamento quali trapianto, resezione, terapie ablative, chemoembolizzazione, sono stati trattati con un prodotto messo a punto a seguito degli studi sopramenzionati, in vitro ed in vivo. Tale prodotto, contenente i fattori prelevati da embrioni di zebrafish durante la fase di differenziazione cellulare in cui le cellule staminali si differenziano da totipotenti a pluripotenti (50% di epibolia) alla concentrazione alcuni microgrammi/ml è stato somministrato ai pazienti nelle dosi di 30 gocce sublinguali 3 volte al dì. la somministrazione sublinguale è stata scelta in quanto si è evidenziato che la frazione attiva nel rallentamento della crescita tumorale è costituita da proteine ad altri fattori (probabilmente micro rNa) con peso molecolare inferiore a 40kDaltons (dati non pubblicati). È stata valutata sia la risposta sull’evoluzione del tumore, sia la sopravvivenza dei pazienti, oltre che il performance status. Si è osservato il 19,8% di regressioni ed il 16% di stabilizzazione della malattia, con una sopravvivenza di oltre il 60% a 40 mesi dei pazienti che avevano risposto al trattamento, contro poco più del 10% degli altri pazienti. Si è avuto un miglioramento del performance status nel 82,6% dei pazienti, anche in quelli in cui la malattia è progredita (14). Più recentemente un nuovo lavoro clinico in pubblicazione su un numero speciale di Current Pharmaceutical Biotechnology, in cui, come guest Editor, ho affrontato il tema della riprogrammazione delle cellule staminali normali e tumorali, ricon133
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ferma il ruolo dei fattori di differenziazione delle cellule staminali nel determinare la regressione completa del tumore primitivo del fegato in fase interemedio - avanzata in oltre il 13% dei casi (15). Discussione e conclusioni l’utilizzo dei fattori di differenziazione delle cellule staminali nella terapia antitumorale ha permesso di concepire un modello di cancro consistente con la realtà (16). In tale modello le cellule tumorali sono considerate cellule indifferenziate, mutate, bloccate in una fase di moltiplicazione compresa fra 2 stadi di differenziazione cellulare. Da questo punto di vista, pertanto, le cellule tumorali possono essere definite come “cellule staminali mutate”, che, in rapporto al diverso grado di malignità, vengono considerate bloccate ad un diverso stadio di sviluppo. a sostegno di tale modello si può ricordare che in tumori con un grado di malignità elevato, quali la leucemia linfoblastica acuta o mieloide acuta, vengono riscontrate cellule staminali multipotenti mutate, mentre in tumori a minore malignita’, come la leucemia linfatica cronica, vengono riscontrate cellule non ancora completamente differenziate, ma in via di differenziazione definitiva. In accordo con tale visione, vengono ricordate le caratteristiche che accomunano le cellule tumorali a quelle staminali: le cellule tumorali presentano antigeni oncofetali, mantenuti durante la filogenesi, (17) e recettori specifici sulla membrana cellulare sui quali probabilmente agiscono i fattori di differenziazione delle cellule staminali. È stato infatti già menzionato che tali fattori attivano patways metabolici di differenziazione cellulare, che conducono la cellula a differenziarsi o a morire, come del resto avviene sull’embrione (gli eventi apoptotici nell’embrione sono numerosi). Inoltre le cellule tumorali e le cellule embrionali hanno patways metabolici comuni: ad esempio l’aPC/beta catenina/TCF/Wnt patway ed il patway Hadgehog/Smoothened/Patched. Il problema delle cellule tumorali è duplice: non solo presentano mutazioni genetiche, che 134
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sono all’origine della malignità, come noto da tempo, ma, cosa che è forse più importante, anche uno sbilanciamento del codice epigenetico. la configurazione genica ed il metabolismo delle cellule tumorali è infatti molto simile a quella delle staminali: entrambe hanno attivi proto-oncogeni, producono fattori di crescita embrionali, presentano, come già sottolineato, antigeni onco-fetali, funzionano con un metabolismo anaerobico: la differenza fra cellule staminali e cellule tumorali consiste nel fatto che le cellule tumorali, a differenza delle staminali normali, per le mutazioni subite, non sono più in grado di completare il loro sviluppo e di differenziarsi. la correzione del codice epigenetico, attraverso la messa a disposizione dei fattori di differenziazione, fa rientrare le cellule tumorali nell’ambito della normale fisiologica, venendo by-passate le mutazioni, che sono alla base delle malignità. Quello che sta emergendo con sempre maggiore chiarezza è che il DNa regolatorio, che è preponderante rispetto a quello deputato, via rNa, alla traduzione di proteine, così come i micro rNa, i fattori di trascrizione, e di regolazione traduzionali e post-traduzionali, hanno ruoli fondamentali nella regolazione del codice genetico. In altri termini quello che emerge con sempre maggiore evidenza è l’importanza del codice epigenetico nella regolazione della vita cellulare. In particolare e’ il codice epigenetico a determinare il differenziamento cellulare, attivando e disattivando in modo specifico e selettivo, numerosi geni che fanno passare una cellula staminale da uno stato indifferenziato ad uno completamente differenziato. Nelle cellule tumorali questo codice è completamente sbilanciato rispetto ad una cellula differenziata: tale codice nelle cellule maligne è il medesimo di quello presente nelle cellule staminali. I fattori di differenziazione, oltre differenziare le cellule staminali normali, sono in grado di regolare in senso differenziativo anche le cellule tumorali, attraverso la repressione di geni della moltiplicazione e l’attivazione di nuovi pathway di differenziazione, by-passando così le mutazioni che sono all’origine della malignità. I nostri 135
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studi, che hanno comprovato quanto sopra affermato, sono stati recentemente confermati da altre ricerche effettuate dai colleghi del Children Hospital di Chicago, che attualmente negli uSa stanno destando notevole interesse (18). In particolare tali studi hanno confermato che il melanoma maligno reverte ad un fenotipo normale quando posto a contatto con il microambiente dell’embrione di Zebrafish. Ciò avviene perchè un morfogeno del sistema nervoso centrale dello Zebrafish, chiamato Nodal, riespresso nelle cellule del melanoma maligno e responsabile dell’aggressività del medesimo, viene represso da una frazione proteica a basso peso molecolare di 38 KDaltons, chiamata lefty, prodotta dalle cellule staminali dello stesso embrione di Zebrafish. Questa scoperta conferma pienamente tutti i nostri studi e contribuisce a consolidare un filone di ricerca, che può risultare di estrema importanza in campo terapeutico. D’altra parte negli ultimi anni vi è stato un numero crescente di ricerche che hanno evidenziato che la malignità dei tumori è legata alla presenza di cellule staminali mutate (19), le quali, per altro, risultano essere resistenti alle terapie tradizionali, quali la chemio e radioterapia. Negli ultimi 4 anni i lavori scientifici sono cosi' numerosi, che risulta impossibile menzionarli tutti. Qui si ricorano solamente le ricerche che dimostrano la presenza di cellule staminali tumorali nel glioblastoma ( 20, 21, 22), tumore della mammella (23, 24, 25, 26, 27, 28), del polmone (29, 30, 31, 32), della prostata ( 33, 34, 35), dell'ovaio (36, 37, 38, 39, 40), del fegato (41, 42, 43, 44, 45, 46), dello stomaco (47, 48, 49, 50, 51), del colon (52, 53, 54), del pancreas (55, 56, 57), del capo e del collo (58, 59, 60, 61). D’altra parte è noto da tempo che la malignità di molte malattie maligne ematologiche è dovuta alla presenza di cellule staminali. Pertanto l’utilizzo dei fattori di differenziazione delle cellule staminali in oncologia rappresenta una terapia che possiamo definire “epigenetica”, in grado di correggere le gravi alterazioni presenti nelle cellule tumorali, permettendo loro di ritornare ad un fenotipo normale.
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Capitolo xIV la PrEVENZIONE E Il TraTTaMENTO DEglI EFFETTI COllaTEralI INDOTTI Dalla raDIOTEraPIa Alberto Laffranchi Abstract attraverso la presentazione di una casistica di oltre 120 pazienti raccolta in 18 anni di esperienza, con questa relazione si intendono dimostrare concrete e ripetibili possibilità di prevenzione e cura delle lesioni acute e croniche da radioterapia attraverso l’uso di campi elettromagnetici, ossigenoterapia in camera iperbarica, ultrasuono terapia, farmaci omeopatici, vitamina a e D, difosfonati. I campi magnetici sono utilizzati, principalmente per il loro effetto anti-infiammatorio, angiogenico e per l’effetto ossigeno. ad essi si possono associare altre terapie di derivazione omeopatica, specifiche per il determinato tipo di danno riscontrato. I difosfogluconati bloccano l’azione degli osteoclasti. gli ultrasuoni favoriscono la riduzione delle flogosi e il riassorbi143
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mento dei tessuti necrotici. I criteri guida che consentono di proporre, quali scelte terapeutiche per lesioni da raggi x quelle sopra citate, sono strettamente legati alla fisiopatologia delle lesioni stesse, ovvero al danno vascolare. la relazione fornirà anche informazioni pratiche sul possibile trattamento delle lesioni cutanee da raggi, indipendentemente dalla gravità della lesione e sulla loro prevenzione. In conclusione, alla luce della letteratura e di quanto presentato in questo lavoro, si ritiene che nel futuro prossimo gli approcci terapeutici sopra descritti, di semplice realizzazione, ma di sicuro risultato, considerando la quasi totale assenza di effetti collaterali, potranno fornire una rapida risposta e buoni risultati clinici nel trattamento delle lesioni acute e croniche indotte dalla radioterapia. Inoltre, tali procedure, utilizzate opportunamente durante la radioterapia, potranno utilmente essere applicate nella prevenzione dei danni. la terapia proposta in questo studio è stata messa a punto presso l’unità Operativa di riabilitazione e Cure Palliative dell'Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori di Milano. Consiste nell’uso di risciacqui con citrato di sodio e saccarosio al 6% e sedute quotidiane di magnetoterapia. I risultati terapeutici sia sul dolore, sia sulle modalità di guarigione delle lesioni sono stati convincenti e rapidi. gli autori la propongono perché questa metodica possa essere ripresa da altri centri ed estesa, oltre che agli eritemi da raggi, anche alle lesioni cutanee simili, quali le ustioni di 2° grado e le piaghe da decubito, affinché si possa rapidamente aumentarne la casistica e procedere a studi randomizzati che possano confermarne l’efficacia ed eventualmente la superiorità rispetto ad altre pratiche già in uso. Introduzione la radioterapia, come unica soluzione o in associazione alla chemioterapia e/o alla chirurgia, rappresenta un’importante ed al momento insostituibile metodica nel trattamento delle neoplasie (1-3). 144
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Nel corso degli ultimi trent’anni, il miglioramento tecnologico e la più accurata impostazione del trattamento radiante hanno minimizzato l’incidenza delle complicanze(4-5). resta tuttavia una piccola quota di pazienti, non prevedibile prima del ciclo terapeutico, che andrà incontro ad un danno acuto, sub-acuto o cronico dei tessuti sani compresi nel campo radiante(5). Per sintetizzare brevemente la fisiopatologia delle lesioni da raggi ricordiamo che la tossicità delle radiazioni ionizzanti utilizzate in terapia radiante, è determinata dalla qualità del fascio radiante, dal tipo dei tessuti inclusi nel campo di radioterapia, dalla dose per frazione, dalla dose totale e dalla sensibilità alla radioterapia dei singoli tessuti coinvolti (4-6) . gli effetti acuti (6) della radioterapia su cute e mucose consistono generalmente nella risposta infiammatoria, eritema cutaneo, edema, pigmentazione e/o mucosite. Queste lesioni sono più frequenti nella radioterapia palliativa, dove spesso vengono richieste alte dosi giornaliere da somministrare in 1 o 2 settimane. Di seguito riportiamo le descrizioni delle lesioni acute da raggi x sulla pelle, presenti nel trattato del Prof. Felice Perussia(6). Pur scritte oltre cinquant’anni fa, mantengono intatta tutta la loro forza descrittiva e attinenza alla realtà clinica. la differenza rispetto ad oggi, peraltro non trascurabile, consiste nel fatto che allora le lesioni erano la regola (si parlava di “dose eritema” considerandola, inopportunamente, come il segno clinico di un trattamento radiante adeguato). Oggi, rappresentano l’eccezione, ma quando presenti concordano con le precise descrizioni di allora, così come si può ben verificare attraverso le Figure 2 e 3 allegate. - Nell’ambito dei fenomeni determinati dalle reazioni sulla cute, il primo posto, almeno in ordine cronologico, spetta alle modificazioni vasali(4-6). È fuor di dubbio che le alterazioni dei vasi dominino il quadro clinico e anatomo-patologico della radiolesione cutanea sin dal suo inizio, qualunque ne sia il tipo e l’entità, e che persistano poi anche a lungo, come stanno a dimostrare la loro lenta regressione e la loro non completa scomparsa a distanza di tempo (teleangectasie) (6). 145
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Radiodermite eritematosa: caratterizzata dalla comparsa di chiazze eritematose che confluiscono fino ad invadere tutto il campo cutaneo irradiato. La cute si presenta intensamente arrossata, leggermente edematosa, spesso pruriginosa. Successivamente il colorito si fa più intenso, rosso-rameico, l’edema si attenua, a distanza sopravvengono caduta di peli e desquamazione furfuracea dell’epidermide, ne residua una pigmentazione cutanea variabile nei singoli soggetti. Frequente il riscontro di fatti edematosi diffusi, sia al connettivo perivasale che ai vari strati della cute e del derma. Questi fenomeni distruttivi sono più accentuati allo strato basale germinativo, più radiosensibile, e segnatamente di quei suoi elementi che si trovano nella fase di cariocinesi. Radiodermite eritemato bollosa: istologicamente l’alterazione più caratteristica che la differenzia dal quadro dell’eritema, è data dallo strato basale germinativo, i cui elementi scompaiono quasi totalmente per citolisi già alla distanza di pochi giorni dall’irradiazione. La formazione di bolle è dovuta alla comparsa di un versamento sieroso che si viene a formare tra derma ed epidermide nella stessa sede occupata dallo strato germinativo distrutto.Alla periferia la lesione si pigmenta intensamente a seconda dei soggetti, in maniera da formare un alone bruno che contrasta nettamente con la cute sana circostante (Fig.). In seguito alla scomparsa delle cellule madri dello strato germinativo basale, la rigenerazione dell’epidermide non può aver luogo che per proliferazione dei bordi della lesione. E’ necessaria una ventina di giorni e più se la disepitelizzazione è molto estesa, perché abbia luogo la completa riparazione epiteliale della pelle irradiati.
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Col tempo i progressi negli studi della radiobiologia, tecnologici ed il miglioramento della metodologia del trattamento radiante, hanno minimizzato questi effetti, limitandoli ad una percentuale bassissima di pazienti, che però cresce se eseguita contemporaneamente ad alcuni modalità di chemioterapia(4-5) . Come parametro di valutazione delle lesioni cutanee eritematose vengono utilizzati i criteri di Pathak(7) e C., che riportiamo nella seguente tabella:
Materiali e Metodi Tra il settembre 1992 e l’ottobre 2010, presso l’u.O. di riabilitazione e Cure Palliative dell’Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori di Milano, sono stati trattati 120 pazienti consecutivi di cui 80 affetti da lesioni cutanee acute e sub-acute da raggi, insorte durante o al termine della radioterapia e 40 affetti da osteoradionecrosi della mandibola. 147
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I pazienti erano stati irradiati secondo gli standard tecnici del Dipartimento di radioterapia dell’Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori di Milano, con frazionamento convenzionale per le singole patologie trattate, che prevedono dosi totali variabili tra i 45 ed i 60 gy, a seconda delle sedi e della patologia. Fino al 2005 tutti i pazienti erano stati pre-trattati con creme cortisoniche durante la radioterapia, allo scopo di prevenire o curare l’eritema da raggi. 40 pazienti affetti da Osteoradiobnecrosi della mandibola. 32 pazienti presentavano edema ed epiteliolisi (Fig. 1), 27 eritema bolloso (Fig.2), grado 3 grado 0 grado 2 grado 4 grado 1 21 eritema con aree necrotiche (Fig. 3). eritema Eritema Desquama- ulcerazione senza leggero e/o sensibile zione, Emorragie P cambiamento indolore e/o intenso, trasudazione Necrosi Osteoradionecrosi E Epilazione desquamadiffusa, a Desquamazione, Edema I primi 13 casi di osteoradionecrosi, fra il settembre 1992 e il maggio zione u secchezza marcato 1998 sono stati trattati con sedute di magnetoterapia domiciliare. Secchezza Tutti avevano eseguito cicli di Ossigenoterapia in camera iperbarica (OTI) con vantaggi parziali limitati alla riduzione della flogosi. Il paziente che avevea eseguito più cicli di OTI, aveva effettuato 180 sedute di OTI in due anni, senza particolari vantaggi clinici per gli aspetti legati alla ricostruzione ossea ed era stato proposto per l’amputazione di mandibola, seguita da ricostruzione. Dal maggio 1998 abbiamo introdotto in terapia farmaci omeopatici ed omotossicologici con le seguenti finalità: ridurre la condizione di flogosi acuta ricorrente STaPHIlOCOCCINuM E STrEPTOCOCCINuM, come unitari e in un complesso contenente anche tra altri farmaci ECHINaCEa, PYrOgENIuM, arNICa, laCHESIS. un complesso di stimolo verso i danni vascolari contenente: EMBrYO TOTalIS SuIS, VENa SuIS, arTErIa SuIS aESCuluS, SOlaNuM NIgruM ed altri farmaci attivi sulle componenti vascolari. Farmaci di stimolo alla rigenerazione ossea e in particolare SYMPHYTuM. Successivamente,
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a partire dal 2004, abbiamo introdotto anche l’ultrasuono terapia per trattare le flogosi acute che si manifestavano durante la cura. Circa la metà dei pazienti con Osteoradionecrosi avevano manifestato fistole osteocutanee, inizialmente caratterizzate da secrezioni purulente, successivamente da semplici secrezioni sierose. Prima dell’inizio della magnetoterapia, l’antibiotico terapia era la cura abituale delle flogosi dei pazienti con fistole purulente, ma non si è mai dimostrata una terapia decisiva. In numerosi pazienti è stato notato un aumento dell’efficacia dell’antibiotico terapia dopo i primi cicli mensili di magnetoterapia, pensiamo per un miglioramento della circolazione locale. la guarigione delle fistole in tutti i pazienti è avvenuta solo quando erano stati espulsi spontaneamente tutti i frammenti delle necrosi ossee. Il dolore dai pazienti era avvertito per qualche giorno, solo nelle fasi che precedevano l’espulsione dei sequestri: Dolore trattato con FaNS se necessario. la durata minima del trattamento, fino a ricostruzione ossea completa è stata di tre mesi, la massima di 20 mesi, con una mediana di 8 mesi circa. Il miglioramento dei pazienti è stato costante. le guarigioni dall’Osteoradionecorsi, avvenute in tutti i pazienti che non hanno avuto una progressione della malattia neoplastica, limitata a 8 casi. Due pazienti hanno subito una parziale exeresi della mandibola, che non era ipotizzabile prima delle cure. Vengono mostrate le radiografia di un caso eclatante di guarigione, a cui era stata prospettata come unica soluzione la demolizione seguita dalla ricostruzione ossea.
20 ottobre 2004
12 gennaio 2007
Particolari delle stesse date: da notare la ricostruzione dell’ampia distruzione della branca montante sinistra e la guari149
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gione della frattura patologica all’angolo mandibolare. Si trattava di un caso in classe III di Marx che avrebbe previsto come unica soluzione la demolizione dell’intera mandibola, seguita dalla ricostruzione ossea con perone vascolarizzato, previa sedute di OTI. Lesioni Cutanee In tutti i pazienti con lesioni cutanee i trattamenti in corso sono stati interrotti e sostituiti con un nuovo regime terapeutico: risciacqui con una soluzione di citrato di sodio e saccarosio al 6%, seguita immediatamente da una seduta di 30’ con magnetoterapia a solenoide, 50 Hz e 45 Gauss, per 5 giorni la settimana. Discussione la terapia principale a cui i pazienti sono stati sottoposti è la magnetoterapia, utilizzata per le caratteristiche e peculiari azioni terapeutiche che di seguito sintetizziamo brevemente: Il campo magnetico cellulare è strettamente legato alla massa-forma della cellula in esame. una dimostrazione pratica di tale realtà è la R.N.M. (Risonanza Magnetica Nucleare) che riesce a creare immagini dei tessuti in esame discriminando il diverso campo magnetico endogeno di ogni cellula(8). In magnetoterapia di risonanza(9) le cellule del tessuto bersaglio vengono sollecitate con campi magnetici esterni che hanno le stesse caratteristiche fisiche dei campi magnetici endogeni alle cellule stesse, in grado di spingere il tessuto biologico bersaglio verso lo stato di equilibrio biodinamico opportuno che corrisponde allo stato di omeostasi energetica/biochimica compatibile con lo stato di salute del paziente. le apparecchiature presenti in commercio e da noi utilizzate sono 150
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costituite da una centralina di comando e da un’antenna periferica che emette campi elettromagnetici pulsati a bassa intensità e frequenza. Gli effetti dei Campi Magnetici pulsati(9-17)che abbiamo giudicato particolarmente importanti per i nostri scopi sono: l’effetto anti-infiammatorio, l’effetto ossigeno, lo stimolo riparativo indotto dai campi elettromagnetici sui tessuti patologici, l’azione angiogenetica. Se confrontiamo gli effetti biologici della magnetoterapia con la fisiopatologia delle lesioni da raggi, non possiamo che constatarne la corrispondenza. Infatti, siamo di fronte ad una lesione acuta da raggi che presenta come caratteristiche peculiari uno stato di sofferenza vascolare acuta con ipossia tissutale, edema, reazione infiammatoria, perdita di tessuto epiteliale da esfogliazione dovuta a citolisi, per lo più indotta dalla diretta azione dei raggi x. riteniamo per contro inutile, se non dannosa, la preventiva applicazione di pomate cortisoniche, perché, pur possedendo innegabili ed importanti azioni antiinfiammatorie, interviene con meccanismi d’azione che contrastano con la peculiare fisiopatologia delle lesioni acute da raggi, ed in particolare non tiene adeguatamente conto dal danno principale, quello vascolare. le azioni principali di una terapia cortisonica (20): - effetto antiinfiammatorio: il cui meccanismo d’azione non è del tutto noto, si esplica principalmente per un’azione vasocostrittrice, inoltre, determina l’inibizione della proliferazione dei fibroblasti, e la migrazione dei leucociti polimorfonucleati. - Favorisce l’involuzione del tessuto linfatico, la deposizione di collagene e sopprime i processi riparativi. Inoltre, riduce la produzione di anticorpi. Se la terapia viene protratta nel tempo, possono manifestarsi i ben noti effetti sistemici: 151
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- influenza sul metabolismo dei carboidrati, delle proteine e dei grassi, - effetto mineralcorticoide. Dalla fisiopatologia, all’atteggiamento terapeutico corretto dell’eritema bolloso Trattandosi di una lesione infiammatoria eritematosa con disepitelizzazione, scomparsa parziale delle cellule dello strato basale germinativo, edematosa, dunque con evidenti segni di ipossia tissutale, l’atteggiamento terapeutico deve mirare: ad evitare la sovrainfezione, risolvere lo stato infiammatorio ridurre lo stato edematoso, ridurre l’ipossia locale, ripristinare l’ossigenazione tessutale, e indurre la rigenerazione dei tessuti vascolari ed epiteliali lesi. Per la detersione delle lesioni abbiamo optato per una soluzione di Citrato di Sodio e Saccarosio al 6% che presenta peculiari proprietà anticoagulanti e si è rivelata un’eccellente soluzione detergente delle ferite aperte con secrezione sierosa. Il saccarosio è noto nella Medicina Popolare per la propria capacità di favorire la cicatrizzazione delle ferite. abbiamo escluso ogni tipo di medicazione occlusiva o di sostanze farmacologiche utili alla prevenzione ed al trattamento delle ustioni e delle lesioni da raggi(21) per non creare confusioni valutative del trattamento da noi impostato. abbiamo escluso anche l’uso di sostanze oleose (fitostimoline, pomate di connettivina ecc.)(22) con la precisa finalità di favorire il più possibile il contatto diretto della lesione con l’ossigeno atmosferico. l’eritema bolloso, infatti, come sopra riportato, è una lesione gravemente ipossica conseguente ad un danno vascolare diretto subito dai tessuti coinvolti nel processo lesivo. altre soluzioni detergenti ci sono sembrate meno opportune o addirittura controindicate, ad esempio i lavaggi con acqua borica al 3%, che pur avendo proprietà detergente, decongestionante, blandamente micostatica, batteriostatica e anticoa152
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gulante, pertanto auspicabili per il trattamento di lesioni come quelle dell’eritema bolloso, non possono essere utilizzati su cute e mucose lesionate, per evitare l’assorbimento del boro, la cui intossicazione potrebbe portare a reazioni sistemiche gravissime, a volte mortali. Questi effetti sono naturalmente dose dipendenti e due dei nostri pazienti sono stati trattati, senza conseguenza alcuna, proprio con acqua borica 3% mediante due brevi risciacqui al giorno, per quattro/cinque giorni. altrettanto inopportuni i risciacqui con acqua ossigenata che provocherebbe una violenta reazione ossidativa locale, con conseguente peggioramento del danno cellulare. Inoltre, valutata la rapidissima risposta ottenuta con l’associazione di risciacqui di citrato di sodio e saccarosio al 6%, tre/quattro volte al giorno, magnetoterapia ed esposizione della ferita all’aria, non appena possibile, abbiamo ritenuto inutile utilizzare altre modalità terapeutiche. In particolare in nessuno dei pazienti presentati in questo lavoro sono stati usati farmaci antimicrobici, come ad esempio antibiotici, o più semplicemente Betadine. I farmaci antidolorifici (FaNS) in uso dai pazienti prima dell’inizio dell’associazione terapeutica da noi introdotta, sono stati sospesi spontaneamente dai pazienti stessi per la rapidissima riduzione del dolore, che per tutti è iniziata terminata la prima seduta di magnetoterapia. Risultati Nessuno dei trattati pazienti ha dovuto sospendere il trattamento e tutti ne hanno tratto beneficio. Tutti i pazienti hanno riferito spontaneamente di aver constatato la rapidissima riduzione del dolore, fin dalla prima seduta, con risoluzione completa entro sette giorni dall’inizio della cura. Nei casi di semplice epiteliolisi (Foto. 1) la risoluzione con “restitutio ad integrum” della cute si è ottenuta entro i 5 giorni. Foto 1 Nei pazienti con eritema bolloso (Foto 2) e con eritema ed aree ne153
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crotiche (Foto 3), si è osservata una visibile risposta iniziale già nei primi tre giorni di trattamento, e la completa guarigione, con “restitutio ad integrum” della cute, in un lasso di tempo variabile fra i 7 ed i 30 giorni, dall’inizio della cura. Foto 2
Foto 3
Nella maggioranza dei pazienti la guarigione è avvenuta contemporaneamente in tutti i punti delle lesioni, passando direttamente dall’erosione dello strato epidermico superficiale, alla formazione completa del tessuto cutaneo sano, senza passare attraverso la fase di crosta e, soprattutto, senza lasciare segni o cicatrici. Inoltre, a distanza di due mesi, quasi sempre, si è potuta osservare la risoluzione della pigmentazione cutanea che abitualmente, invece, tende a per-
risultato dopo tre giorni siste aInizio lungo, non addirittura permanentemente. delsetrattamento di terapia 154
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la guarigione delle ampie ferite cutanee, così come delle lesioni eritemato-bollose da raggi x, segue, invece, l’evoluzione descritta da ranvier nella seconda metà del xIx secolo: il processo di guarigione inizia dalla periferia per interessare, successivamente, il centro delle lesioni, passando attraverso la fase della crosta, alla cui caduta si osserva la sottostante comparsa di tessuto cutaneo sottile e di colorito roseo(6). I criteri guida che ci hanno spinto alle scelte tera-
1) Inizio del trattamento 3) a distanza di 14 giorni peutiche proposte in questo studio, mai tentate prima in queste combinazioni da nessun gruppo di ricerca, sono primariamente le2) Dopo 7 giorni 4) risultato a 40 giorni gate alla fisiopatologia delle lesioni da raggi ed in particolare al danno che è comune a tutte le lesioni, cioè al danno vascolare. 155
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Infine, vorrei presentare le immagini di un caso clinico di guarigione
dirisultato una lesione raggi2 della sovraclaveare, predopodaquasi mesi cute di della a 9 regione giorni della nuova terapia sente da due mesi, avvenuta con lâ&#x20AC;&#x2122;uso quotidiano di risciacqui con trattamento convenzionale. soluzione acquosa citrato di sodio e saccarosio al 6%, fotografata Inizio nuovaditerapia quotidianamente prima e dopo gli sciacqui. Prima del trattamento la lesione era in cura con lavaggi di fisiologica, uso orale e locale di antibioci, uso di terapia cortisonica per via orale, uso di Nimesulide granulare al mattino, uso di Duragesic la sera per lenire il dolore. Dal primo giorno della nuova terapia, tutti i farmaci sono stati sospesi.
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13 giugno 2010 inizio della cura di cicatrizzazione
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15 luglio 2011 guarigione senza segni
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21 giugno prima del risciacquo
subito dopo il risciacquo
29 giugno prima del risciacquo
subito dopo il risciacquo
Da notare come il risciacquo di Citrosodina asporti (in maniera indolore) la fibrina e le formazioni crostose della lesione. la crosta determina una trazione dei margini della lesioni che al termine, si trasformeranno in segni di cicatrizzazione. la loro asportazione, che è del tutto indolore ed avviene spontaneamente sotto lâ&#x20AC;&#x2122;effetto 158
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dell’impacco di acqua e citrato di sodio, rilascia questi margini e al termine la lesione non mostrerà segni di cicatrizzazione. Conclusioni Questo lavoro ci ha offerto importanti informazioni sul trattamento delle lesioni cutanee acute da raggi x, quando caratterizzate da marcate sofferenze vascolari con ipossia tessutale. I campi magnetici sono stati utilizzati, secondo le modalità sopra riportate, principalmente per gli effetti anti-infiammatorio, angiogenico e per l’effetto ossigeno. I risultati sulle osteoradionecrsoi sono stati ottenuti nel momento in cui ormai il paziente aveva perso ogni speranza di poter guarire senza sottoporsi a deturpanti e impegnativi interventi di chirurgia demolitiva e ricostruttiva, tra l’altro dall’esito finale incerto. Per la detersione è stato scelta una soluzione acquosa di citrato di sodio e saccarosio al 6% per la sua azione anticoagulante (citrato di sodio) e di stimolo alla guarigione (saccarosio). Si è imposto alle pazienti di coprire il meno possibile le lesioni e vietato l’uso di medicamenti topici oleosi, affinché l’aria potesse liberamente entrare in contatto con la lesione cutanea. Questa terapia, confrontata con quanto eseguito nel recente passato in casi analoghi (laser, fitostimoline, bendaggi occlusivi con gel, pomate cortisoniche, connettivina, farmaci sistemi antidolorifici e antiinfiammatori(19-21) ecc.) si è rivelata la terapia principe per rapidità di risposta, assenza di effetti collaterali e grado di soddisfazione del paziente, in molti casi lui stesso sorpreso dalla rapidità e dall’efficacia dei risultati ottenuti. riteniamo pertanto che per la sua semplicità, sicurezza ed efficacia, l’associazione terapeutica descritta in questo lavoro, per le OrN costituita dall’usa della magnetoterapia, ultrasuonoterapia, farmaci omeopatici e soluzione di citrato di sodio e saccarosio per risciacqui 159
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del cavo orale o per la detersione delle fistole osteocutanee, per le lesioni cutanee costituita da risciacqui quotidiani con soluzione acquosa di citrato di sodio e saccarosio al 6% e una seduta di magnetoterapia della durata di trenta minuti circa, rappresenti una valida soluzione terapeutica da consigliare vivamente in casi analoghi e da estendere, almeno sperimentalmente, al trattamento delle ustioni di 2° grado e delle piaghe da decubito che presentano caratteristiche cliniche per molti aspetti paragonabili all’eritema bolloso da raggi x. Bibliografia 1. Veronesi U., Banfi A., Salvadori B. Breast conservation in the treatment for choice in small breast cancer: long term results of randomized trial, Eur. J. Cancer, 1990, 26:668-670. 2. Fisher B., Redmond C., Fischer Er, Ten years of results of a randomized clinical trial comparing radical mastectomy and total with or without radiation, N. England J. Med. 1985, 312: 674-681. 3. Overgaard M, Henser MS, Postoperative radiotherapy in high risk premenopausalwomen with breast cancer who received adjuvant chemotherapy, N. England J.Med. 1997, 337:949.955. 4. Marx R.E., Johnson R.P. :”Studies in the radiobiology of osteoradionecrosis and their clinical significance”. Oral surgery, Oral medicine, Oral pathology. Vol. 64 (379-390). Oct 1987. 5. Sanger J.R., Matloub H.S., Yousif N.J., Larson D.L.: ‘Menagment of osteoradionecrosis of the mandible’. Clin. In Plastic Surgery. Vol.20-3 (517530) July 1993. 6. Gallavresi L., Bullo E.: Cap. IX pag. 362-372 – “Trattato di ROËNTGEN e di CURIE-TERAPIA” di Felice Perussia e Enzo Pugno-Vanoni Vol. I - 1947 - Garzanti Editore Milano. 7. Pathak MA, Fitzpatrick TB, Greiter F, Preventive treatment of sunburn, dermatoheliosis and skin cancer with agents. Dermatology in general medecine, 3rd, Ed. Fitzpatrick TB, Eds New York, Mc Graw Hill, 1987, 1507160
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Capitolo xV la MEDICINa aNTrOPOSOFICa PEr uN’ONCOlOgIa DElla PErSONa Emanuela Portalupi
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Qualunque considerazione medica deve tener conto dell’essere umano intero: cioè dalla nascita fino alla morte. rudolf Steiner, 27.03.1920 le prime intuizioni sulla terapia del cancro di rudolf Steiner -che all’inizio degli anni Venti del secolo scorso diede origine alla medicina antroposofica con la collaborazione del medico olandese Ita Wegman – nacquero forse dalle passeggiate e discussioni botaniche della sua giovinezza con un erborista speciale, Felix Kogutsky, che univa ancora in sé la sapienza antica della tradizione e una facoltà più nuova di osservare le piante in modo spirituale. I primi appunti di rudolf Steiner relativi alla pianta del vischio (Viscum album l) sono del 1904. Ma l’oncologia antroposofica nasce nella dozzina d’anni successiva, con la preparazione ancora semplificata dei primi preparati di vischio e le prime esperienze cliniche. Sullo sfondo si incide nell’anima dell’Europa l’esperienza devastante della prima guerra mondiale: dallo studio della tossicità riscontrata per alcuni gas bellici nasceranno i fondamenti della moderna chemioterapia. I risultati e una trattazione più sistematica dei nessi fra processi patologici nell’essere umano e processi di natura – in questo caso la descrizione del vischio e la patologia tumorale – vengono presentati nel 1920 a un corso per medici. Da lì inizia lo sviluppo di procedimenti di preparazione sempre più complessi, accanto a una pratica collettiva. Dall’esperienza di singoli medici scorre nei decenni attraverso l’istituzione di centri terapeutici e di cliniche e nella corrente evolutiva di ricerche progressivamente condotte con i criteri della contemporaneità. al contrario dell’innovazione delle molecole farmaceutiche dell’industria, l’oncologia antroposofica parte dalla percezione della natura e dell’uomo per compiere un percorso che dall’esperienza di cura al letto del paziente arriva alla ricerca. 163
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la fisiopatologia della medicina antroposofica si fonda su un’antropologia complessa, che integra ciò che della corporeità umana è percepibile e conoscibile con i sensi abituali e ciò che di vivente, animico e spirituale la organizza, le dà forma e struttura e attraverso di essa si manifesta. Per questo l’oncologia antroposofica – all’interno del sistema medico della medicina antroposofica - si pone come domanda centrale l’interezza della persona colpita dalla malattia, come evento nel corso di una biografia unica e irripetibile, e cerca di costruire un percorso di cura che ne ricostituisca l’integrità, offrendo l’occasione per attingere alle risorse naturali di salute dell’organismo, partecipare in modo attivo alla terapia e generare riabilitazione fin dalla diagnosi, resilienza e attivazione personale. “Di fronte ad ogni diagnosi bisognerebbe aver presente il modo in cui il paziente è inserito nel mondo, come sia vissuto fino a quel momento e come prometta di vivere in seguito”, suggerisce Steiner sempre nel 1920. Si tratta dall’inizio di un’oncologia integrata poiché si definisce come ampliamento delle possibilità terapeutiche del tempo in cui opera. E da subito nasce con un approccio centrato sulla persona, cercando di occuparsi del singolo paziente con una complessità restituita dalla multimodalità e multidisciplinarietà della scelta terapeutica: ai preparati iniettabili ricavati dal Viscum album l vengono infatti unite altre terapie antroposofiche farmacologiche e non farmacologiche (cure infermieristiche, massaggio, terapie artistiche figurative e musicali, euritmia come terapia di movimento, counseling biografico, dietetica, ipertermia, gruppi psicoeducazionali...) accanto alle terapie oncologiche convenzionali. Il team terapeutico ha in questo una fondamentale valenza costruttiva di immagini e di percorsi. la pianta del vischio, estratta e prodotta con un procedimento originale in forma iniettabile, ha un ruolo centrale nella terapia. le sue caratteristiche botaniche riuniscono per analogia aspetti assimilabili alla crescita tumorale e aspetti riparativi ed equilibranti. Ma le osservazioni iniziali hanno trovato poi ampia verifica 164
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nella ricerca, che ne ha identificato i costituenti chimici, analizzandoli nelle loro azioni in vitro e in vivo: le proteine tossiche e immunomodulanti (lectine e viscotossine) sono forse le più studiate, ma emergono costantemente proprietà e sinergie di nuovi componenti. la ricerca attuale spazia dai case reports, agli studi clinici più o meno randomizzati, alle banche dati internazionali che cercano di raccogliere il patrimonio di esperienza dei medici e di ricavarne dati farmacoepidemiologici e nuove idee applicative. la ricerca preclinica ha dimostrato per i preparati di vischio effetti antiproliferativi, immunomodulanti, antiangiogenici, di stabilizzazione del DNa, antivirali. gli studi clinici (circa 160 all’inizio del 2013), fra cui due studi sulla medicina antroposofica come sistema medico, hanno osservato un impatto positivo sulla sopravvivenza, sulla qualità della vita, sulla migliore tollerabilità delle terapie convenzionali, sulla sicurezza e suggeriscono anche possibili vantaggi di cost-effectiveness. una speranza che si attua di fronte all’impotenza anche nei setting meno favorevoli delle cure palliative o di tumori rari, o di drammatica gravità come quello del pancreas. un’attenzione molteplice rivolta al futuro e alla costruzione di salute che pesa ad esempio nell’oncologia pediatrica o nella biografia dei pazienti guariti lungosopravviventi, oggi sempre più numerosi. la malattia tumorale nella sua distruttiva brutalità può evocare anche una reazione di crescita personale e collettiva: ma questo presuppone la conoscenza e l’integrazione di tutte le risorse di cui oggi disponiamo, così da renderle accessibili e sinergiche invece che cittadine di mondi separati.
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Capitolo xVI CONTrIBuTO DEll’agOPuNTura E DElla MEDICINa TraDIZIONalE CINESE NEl TraTTaMENTO DEl PaZIENTE ONCOlOgICO Lucio Sotte la medicina tradizionale cinese si può integrare con la biomedicina nella prevenzione e trattamento del malato oncologico; il loro differente punto di approccio al malato determina anche un diverso atteggiamento nel trattamento della malattia. Mentre la biomedicina si interessa prevalentemente della eliminazione delle cellule neoplastiche attraverso i metodi chirurgici, radio e chemioterapici, quella cinese può essere utilizzata soprattutto per il sostegno che è in grado di offrire al sistema psico-neuro-immuno-endocrino che nel malato oncologico è costantemente alterato. la medicina tradizionale cinese si avvale di numerosi metodi diagnostici come la palpazione del polso radiale e la glossoscopia che hanno lo scopo di indagare sulle condizioni generali del paziente che si definiscono in termini di equilibrio yin-yang e dell’energia e del sangue dei cinque organi e sei visceri. Il paziente oncologico presenta costantemente un’alterazione di questi equilibri che può essere primitiva o secondaria alle terapie antitumorali che sono state effettuate. Questa alterazione può essere indagata, evidenziata e trattata con le varie metodiche di prevenzione e terapia della medicina cinese: non soltanto agopuntura e metodiche correlate, ma anche farmacoterapia, dietetica e ginnastiche mediche cinesi. Per poter dare un’idea del diverso affronto del paziente oncologico proponiamo degli esempi di applicazione delle metodiche diagnostiche e terapeutiche della medicina cinese. un quadro sindromico che frequentemente si riscontra nel paziente oncologico è quello che in medicina cinese va sotto il nome di “stasi 166
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di sangue”: sono state fatte in proposito alcune ricerche pubblicate nella rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese n. 63, 1, 1996 e nel Journal of Traditional Chinese Medicine vol. 15 n. 1, 1995 relative all’utilizzo di fitofarmaci ad azione mobilizzante sul sangue come la radix Paeoniae rubrae, la radix Salviae miltiorrhizae. un altro quadro sindromico di frequente riscontro nel paziente oncologico è quello che in medicina cinese va sotto il nome di “deficit di qi”. È stato studiato nel ratto con la somministrazione di un prodotto confezionato con una famosa antica ricetta per “tonificare il qi” che prende il nome di Liu Jun Zi Tang o “Decotto dei sei gentiluomini”. Il decotto è a base di: ren shen - radix ginseng 9 g bai zhu - rhizoma atractylodis macrocephalae 12 g fu ling - sclerotium Poriae 12-15 g gan cao - radix glycyrrhizae 6 g ban xia – rhizoma Pinelliae 3 g chen pi – pericarpium Citri reticulatae 6 . la prescrizione è qui presentata con il dosaggio in grammi secondo le proporzioni che venivano anticamente utilizzate per confezionare il decotto. attualmente si utilizzano nelle stesse proporzioni gli estratti secchi degli stessi rimedi. Il decotto è stato somministrato per via sottocutanea per 20 gg e successivamente per via orale ed ha dimostrato di possedere effetti inibitori sulla moltiplicazione delle cellule maligne del ratto. le ipotesi che sono state fatte è che questa inibizione sia correlata ad un aumento dei macrofagi o delle NK cells. 167
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anche il Bu Zhong Yi Qi Tang o “Decotto per tonificare il centro e sostenere il qi” è stato testato nel paziente oncologico. Ecco la sua formula con i dosaggi in grammi: huang qi - radix astragali 15-30 ren shen - radix ginseng 9-12 bai zhu - rhizoma atractylodis macrocephalae 9-12 zhi gan cao - radix glycyrrhizae praeparata 6 dang gui - radix angelicae sinensis 6-12 chen pi - pericarpium Citri reticulatae 6 sheng ma - rhizoma Cimicifugae 3-6 chai hu - radix Bupleuri 3-9. È stato ha dimostrato che possiede effetti inibitori sulla moltiplicazione cellulare in pazienti affetti da epatoma. È stata fatta l’ipotesi che determini un aumento dell’apoptosi. un altro interessante campo di azione inerente la farmacologia cinese e la terapia oncologica è quello relativo allo studio dei principi attivi ad attività antitumorale presenti negli antichi fitofarmaci cinesi. ricordiamo che i fitofarmaci annoverati nella farmacologia cinese sono numerosissimi: 4956 monografie nell’ultima edizione della Materia Medica. un numero di rimedi enorme le cui proprietà farmacodinamiche e farmacocinetiche sono utilizzate da millenni e sono state studiate ed approfondite in ambito biomedico negli ultimi 50 anni. le ricerche sono in continuo aumento e di giorno in giorno vengono scoperte interessantissime nuove azioni, indicazioni ed applicazioni dei principi attivi contenuti negli antichi farmaci cinesi. 168
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In campo oncologico da numerosi di questi farmaci sono stati isolati dei principi attivi che hanno dimostrato di possedere attività antitumorale come ad esempio: l’amigdalina D del Wu Jia Pi, acantopanax gracilisticus, l’apigenina del Juan Bai, Selaginella tamariscina, la Bergenina del Yan Bai Cai, Bergenia purpurascens, il Colchicoside, del Qiu Shui Xian, Colchicum autumnale, la Coumarina del Huang Hua Hao, artemisia annua, il Demecolcine del Qiu Shui Xian, Colchicum autumnale, l’Ellipticina del Gu Cheng Mei Gui Shu, Ochrosia elliptica, la genipina del Du Zhong, Eucommia ulmoides, la Harringtonina del San Jian Shan, Cephalotaxus fortunei, il lapachol del Huang Jin, Hibiscus tiliaceus, il Masoprocol del Yu Chuang Mu, guajacum officinale, il Paclitaxel del Hai Nan Cu Fei, Cephalotaxus hainanensis, la Peucedanina del Qian Hu, angelica decursiva, la Piperidina del Bi Ba, Piper longum.
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gli studi su queste antichissime molecole di recente scoperta sono apertissimi in tutti gli Istituti di ricerca delle Facoltà di Medicina Tradizionale Cinese in Cina ed in Occidente. un altro campo di applicazione della medicina cinese è quello di integrare le terapie antineoplastiche della biomedicina allo scopo di tamponare i loro effetti collaterali come accade in corso di chemioterapia e radioterapia. Numerosi farmaci cinesi possono essere utilizzati per trattare questi effetti collaterali che secondo la medicina cinese sono correlati ai danni che i farmaci apportano alle “sostanze fondamentali” del corpo come yin, yang, qi e sangue. anche l’agopuntura può essere utilizzata a questo scopo. Ormai è assai famoso e diffuso l’utilizzo del punto PC-6 nei guan nel trattamento della nausea del vomito in corso di chemioterapia. Si tratta di un punto di agopuntura che si trova sulla superficie palmare dell’avambraccio che viene utilizzato da millenni per regolarizzare il ritmo cardiaco, in corso di chinetosi e per i suoi effetti antiemetici anche le ginnastiche mediche cinesi possono essere utilizzate come complemento alla terapia o nella prevenzione delle recidive per ottimizzare le funzioni degli organi e visceri e per tonificare le “sostanze fondamentali”. un ultimo cenno va fatto alla dietetica cinese che suggerisce specifici alimenti per trattare alcune forme di meiopragia organica che sono quasi costantemente presenti nel paziente oncologico come il deficit di qi, il deficit di sangue o quello di yin e di yang. anche in questo caso si possono combinare i suggerimenti dietetici cinesi con quelli che vengono dalla dietetica occidentale per sinergizzare i loro effetti preventivi e terapeutici. Bibliografia - Sotte l., Muccioli M., Diagnosi e Terapia in Agopuntura e Medicina Cinese, Tecniche Nuove, Milano, 1992, - Sotte l., Muccioli M., Pippa l., Piastrelloni M., Quaia P., Naticchi 170
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E., Vannacci a., Farmacologia Cinese, Casa Editrice ambrosiana 2009 - Di Concetto g., Sotte l., Pippa l., ed altri, Agopuntura Cinese, Casa Editrice ambrosiana, 2007 - Sotte l., Minelli E., giovanardi C., ed altri, Fondamenti di Agopuntura e Medicina Cinese, Casa Editrice ambrosiana, Milano, 2006 - Zee-Cheng rK, Shi-quan-da-bu-tang (ten significant tonic decoction), SQT. A potent Chinese biological response modifier in cancer immunotherapy, potentiation and detoxification of anticancer drugs, Methods Find Exp Clin Pharmacol. 1992 Nov; 14(9):725-36.
Capitolo xVII
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TuMOrI ED aTTIVITÀ FISICa: “aSPETTI PrEVENTIVI E rIaBIlITaTIVI” Primo Pensi È ormai noto e consolidato scientificamente che l’attività fisica, oltre ad avere un ruolo fondamentale nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, nella sindrome metabolica, nel diabete e nell’obesità, “si oppone” all’insorgenza di patologie degenerative che colpiscono la nostra popolazione che sta invecchiando sempre più: la sarcopenia dell’anziano ne è l’esempio più eclatante; nella Sindrome Sarcopenica riscontriamo in genere: - un decadimento fisico, ovvero osteo-articolare - un decadimento psichico secondario alla ridotta autosufficienza fisica nello svolgere le normali funzioni o azioni della vita quotidiana Invecchiando, sempre più a lungo l’organismo umano è pertanto soggetto ad andare incontro a processi degenerativi cellulari fino ad arrivare anche alla “trasformazione neoplastica” delle cellule che perdono così la capacità del controllo ed acquistano quella della replicazione incontrollata che porta alla formazione di “masse cellulari” o tumori in grado di invadere, attraverso le normali vie anatomiche, gli organi principali (processo metastatico) con gravi complicanze che minacciano la vita dell’individuo. Moderne tecniche diagnostiche hanno permesso di effettuare diagnosi “precoci” in campo neoplastico con enormi vantaggi di trattamento sia chirurgico che chemioterapico consentendo una migliore prognosi e prospettiva di guarigione o sopravvivenza. Le cause responsabili della trasformazione cellulare verso la neoplasia non sono del tutto note: - predisposizione individuale o meglio familiare - esposizione a sostanze nocive (primo fra tutti il fumo di tabacco) 172
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- cattive abitudini alimentari (grassi animali); - accumulo di radicali liberi (ROS) etc., sembrano esporre maggiormente l’individuo alla patologia tumorale; recenti studi in campo di prevenzione oncologica hanno dimostrato una maggior incidenza tumorale nella popolazione sedentaria affetta da sindrome metabolica e dedita al fumo di sigaretta. Questa correlazione sembra essere ben evidente per il cancro della mammella e per quello del colon: • l’associazione fra sedentarietà e cancro del colon è sicuramente quella meglio dimostrata. • non dimentichiamo tra l’altro la stretta correlazione fra tumore polmonare e tabagismo. Contrariamente vi è minore incidenza di patologia tumorale nella popolazione che conduce un corretto stile di vita, ovvero una sana abitudine alimentare (pertanto con un corretto BMI – rapporto peso/altezza) e che pratica costantemente una regolare attività fisica, intendendo per “regolare” almeno 3-4 sedute di attività alla settimana. Si evince pertanto che possiamo “si” parlare di: “attività fisica e prevenzione cardiovascolare” ma anche di “attività fisica e prevenzione tumorale”. Non dobbiamo, fra l’altro, perdere di vista l’aspetto riabilitativo anche in coloro che stanno lottando o hanno sconfitto il tumore. a volte gli esiti fisici di un trattamento chirurgico necessitano di particolari esercizi fisici riabilitativi. L’attività fisica influenza positivamente numerosi organi o 173
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funzioni del nostro corpo: - l’apparato osteo-articolare e muscolare, - la funzione cardiovascolare e polmonare e la motilità intestinale - la produzione ormonale - il bilancio energetico - il sistema immunitario - e sicuramente importantissimo in chiave anti-tumorale con la produzione di “antiossidanti”. l’esperienza personale come Medico Sportivo presso un Centro di attività Motoria frequentato mediamente da circa 1800 iscritti annui con età che varia da 12 anni a 87 anni mi ha portato a valutare attentamente questi concetti; ed in particolare mi sembra opportuno riportare la testimonianza di due cluber (iscritti al Centro) che in tempi diversi hanno dovuto combattere sia con la patologia neoplastica e non solo: aumentando l’età media sono sempre piu’ numerosi coloro che vengono colpiti da patologia neoplastica e patologie varie fra cui quella cardiovascolare: Es. N° 1 : Soggetto maschio di 65aa • attività lavorativa: autotrasportatore • Nel 2008 diagnosi di adenocarcinoma della prostata intracapsulare, sottoposto a terapia chirurgica. • Nel 2009 decide di iscriversi in palestra (CaM) per svolgere attività fisica. • la visita di idoneità all’ingresso evidenzia la presenza di ischemia miocardica da sforzo a soglia medio-bassa (f.c. 100-110 bpm dopo step 3’) •Successivamente sottoposto ad accertamenti: Test ergometrico - Coronarografia - infine By-pass ao-Co (coronaropatia trivasale) Attualmente frequenta il CAM e mi dice: 174
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“Dottore io quando vengo qui mi sento proprio bene” Es. N° 2 : Soggetto maschio di 63aa • attualmente pensionato • 5 anni fa intervento per carcinoma gastrico con gastrectomia totale, regolari follow-up • Fortemente sottopeso con BMI 18 e disturbo d’ansia importante, riferisce astenia quotidiana •Si iscrive nel CaM con idoneità per attività fisica a minimo impegno cardiovascolare e preferibilmente di gruppo (yoga, acquagym etc..) •Viene programmato un supporto integrativo-alimentare per contrastare il bilancio calorico fortemente negativo o meglio catabolico (integratore anche con creatina nelle dosi previste) •Dopo circa 45 gg il soggetto riferisce un sensibile miglioramento del suo stato con diminuzione dell’astenia nello svolgere le normali azioni quotidiane ed anche un aumento del peso corporeo di 1,5 kg (beneficio psico-fisico!)
Conclusioni Possiamo affermare che l’attività fisica ha sempre più un ruolo importante nel campo preventivo e non solo: offre delle prospettive riabilitative importantissime sotto l’aspetto psico-fisico con lo scopo sia di migliorare la performance fisica ma anche quello di aumentare l’autostima e la consapevolezza che dalla malattia tumorale si può guarire... . Il compito del medico sportivo è quello di poter consigliare o prescrivere una corretta attività fisica sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo; le attività sportive di gruppo come yoga, acquagym, pilates etc. sembrano offrire vantaggi psico-fisici interessanti. 175
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Nell’ultimo decennio le moderne normative nazionali e regionali in merito all’attività sportiva hanno rivalutato l’aspetto ludico-amatoriale ( attività sportiva non agonistica) in linea con quanto evidenziato con i risultati scientifici ed in modo particolare hanno messo in risalto il fatto che esiste una attività fisica per tutti, piu’ o meno giovani e piu’ o meno sani. I moderni CaM (Centri di attività motoria) o ex Palestre sembrano essere ambienti ideali per praticare attività motoria a vario impegno cardiovascolare e metabolico in relazione alla caratteristiche psicofisiche del soggetto e delle patologie concomitanti e sicuramente anche per coloro che stanno lottando per sconfiggere la patologia tumorale o meglio se da essa si devono riabilitare; le attività sportive a lieve impegno cardiovascolare soprattutto se svolte in gruppo hanno la caratteristica di migliorare sia l’aspetto fisico che quello psichico con una forte azione ansiolitica ed a volte anche antidepressiva. Riferimenti bibliografici: - Nutrition Foundation of Italy. Physical activity, obesity and health. Milano 21.6.04 - Batty D, Thune I. Does physical activity prevent cancer? British Medical Journal 2000;321:1424 - Hu FB et al. Adiposity as compared with physical activity in predicting mortality among Women. N Engl J Med 2004; 351:2694 - Giovannucci E et al. Physical activity, obesity, and risk for colon cancer and adenoma in men. Ann Int Med 1995;122:327 - WCRF/AICR (2007). Food, Nutrition, Physical Activity and the Prevention of Cancer – a Global Perspective. Washington D.C. - Platz EA, Leitzmann MF, Michaud DS, Willett WC, Giovannucci E. Interrelation of energy intake, body size, and physical activity with prostate cancer in a large prospective cohort study. Cancer Res. 2003; 63(23):85428. IARC Handbook of Cancer Prevention. Weight Control and Physical Acti176
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vity, vol 6. Lyon, France: International Agency for Research on Cancer 2002.
Capitolo xVIII
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agrICOlTura BIOlOgICa: QuESTIONE DI INTErESSE STraTEgICO NaZIONalE Priorità e criticità nei Programmi Agroambientali europei e regionali per la tutela dei diritti inviolabili alla salute ed all’ambiente Giuseppe Altieri La Fame e la Sete...dei mercanti È finalmente di pubblico dominio il fatto che l’agricoltura e la Zootecnia industriale rappresentano oggi il fattore principale di emissioni di gas Serra (CO2, Metano, Ossidi di azoto dalla produzione di concimi chimici, ecc), con oltre il 30% delle emissioni totali e che gli allevamenti industriali producono più CO2 (e metano) di tutti i trasporti mondiali! Senza tener conto che, a causa della cosiddetta globalizzazione, la maggior parte dei trasporti mondiali avviene a carico di prodotti agroalimentari che solcano gli oceani in lungo e in largo. una marea di vere e proprie “fesserie pseudoscientifiche” vengono buttate in pasto ai mass media, seppur partendo da dati reali sulle crisi di produttività dei terreni agricoli e sugli sconvolgimenti climatici, che desertificano le terre, ma la causa principale è da imputarsi alla chimica dei Pesticidi e dei Disseccanti che distruggono l’Humus (incrementando ulteriormente i gas Serra), e compromettono la salute degli agricoltori e dei Consumatori. Si vuol preparare la gente alla fame e alla sete... . ...quella dei Mercanti che monopolizzano i mercati agricoli, speculando sui bisogni primari dei consumatori, mentre i prezzi pagati agli agricoltori hanno raggiunto all’ultimo raccolto, il minimo storico, con la paglia (12 €/q.le) che vale più del grano (11,5 €/q.le)... mai successo nella storia umana! Come è possibile tutto ciò? Oggi alleviamo a livello mondiale circa 8 miliardi di bovini equiva178
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lenti che mangiano almeno come 20 miliardi di persone, in fabbriche di animali piene di medicinali ed ormoni. li nutriamo con Mais, Soia e altri prodotti e sottoprodotti agricoli e industriali (spesso OgM) che consumano più petrolio dell'energia solare fissata attraverso la fotosintesi dalle loro coltivazioni, a causa dell'agricoltura industriale, energivora e chimicizzata, che sta massacrando da 50 anni i terreni più fertili e produttivi in tutto il mondo. In tal modo accumuliamo, in particolare nelle carni, moltissimi residui chimici, soprattutto Pesticidi... ...mentre 1 miliardo di esseri umani soffrono la fame nera. Bisogna fermarsi, anche perchè ...è già troppo tardi. È proprio il caso di dire ...“c’è troppo cibo per poter mangiare tutti” l'eccedenza in ogni settore agroalimentare crea crisi dei mercati e crollo dei prezzi alla produzione e tutto vantaggio degli speculatori che controllano i mercati internazionali, mettendo a rischio le sicurezze alimentari di tutti i paesi e le loro economie agricole tradizionali. In Italia almeno 800.000 ditte di agricoltori hanno chiuso o fallito negli ultimi 10 anni (Fonte Coldiretti), con un indotto di almeno 3 milioni di posti di lavoro persi! (mentre ci preoccupiamo della FIAT, per poche decine di migliaia di posti di lavoro persi, che dovrebbero essere immediatamente riportati in Agricoltura, approfittando della crisi industriale). Basterebbe puntare alla sovranità alimentare autosufficiente dei singoli popoli, attraverso l’agroecologia e le Produzioni Biologiche Tradizionali locali, organizzate con filiere corte o dirette, dai produttori ai consumatori. Dove se non in Italia? Il paese più ricco del mondo in quanto a biodiversità e tradizione agroalimentare sta subendo un attacco mortale al suo patrimonio primario, agricolo e Sementiero ed alla salute del suo po179
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polo, con un tasso di malattie degenerative e tumorali semplicemente spaventoso. Tanto per fare un esempio vorrei ricordare che l'80% della popolazione del Sud america riesce a nutrirsi in autosufficienza, coltivando appena il 30% dei terreni agricoli. E stiamo parlando di quelli marginali e meno produttivi, di alta collina e montagna, laddove sopravvive solo l’agricoltura tradizionale. lo stesso accade in India, dove vi sono, per fortuna, ancora 800 milioni di contadini tradizionali, che garantiscono la sovranità alimentare del paese, anche se milioni di tonnellate di derrate vengono distrutte nei magazzini, invece di destinarle ai poveri che non hanno soldi per mangiare. Ed è noto (fonte FaO), che in tutti i sistemi agricoli mondiali, con l’aumentare delle superfici medie delle aziende agricole diminuisce notevolmente la produttività per ettaro di terreno, dal momento che l’industrializzazione non rende possibili le consociazioni colturali e i corretti avvicendamenti. Molti sistemi policolturali di “agricoltura Sinergica” consentono produzioni doppie e triple di quelle industriali, risultando nel contempo protettive dell'ambiente, della salute e della fertilità dei terreni. E produttive di posti di lavoro dignitosi in una agricoltura nel contempo moderna e tradizionale, in sostanza agroecologica. un paese come Cuba, ridotto alla fame nel 1989 a causa dell’embargo e dell’abbandono da parte dei sovietici, si è rimboccata le maniche e in dieci anni di “Periodo Especial” ha ricostruito un tessuto rurale che ha portato gli agricoltori dal 4 al 20% della popolazione, recuperando l’autosufficienza alimentare e sanitaria (Medicina Naturale), con sistemi di produzione biologici avanzatissimi, recuperando parzialmente anche la trazione animale. Di necessità virtù... (g. altieri: “la rivoluzione della Naturaleza”, Mediterraneo, n° 3).
“Cibus Ecologicus in primis” 180
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Così si diceva nella antica roma, per il popolo più sano e forte del mondo dell’epoca. laddove non era necessario l’appellativo di Ecologico o Biologico, dal momento che i prodotti di sintesi semplicemente non esistevano, come d'altronde appena 50 anni fa... come ci ricorda lo splendido documentario di Enrico Bellani “respiro di Terra”, sull’agricoltura tradizionale umbra del 1973, sottoposta al primo assedio dei Mercanti. E non si tratta certo di rifiutare la meccanizzazione o di tornare alla zappa, anche se un grande sviluppo dell’orticoltura familiare è oggi auspicabile e di cronaca, anche grazie alla cosiddetta “crisi economica”, in realtà finanziaria, per la troppa concentrazione dei capitali in poche avide mani. Ed allora “Mangiacomeparli”...è proprio il caso di dire. E ne abbiamo fatto anche un marchio a garanzia dei consumatori, 100% Italiano, 100% OgM Free, 100% Biologico, secondo le norme di legge. Ovvero, torniamo alla Tradizione agroecologica basata sulla Biodiversità della nostra agricoltura. liberiamo l’agricoltura dall’Industria chimica dei Pesticidi, inutili e tossici, venduti da una rete fittissima di commercianti senza scrupoli, in assenza di un’assistenza tecnica indipendente (su cui la comunità europea aveva investito notevoli risorse negli anni '80-'90), finita purtroppo nel lavoro burocratico dei cosiddetti sindacati agricoli, che decidono in concertazione le politiche regionali. liberiamola dalla trasformazione agro-alimentare industriale truccata per i supermarkets...e, soprattutto, dal Commercio speculativo, che lascia agli agricoltori meno del 20% del prezzo pagato dal consumatore. In sostanza: andiamo a far la spesa in campagna attraverso filiere corte o dirette dal produttore al consumatore; ed insegnamo ai nostri figli gli odori e i sapori veri della Natura. In fondo, tutto questo è previsto dalle normative Europee da almeno 15 anni, con l'avvio dei Programmi Agroambientali Europei (Reg. CE 2078/92), obbligatori all'interno dei cosid181
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detti Piani di Sviluppo Rurale (le finanziarie agricole regionali). Ma, come vedremo, le cose purtroppo non sono andate come i legislatori europei avevano previsto ed i recepimenti tecnico giuridici regionali, con miopia ormai cronica, hanno per lo più contrastato gli obiettivi della politica comunitaria agroambientale. Priorità e criticità nei Programmi Agroambientali europei e regionali per la tutela dei diritti inviolabili alla salute e all’ambiente Dal 2007 al 2013 l’Europa ha stanziato 200 miliardi di € per lo Sviluppo rurale con priorità agroecologica, una cifra enorme, per pagare i servizi forniti dagli agricoltori e non più solo per il semplice sostegno al reddito (il cosiddetto premio PaC), che ancora oggi utilizza enormi risorse comunitarie per pagare gli allevamenti industriali in base al numero di capi allevati, una vera follia! un vero e proprio “suicidio umano di massa, provocato da uno sterminio animale di massa”. Oggi in Italia abbiamo ancora oltre 17 miliardi di € da spendere per le finanziarie agricole di Sviluppo rurale regionali (PSr). Soldi che rischiano di tornare a Bruxelles, per mancanza di volontà di riconversione biologica dell’agricoltura da parte delle regioni, che non erogano pagamenti congrui e sufficienti a sostenere gli agricoltori ed allevatori biologici. Tanto che il governo pensa a un Piano Nazionale agroambientale per lo Sviluppo rurale, scavalcando le regioni stesse. E ne avrebbe anche diritto, trattandosi di ambiente e Salute (art. 9 e 32 della Costituzione), diritti inviolabili tutelati dallo Stato e non delegati alle regioni. Esiste l'obbligo di destinazione di almeno il 40% dei bilanci regionali dei PSr per i Pagamenti agroambientali (con priorità fino al 60% in caso di domande di impegno quinquennale da parte degli agricoltori ed allevatori biologici). Ciò a compensare tutti i mancati redditi, i maggiori costi+il 20% per la transazione all’agricoltura Biologica o per la “Sostituzione reale” dei Pesticidi, come preve182
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dono i regolamenti comunitari di riferimento, obbligatori e prioritari. E non come accaduto spessissimo per fittizie presunte riduzioni degli inputs chimici denominate impropriamente “agricoltura Integrata”, censurate come non controllabili ne verificabili dalla Corte dei Conti Europea (in particolare con la Nota n. 3/2005). Escamotage attraverso il quale si stanno sperperando enormi risorse agroambientali, (che dovrebbero pagare un servizio) per sostenere in realtà i redditi degli agricoltori...che acquistano pesticidi, secondo elenchi redatti dalle regioni (Disciplinari di agricoltura Integrata), basati su ipotesi di presunte riduzioni di impiego di pesticidi, ovvero di “lotta chimica guidata”, senza obblighi di “sostituzione” degli stessi pesticidi con tecniche biologiche e naturali oggi ampiamente disponibili sul mercato. Disciplinari anacronistici e non scientifici, che permettono addirittura un numero di interventi chimici molto superiore a quanto normalmente praticato oggi dagli agricoltori. a tutolo di esempio la regione umbria ha inserito nel 2010, tra le misure agroambientali, un Pagamento per presunte riduzioni di impiego di diserbanti sul Tabacco, da 3/4 presunti a 2 interventi (quando in realtà oggi i tabacchicoltori impiegano mediamente un solo diserbo sulla coltivazione, ndr) e per altrettanto presunte riduzioni di quantità di impiego di fungicidi chimici (ovviamente non controllabili). In tal modo la Tabacchicoltura chimica ottiene un contributo doppio a quella Biologica... una contraddizione palese: e non si spiega come possa essere stata approvata dalla Commissione europea, che troppo spesso “copre” il lavoro non corretto delle regioni, puntualmente censurato dalla Corte dei Conti uE. l’esempio del Tabacco vale ovviamente per tutti i disciplinari di agricoltura Integrata delle diverse coltivazioni sovvenzionate attraverso pagamenti agroambientali non conformi ed in contrasto con gli obiettivi, il cui risultato è stato addirittura negativo. In tal modo il mercato dei Pesticidi è continuamente cresciuto in Italia, superando ampiamente il 30% di tutte le vendite europee e le nostre 183
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acque sono per lo più inquinate da residui chimici oltre i limiti di legge, con ben 118 Pesticidi rilevati (agrisole 21-27 maggio 2010, fonte arPa - ISPra). ricordo a tal proposito che, secondo l’autorevole Istituto Oncologico ramazzini di Bologna, il concetto di “soglia di tolleranza” non è corretto dal punto di vista scientifico medico, dal momento che ogni presenza di sostanze chimiche estranee al metabolismo umano naturale, provoca un rischio ad effetto mutageno, teratogeno e cancerogeno, le cui conseguenze dipendono semmai dalla attività individuale del sistema immunitario. Sarebbe pertanto più corretto parlare di soglie di danno accettato, ovvero di “Intolleranza”, laddove i bambini sopportano oggi dosi di residui chimici molto più elevate essendo questi ultimi tarati su un corpo adulto di 60 kg di peso! residui che continuano ad accumularsi nel nostro corpo da decenni, finche non saremo più in grado di sopportarli fisicamente (nonostante un referendum realizzato nel 1992, con oltre 19 milioni di voti (90% dei votanti) per l’abolizione di tale assurdità dalle norme di legge.. Tutto ciò continua ad avvenire oggi con il sostegno di Pagamenti agroambientali inconcludenti ed artefatti, non controllabili ne verificabili, come inutilmente ci ricorda da almeno 10 anni la Corte dei Conti uE. Cose puntualmente denunciate nei servizi televisivi di ambiente Italia (giugno 2001) e report rai 3 (“Ipocrisia di Stato”, “Come Bio comanda”, di Sabrina giannini e “Il gene Sfigurato” di Carlo Pizzati). È per tali motivi che gli agricoltori biologici in quattro regioni (umbria, Toscana, Marche e Campania) sono ricorsi, per ora, ai Tribunali amministrativi e al Consiglio di Stato, dopo un esposto alla Corte dei Conti dell'umbria nel 2001. Sarebbe necessario un ricorso alla Corte di giustizia europea, nei confronti di chi consente una distorsione talmente palese delle norme agroambientali e Costituzionali dei paesi membri.
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Un attentato continuo alla Salute Umana e della Natura I tumori e il cancro aumentano in Italia in maniera impressionante, parallelamente al mercato dei Pesticidi (i dati del Veneto sono significativi, ndr), cosi come la spesa per la malattia, che oggi ha superato l’80% dei bilanci regionali (...e la chiamano sanità).I nostri bambini e le nostre cellule riproduttive sono più sensibili ai danni da Pesticidi, diserbanti e disseccanti “arancione”, che distruggono anche il paesaggio italiano oltre alla salute, creando dissesti idrogeologici per mancanza di copertura invernale e primaverile dei suoli. E quando piove l’acqua si porta giù la terra nei fiumi, sulla case della gente, sui treni e nelle strade, fino alle fabbriche. Come se non bastasse si irrorano strade, piazze e palazzi con Pesticidi di sintesi verso Zanzare, Mosche e altri insetti molesti, quando esistono forme di controllo ben più efficienti, di tipo Naturale e Biologico, ampiamente diffuse, nell’indifferenza dei Sindaci e di molte uSSl, attraverso un lavoro troppo spesso nascosto da parte delle ditte produttrici e distributrici di Biocidi chimici.. attraverso il progetto denominato ad arte “Polline sicuro”, guidato dalle Multinazionali del Glifosate, si sono irrorate di disseccante GLIFOSATE tutte le strade del Bel Paese, mettendo a rischio la salute dei cittadini che passeggiano coi bambini o viaggiano in macchina. addirittura nel novembre 2010 (vedasi ad esempio la s.s. Flaminia tra Foligno e Spoleto e l’E7), quando l’erba nemmeno cresce e i Batteri dormono per il freddo...per cui i residui dei disseccanti finiscono direttamente nelle acque, grazie alle abbondanti piogge si stagione. I residui di tale prodotto sono rilevabili in tutte le acque sensibili analizzate, alla faccia della presunta biodegradabilità ed innocuità. un’autorevole ricerca svedese correla il glifosate al linfoma non Hodgkin ed altri studi a danni placentari anche a dosi infinitesime (cento volte inferiori ai limiti di legge dei residui negli alimenti). roba da inchiesta per le Procure della repubblica. In Francia sono partite multe salate (oltre 1 miliardo di € per pubblicità menzognera alla Monsanto, che per anni ha indottri185
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nato gli agricoltori e i cittadini sulla biodegradabilità e innocuità del prodotto, che molti usano addirittura nei giardini di casa!!) ed in argentina il prodotto è stato vietato dai tribunali (“Il Mondo secondo Monsanto”, di M.M. robin - arianna Editrice)... mentre in Italia ...aspettiamo solo di morire? a proposito, il glifosate è inserito nei disciplinari di agricoltura Integrata di tutte le regioni Italiane, con cui si erogano addirittura pagamenti agli agricoltori che lo usano insieme a tantissimi altri pesticidi, togliendo risorse agli agricoltori biologici (come avvenuto in Toscana). Ed oggi assistiamo all’assurdo che Enti di Certificazione dell’Agricoltura Biologica, sempre in Toscana, si prestino a “controllare e verificare” ciò che non è controllabile nè verificabile, ovvero l’Agricoltura Integrata, in mancanza di obblighi di fatturazione dei Pesticidi chimici e in assenza di una ricetta che ne prescriva la vendita. Il consumatore pertanto viene ingannato con un marchio regionale rappresentato dalla bella farfallina dell’agricoltura (dis)Integrata... .Veramente un brutto esempio dell’Etica di alcuni Enti di Certificazione dell’agricoltura Biologica in Toscana (CCPB, IMC, SuOlO E SaluTE, ICEa, BIOagrICErT, QC&I), che farebbero bene a chiedere scusa ai consumatori ed interrompere questa "copertura oscena" di una vera e propria opera di distrazione di risorse comunitarie. Il sottoscritto ha inviato una relazione scritta fortemente critica sui disciplianri attuali, alla commissione del MIPaaF sull'agricoltura Integrata e le procedure di controllo, sottoscritta per ora da un solo presidente di un’ente di certificazione Biologica, la BIOZOO. I responsabili di questi attentati alla salute umana e all'ambiente sono ben noti. Ed i Sindaci potrebbero agire con divieti, in qualità di supremi tutori della Salute dei Propri cittadini, come ha fatto recentemente un Comune della Val di Non. È necessario sollecitare i Sindaci ad attuare il Divieto d’impiego di Pesticidi chimici di sintesi nel territorio, che va dichiarato BIOlOgICO, dal momento che l'inquinamentoda pesticidi è arrivato a livelli di bio-accumulo peri186
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colosissimi per la salute pubblica e i Pagamenti agroambientali dovrebbero rendere il Biologico conveniente "per legge" a tutti gli agricoltori. Fermiamo lo scempio dei Pagamenti Agroambientali per l’Agricoltura Integrata nella chimica ed i venditori indisturbati di Pesticidi chimici di sintesi. Converrebbe anche ai cosiddetti Consorzi agrari vendere prodotti per l’agricoltura Biologica: ci guadagnerebbero molto di più...soprattutto in un regime di corretti Pagamenti agroambientali agli agricoltori biologici, che sarebbero ben felici di utilizzare prodotti naturali e concimi organici (anche se più costosi) invece della chimica mortale. gli stessi sindacati agricoli che concertano le politiche regionali, oggi spesso in conflitto di interessi, essendo coinvolti nelle gestioni dei Consorzi agrari che vendono prodotti chimici, potrebbero revisionare le loro politiche verso una “convergenza di interessi”, per il bene di tutti, ovvero vendendo prodotti per l'agricoltura biologica, sostenuti dai Pagamenti agroambientali Europei. anche le industrie chimiche del settore, alle ultime giornate fitopatologiche nazionali a Bologna, hanno chiesto norme più chiare in Italia, sulle questioni agroambientali (agricoltura Integrata), al fine di poter investire nella diffusione delle tecniche sostitutive dei Pesticidi chimici di sintesi. Insomma, le stesse industrie auspicano il divieto dei pesticidi...cosa aspettiamo? Dieta Biologica A Prevalenza Vegetariana E Mediterranea: fatti E Non Parole Dobbiamo ridurre di almeno il 70% gli animali allevati al mondo. Immediatamente. In Italia, invece di allevare 10 milioni di unita Bovine adulte equivalenti (uBa), ne basterebbero 3 milioni in regime di allevamento biologico. Eliminando in tal modo la necessità di importare milioni di tonnellate di OgM e Mangimi, lungamente stoccati e ad altissimo rischio di micotossine e residui di pesticidi e conservanti. rimarrebbero a disposizione degli italiani ancora ben 500 grammi di carne 187
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procapite alla settimana, allevata al pascolo naturale (o qualcosa in pù in equivalenza nutrizionale, sotto forma di latte o formaggi). Più un pò di pesce fresco pescato dai mari che ci circondano per migliaia di km (con un pò di bioaccumulo di residui chimici di tutti i tipi, che purtroppo attraverso i fiumi finiscono tutti a mare, purtroppo). Se proprio non vogliamo diventare vegetariani. Non entrate nei Supermercati, signori miei...e state bene attenti a ciò che acquistate. Fare la spesa Biologico direttamente dagli agricoltori migliorerà la salute...del pianeta, vostra, degli agricoltori...soprattutto quella dei vostri figli, che hanno diritto al futuro. Torniamo alla Tradizione agroecologica e all’artigianato dei nostri Maestri dei campi e del Vino, del grano e del Pane...a un giusto prezzo. la Madre Terra ha risorse abbondanti per tutti i propri figli... ...ma non potrà mai sfamare l’avidità dei pochi che non la rispettano, in nome del dio denaro e del potere più stupido che si possa immaginare... quello di far del male agli altri. allegato: PIANO DI RICONVERSIONE BIOLOGICA DELL'AGRICOLTURA ITALIANA (Evitando distrazione di fondi verso una fittizia agricoltura Integrata, concorrenziale all’agricoltura Biologica) - Seminativi avvicendati, Cereali e leguminose da granella: 3.000.000 Ha x 400 €/ha in media di pagamento agroambientale = 1,2 Miliardi di € (il pagamento, insufficiente, oggi previsto dalle regioni è di circa 200 €/ha) - Mais 800.000 ha x 600 €/ha = 0,48 miliardi di € - Olivi: 1.000.000 ha x 500 €/ha = 0,5 Miliardi di € 188
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- Vigneti: 700.000 € x 700 €/ha = 0,5 miliardi di € - Frutteti: 400.000 ha x 1.500 € /ha = 0,6 miliardi di € - Orticoltura: 200.000 ha x 2.500 €/ha = 0,5 miliardi di € - Prati avvicendati, Pascoli e Prati Pascoli 3.500.000 di ha x 100 € ha = 0,35 miliardi di € avanzano anche fondi per il Tabacco Biologico: 20.000 ha x 5.000 €/ha = 100 milioni di € Totale di spesa prevista: 4 miliardi di € all’anno Potremmo aggiungere 400 € per unita bovina adulta allevata in biologico (corrispondente a 3 maiali, 7 pecore, 100 galline, ecc) x 3.000.000 di uBa = 1,2 miliardi di €, così da liberare la zootecnia italiana dalla necessità di importare mangimi contaminati da OgM abbiamo ancora a disposizione oltre 17 miliardi di € da spendere, con priorità fino al 70% per i Pagamenti agroambientali all'agricoltura Biologica (circa 12 miliardi di € disponibili) nel periodo 2010-2013 Ovvero... possiamo riconvertire quasi tutta l’Italia al Biologico. Oggi, non domani.
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Capitolo xIx lE FONTI rINNOVaBIlI: IlluMINarE la PrOPrIa CaSa O Il PrOPrIO FuTurO? Paride De Masi Perché invitare un imprenditore a parlare di “medicina integrata”, di “pazienti oncologici”? l’unica risposta ragionevole che mi viene in mente e che mi pare possa giustificare in qualche modo la mia partecipazione a questa giornata prende le mosse da una riflessione apparentemente banale. Parlare di salute (e, conseguentemente, di malattie), significa parlare soprattutto di due “cose”: cura e prevenzione. Ora, poiché della cura è meglio – decisamente meglio – che si occupino i medici, a un imprenditore non resta che parlare di prevenzione. In particolare, interessandomi io di ambiente ed energia, della prevenzione relativa al rapporto ambiente-salute. la nuova domanda diventa allora: come si possono prevenire le malattie correlate all’ambiente? E soprattutto: che cosa c’entra l’economia con tutto questo? Intendo dire con l’ambiente e con la salute? Può sembrare strano, ma l’economia non solo c’entra, ma è anche il principale indiziato. alludo all’economia oggi trionfante ed imperante. Quella che si potrebbe definire l’economia della crescita e del carbonio. un’economia diventata, nel volgere di pochi decenni e – mi piace pensarlo – suo malgrado, nemica allo stesso tempo e nella medesima misura della natura e dell’uomo. la prima ad accorgersene e a denunciarlo fu proprio una biologa (una collega, per molti di voi). la biologa statunitense rachel Car190
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son. Nel 1962 pubblicò un libro dal titolo Silent Spring (=Primavera silenziosa). libro in cui, con grande lucidità, la Carson denunciò l’uso indiscriminato del ddt in agricoltura. le vittime di questo “biocidio” non erano, infatti, solo gli insetti nocivi ai raccolti, ma anche milioni di piccoli uccelli, che non arrivavano nemmeno a schiudere le uova. Da qui, l’immagine triste, e per niente metaforica, di una primavera silenziosa... . a distanza di quasi cinquant’anni, la “crisi ecologica” è sotto gli occhi di tutti. In un istante storico questo insignificante mammifero umano ha sottomesso le altre specie e sconvolto la natura. Ha consumato una volta per tutte masse sterminate di combustibili fossili accumulati per miliardi di anni nel grembo della Terra; foreste primigenie e oceani di plancton depositati nella forma di carbone e di petrolio. Ha sepolto sotto tempeste di sabbia milioni di ettari di terre vergini distruggendone la fertilità e desertificando interi continenti. Ha asservito pesci, uccelli e animali terrestri andando ben al di là della prescrizione biblica. Ha contaminato le falde acquifere introducendo inusitati veleni. Ha liberato masse enormi di metano dalle deiezioni di gigantesche concentrazioni di allevamenti. Ha distrutto buona parte del miliardo e mezzo di ettari di foreste tropicali, precisamente la metà di quelle africane e un terzo di quelle americane (una superficie complessivamente corrispondente a quella dell’India); ha diffuso nel terreno, nell’acqua e nell’aria dieci milioni di composti chimici inquinanti. Ha provocato, attraverso l’emissione di biossido di carbonio, un riscaldamento sommergente e soffocante dell’atmosfera, che ha caricato di anidride solforosa, di origine chimica o animale, generando piogge acide. Ha provocato la strage delle altre specie vegetali e ani191
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mali, determinando una contrazione drammatica della biodiversità: da un ritmo di estinzione di una specie ogni quattro anni a circa mille estinzioni all’anno! la conclusione? l’essere umano è giunto al punto tale di diventare più pericoloso per la natura di quanto la natura lo sia mai stata per l’uomo. Ma, poichè non ci può essere tutela della vita umana se la stessa non è accompagnata dalla tutela dell’ambiente entro il quale la vita umana si svolge, ciò significa che tutto quello che abbiamo fatto contro la natura, in verità, lo abbiamo fatto contro noi stessi. Che tradotto nel linguaggio economico significa: è necessario e urgente adottare un nuovo modello di sviluppo. un modello in cui la crescita economica non venga valutata in termini solo quantitativi e come fine a se stessa, ma acquisti valore anche per la sua qualità, ossia per l’incidenza che effettivamente può produrre sull’ambiente e, tramite esso, sulla qualità della vita. Permettetemi di citare uno dei più grandi filosofi del Novecento: Hans Jonas. «Ciò che noi oggi viviamo è il paradosso di un enorme successo che minaccia di risolversi, mercé la distruzione della sua propria base naturale, in una catastrofe». Che fare allora? Due parole: sviluppo sostenibile. Che significa? Due cose, prima di tutto: 1) passare da un’organizzazione basata sull’economia di scala e su grandi insediamenti industriali a un’economia diffusa nel territorio e su piccola scala; 2) e, soprattutto, passare da fonti energetiche fossili a fonti energetiche rinnovabili e pulite. un modo nuovo di illuminare la nostra casa, ma soprattutto un modo nuovo di illuminare il nostro futuro.
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Capitolo xx l’EClISSI DI luNa E QuElla DEl SOlE OVVErO COSa SIaMO IN rEalTÁ QuaNDO OgNI COSa CI SEMBra IrrEalE. la FlOrITEraPIa NEllO SPaZIO-TEMPO DEl MalaTO ONCOlOgICO. .Maurizio Lupardini Parole Chiave: Floriterapia di Bach, oncologia, dimensione spazio-temporale Introduzione “...Negli ultimi tre secoli gli studi di medicina e di biologia hanno voluto comprendere la fisiologia e la patologia del corpo, escludendone la mente, in buona parte lasciata nel dominio della filosofia e della religione. Ne risulta che è stato amputato il concetto di umanità con il quale la medicina dovrebbe operare. La percezione, da parte del paziente, della propria condizione di salute è un fattore importante per l'esito della cura...” (a. Damasio). Così a. Damasio, uno dei maggiori neuroscienziati a noi contemporanei, si esprime nei confronti della malattia. lo stato di malessere, il disagio affrontato dal paziente e soprattutto il modo e la maniera con la quale vive il suo stato di salute è personale, è proprio, è individuale; in una sola parola è unico. Tale affermazione risulta vera e rafforzata in maniera esponenziale, quanto più una malattia viene a coinvolgere la persona nella sua totalità psico-fisio-emozionale. È quindi lineare e logico ipotizzare, come in realtà è, che la patologia oncologica, che coinvolge la persona nella sua interezza, rappresenti una validazione certa e concreta di quanto sopra descritto. Il cancro cambia la vita. Il cancro non chiede permesso a nessuno, si presenta e obbliga l’individuo a tessere delle relazioni con lui. Proprio questa veemenza nel presentarsi e nel rimanere lì 193
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“in casa d’altri” fanno si che il malato oncologico non possa rifarsi a degli schemi preconfezionati o a sterili studi statistici che ne “orientano il comportamento”. Deve, ed è corretto che lo faccia, far riferimento a se stesso alle proprie caratteristiche comportamentali, affettive ed emotive di far fronte agli ostacoli che la vita terrena riserva. Solo così il paziente potrà percepire la malattia rendersi conto di ciò che essa significhi per lui e cercare di creare dei confini entro i quali cominciare a mettere ordine ed iniziare a “giocare la partita” della vita. Parlare di umanizzazione della medicina significa non solo fornire adeguate terapie ma soprattutto impegnarsi a fornire delle risposte che siano vicine, dal punto di vista cognitivo ed emotivo, all’esperienza di vita che la persona sta affrontando. Ciò non significa “mettersi nei panni dell’altro”; non sarebbe possibile e si avrebbe come risultato quello di fallire il nostro obiettivo. Vuole invece dire essere a fianco all’altro cercando di aiutare il paziente ad arrivare a quella consapevolezza soggettiva del suo modo di percepirsi malato evitando, per quanto possibile, sovrastrutture cognitive/emotive che ostacolano il percorso di ricerca interiore nel tentativo di “significare” la malattia. In particolare l’operatore sanitario dovrà innanzitutto impegnarsi nel ridefinire insieme al paziente la sua dimensione spazio-temporale nei confronti della malattia. Proprio il concetto di spazio-tempo è quello che nell’immediatezza della diagnosi viene ad alterarsi nel paziente passando, nei casi estremi al diniego della malattia ovvero ad un sovrainvestimento emotivo che rende impossibile la comprensione del proprio vissuto di malattia. Ponendosi nel solco tracciato dalla psico-neuro-endocrino-immunologia che vede una corresponsione e dialogo tra i sistemi sopra indicati, possiamo affermare che il paziente viene a colludere con la sua stessa affezione. la cellula cancerosa, infatti, ad una lettura psico-morfo-funzionale, non ha più legami con il resto delle altre cellule dell’organismo; ha perso l’orientamento spazio-temporale arrivando a moltiplicarsi senza controllo e limiti. Essa non rispetta più l’orologio biologico individuale bensì ne ha uno 194
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proprio che opera in senso autonomo con finalità distruttive nei confronti del corpo ospitante. Ecco allora che il ripristino della dimensione spazio-tempo, sarà premessa indispensabile per lavorare realmente sia a livello mentale che fisico ovvero approcciare al paziente in un’ottica realmente PNEI. Dare la possibilità a paziente di tornare ad essere padrone della propria vita significa fornire a lui gli strumenti per ridefinirla all’interno di una sicura cornice spaziotemporale. Ciò significa aiutarlo a riappropriarsi di se stesso, al di là della malattia, e ritrovarsi essere umano. Fare questo significa, a livello PNEI, operare affinché venga ripristinato un ordine psichico, neuro-endocrino e immunitario che abbia effetto nel ridefinire anche quello della cellula cancerosa nel tentativo di renderla quanto più possibile vulnerabile alle terapie. Per far ciò, al momento non si hanno terapie convenzionali. Ecco perché negli ultimi dieci anni, anche nel campo oncologico, è cresciuto l’interesse per la medicina biologica e per il suo armamentario terapeutico. In particolare nel presente lavoro verranno fornite alcune indicazioni relative al sistema terapeutico originato dal Dott. Edward Bach (1886-1936) e da lui denominato Floriterapia quale valido strumento d’intervento all’interno della complessa gestione terapeutica del malato oncologico. Nel presente lavoro, dopo aver delineato nella sua essenzialità un ideale percorso di un paziente oncologico andando dalla diagnosi alla gestione della terapia, verranno descritti i principi base della floriterapia analizzando alcuni dei rimedi che, sulla base dell’esperienza clinica, si sono mostrati d’interesse nella gestione delle problematiche psico-emozionali del paziente oncologico. Qualcuno forse si sarà chiesto perché nel titolo vengono riportati due momenti astronomici così diversi tra loro: l’eclissi del sole e l’eclissi della luna. Il mistero è presto svelato. Questa affermazione mi venne fatta da un paziente il quale mi disse che la sua battaglia con il cancro era stata simile, appunto, all’eclissi del sole e a quella della luna. appena ricevuta la diagnosi di cancro ogni luce sembrò spegnersi in lui assomigliando questo aspetto, per molti versi, ad una vera e propria 195
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eclissi di luna personale. Tutto era diventato per lui improvvisamente più buio del buio di una notte non rischiarata neanche dalla luce della luna. Nel momento della conduzione della terapia, invece, la sensazione era quella di vivere come se vi fosse una perenne eclissi di sole. Il paziente raccontava, infatti, che lui sapeva che vi era una speranza, una luce dietro a quel buio che gli impediva di osservare il sole. Il suo stato d’animo era quello di cercare di togliere ciò che impediva di beneficiare del caldo emesso dal sole. Detto questo è ora di cominciare il nostro percorso floreale. L’ECLISSI DI LUNA: LA DIAGNOSI DI MALATTIA Il momento della diagnosi è probabilmente il più difficile da comprendere e sopportare sia da parte del paziente sia dal nucleo familiare. È proprio in quell’istante, dove viene esplicitata la diagnosi, che ogni cosa muta improvvisamente; la persona si sente emotivamente solo con se stesso, con le sue paure, i suoi dubbi e il suo modo di reagire ad un insulto che non è possibile definire se sia esterno o interno e che comunque mina le fondamenta dell’individuale castello interiore che giorno dopo giorno, non senza fatica, ogni essere umano cerca di costruire durante il personale percorso di vita terrena. È proprio in quel momento che si ingenera incertezza, ansia, paura e angoscia. Viene ad essere incrementata la vulnerabilità personale e sono alterate le capacità di controllo e il senso di continuità della propria esistenza. Si può parlare di un vero e proprio trauma e la sofferenza psicologica è l’espressione sia dell’incapacità ad affrontare le minacce che la malattia rappresenta sia della difficoltà ad adattarsi ai vari cambiamenti che essa richiede (fisico, psico-emotivo, relazionale, sociale) con conseguenze negative sulla qualità di vita delle persone malate e di chi le assiste. la diagnosi diviene allora, al pari di una sentenza, una informazione che può far sentire il paziente nello stesso tempo vittima e carnefice. Vittima in quanto oggetto di un attacco alla sua integrità; carnefice in quanto 196
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tale minaccia è portata dall’interno del suo corpo e pur senza alcun rumore erode e distrugge quest’ultimo facendo del paziente un immobile, involontario spettatore senza possibilità d’intervento attivo sul male. È una continua riflessione sul perché “è successo a me” ed è proprio nella modalità a questa risposta che la terapia ha inizio. al di là di ogni intervento medico e/o chirurgico sarà, infatti, indispensabile che il paziente si ponga nei confronti della malattia e delle conseguenti terapie in maniera proattiva al fine di essere lui stesso il primum movens della cura. Volersi prendere cura di se stessi ci pone in un atteggiamento funzionale affinché anche chi fa parte del nostro entourage socio-relazionale, si avvicini a noi e ci curi a sua volta. Nel momento della conoscenza della malattia il paziente dovrebbe essere “accudito” affinché compia quei passi necessari ed indispensabile per il ripristino dello stato di salute. Ciò purtroppo non è sempre possibile ovvero lo stesso paziente colpito da un profondo shock traumatico, può reagire scotomizzando tale consapevolezza e rifugiarsi in meccanismi di difesa che lo allontanano sempre di più dal suo centrum animae. all’estremo delle possibili modalità di risposta vi è da una parte il tentativo di diniego dell’esperienza di malattia, che può sfociare in una possibile assenza di consapevolezza dello stato attuale. Ciò è dovuto ad una situazione di ipercontrollo affettivo-cognitivo che tende ad allontanare il problema nell’invano tentativo di non tenerlo più a mente. l’atteggiamento sopra descritto è molto simile ad un tentativo di soluzione del problema di natura magico-misterica; non voglio rendermi consapevole di ciò che mi sta succedendo e proseguo la vita come se non fosse successo nulla. l’equazione che sottende tale meccanismo di difesa è la seguente: non vedo il problema e pertanto esso non esiste. Purtroppo ciò non corrisponde alla realtà e in molti casi un atteggiamento simile può ritardare gli interventi terapeutici adeguati alla situazione. un'altra modalità di comportamento nei confronti dell’evento traumatico, diametralmente opposta alla precedente, è uno stato di di197
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sorientamento cognitivo. In questo caso la persona viene travolta dallo “tsunami cancro” e perde ogni possibile capacità di decidere, organizzare o definire un percorso per affrontare e rimanere l’interprete personale della propria vita. È allora indispensabile che il paziente riprenda la sua vita tra le mani e torni a plasmarla per far si che le molteplici e complesse scelte che dovranno essere prese nel percorso a tappe della malattia siano comprese, condivise e sostenute per ottenere quell’alleanza terapeutica indispensabile all’esito fausto dell’intero processo di guarigione fisico e mentale. all’interno delle risposte estreme che sono state descritte vi sono infiniti gradi di sfumature che è impossibile descrivere nel dettaglio ma che devono essere ricercate ed analizzate insieme al paziente. In tutti questi casi l’elemento comune è comunque un’alterata percezione o sensazione della malattia. Nel primo caso attraverso il diniego, il cancro può addirittura arrivare a non essere neanche considerato e quindi rimanere inascoltato ciò che il corpo ci dice. Nel secondo abbiamo invece un ipercoinvolgimento disfunzionale alla situazione che esita, lo stesso, in una controversa ed irrealistica percezione della reale malattia. a questo si associa anche un’alterazione dello spazio tempo di malattia. Illimitato nel primo caso, impellente nel secondo; irreale comunque per ambedue. Quello che viene espresso in questa situazione è la dicotomia tra la sintonia con quanto sta accadendo e la schizoidia con l’avvento della patologia tumorale. Il concetto di sintonia e schizoidia nasce con lo psichiatra tedesco Ernst Kretschmer (Wüstenrot, 8 ottobre 1888 – Tubinga, 8 febbraio 1964) viene sviluppato da Eugen Bleuler (Zollikon, 30 aprile 1857 – Zollikon, 15 luglio 1939) sino alla classica riformulazione di Eugene Minkowski (San Pietroburgo, 17 aprile 1885 – Parigi, 17 novembre 1972). Come descritto in un saggio di F. leoni in Minkowski la “sintonia è il carattere dell’esperienza, o della vita, come Minkowski caratteristicamente si esprime, che procede in unità rispetto alla propria Umwelt, schizoidia è l’esatto contrario: l’una è concordanza o sincronia – dirà anche Minkowski in “Le temps vécu” – tra il fare umano e il divenire del 198
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mondo, l’altra è discronia e discordanza; la prima è la capacità di vibrare all’unisono con il proprio mondo e di essere-in-situazione, la seconda l’impossibilità di questa simpatia, il preludio – non necessariamente votato al compimento: schizoidia non è lo stesso che schizofrenia – di una binswangeriana esistenza mancata. Sradicata, cioè, e destinata alla chiusura, alla rescissione dalle cose e dagli uomini, all’accadere nel vuoto anziché nel pieno dell’intreccio delle tensioni che io e mondo pongono in opera e risolvono attraverso il fare. Con una serie di slittamenti di senso progressivi e continui, lungo un’arcata profondamente unitaria, Minkowski amplia, nei capitoli successivi, i concetti di sintonia e schizoidia, intrecciandoli a quello, anch’esso di matrice bleuleriana (contatto affettivo) oltre che janetiana (sentimento del reale), di contatto vitale con la realtà; mettendoli in prospettiva a partire dall’idea bergsoniana di slancio; e trasformando anche quest’ultima in profondità: il tema del ciclo dello slancio vitale, come egli si esprime”. Ecco allora che l’intervento che dovrà essere fornito al paziente consiste proprio nel trasformare il disequilibrio dell’Io dovuto al trauma della malattia in quello slancio per far ripartire il ciclo di vita. Proprio in questo risiede la specificità della floriterapia di Bach. un approccio terapeutico che come verrà detto in seguito “ci fa essere e non aspirare ad essere” (E. Bach 1886-1936). L’ECLISSI DI SOLE: L’APPROCCIO ALLA MALATTIA Oltre a quanto scritto in precedenza è importante seguire il paziente durante le fasi della cura. Scotomizzando le reazioni che possono esserci è frequente assistere a due atteggiamenti principi nell’affrontare le terapie previste per la patologia oncologica. Da una parte vi è l’estremo attaccamento ala terapia e dall’altra una difficoltà ad accettarla con comportamenti che, a volte, possono far ipotizzare un disinteresse nei confronti della stessa. Nel mezzo, ancora una volta, infinite sfumature di colore che è compito dell’operatore sanitario far si che rimangano in equilibrio e non si orientino verso i due poli sopra ricordati. Soprattutto nella prima fase della malattia è importante fornire un contenitore dove far si che il paziente esprima, at199
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traverso un linguaggio condiviso, le proprie emozioni ed i vissuti legati all’esperienza della malattia. lo spettro che si aggira nelle menti dei pazienti e dei loro famigliari è fondamentalmente la paura della sofferenza e della morte. È indispensabile che queste paure emergano; solo così sarà infatti possibile dar loro un nome ed una “consistenza” e combatterle fino a farle diventare, quasi in un paradosso kafkiano, nostre principali alleate nei confronti della battaglia contro la malattia che le ha generate. In molti casi i pazienti credono, o gli viene detto, di essere “forti” e non pensare al peggio. Ciò non fa altro che alimentare paure su paure. Solo affrontando ciò che crea il panico, sarà possibile gestire e non viceversa. Ecco allora che dovrà essere affrontato ogni pensiero ed emozione che l’incontro con il cancro ha fatto emergere; legarlo alla propria esistenza e cercare di dargli un senso nel percorso di vita. l’avvicinamento a tematiche come queste deve essere condotto a piccoli passi e gradualmente introdurre temi quali la sofferenza, l’insicurezza dell’esistenza e le paure presenti al fine di non influenzare negativamente il quotidiano. Dando voce a ciò che ognuno sente in cuor suo come minaccia, quest’ultima viene a essere via via più gestibile e tollerabile facendo assumere al futuro un significato ed un aspetto diverso. l’obiettivo di questa fase è far si che il paziente abbia consapevolezza del cambiamento in atto ma che questo non diventi motivo di blocco alla sua evoluzione quale persona. Insieme al paziente devono essere esplorate nuove modalità di pensiero e un modo integrato di interpretare l’esperienza della malattia: al di là di ciò che potrebbe accader domani si devono trovare le risorse per valorizzare l’esperienza quotidiana. FLORITERAPIA DI BACH: UNA BREVE SINTESI la Floriterapia è un sistema terapeutico formato da 38 rimedi naturali (36 +1+ 1) naturali e non tossici, che agisce riequilibrando stati psicologici alterati e/o correlati a disturbi fisici che sono la manifestazione del disequilibrio psicologico che è causa dello stato di 200
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malessere. Colui che ha donato all’umanità tale sistema terapeutico è stato il Dott. Edward Bach, nato nel galles il 24 settembre 1886. Dopo aver preso la laurea in Medicina all’università di Birmingham nel 1912 iniziò a lavorare a londra. Ciò che il dott. Bach comprese, circa 50 anni prima che il pensiero scientifico confermasse le sue idee, fu che la vera cura di tutte le malattie non poteva basarsi esclusivamente sulla risoluzione dei sintomi bensì all’indispensabile “orientamento terapeutica” della persona sofferente ed al suo mondo percepito e reale. Per il dott. Bach divenne evidente che ogni paziente reagiva emotivamente in maniera diversa di fronte allo stesso problema; e per questo impiegò la maggior parte della sua vita terrena a cercare un metodo di cura che nell’agire a livello psichico comprendesse nella sua azione anche la componente corporea. Nella convinzione che la malattia avesse un origine non limitata al semplice piano fisico, Bach portò avanti i suoi studi ritenendo fondamentale per una cura valida, che il paziente potesse correggere i suoi squilibri emotivi ed emozionali e armonizzarsi con la sua vita spirituale. “Tutto ciò che sta intorno sarà volto a questo fine: circondare il paziente di un’atmosfera di salute e di vita tale da incoraggiare la guarigione e sviluppare il desiderio di vivere una vita più in armonia con i dettami della sue anima...” Il “conflitto tra l’anima, la mente e il vero sé” è il primum movens di malattia. Per Bach la malattia altro non è che una reazione alle interferenze che si contrappongono al nostro percorso di vita terrena. la reazione avrà dapprima un’espressione a livello psicologico con il vissuto di stati emozionali in disequilibrio e successivamente potrà presentarsi acne a livello fisico. Ecco allora che una terapia che consideri solo il sintomo ovvero che vede quest’ultimo come solo elemento da colpire non può essere di per se stessa esaustiva. Il sintomo è un segnale da interpretare e dargli voce affinché attraverso l’ascolto vi possa essere la comprensione del conflitto sopra ricordato e di conseguenza l’attivazione dell’atto terapeutico. 201
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a partire dal 1931 fino al termine della sua cita terrena, avvenuta nel 1936, il dott. Bach descrisse il suo metodo terapeutico suddividendo i suoi fiori in in 12 guaritori, 7 aiuti e 19 assistenti: • 12 guaritori: agrimony, Centaury, Cerato, Chicory, Clematis, gentian, Impatiens, Mimulus- rock rose – Scleranthus- Vervain – Water Violet • 7 aiuti: Heater – Oak – Olive – rock Water- gorse – Vine- Wild Oat • 19 più spirituali: aspen- Beech – Cherry Plum- Chestnut – Crab apple – Elm- Holly – Honeysuckle – Hornbeam – larch- Mustard- Pine- red Chestnut –Star of bethlehm Walnut – Wild rose- White chestnut – Willow.
I FIORI “ESISTENzIALI”: Entriamo ora nel vivo della floriterapia di Bach descrivendo alcuni 202
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dei fiori che non possono essere ignorati laddove si voglia fornire una valida integrazione alla persona sofferente ed in special modo a chi è stato colpito da un male quale quello oncologico che destabilizza e destruttura l’intera impalcatura psico-biologica-mentale dell’individuo. Ho chiamato questi fiori esistenziali proprio in quanto vanno a far suonare le corde della che riguardano l’essenza stessa dell’essere persona. Questi rimedi intervengono sul modo di esserci nei confronti della malattia integrata con la personale esperienza di vita. Walnut “Per coloro che hanno ambizioni ed ideali ben definiti nella vita e li stanno realizzando, ma in rare occasioni sono tentati di deviare dalle proprie idee, obiettivi e lavoro, spinti dall’entusiasmo, convinzioni o forti opinioni altrui. Il rimedio assicura costanza e protezione da influenze esterne.” la persona Walnut è consapevole e pienamente cosciente del suo percorso di vita ma può in particolari momenti, come la presa d’atto della malattia oncologica, sentirsi perso e senza alcun appiglio al quale potersi riparare, proteggersi, appigliare. Il fiore Walnut, come Bach ci insegna, è un grande alleato quando la persona no riesce più a trovare la “sua” voce interiore, coperta com’è dall’avvicendarsi degli eventi e dall’incalzare di una patologia che non si vede ma che fa sentire il suo eco durante ogni momento della giornata. In situazioni come queste Walnut protegge e consente al paziente di far chiarezza dentro di sé, fermare il vento turbinoso che lo distoglie dal personale progetto di vita e continuare a perseguire mete ed obiettivi conosciuti ed ancora da scoprire. Di Walnut in sintesi si può dire che è il fiore dei cambiamenti piccoli o grandi della nostra vita ma che comunque ci impongono una rivisitazione del nostro modo di essere-nel-mondo. Il dott. Bach ha descritto questo fiore come “lo spezza incantesimi” per la sua abilità di sciogliere quegli stati d’animo/psicologici che non permettono alla persona di vedere 203
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e progettare il futuro. Il ripristino di una situazione in equilibrio dello stato di Walnut fa si che il paziente possa riprenderein mano se stesso, guardare avanti rimanendo, comunque, sempre se stesso. Star of Bethelehem “Per coloro che sono in grande pena a causa di condizioni che per un certo tempo producono grande infelicità. Lo shock di cattive notizie, la perdita di una persona cara, lo spavento a seguito di un incidente, ed altri eventi simili. Questo rimedio porta conforto a coloro che, per un certo periodo, rifiutano di essere consolati” . Star of Bethelehem è uno dei fiori presenti nella composizione ideato dallo stesso dott. Bach e da lui denominata rescue/resource remedy. È un fiore che interviene nell’elaborare un trauma ed integrarlo nella nostra esperienza di vita. Il fiore in questione non fa dimenticare una situazione negativa (nessuna cosa o persona potrebbe farlo e non sarebbe nemmeno utile all’assetto psico-biologico del paziente mettere nell’oblio un evento di così intensa portata emotiva), bensì ha quale finalità quella di elaborarla e far sì che il sistema corpo-mente la metabolizzi e la renda quanto più comprensibile e spiegabile. l’aiuto di Star of Bethelehm è proprio in questa sua peculiare attività di riuscire a far si che un’esperienza a valenza negativa non rimanga scissa dalla persona ma venga inserita nel bagaglio di esperienze buone o cattive di ognuno di noi. Solo in questo caso potrà essere superato il blocco emotivo che può avvenire in chi è in prima persona coinvolto dalla patologia oncologica che mina l’esistenza e può cambiare la prospettiva attraverso la quale vedere il mondo. Questo fiore da continuità alla vita facendo sì che esperienze disfunzionali alla persona vengano comunque comprese ed elaborate attraverso un processo di comprensione, consapevolezza e coscienza di malattia. Il dott. Bach descrive il fiore quale rimedio utile a “portare conforto e sollievo dai dolori e dalle preoccupazioni”. Star of Bethlehem sostiene lo stato mentale del paziente e 204
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lo rende nuovamente capace ci riflettere su se stesso. ri-stabilisce un link tra il trauma subito alla scoperta della malattia ed il presente tale che i “residui energetici” dell’evento vengono inseriti nel “circle of life” in maniera tale da non cronicizzare l’alterazione dell’assetto PNEI. Rock rose “Il Rimedio d’emergenza. Per i casi in cui sembra che non ci sia speranza. In incidenti, malattia improvvisa, o quando il paziente è molto spaventato o terrorizzato, o se le sue condizioni sono tanto serie da provocare grande paura a chi gli sta intorno. Se il paziente è incosciente, si può inumidirgli le labbra con il rimedio. Può essere necessario aggiungere altri rimedi come, per esempio, in caso d’incoscienza, che è uno stato di sonno profondo, Clematis; se c’è tortura, Agrimony e cosi di seguito.” anche rock rose è uno dei rimedi presenti nel rescue/resource remedy. lo stato negativo di rock rose è presente soprattutto nel momento della scoperta della malattia. Si rimane impietriti, di ghiaccio; Bach descriveva questo stato come “un pugno nello stomaco”. Questa descrizione è molto indicata inquanto il plesso solare è al centro del SNV che viene messo immediatamente “fuori gioco” ed incapace a rispondere alla situazione traumatica vissuta. la paura espressa dalle persone che si trovano in questa situazione pervade l’intera loro essenza somato-psichica tanto da rendere impossibile prendere ogni decisione. la prescrizione di questa essenza floreale consente uno stato di quiete ed un ritorno ad un assetto cognitivo abile a ragionare sull’evento e a decidere le azioni da intraprendere. lo stato in disequilibrio di rock rose risponde, nella maggior parte dei casi, in maniera istantanea e quindi è importante intervenire nei primi momenti di sperimentazione del trauma. l’effetto di rock rose sarà quello di concentrare la propria attenzione sul problema e orientare tutte le forze per affrontarlo nella migliore maniera.
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Cherry plum “Paura di avere la mente sovraccarica, di perdere la ragione, di fare cose terribili e spaventose, non volute che si sanno essere sbagliate, ma che tuttavia vengono alla mente e che si ha l’impulso a fare.” lo stato negativo di Cherry Plum è quanto di più pericoloso e difficile da gestire. È quella situazione in cui l’individuo sente di essere sul punto di perdere il controllo della ragione ovvero di “esplodere”. In tali momenti molte persone riferiscono di avere sentito di essere sull’orlo di commettere atti di estrema violenza contro loro stessi. Questo è ciò che accade a Cherry plum. la minaccia alla propria integrità psico-fisica non nasce solo dall’esterno ma deriva dalle cose che ha in mente; cose orrende da pensare che terrorizzano perché si ha paura che esse possano essere attuate. Il vissuto di pericolo in Cherry plum è qualcosa di ancestrale è la persona stessa a causarlo e tenerlo in vita. In questo contesto è ovvio che il paziente non è più libero di prendere scelte autonome, o meglio, non condizionate da ciò che sente dentro. Il più crudele aguzzino di se stesso è allora proprio la persona stessa che non lascia spazio ad altre possibilità ch potrebbero essere presenti. Sia questo fiore che il precedente non a caso nascono da forti emozioni che sconvolgono la persona e la rendono insicura su ogni azione. Cherry plum agisce “dilatando” il tempo tra l’impulso a reagire di fronte ad una situazione e l’azione, permettendo un’adeguata riflessione delle azioni da compiere. ampliando un po’ il discorso, con l’assunzione di Cherry plumsi si arriva a quello che il Dalai lama (2003) chiama un miglioramento “della consapevolezza della valutazione” ovvero il rafforzamento nell’individuo “della capacità di monitorare la valutazione della situazione che sta vivendo, allungando i tempi tra l’impulso e l’azione”1. ampliando tale capacità, la persona non si trova più in balia di un meccanismo, quasi di natura riflessa, del tipo elemento stressante-ansia ma inserisce in questo circuito la componente del proprio ragionamento derivante dalla consapevolezza della situazione. 206
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ad un circuito vizioso (elemento stressante-ansia) senza fine, se ne viene a sostituire uno virtuoso dove l’esser consapevoli amplia la capacità di scelta nei tre momenti cruciali che ognuno di noi attua quando preda di un male che coinvolge l’intera persona: durante la valutazione, durante l’impulso e durante l’azione che si è deciso d’intraprendere. In questo caso ciò che ci terrorizza, grazie ad una corretta riflessione, potrà essere gestito al meglio riducendo la carica ansiogena e destrutturante dell’Io. Ogni emozione ha diritto di vita anche quella più brutta ma è, al pari, un nostro diritto/dovere tentare di riequilibrarla per una sua corretta gestione.
1
S.S. Dalai lama, Emozioni distruttive, Ed. arnoldo Mondadori, 2003.
I FIORI DELLA MALATTIA In quest’altro capitolo verranno descritti una parte di quei fiori che rispecchiano più in profondità lo stato d’animo presente nell’affrontare la terapia da parte del paziente.
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Gorse “Grande disperazione, essi hanno rinunciato a credere che si possa fare ancora qualcosa per loro.Con la persuasione, o per accontentare gli altri, possono provare diversi trattamenti, ma allo stesso tempo,affermano convinti, a chi sta loro intorno,che vi è ben poca speranza di miglioramento.” Questo è il fiore che ridona speranza. Nell’estremo stato negativo gorse ha perso ogni possibile umana speranza. alcuni autori descrivono che in uno stato simile ci si sente come un delicato bicchiere di cristallo sospeso tra l’anima e la personalità. È delicato e rischia di rompersi per un nonnulla. la persona gorse è tagliata fuori dall’ascolto del Vero Sè e rifiuta di accettare il suo ruolo quale primum controllore del suo destino. gorse è una persona alla quale bisogna portare un gran rispetto in quanto ha provato senza successi numerose terapie e si è rassegnato a non cercare più ovvero accetta le cure senza una reale speranza che le cose cambino. Possono accettare gli interventi solo per far piacere alla famiglia piaggeria ma rimangono persuasi che nulla potrà essere per loro risolutivo. Non aderiscono più alle terapie e si lasciano andare senza far nulla per loro stessi. gorse ripristina un corretto equilibrio in questi preziosi pazienti. riesce a far comprendere loro che la prima spinta per un riequilibrio psico-fisico, seppur in alcuni casi non si può parlare di ritorno al precedente stato di salute, viene da dentro di noi e da quella connessione che Bach affermava dovesse esserci per stare in salute, tra il Vero Sé e la nostra mente. Naturalmente, pensieri ed aspettative negative non fanno altro che contribuire a peggiorarlo stato di benessere e salute del nostro corpo così come della nostra mente andando ad ingenerare un circolo spiraliforme che si avvolge sul paziente e, come in una morsa, non gli permette più di respirare. a seguito del trattamento con gorse emerge una nuova attitudine; la persona è in grado di accettare quanto gli sta accadendo consapevole che, riprendendo in mano la propria essenza, potrà rimanere protagonista della sua vita e non uno spettatore disilluso. gorse fornisce aiuto anche nelle situazioni terminali 208
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alle quali concede pace e grazia. un’affermazione presente quasi sempre in gorse è questa “...ho provato tutto ma...”. È proprio da qui che gorse inizia il suo cammino facendo diventare la frase sopra ricordata in “...non so se ce altro da provare, ma ora sono sicuro che decido io cosa è meglio per me...” .
Mimulus “Paura delle cose del mondo. Di ammalarsi, del dolore, degli incidenti, della povertà, del buio, della solitudine, della sfortuna. Le paure della vita quotidiana. Queste persone sopportano i loro timori segretamente e in silenzio. Non ne parlano liberamente agli altri.” Mimulus è l’essenza di Bach per la fobia, la paura di ciò che potrebbe succedere. È il fiore cardine nell situazioni in cui il paziente esprime paura, ad esempio, ad affrontare un intervento chirurgico o la stessa terapia farmacologica. le paure di Mimulus hanno un nome e sono ben riconoscibili dalla persona. Vive questa situazione con estrema ansia tanto da arrivare a veri e propri attacchi di panico anche solo nell’immaginare la situazione senza viverla. In alcuni casi Mimulus può apparire estremamente controllato e sicuro di se in pubblico, benché dentro di sè preme la fobia per ciò che si appresta a fare. Quando la situazione diventerà non più sopportabile la persona comincerà a fare fantasie di peggioramento della malattia o veri e proprie idee prevalenti monotematiche sui possibili esisti infausti della malattia. Il trattamento con Mimulus aiuterà i pazienti a mantenersi ancorati ai fatti e a non seguire delle paure che, non sempre, hanno una base di realtà ma che comunque possono influenzare negativamente il decorso clinico. una volta ristabilito l’equilibrio tali individui saranno capaci di usare al meglio le loro capacità di discernimento ed aiutare loro stessi ed anche gli altri che si trovano nella stessa situazione. Olive “Coloro che hanno molto sofferto mentalmente o fisicamente e sono così esausti 209
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ed abbattuti, che sentono di non possedere più energia per fare il benché minimo sforzo.Per loro la vita quotidiana è un duro lavoro, senza piacere”. Olive è per coloro i quali hanno bisogno di un recupero fisio-psichico a causa, ad esempio, di una periodo particolarmente pesante ovvero durante e dopo terapia chirurgica e farmacologica. Il risultato è che questi pazienti si sentono “sfiniti” a livello fisico, emotivo e fisicamente mentale così ogni cosa, anche la più piccola, diventa un compito insormontabile. allo stato Olive ci si arriva dopo un surmenage di natura fisica e psicologica che logora a mano a mano la persona. Tale rimedio è importante anche per chi si prende cura del malato quando si sente sfiancato fisicamente e mentalmente dalla situazione che sta vivendo. Il fiore Olive è prezioso in quanto porta ristoro, pace ed un nuovo equilibrio energetico. Conclusioni Come possibile immaginare non è possibile in questa sede descrivere l’intero complesso terapeutico del dott. Bach. Per gli stessi fiori descritti dovrebbe esser dato loro ancor più spazio. a noi però sia sufficiente sapere questo: la Floriterapia non sostituisce le terapie oncologiche prevsite; essa si inserisce in un concetto di umanizzazione della cura della persona attraverso il suo intervento di riequilibrio emotivo e fisico che favorisce lo stato di benessere del paziente. Credo che a questo punto non vi sia miglior modo per finire che citare una frase del dott. Bach che sintetizza e da concretezza a quanto scritto in questo lavoro “Dietro ogni malattia ci sono le nostre paure, le nostre ansie, la nostra avidità, ciò che ci piace e ciò che odiamo. Bisogna individuare questi elementi e curarli e con la loro cura sparirà anche la malattia di cui soffriamo.” (E. Bach 30 ottobre 1936).
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