Storie di Umana salute

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Liceo Classico e Musicale ÂŤAnnibale MariottiÂť

Quaderni del Volontariato 2017

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Storie di Umana Salute

Storie di salute

sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni

CESVOL PERUGIA EDITORE

Quaderni del volontariato 2017

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Quaderni del volontariato 6

Edizione 2017


Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net

Edizione Settembre 2017 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Copertina a cura di David Grohmann Stampa Digital Editor - Umbertide

tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata

ISBN 9788896649626


Il coraggio della testimonianza Non soffermatevi adesso su questa breve introduzione. Tornateci dopo. Quando avrete colto senza mediazioni di sorta, il significato o i significati dei quali chi ha scritto il libro ha voluto renderci partecipi. In qualche caso anche senza troppa consapevolezza, il che, se possibile, rende questa trasmissione di saperi e conoscenze ancora più preziosa, in quanto naturale ed “istintiva”. Ma di cosa stiamo parlando? Di una scelta coraggiosa. Gli autori di questi testi, di questi racconti, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza. Ma in quale tipo di società? Una società per la quale forse queste esperienze rimangono tutt’altro che virali (usando un termine contemporaneo) e spesso rischiano di rimanere nell’ombra. Una società che ha fra i propri tratti dominanti dei suoi componenti una innegabile riduzione del senso di appartenenza alla comunità, ad un gruppo allargato che sia in grado di condividere non solo ideali e visioni, ma anche obiettivi e cose da fare insieme per il bene comune. Certamente il quadro è stato complicato ed accelerato dalla individualizzazione della comunicazione nella scatola dei social, che hanno creato di fatto una nuova forma di relazione, che per qualcuno integra la relazione pre-digitale, per altri l’ha completamente sostituita. Ebbene, quale sarebbe questa scelta coraggiosa? Questi autori non si sono limitati ad un inutile e sterile lamento che parlasse dei bei tempi che furono, di quando c’era la piazza, di quando il Welfare era in un certo senso il vicinato, la famiglia allargata, la comunità solidale per natura. Di fronte al nuovo adagio che “non c’è più nessuno o nessun organismo sociale e relazionale che sia in grado di restituire alla nostra società la flebile speranza di quello che potremmo definire un umanesimo post3


moderno” che “stiamo coltivando la cultura del nemico”, chi ha scritto questo libro ha capito che l’organismo sociale e relazionale in grado di ricomporre e tenere unito il tessuto connettivo più profondo delle nostre comunità può essere ancora il fare associazionismo. Mettersi in relazione con altre persone per condividere una certa visione della realtà, dare senso al proprio tempo valorizzando quello che ognuno sa fare per metterlo in circolo nella propria comunità, occuparsi del prossimo o, più laicamente, dedicarsi alla relazione d’aiuto. Sono tutte azioni possibili, visto che una certa fetta della popolazione, in Italia ed in Umbria, sembra dedicarsi con una certa continuità ad un qualche tipo di impegno “solidale” e di cittadinanza attiva. E lo fa traendo linfa vitale dalla “dotazione di base di ogni persona”, da quel patrimonio di umanità e di empatia che, ognuno porta con sé dalla nascita. Quella sorta di componente genetica di solidarismo, che non tutti hanno la fortuna di concretizzare per vicende personali o per altre esperienze del proprio vissuto che, ad un certo punto della vita, ci rendono forse troppo attenti a noi stessi, al nostro individualismo.. e ci fanno perdere di vista l’altro, l’affresco complessivo delle relazioni, il cosiddetto bene comune. E allora? Cogliamo il valore di queste esperienze dal racconto diretto di chi le pratica nel suo quotidiano. E’ uno dei modi possibili per apprezzare il significato sotteso di queste testimonianze e per prendere consapevolezza che oggi, più di sempre, dedicarsi al volontariato, all’associazionismo e, più in generale all’impegno di cittadinanza attiva resta una scelta, adesso sì, coraggiosa. Salvatore Fabrizio Cesvol Perugia I Quaderni del Volontariato

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Classi 1 A e 1 G Anno Scolastico 2016/2017 Liceo Classico e Musicale Statale Annibale Mariotti - Perugia

STORIE DI UMANA SALUTE



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Prefazione STORIE DI UMANA SALUTE. Già nel titolo questa raccolta di racconti scritti da studentesse e studenti del Liceo Classico Annibale Mariotti presenta spunti suggestivi e riferimenti interessanti. Storie - il termine greco significa propriamente “ricerca”, e come ricerca nasce la storia al tempo di Erodoto, in opposizione ai miti, ai racconti più o meno leggendari e non corrispondenti alla realtà. La Storia, dunque, come risultato della ricerca sui popoli, ricostruzione della verità. E sul carattere di obiettività della Storia, sulla sua capacità di creare opinione, sull’uso non sempre ineccepibile che se ne è fatto si sono scritti fiumi di inchiostro. Ma poi ci sono “le storie”: le vicende quotidiane, gli eventi che toccano non i personaggi influenti ma i singoli che costituiscono le popolazioni, gente come noi, in sostanza tutti noi. C’è la Storia come genere letterario, con caratteri retorici ben definiti; e ci sono le storie come resoconti, riflessioni, racconti, come in questo libro, che richiedono comunque una tecnica, un apprendimento, un lavoro di scrittura: scolasticamente parlando, un laboratorio di scrittura, come è stato realizzato e vissuto nei mesi scorsi. Umana - scrive Terenzio: homo sum: humani nihil a me alienum puto (sono un uomo, non ritengo che mi sia estraneo niente di umano). È la frase che coglie l’essenza dei nostri studi classici, la loro universalità, la loro capacità di esser chiave per capire il nostro presente e progettare il nostro futuro. E certamente un tema come quello dell’assistenza e accompagnamento dei malati e anziani non autosufficienti non può essere estraneo alla riflessione dei nostri giovani. 7


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Salute- qui si entra nello specifico: salute come impegno, salute come star bene, salute come qualità della vita; come qualcosa che mobilita le energie e fa scattare la solidarietà, nella consapevolezza che non si tratta di un dono ottenuto una volta per tutte, ma di un bene prezioso sempre esposto a insidie. Iniziando la lettura, con lo scorrere delle pagine ci vengono incontro tante situazioni, tanti personaggi, un vero e proprio affresco della nostra società. Non è qui il caso di passare in rassegna le storie raccontate; è da evidenziare però che, pur nella severità dei temi trattati e delle vicende narrate, promana l’amore per la vita. Un ringraziamento cordiale va ai giovani autori e ai loro docenti che li hanno seguiti con pazienza, competenza e passione e all’Associazione Umana promotrice dell’iniziativa. Giuseppina Boccuto Dirigente Scolastico Liceo Classico e Musicale Annibale Mariotti - Perugia

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INTRODUZIONE Questo libro nasce dall’idea di avvicinare e far partecipare i giovani alla crescita della buona cultura dei diritti, che consente di tutelare le persone malate non autosufficienti contro ogni forma di emarginazione sociale. È stato proposto dall’Associazione Umana, di cui sono portavoce, per promuovere il diritto alla salute degli anziani che si ammalano gravemente e non sono più in grado di badare a se stessi. Nel nostro Paese sta crescendo il numero delle persone anziane malate non autosufficienti che soffrono i disagi derivanti dalle difficoltà di accesso ai servizi di cura e che, di fatto, subiscono la negazione del diritto alla salute. Spiegare ai giovani come è possibile garantire a questi malati la continuità delle cure consente di trasmettere informazioni utili alle famiglie che vivono il problema della perdita dell’autosufficienza di un loro congiunto. Inoltre la promozione della cultura dei diritti contribuisce a contrastare quella cultura che Papa Francesco definisce “dello scarto” dei malati più deboli. Quindi è importante educare i ragazzi a respingere la pericolosa tendenza che porta, già oggi, a considerare i malati inguaribili e incapaci di badare a se stessi come “pesi” economicamente inutili da sostenere. Certamente la scuola, in quanto sede principale di formazione, può dare un grande aiuto. Il buon esempio lo dà il Liceo Classico Annibale Mariotti di Perugia che ha aperto la porta del Liceo al progetto proposto dell’Associazione Umana e ha promosso la realizzazione di questo libro. L’esperienza è stata attuata nel corso delle ottanta ore di 9


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alternanza scuola lavoro di cinquantadue ragazzi del 2000, gli studenti delle classi prima A e prima G dell’anno scolastico 2016-2017, guidati dalle loro professoresse di italiano, Giovanna Bissanti e Rita Pasqui, con la collaborazione della professoressa di scienze Paola Puccetti. Da questa esperienza sono nati i tredici gruppi di giovani autori dei racconti che qui pubblichiamo. Storie progettate e scritte immaginando un possibile futuro, fatto di momenti tristi vissuti da personaggi anziani che si ammalano gravemente, ma anche di momenti sereni, caratterizzati dalla vitalità di legami affettivi con persone che li tutelano e li aiutano a ottenere le cure a cui hanno diritto. Ma quali sono stati i contributi e le attività preparatorie alla scrittura del libro? Come rappresentante dell’associazione proponente ho collaborato con le professoresse di italiano delle due classi. Il Cesvol e la Biblioteca comunale San Matteo degli Armeni di Perugia hanno contribuito alla realizzazione del progetto. Per preparare i ragazzi abbiamo proposto, innanzitutto, la lettura dei racconti del libro La giovane Umana, scritti da Giovanni Ciocca, Lorenzo Curti, Vittoria Marsili e illustrati da Tommaso Guarducci, quattro studenti del medesimo Liceo Mariotti, che nel 2015 hanno partecipato al laboratorio estivo di scrittura promosso dall’Associazione Umana sugli stessi temi. Successivamente gli studenti delle due classi hanno letto alcune storie vere di cittadini che, avvalendosi delle giuste informazioni, sono riusciti a tutelare i loro congiunti malati non autosufficienti e a ottenere la continuità delle cure necessarie sulla base della legge vigente; esperienze documentate nel libro di Maria Grazia Breda e Andrea Ciatta10


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glia Non è sufficiente! edito nel 2013 da Altra Economia di Milano. A queste letture sono seguite le interviste fatte dai ragazzi agli autori dei due libri e alcune discussioni e lavori in classe. Per approfondire i temi del progetto è stato organizzato un incontro a scuola con la professoressa Patrizia Mecocci, Direttrice dell’Istituto di Gerontologia e Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia. L’esperta ha presentato una relazione documentata e illustrata con alcuni significativi dati statistici dell’Azienda ospedaliera di Perugia sul trend in aumento dei ricoveri ospedalieri di anziani malati. La relazione ha chiarito, in particolare, le peculiari condizioni ed esigenze dei pazienti non autosufficienti e ha evidenziato la necessità di attuare adeguati programmi sanitari e sociosanitari personalizzati di cura. Tra le altre attività proposte per sensibilizzare gli studenti segnaliamo la visione del film francese Amour del regista Michael Haneke, pluripremiato a livello internazionale: storia toccante dell’ultimo periodo di vita di una coppia di anziani, che vive il problema della malattia e della non autosufficienza. Il film ha suscitato diverse riflessioni utili al progetto scolastico, in particolare sui costi psicofisici ed economici della gestione a casa della persona malata, sul disagio del familiare accuditore che rischia, a sua volta, di ammalarsi come succede nel film e sull’esigenza di garantire servizi di cura a domicilio con personale preparato. Le letture e gli approfondimenti proposti hanno consentito ai tredici gruppi di studenti di ideare e scrivere i loro racconti: un lavoro straordinario svolto con grande impegno e profonda sensibilità, che suscita nel lettore un intreccio di emozioni, interrogativi e riflessioni. 11


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I giovani autori promuovono un futuro positivo di tutela della salute dei malati non autosufficienti; un futuro utopico, non utopistico. Infatti nell’immaginario dei racconti si parla di aiuti sociosanitari che già oggi si possono ottenere, come dimostrato dalle esperienze concrete del presente che hanno ispirato i ragazzi. Le cure sono garantite nei casi in cui le persone ricevono le corrette informazioni e si impegnano a utilizzarle per tutelare i loro congiunti non autosufficienti. Ma anche nei casi esemplari in cui le iniziative di promozione sociale dei diritti hanno portato alla realizzazione di una rete di servizi e strutture, idonei ad assicurare programmi personalizzati di assistenza sanitaria e sociosanitaria, con personale preparato e attento ai bisogni dei malati. Tra gli esempi concreti più significativi segnaliamo la storica esperienza del servizio torinese di ospedalizzazione a domicilio, ininterrottamente operativo dal 1985; un servizio che ha curato oltre diecimila pazienti malati non autosufficienti a casa e che continua a fornire assistenza ospedaliera a domicilio, operando in sinergia con i servizi sociosanitari territoriali che garantiscono la continuità assistenziale, in modo da evitare i disagi derivanti da ripetuti ricoveri in ospedale e da degenze ospedaliere prolungate. A nome dell’Associazione Umana esprimo la mia più sentita gratitudine al Dirigente Scolastico del Liceo Classico Annibale Mariotti, professoressa Giuseppina Boccuto, che con lungimiranza ha colto l’importanza del tema e ha accettato di aprire le porte del Liceo al problema della non autosufficienza; alle insegnanti e agli studenti autori del libro, che hanno partecipato con costante impegno e grande generosità a questa esperienza, dimostrando di condividere 12


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la bontà dell’iniziativa. Spero che i lettori sensibili vorranno promuovere la lettura di Storie di Umana salute e la cultura che aiuta a garantire cure adeguate a tutti i malati non autosufficienti. Elena Brugnone Presidente Associazione Umana Onlus Perugia

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CON GLI OCCHI DI UN BAMBINO Un vecchio e un bambino si preser per mano e andarono insieme incontro alla sera (Francesco Guccini, Il vecchio e il bambino) Il nonno è sempre stato un gran burlone. Gioca sempre con me, mentre tutti i miei amici sono troppo impegnati a tenere lo sguardo fisso sul loro cellulare. I miei genitori invece non vogliono comprarmelo: in fondo ho solo sette anni. Fino a pochi anni fa stavo sempre con il nonno dal momento che mamma e papà lavorano tutti i giorni fino a tardi. Mi portava a fare le passeggiate, mi accompagnava alle giostre, e quella volta che mi hanno tolto le tonsille mi ha riempito di gelato! È sempre stato un uomo pieno di vita, col sorriso costante. Ma negli ultimi tempi le cose sono un po’ cambiate: ogni tanto mi sembra stanco, dorme molto di più, tiene lo sguardo fisso sul pavimento. Non riesce più a prendermi in braccio, non mi solleva e non mi fa volteggiare come faceva un tempo. Certo, ci divertiamo lo stesso; inventiamo ogni giorno nuovi giochi, il nostro preferito è un, due, tre, stella, visto che vinco sempre. Ci piace anche guardie e ladri, ma giochiamo raramente perché lui si nasconde troppo bene e non riesco mai a trovarlo. Mi fa tanto divertire quando finge di dimenticare le cose. Spesso giochiamo ad indovina chi, il nonno dice di non ricordare il mio nome, ma alla fine lo ricorda sempre. A volte mi racconta le storie di quando era piccolo come 15


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me: riesco ad immaginarlo correre tra le stradine sterrate della fattoria dove viveva, inseguire le galline o rotolare nei campi tra le balle di fieno; oppure mi racconta di cavalieri che salvano principesse, di orchi cattivi, di maghi. Lui era un guerriero audace, sempre pronto ad uccidere i draghi e combattere coraggiosamente. La settimana scorsa, di notte, ha deciso di giocare a guardie e ladri, però senza di me. Mi sono svegliato di soprassalto perché ho sentito il suono di quelle sirene che, di solito, nei nostri giochi simuliamo con la bocca; ho visto tre guardie con la giacca rossa e una croce sulla schiena prenderlo e caricarlo sulla loro grande macchina bianca con una buffa scritta al contrario sulla parte anteriore. Ho pensato: “Peccato, stavolta non ha vinto; ma gli sta bene: non mi ha nemmeno chiamato per giocare”. Ma non era come pensavo. Il giorno dopo mamma mi ha spiegato che il nonno aveva avuto un dolore al petto ed era stato portato in ospedale. “Deve rimanere in ospedale per alcuni giorni. Sarà curato bene e si rimetterà presto!” mi ha detto. Finalmente oggi il nonno torna a casa! Adesso sono le dieci del mattino e ancora non è arrivato. Mia mamma è qui con me, la vedo preoccupata. Suonano alla porta, il tintinnio del campanello risuona nella stanza silenziosa e fa sobbalzare la mamma, che si fionda ad aprire. Il papà entra in casa quasi correndo, invitando le persone che sono dietro di lui a seguirlo. Ci sono tre uomini in divisa, che portano il nonno: quel birbante si fa trasportare con una strana sedia a rotelle come se non sapesse camminare, pensa di fregarmi…ma io sono furbo e non ci casco! Mam16


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ma mi ha detto che i dottori dell’ospedale hanno curato il nonno e che adesso non ha più il dolore di quella notte. I signori in divisa portano il nonno nella sua stanza, poi il papà li saluta. “Allora?” gli chiede la mamma appena i signori escono. “Giorgio, puoi andare a giocare nella tua stanza per piacere?” mi dice il papà con dolcezza. Io, sebbene di malavoglia, esco dal salotto. Ma invece di salire le scale ed andare in camera, resto dietro una colonna ad ascoltare i miei genitori. “La situazione non è delle migliori. L’infarto ha rallentato molto le sue capacità cognitive e motorie”. Non capisco di cosa sta parlando papà… Dice parole strane come “intatto” o forse “incarto”… “È come se fosse ingabbiato nel suo corpo!” esclama la mamma “Perché allora l’hanno dimesso? Non potevano tenerlo in ospedale, assicurargli delle ulteriori cure… noi qui cosa possiamo fare?” “Dobbiamo tutelarlo: ottenere dall’Azienda sanitaria locale un adeguato programma di cura domiciliare oppure assicurargli un ricovero in una Residenza sanitaria assistenziale.” “Mi rifiuto di ricoverare tuo padre in una residenza assistenziale, dobbiamo trovare una soluzione per curarlo qui a casa!” dice quasi urlando mamma. “Va bene tesoro, calmati adesso, ho già chiamato il nostro medico curante che tra poco verrà a visitarlo. Vedrai che con le giuste informazioni ci farà ottenere l’aiuto infermieristico che ci spetta di diritto dal Distretto sociosanitario. Faremo in modo che ci venga assicurato e riconosciuto un assistente domiciliare che ci aiuterà ad accudirlo a casa, così potremo gestire meglio la situazione. Vedrai: ce la faremo.” 17


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Poi il papà le si avvicina e l’abbraccia, cercando di calmarla. Ma di cosa stanno parlando? Cos’è l’assistente domi...domiciliare? Esco dal mio nascondiglio e vado in camera sua, ora ha gli occhi chiusi. Perché continua a fingere davanti a me? Mi siedo accanto a lui sul letto e lo guardo per un istante. “Nonno, ho saputo che il dolore che avevi è passato. Perché adesso non cammini e tieni gli occhi chiusi? Devi smetterla con questo gioco, mamma e papà si stanno preoccupando un po’ troppo” gli sussurro all’orecchio. Non mi risponde, perché fa così? Forse in ospedale ha trovato un altro amico con cui giocare e mi ha dimenticato? Poi arriva papà, si avvicina a noi, mi prende fra le braccia e mi porta via. “Giorgio, dobbiamo parlare” mi dice con tono grave. “… mah… papà!» rispondo confuso. “Purtroppo il nonno non potrà più giocare tutti i giorni con te come ha fatto finora, crescendo capirai che non è colpa sua né tua e, quando te ne renderai conto, non sarai più triste. Ora andiamo sotto dalla mamma, lasciamolo riposare”. Da quel giorno è cambiato un po’ tutto. Sono passati alcuni mesi e nel frattempo ho capito cosa intendevano mamma e papà: tutti i giorni, tranne il sabato e la domenica, una giovane e simpatica signora di nome Greta viene a casa nostra, si prende cura del nonno, lo aiuta a prendere le medicine e a fare gli esercizi. Una volta alla settimana viene anche il dottore a visitare il nonno; poi un’infermiera gli misura la pressione, controlla se il suo cuore sta bene, gli fa delle medicazioni e spiega alla mamma e a Greta come accudirlo, anche se non ho capito ancora bene quale malattia abbia. 18


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La salute del nonno ultimamente è migliorata: certo lui non è più lo stesso di prima, ma a volte giochiamo ancora insieme. Spesso è stanco e non si alza dal letto, in quel caso passiamo le giornate a leggere libri di avventura, io leggo e lui mi ascolta. Gli racconto cosa ho fatto a scuola, delle persone nuove che ho conosciuto, dei nuovi giochi del parco, del cane che vorrei mi regalassero mamma e papà, e lui sorride in silenzio. Oggi si sente un po’ meglio e, insieme a me e papà, usciamo per fare una passeggiata per il parco; ma il nonno non ce la fa a camminare con le sue gambe e così piano piano papà lo mette sulla sua ormai immancabile sedia a rotelle e ci incamminiamo lentamente. Gli alberi sono ricoperti di foglie verdi, lucide e rigogliose; i fiori ricoprono tutto il terreno, l’aria fresca ci investe, nel cielo c’è solo qualche nuvola d’ovatta trafitta dai raggi di sole. Mentre gioco con il pallone poco distante da papà e dal nonno, li vedo parlare con tranquillità l’uno vicino all’altro. Hanno entrambi un’espressione serena, a volte mi lanciano un’occhiata per assicurarsi che non mi sia allontanato, altre volte guardano intorno il paesaggio, le persone e la vita che continua a scorrere nel mondo. Non m’importa se il nonno non è più in forma e agile come una volta, se non è più il guerriero che è stato in passato, se alcuni giorni non ha voglia di ascoltare nessuno o si stanca subito. Qualsiasi cosa succeda, rimarrà sempre l’amico migliore che abbia mai avuto. Celene Di Matteo Tommaso Dottori Maria Vittoria Fulvi Federica Moriconi 19


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STORIA DI UN RICORDO Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e adesso che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino (Eugenio Montale, da Satura) Sto camminando per le strette strade del paese dove sono nato; è tutto così dolorosamente familiare. Vorrei fermarmi, vorrei tanto poter riassaporare i ricordi felici e infelici, ma non posso, devo correre in farmacia, c’è gente che ha bisogno di me. Tuttavia qualche ricordo riesce a fare breccia in quel muro che sto cercando di costruirmi intorno. La rivedo, davanti a me, seduta al bar in piazzetta dove fanno ancora quei cornetti che le piacevano tanto. Non ce la faccio, mi devo sedere, è una bella giornata d’estate, i bambini giocano a palla; quei bambini mi fanno sentire in questo preciso momento triste, mi fanno ricordare le cose che non ho fatto. Noi due non siamo mai riusciti ad avere figli, questo mi manca, forse è mancato anche a lei. Un figlio e dei nipoti avrebbero potuto forse aiutarla, le avrebbero potuto dare più amore, forza per continuare a vivere, per continuare a combattere; forse io non ero abbastanza. Chiudo gli occhi, respiro, all’improvviso sento freddo, guardo l’ora; si sta facendo tardi, devo andare; metto le mani in tasca per cercare la ricetta delle medicine, trovo un altro foglio tutto stropicciato; incuriosito lo apro: è il biglietto per una mostra d’arte. Ricordo benissimo quel giorno: eravamo andati a Roma a vedere una mostra che ci aveva consigliato nostra nipote, la 20


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figlia del fratello di mia moglie; a me non interessava molto l’arte ma avevo pensato che sarebbe stato bello portarci mia moglie per farla distrarre. E infatti dopo molto tempo ho rivisto finalmente mia moglie felice, come una volta; la guardavo rimanere ammaliata dai quadri, non parlava, era come incantata. Ed io, forse, per la prima volta, da quando era iniziato tutto, ho ricominciato a respirare; avevo come dimenticato tutto ciò che avevo passato e non pensavo a quanto avrei ancora dovuto affrontare una volta usciti da lì. Come mi sarebbe piaciuto rimanere chiusi là per sempre, un rifugio dai problemi della vita ma, purtroppo, la vita reale come un vento impetuoso ci spingeva ad uscire. Mi alzo dalla panchina e mi incammino, passo davanti alla chiesa, la nostra chiesa, la chiesa dove ci eravamo sposati, dove ci eravamo promessi amore eterno in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia…già in malattia; la guardo con amore e con disprezzo: in quel luogo ho vissuto il migliore ma anche il peggiore momento della mia vita. Ho scoperto con l’esperienza che davanti al dolore di una persona è meglio non dire niente, è inutile dire “condoglianze” oppure “forse adesso sta in un posto migliore” o ancora peggio “è giusto così, stava troppo male”. Non dire condoglianze se poi non sei veramente triste, non puoi sapere se veramente adesso è in un posto migliore, e soprattutto nessuno potrà mai sapere quanto stava male una persona, se non la persona stessa. Esco dalla farmacia del paese e mi incammino verso casa, quando per caso noto che, presso l’edicola vicino alla fermata dell’autobus, l’edicolante sta cambiando i titoli dei giornali esposti in vetrina: così mi avvicino. 21


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Tra le locandine che sta sistemando ne vedo una che mi colpisce particolarmente: l’articolo recita ”12 luglio 2040, una nuova conquista per la salute dei malati anziani non autosufficienti”. Quel titolo mi fa sorridere; parla di un argomento che conosco bene e per cui ho combattuto: mia moglie, Tiziana, era una malata anziana e non autosufficiente. Tutto ha avuto inizio dieci anni fa. Era già da un po’ di tempo che avevo notato dei cambiamenti in lei; iniziava a scordarsi le cose, usciva di casa e perdeva il senso dell’orientamento; non sapeva dove andare, non ricordava dove abitava; pensava che alcuni oggetti fossero stati spostati quando in realtà non lo erano. Non avendo dato peso a questi singoli episodi, non ero stato in grado di prevedere ciò che sarebbe successivamente accaduto. Un pomeriggio, dopo aver sostituito alcune delle più vecchie tegole del tetto, stanco, ero andato a riposare ed avevo lasciato mia moglie in cucina intenta a preparare la cena. Mi sono svegliato: del fumo proveniva dal piano inferiore. Allarmato mi precipito giù e mi rendo conto che usciva dalla porta della cucina. L’ho aperta e sono stato investito da una nube nera: mia moglie giaceva a terra del tutto incosciente. Ho incominciato a chiamare aiuto e il mio vicino, sentendomi, è accorso e, dopo aver chiamato il 118, mi ha aiutato a portare fuori mia moglie. Arrivati di corsa all’ospedale è stata portata subito nel reparto di terapia intensiva. Ho aspettato un paio d’ore, per me interminabili e, ad un certo punto, è arrivato un medico che mi ha chiesto: ”Chi è il signor Rossi?” Sentendo il mio cognome mi sono alzato 22


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di scatto e ho risposto: ”Sono io! Come sta mia moglie? é grave?” “Le condizioni di sua moglie sono stabili e molto presto verrà portata in un altro reparto per ulteriori accertamenti”. “Gradirei sapere se l’incidente sia stato causato da una semplice dimenticanza o presuppone qualcos’altro, poiché sono alcuni mesi che mia moglie evidenzia problemi di memoria”. “Purtroppo l’incidente è quasi sicuramente la manifestazione di una malattia neurodegenerativa grave: il morbo di Alzheimer. Il futuro di sua moglie è precario poiché l’ospedale non può ospitare i pazienti per un lungo lasso di tempo; le soluzioni sono due: o se ne prende carico lei per curarla a casa o dovrà fare richiesta per il ricovero in una Residenza sanitaria assistenziale, anche se è mio dovere avvertirla che le liste di attesa sono molto lunghe. Per un ricovero adeguato occorrerebbe cercare una struttura di cura privata, con ovvie conseguenze economiche”. “ Sinceramente non me lo posso permettere. Sono ancora in salute e finché potrò me ne prenderò cura io”. “L’unica cosa che posso fare per sua moglie è curarla fin quando rimarrà in questa struttura”. Dopo giorni di cure intensive Tiziana è stata dimessa. Ho deciso di assumere una badante poiché, nonostante io sia in forze, la vecchiaia si fa sentire. Tuttavia con la presenza della badante la situazione non è migliorata, anzi è peggiorata in quanto la donna si è rivelata una persona inaffidabile e inadeguata al compito assegnatole. Ha sbagliato le dosi delle medicine, provocando a Tiziana un’overdose di medicinali. Io, accorgendomi del fatto, ho portato Tiziana 23


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in ospedale e in seguito ho denunciato la badante. Allarmato da questa seconda crisi, ho deciso di chiedere aiuto a mio cognato, che abita in un paese vicino. Gli ho raccontato la situazione critica di Tiziana ma non ho ottenuto la risposta desiderata: abita lontano e lavora spesso all’estero, dunque non ha il tempo necessario per occuparsi di sua sorella; l’unica soluzione era il ricovero in una Residenza sanitaria assistenziale. Allora malgrado la mia età ho cercato di prendermi cura di lei, ma con scarsi risultati, visto che non potevo lasciarla più da sola neanche per poco tempo. Di fatto, non si riusciva più a fare un discorso sensato con lei e molto spesso non riconosceva più i luoghi e le persone. Un pomeriggio, mentre Tiziana dormiva, ho sentito bussare alla porta; non sapevo proprio chi potesse essere, poiché, da quando mia moglie si era ammalata, i nostri amici si erano piano piano allontanati, come dileguati. Si dice che l’amicizia, quella vera, quella con la “A” maiuscola si riconosca nei momenti di bisogno ma io ho dovuto, a mie spese, constatare e con grande amarezza e dispiacere l’esatto contrario. È facile addirittura scontato stare vicini alle persone quando tutto va bene, quando non ci sono problemi, quando tutto scorre liscio; alla prima difficoltà tutti, nessuno escluso hanno sempre qualcosa di più importante da fare, da sbrigare. Ma cosa c’è di più importante della vita delle persone, dell’amore verso l’altro? L’amore si dimostra in vita; poi è troppo tardi e ci si riduce a frasi di circostanza quando va bene, al rimorso nel migliore dei casi. Incuriosito, sono andato alla porta e mi sono ritrovato davanti mia nipote Claudia: “Claudia non mi aspettavo di vederti, come mai sei venuta 24


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qua, è successo qualcosa?” “No zio, non è successo niente. Sono venuta a sapere da papà che la zia non sta affatto bene. Non capisco perché tu non me lo abbia detto prima. So che vuoi affrontare questo problema da solo, ma io potrei aiutarti. Sto facendo tirocinio per diventare infermiera e spesse volte sono a contatto con anziani malati non autosufficienti, i cui parenti sono riusciti a prendersi cura di loro grazie all’aiuto di un’associazione di volontariato. È un’associazione che spiega come fare le richieste scritte all’Azienda sanitaria locale per accedere ai servizi sociosanitari e ottenere le prestazioni secondo le norme di legge che tutelano i malati non autosufficienti. Per i malati di morbo di Alzheimer e di altre forme di demenza senile esistono dei centri diurni per l’accoglienza, la tutela e l’assistenza del malato. Sono disponibili per sei giorni a settimana e otto ore al giorno: sono stati creati appositamente per ritardare l’ospedalizzazione, sostenere i parenti e quanti si fanno carico dell’anziano malato che non è più in grado di badare a se stesso”. “Non ero a conoscenza di queste strutture adibite alla cura dei malati anziani, tuttavia non potrei mandare Tiziana lì, in quanto non ho a disposizione il denaro necessario per sostenere le spese”. “Per i costi non devi preoccuparti: le spese sono almeno per metà della retta a carico del Servizio sanitario nazionale, per la parte restante, a carico dell’utente e della sua famiglia. Se l’utente e la sua famiglia hanno difficoltà economiche, paga il Comune, come è previsto dalla legge”. Dopo questa visita mi sono subito informato, così, tramite le referenze fornitemi da mia nipote e grazie all’aiuto dell’Associazione di volontariato, sono riuscito a compilare 25


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i moduli di ammissione presso il Centro diurno e il giorno seguente mi sono recato lì per avviarle. Così dopo sole due settimane di attesa, mia moglie è stata ammessa nel centro diurno della mia circoscrizione. A partire dall’inserimento nel centro ho potuto riscontrare un visibile rallentamento della malattia di mia moglie che, grazie al lavoro intrapreso dagli operatori sociosanitari e grazie all’ambiente protetto e rassicurante della struttura, si è sentita meno sconvolta dal destino dovuto alla malattia; piano piano Tiziana si è dimostrata socievole, cordiale, proprio come una volta. Così sono passati i mesi e la situazione di mia moglie è rimasta fortunatamente stabile, ma per poco: infatti dopo tredici mesi Tiziana ha avuto un infarto. Dal ricovero, immediato e tempestivo in ospedale, è emerso che le sue condizioni di salute, sia fisica che mentale, ne erano uscite inevitabilmente compromesse. Ma dopo dieci giorni dal suo ricovero, i medici hanno comunicato le prossime dimissioni di mia moglie ed il suo inserimento in una lista d’attesa per la prima Rsa disponibile. Mi sono di nuovo rivolto all’Associazione di volontariato che, sentito il mio caso, mi ha aiutato a formulare una lettera di opposizione alle dimissioni ospedaliere di mia moglie e di richiesta di continuità delle cure in una Residenza sanitaria assistenziale. Grazie a ciò sono riuscito ad ottenere il meglio per mia moglie: è rimasta in ospedale per le successive due settimane e successivamente è stata trasferita in una nuova Rsa da poco aperta nei pressi del Centro diurno e quindi anche non lontana dalla nostra abitazione. Questa struttura era attrezzata con le più moderne tecnologie per la cura dei pazienti, con personale giovane non26


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ché preparato e attento alle esigenze dei pazienti. Purtroppo dopo due anni la sua malattia è andata lentamente e inesorabilmente aggravandosi; mia moglie per l’insorgere di nuove complicazioni è venuta a mancare. Dopo la sua morte, ho deciso di entrare a far parte di un’associazione di volontariato che tutela i diritti dei malati non autosufficienti e fornisce le dovute informazioni spesso ignorate dai familiari, così da aiutare altri anziani non autosufficienti: il fine è assicurare nella malattia la giusta assistenza e dunque tranquillità e serenità, proprio come è stato per mia moglie. Sono ancora qui davanti a quel titolo e sorrido; il mio è un sorriso di speranza, perché si può e si deve sperare, anche davanti alla malattia; sorrido perché non ci si deve arrendere mai; sorrido perché si deve e si può combattere. Francesca Bugiardi Valentina Margaritelli Isabella Martani Alessandro Volpe

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TRACCE DI VITA Padre, se anche tu non fossi il mio padre se anche fossi a me un estraneo per te stesso egualmente t’amerei (Camillo Sbarbaro, Padre, se anche tu non fossi il mio) “Hai da accendere, Leonardo?”, Camilla e il fratello sono sotto il tondo luminoso dell’insegna del caffè “Sì...”. Tutto a un tratto il fumo pervade l’aria notturna. La sigaretta è l’unico rimedio che la donna ha per stemperare la tensione accumulata durante la recente discussione coi fratelli. Tutto è partito da una cinica battuta di Matteo, il più giovane dei quattro, in risposta alle proposte di Leonardo: “Se le tue congetture potessero guarire nostro padre, ora sarebbe seduto con noi, ma, in realtà, è di fronte alla vecchia televisione al plasma che gli hai regalato per tentare di alleviare la sua schiacciante solitudine. La stessa solitudine che lo accompagna da quando nostra madre se n’è andata… con quell’uomo, esattamente come ci siamo allontanati tutti noi”. All’interno del caffè, ora, Matteo osserva con attenzione la macchia di Campari sul tavolo, attendendo il ritorno della sorella maggiore, Giulia, allontanatasi per dare un piccolo ritocco al trucco. È ancora percepibile nell’aria la tensione di pochi istanti prima. Regna un silenzio imbarazzante, interrotto solamente dai profondi respiri dei presenti. Dietro la vetrata appannata Leonardo vede il fratello: l’immagine niente affatto nitida, è evanescente; d’improvviso quella che fino a pochissimi attimi prima era stata solamente una figura confusa diviene ben presto più definita. 28


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Camilla, infatti, con la mano libera dalla sigaretta, traccia sulla superficie del vetro velato di condensa un numero, apparentemente anonimo, ma che nella mente di Leonardo è emblematico di una data che difficilmente avrebbe gettato nell’oblio della propria memoria. Ventuno. Di fronte a quelle cifre Leonardo si sente gelare il sangue, rabbrividisce sospirando con aria sommessa. Quei brividi sono gli stessi che gli hanno percorso la schiena al suono del verdetto pronunciato dal medico pochi anni prima, proprio quel ventuno febbraio 2021. Quella mattina Giacomo era uscito per una passeggiata in riva al mare, nonostante il freddo tagliente. L’aria del mare per Giacomo rappresentava ieri come oggi la vita. Tutto poi si è come spento. Un dolore lancinante alla gamba. D’improvviso un urlo fortissimo si sovrappone, confondendosi, al rumore delle onde del mare. La spiaggia è deserta e Giacomo giace a terra per alcuni minuti, fino all’arrivo di un pescatore. L’uomo tenta di rialzarlo, ma immediatamente realizza che la caduta di Giacomo sia dovuta a qualcosa di più che ad un semplice cedimento. “Signore, risponda, cos’ha?!” Giacomo sente confusamente il suono della sua voce e non trova la forza di rispondere. Ancora pochi respiri. D’un tratto perde i sensi. Le ruote dell’ambulanza sfrecciano sull’asfalto, il veicolo frena di colpo di fronte all’ingresso del pronto soccorso. Lo schermo dello smartphone di Leonardo s’illumina, una voce sconosciuta gli riferisce parole che mai avrebbe volute sentire. Giacomo, suo padre, è ricoverato d’urgenza per cause ancora da accertare. Leonardo si precipita in ospedale. Corre veloce per il dedalo di corridoi, fin quando si imbatte nella stanza che sta 29


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cercando. “Numero ventuno” legge, mentre, per cercare di nascondere la sua sin troppo evidente e naturale preoccupazione, prova un po’ a sistemarsi. Leonardo teme che un’eventuale malattia di suo padre possa mettere in difficoltà e creare sconcerto in tutta la famiglia, ormai da un po’ come disgregata. Da alcuni anni, infatti, nessuno si era fatto più sentire. Tutti troppo presi dalla frenesia delle loro vite si erano reciprocamente allontanati gli uni dagli altri. Nel giro di poco tempo, senza che nessuno lo avesse coscientemente realizzato, la loro famiglia sembrava non essere mai esistita: la madre aveva lasciato Giacomo per un altro uomo; e loro quattro, presi ognuno dalle rispettive vite ed esigenze lavorative, si erano trasferiti nelle varie città della Penisola. Giacomo, palesemente provato in volto, vede entrare un uomo alto e moro e subito riconosce suo figlio. Leonardo è in evidente imbarazzo di fronte al padre, è seduto in silenzio. I due si guardano a lungo. “Ho un tumore”, è Giacomo a rompere il silenzio. Leonardo si sente mancare il respiro. Tutto è avvenuto con velocità e il solo tragitto in auto dall’ufficio all’ospedale non è bastato a fargli realizzare quanto stesse accadendo. “Papà, noi ci siamo. Qualunque cosa sia, io, Camilla, Giulia e Matteo ti aiuteremo a superarla. Saremo le tue braccia e le tue gambe. Non temere papà, non temere” replica il figlio con voce tremante. Leonardo si alza e si avvicina al letto del padre. Vorrebbe abbracciarlo per fargli sentire che su di lui potrà sempre contare ma non trova il coraggio. Negli occhi del padre vede la paura di essere abbandonato o di finire per diventare solo un peso per i figli. Incapace di mostrargli con un gesto l’amore che prova per lui, esce dalla stanza. 30


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In auto Leonardo chiama i fratelli. Tutti rispondono, ma non si trova la soluzione. I giorni passano e la situazione di Giacomo degenera. L’uomo muove sempre di meno l’arto malato e la paralisi si estende all’altra gamba. Il tumore alle ossa peggiora sempre di più e ben presto Giacomo viene rimandato a casa. L’anziano passa le sue giornate passando dal letto alla poltrona e alla sedia a rotelle; legge o guarda la televisione per non pensare a quei dolori lancinanti che lo immobilizzano. Spesso ripensa al passato, alle lunghe passeggiate che si concedeva in riva al mare. Gli manca stare ad ascoltare in silenzio il rumore delle onde e riempire i suoi polmoni di aria pulita, sensazioni capaci di trasmettergli un assoluto senso di libertà. Una libertà che ora appare fin troppo lontana. è Leonardo che a tempo pieno si occupa di lui. Ma soprattutto cerca di informarsi sui diritti spettanti al padre. Il dottor Vincenzo, medico di base di Giacomo, lascia a Leonardo l’indirizzo del sito web di un’associazione di volontariato. “So che in questo momento ti tormenta la paura, ma non devi arrenderti. Tuo padre ha bisogno di voi e i volontari dell’associazione sapranno esservi d’aiuto: l’Associazione Sana permette di ottenere in poco tempo terapie ospedaliere, prestazioni infermieristiche domiciliari”. Giacomo, nel frattempo, malgrado la malattia, sorride. Si sente accudito. Leonardo ha sempre meno paura e riesce a svolgere, parallelamente all’accudimento del padre, la propria professione. L’Asl ha accolto la sua richiesta di rimborso delle spese e ciò permette a Giacomo di beneficiare dell’aiuto di una badante. Spesso ad aiutarlo con le faccende domestiche ci sono anche i dirimpettai e la portinaia. Giulia, Matteo e Camilla 31


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visitano assai di rado il padre, se non per le feste; tuttavia si fanno sentire spesso con telefonate e videochiamate. La malattia comincia a passare quasi inosservata grazie a tutte le attenzioni che vengono dedicate al vecchio Giacomo. Gli sportelli dell’Asl, la mattina del ricovero, sembrano soltanto passati ricordi. Nei mesi seguenti, però, avviene un graduale peggioramento della malattia del padre. Leonardo è disarmato e i fratelli, lontani, non sanno come venirgli incontro. La sigaretta si sta ormai spegnendo. Leonardo, distolto lo sguardo dalla cifra, getta a terra il mozzicone e rientra, seguito da Camilla. Anche Matteo e Giulia sono di nuovo seduti intorno al tavolino su cui giacciono i bicchieri ormai vuoti dei drink. Regnano ancora l’imbarazzo e la freddezza nati dalla discussione di poco prima, nessuno dei quattro riesce a parlare fino a quando Matteo decide di rompere l’assordante silenzio. “Sarà il caso di trovarla una soluzione. Papà non resisterà ancora a lungo in questo stato, ha bisogno d’aiuto. Te lo concedo Leonardo, fino ad ora non ci siamo stati molto per lui, eravamo troppo occupati a seguire il corso delle nostre frenetiche vite. Sei stato importantissimo in questo percorso e noi non possiamo che essertene riconoscenti. Ma non è troppo tardi per rimediare. Ora ci siamo, ora siamo qui”. Leonardo alza lo sguardo e fissa il fratello dritto negli occhi. “Perché non cominciare andando a trovarlo?” dice. Matteo è perplesso “Ora?” “Sì, proprio ora” conclude seccamente Leonardo. I fratelli si guardano un attimo tra loro e alzandosi dalle sedie, annuiscono. Saldato il conto e usciti dal caffè, si dirigono verso il portone della casa. Il palazzo è buio, l’unica finestra illuminata 32


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è quella del padre, che emana un lieve fascio di luce proveniente dallo schermo del vecchio televisore. Leonardo fruga nella tasca del cappotto in cerca della chiave e, una volta trovata, apre il vecchio portone in legno. Percorse quattro rampe di scale i fratelli si ritrovano di fronte alla familiare soglia dell’appartamento. È una sensazione strana, che li porta a ricordare gli anni sereni dell’infanzia, quando ancora non vi era ombra né del futuro abbandono materno né della terribile malattia paterna. La porta cigolando si apre pian piano e subito è evidente che in quell’appartamento sia il buio a regnare. Nessuna luce, nessuna voce, solo un flebile sottofondo confuso di qualche programma televisivo. “Papà, papà! Siamo noi! Siamo qui!” I fratelli cercano di camuffare la preoccupazione con un sorriso nervoso. Però, nessuna risposta, nessun rumore. Dal salotto s’intravede solo l’ombra della poltrona con una mano appoggiata sul bracciolo, eppure tutto rimane impassibile. La sagoma non si muove, rimane immobile così com’è. Leonardo preso dal nervosismo afferra l’accendino nella tasca e accende ancora un’altra sigaretta. Spera di alleviare la tensione, spera di riuscire a reprimere quelle lacrime che mai prima d’ora erano uscite dai suoi occhi. È da sempre stato un uomo forte, impassibile, granitico di fronte a qualsiasi difficoltà. Mai un pianto, mai una lacrima, nemmeno da bambino. Mai la compassione di nessuno: perché cercare di aggrapparsi agli altri, quando si può e si deve fare affidamento su se stessi? Anche questa volta era stato così. Piano piano si allontana, torna verso il caffè. Ricerca quella vetrata, la vetrata su cui ancora il numero ventuno è tracciato. Così, senza gesti bruschi, alza il braccio e lentamente passa la mano su quel vetro. Il numero scompare e le sa33


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gome confuse dalla condensa ora non sembrano piĂš cosĂŹ offuscate, ma assai definite. Mohammed El Aouach Luigi Giovagnoli Martina Mori Costanza Valdina

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NEBBIA DELL’ANIMA Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba [...] nascondimi quello ch’è morto (Giovanni Pascoli, Nebbia) Quella sera le stelle non si vedevano, tanta era la nebbia che offuscava il cielo invernale, plumbeo quanto il suo stato d’animo. Il fumo dei comignoli si mischiava alla grigia foschia, che li rendeva invisibili. Emergevano dal mare di nebbia solamente le cime degli alberi, private delle foglie, e il campanile rinascimentale della chiesa del paese, che sembrava voler raggiungere il disco ottenebrato del satellite; spiccava isolato nell’infinità della volta celeste, solo come gli uomini. Soffiava l’ultimo scirocco che preludeva a una notte molto cupa. I cani abbaiavano lontano, creando insieme al vento una sinfonia molto inquietante. Le finestre delle case sbattevano insieme alle porte provocando un rumore assordante che svegliò Pietro, inducendolo ad alzarsi nel pieno della notte per chiuderle. Anna dormiva tanto profondamente che non si accorse del trambusto. Anna non si era mai accorta del marito. All’alba si svegliarono e come tutti i giorni fecero colazione in un clima di assoluto silenzio durante il quale ognuno rifletteva. Gli uccelli facevano festa e il loro cinguettìo si univa al canto dei galli che comunicava a tutti l’inizio di un nuovo giorno. La nebbia si andava dissipando, rendendo visibili le modeste case e il fiume nella valle. Non tutte le forme di vita si erano accorte dell’inquietudine della notte. L’esistenza di Pietro era così dolce e tranquilla come 35


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quell’alba? In realtà la sua vita era sempre stata molto triste, sia a causa del padre, che lo aveva abbandonato alla nascita, e della madre troppo severa che non lo aveva mai fatto vivere, sia per l’assenza del figlio, all’estero per motivi di lavoro, e soprattutto per la mancanza di complicità tra lui e la moglie. Negli ultimi tempi, infatti, tra i due si era accentuata la falla primigenia, provocata da caratteri e interessi inconciliabili, celata a lungo dal loro rapporto coniugale. Al paese lo chiamavano “figlio del dolore”, poiché era noto a tutti il contesto familiare in cui era vissuto. Il suo più grande piacere sarebbe stato smettere di soffrire. Ai suoi turbamenti interiori si aggiungevano malattie, che avevano messo in pericolo la sua vita due volte: l’aneurisma all’aorta ascendente operato nell’aprile del 2030, diciotto anni prima, e il tumore ai polmoni, con conseguente asportazione del polmone sinistro, un intervento che lo aveva costretto ad abbandonare la sua più grande passione: la bicicletta. Da tempo si era accorto di non riuscire a controllare i movimenti appena percepibili alle estremità degli arti e di stancarsi anche solo nelle più semplici azioni. Giustificava tali difficoltà con la mancanza di allenamento fisico che ormai non svolgeva più da anni, ma non comunicò a nessuno i suoi problemi per non essere un peso né per suo figlio, che non lo avrebbe comunque potuto aiutare, né per sua moglie che non lo avrebbe sostenuto come una vera moglie può fare. Si chiuse ancora di più in se stesso, diventando sempre più taciturno e umbratile, ma questo atteggiamento non suscitò in Anna alcun sospetto, in quanto Pietro aveva sempre avuto un carattere introverso. Molto spesso, non controllando i suoi movimenti, faceva cadere degli oggetti: la moglie puntualmente lo rimproverava e lui 36


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reagiva con scoppi d’ira incontrollati. Sua moglie non si accorse nemmeno delle maniere molto più impulsive del marito, ma Pietro sentiva che qualcosa stava cambiando. Chi era diventato? Anna credeva che lo facesse di sua volontà e ne era quasi felice, poiché aveva da tempo meditato di chiedergli la separazione. Invece quei comportamenti erano sintomo di una malattia che lo stava giorno dopo giorno invalidando. Aveva la netta percezione che la sua vita stava andando a pezzi e non lo accettava. Si sentiva come un fragile vaso di alabastro del quale tentava di ricomporre i frammenti, ma di nuovo cadeva a terra, sempre più in frantumi. Allora si chiudeva nella sua stanza e immaginava di uscire fuori da quelle quattro mura, da quel paese troppo piccolo per la sua ampia conoscenza della cultura classica. Immaginava giorni felici, gioiosi, con una moglie amabile e con un figlio per il quale dovevano e volevano vivere. Invece entrambi vivevano per se stessi, nella totale indipendenza: l’uno era un di più, un ostacolo alla libertà dell’altro. Così si figurava la vita che non aveva mai vissuto e che probabilmente non avrebbe mai vissuto: quelle visioni le chiamava i “non luoghi dell’umano”. Ben presto anche la sua rassicurante camera da letto, troppo piccola, divenne scaturigine di stress. Allora decise di uscire fuori di casa, in quel piccolo paese, miserabile di inverno e tremendo d’estate. Al primo albeggiare costeggiava le mura medioevali e rientrava in casa per lavarsi, mangiare e poi riposare. Era la sua nuova monotona vita, sempre immersa nel silenzio, nell’incapacità di comunicare con Anna. Poche settimane dopo, la camminata mattutina che gli aveva giovato per pochi giorni, perse d’un tratto la sua effica37


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cia. Mancavano poche centinaia di metri al portone di casa quando sentì un acuto dolore alle gambe, tanto forte da costringerlo a sedersi per terra. Aspettò pochi minuti prima di rialzarsi. Il battito cardiaco accelerò notevolmente, così il respiro: un cuore operato, l’arco aortico ricostruito e l’assenza di un polmone si facevano sentire. Respirava lentamente, fingendosi rilassato. Poi, aggrappandosi al muretto vicino, si rialzò, ma all’improvviso gli sembrò di stare in una giostra per bambini: l’asfalto della strada ondulava e gli sembrò che non ci fosse attrito tra le sue scarpe e la superficie su cui poggiava. Non poteva più camminare. La strada, di certo, non si muoveva, ma in quel momento più che mai quel mostro che stava da tempo in agguato incombeva davanti agli occhi e nella sua testa. Per la prima volta nella sua vita, decise di chiedere aiuto. Urlò. Il rumore della serratura di una porta gli fece intuire che qualcuno lo aveva sentito ed ora gli offriva la mano, aiutava un uomo “depresso”, come lo definivano i compaesani. Era una donna sulla quarantina che non aveva mai visto; una nuova arrivata. Aveva un fisico armonico e ben proporzionato, tanto amabile quanto invidiabile. Ma ciò che Pietro subito invidiò in lei fu piuttosto la decisione e la sicurezza, qualità che lui non aveva mai avuto. Nonostante l’avesse appena incontrata, gli fu subito chiaro che quella donna si era rialzata sempre dopo ogni caduta, con la forza e la volontà di chi è arbitro di se stesso, di chi non è scelto, ma sceglie, di chi è abituato a prendere velocemente decisioni, giuste o sbagliate che siano; di chi è tenace e resistente dentro e fuori. Lui le si avvicinò e lei delicatamente lo strinse a sé. Pietro sussurrò: “Mi riporti a casa, per favore. Ho bisogno 38


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di aiuto, le mie gambe tremano, ma non è paura. È… Non so bene cosa sia veramente... Per favore, mi faccia questa cortesia”. “Non si preoccupi” -ribatté la donna- “la aiuterò io a ritornare a casa. Sono abituata a soccorrere le persone, non certo a fare loro del male, cosa invece che la gente comune crede facciano i medici. Si fidi di me”. Costeggiarono il muretto e, dopo poche centinaia di metri, girarono a destra e giunsero al portone di casa. La donna suonò il campanello e attese con Pietro l’arrivo di Anna. Mentre la moglie scendeva, Pietro disse: “Grazie tante per quello che ha fatto; se non ci fosse stata lei, probabilmente sarei rimasto sdraiato accanto al muro finché qualcuno non fosse passato per caso e mi avesse aiutato. Ma... qual è il suo nome?” La dottoressa rispose: “Mi chiamo Gea”. Dopo che arrivò la moglie, aggiunse con un tono di lieve rimprovero: “Buongiorno, signora. Ho dato una mano a suo marito a ritornare a casa, ma non sta affatto bene. Pertanto, in qualità di medico, le consiglio di portarlo da uno specialista per farlo visitare”. Pietro si fermò al nome “Gea” che aveva riportato alla sua memoria l’insegnante di greco del liceo quando recitava i versi esiodei: “Voi Muse [...] parlatemi di Gea che fu matrona e madre degli dei e da cui parte l’origine dell’umana nostra sorte”. Sua moglie, invece, si immobilizzò e non rispose: non si era mai voluta prendere cura del marito e in quel momento una sconosciuta la obbligava a farlo. Ma soppresse la sua istintiva e subitanea reazione di stizza e rivolse lo sguardo alle gambe del marito che tremavano intensamente. Salirono le scale piano piano, ed entrarono in casa. Pietro con 39


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difficoltà affondò nel divano: quanto inconsapevolmente lo aveva desiderato nel corso dell’ultima ora! Anna lo fissò e cercò di diagnosticare la sua malattia. Pensò ad uno shock o semplicemente ad una febbre estemporanea. Sollevò Pietro dal divano e lo accompagnò in bagno. Gli aprì la porta, lo fece entrare e uscì subito, quasi infastidita di essersi degnata di aiutarlo. Ma la voce languida di Pietro la bloccò: “Dove vai? Ti prego, aiutami... Non ce la faccio a reggermi in piedi”. La colpì il suono della voce, più che il contenuto delle parole. Era la flebile voce di chi non aveva più speranze, di chi aveva capito che incombeva il buio eterno. Tornò, sbuffando, in bagno e vide Pietro, suo marito, che con il viso rivolto alla conca del lavandino e le mani saldamente appoggiate alle superfici di marmo laterali, disse con voce soffocata: “Sto male…” e scoppiò in lacrime. Anna restò in bagno, lo aiutò a fare la doccia e a vestirsi. Non lo aveva mai fatto. Cenarono insieme in silenzio e fu Pietro a rompere quella quiete con queste poche e semplici parole: “Grazie per quello che hai fatto”. Entrambi rimasero stupiti da questa affermazione: l’una per sentirsi ringraziare, l’altro per essere riuscito a farlo. Anna rispose con chiarezza e fermezza: “Poco fa, quando siamo entrati in casa, credevo che la tua fosse una semplice febbre, ma penso di essermi sbagliata. Non sono un medico e non voglio prendermi alcuna responsabilità: domani chiamerò il dottor Parrini che ti visiterà e così ci dirà quale strada imboccare”. Pietro non voleva farsi visitare, tanto paventava i medici, ma non ebbe il coraggio di rispondere; anzi, cercò di apprezzare l’interesse che Anna aveva dimostrato nei suoi confronti. Andarono a letto sperando che il tremore delle gambe cessasse con il calore della coperta elettrica, ma al suo risveglio si ac40


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corse che anche le braccia cominciavano a tremare. Il solo gesto che riuscì a compiere in quello stato fu di spegnere la sveglia, facendola cadere. Anche questa volta, a differenza delle altre, la moglie si mostrò comprensiva nei suoi confronti: si alzò, la raccolse e insieme andarono in salotto. La colazione era pronta, ma Pietro con fatica portò alla bocca i biscotti e la tazza di caffelatte, non solo per il tremore, ma anche per una strana rigidità che colpiva ormai tutto il corpo. Ingoiò a stento qualche sorso di liquido, ma ad ogni deglutizione corrispondeva un certo dolore al collo, che diventava sempre più forte e insopportabile. Attesero l’arrivo del medico, chiamato da Anna la sera prima. Erano entrambi seduti sul divano, in un’atmosfera stranamente piacevole, in cui si percepiva il calore che emanava dal focolare. Continuarono a non parlare, ma la moglie appoggiò la mano sopra il braccio destro di Pietro, mostrando un affetto che fino a quel momento avevano dato solo al figlio. La tensione dell’attesa era rispecchiata da un cielo ambiguo ma cristallino; una brezza insolita spirava da tutte le parti, facendo muovere le fronde degli alberi. I cani dei vicini non abbaiavano e sembrava che il silenzio del salotto avesse contagiato il mondo esterno. L’unico suono che sentirono fu quello del campanello. Il dottor Parrini salì velocemente, spinto dal dovere e dalla volontà di aiutare Pietro, che conosceva ormai da anni, non per la sua fama di persona malinconica, ma per la sua erudizione, che ogni volta lo affascinava. Quando il medico di famiglia vide Pietro, disteso sul divano, vicino alla moglie, tutto tremante dal viso ai piedi, il suo sguardo si fece allarmato. Questo mutamento di espressione non sfuggì all’attenzione di Anna, ma soprattutto a Pietro. Il dottore 41


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lo visitò accuratamente, bilanciando l’indifferenza richiesta dalla sua professione con qualche sorriso al malato, informandosi nel frattempo sul suo stile di vita negli ultimi tempi e sui sintomi che si erano recentemente manifestati. Analizzò il suo stato mentale, poi il linguaggio, la capacità di riconoscere gli oggetti e i colori, insieme ai nervi cranici e alla coordinazione dei movimenti. Pietro sapeva riconoscere tutto, ma non riusciva a controllare i movimenti, soprattutto quelli delle braccia e delle gambe. Il dottor Parrini infilò lo stetoscopio all’interno della borsa, gesto che fece intuire a Pietro e ad Anna che la visita era finita, ed esordì dicendo: “Caro Pietro…” Non si davano del lei perché preferivano mantenere sempre un rapporto di amicizia piuttosto che quello di medico-paziente; poi si rivolse anche ad Anna, ma con maggiore distacco, dicendo: “Siamo amici da molto tempo, non ci siamo mai mentiti, e non intendo farlo in questo momento. Vedete, comunicare notizie tristi e spiacevoli è sempre una grande difficoltà per noi medici, ma dobbiamo ogni volta trovare la forza per farlo”. A Pietro cominciarono a sudare le mani e la fronte, che cercava di asciugare con la manica della camicia. Anna abbassò lo sguardo e poi si voltò verso il marito. Il dottor Parrini continuò: “Penso di aver intuito da quale malattia tu sia affetto, ma non intendo comunicartela poiché non ho elementi sufficienti per confermare la mia ipotesi. Sicuramente è una di quelle che vengono chiamate “malattie neurodegenerative”. La tua situazione peggiorerà giorno dopo giorno, ora dopo ora e purtroppo non sono state ancora scoperte medicine che consentano di guarire completamente da questa malattia, che però è rallentabile con opportuni trattamenti. Siamo nel 2048 e quando pen42


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so che già alle scuole superiori ci fecero assistere a lezioni tenute da esperti sulla condizione dei malati non autosufficienti e sul diritto alla salute, mi rendo conto che l’uomo vive di illusioni e si affida ciecamente ad esse. Solo alcuni si rendono conto della loro fallacia e quando entrano in contatto con la dura realtà, cadono in depressione o si suicidano, oppure possono ancora trovare la forza di condurre una vita normale, anche se non è semplice. Il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione. Negare questo fondamentale diritto ai malati non autosufficienti è un fatto gravissimo sia dal punto di vista etico, sia dal punto di vista giuridico. In base alla nostra legge, il Servizio sanitario nazionale deve garantire la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata, per permettere il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica dei malati. Ma in realtà, sembra proprio che l’abbandono in cui cadono i malati non autosufficienti interessi a poche persone: basta accendere la TV o leggere i giornali per vedere quanti malati non autosufficienti muoiono dopo anni di mancati trattamenti e di disinteresse sociale. Molto spesso i familiari sono impotenti e, per di più, disinformati. Come decenni fa, ancora oggi purtroppo ci sono poche associazioni che difendono i diritti dei malati non autosufficienti, e aiutano le loro famiglie con petizioni, con proposte alle istituzioni pubbliche, oppure con campagne informative, consulenze gratuite e iniziative culturali”. A questo punto il dottor Parrini sentì l’esigenza di fermarsi e bere un poco di acqua dalla bottiglietta che portava sempre con sé. Questo momento di silenzio permise a Pietro di constatare la gravità della sua situazione e la precarietà 43


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cui stava andando incontro. Sembrava che tutto ciò che aveva fatto nella sua vita si rivelasse vano, inutile. Pensò a quanto un solo attimo della vita fosse in grado di cambiare radicalmente un’esistenza. Se il giorno prima non fosse andato a camminare, forse avrebbe evitato l’insorgere della malattia? Non sapeva dare una risposta alla sua domanda e per timore della risposta, non ebbe il coraggio di domandarlo al suo amico, che in quei minuti incarnò l’idea stereotipica del medico portatore di cattive notizie. L’unico consiglio che il dottore riuscì a dargli era quello di recarsi in un centro specializzato in malattie neurodegenerative come quello di Milano. Nei giorni successivi Anna e Pietro contattarono il centro e riuscirono fortunatamente a prenotare una visita per la settimana seguente con il neurologo Angeletti. Partirono preoccupati una settimana prima della visita, con la vana speranza di trovare una cura per quella malattia. Arrivati al centro, Pietro venne sottoposto a un prelievo di sangue e all’analisi genetica. Per sicurezza, gli venne prescritta una Tac e una Risonanza magnetica nucleare, per avere un quadro clinico più dettagliato e generale. Il luogo era un centro internazionale all’avanguardia, raggiunto ogni anno da decine di migliaia di pazienti affetti da malattie invalidanti. La struttura, in vetro e in metallo, rifulgeva della luce del sole. Esteriormente sembrava un modernissimo e vitale grattacielo newyorkese, ma una volta entrati, si percepiva subito la mestizia che lo caratterizzava: uomini e donne calvi camminavano apatici e inerti nei corridoi; altri, sulla sedia a rotelle, non avevano il coraggio di guardare in faccia quelli che gli passavano accanto; altri ancora piangevano o restavano ammutoliti. Tra pianti, 44


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lamenti e grida di dolore, si sentivano i bip dei dispositivi elettronici del Cup. Poi, il rumore si placava in un silenzio greve, il silenzio dell’ospedale. Pietro e Anna in pochi giorni iniziarono a parlare più spesso tra loro: arrivarono addirittura a sorridere, ma non riuscirono ad ambientarsi ai suoni e agli odori dell’ospedale. Più di una settimana dopo il loro arrivo, il dottor Angeletti visitò Pietro in silenzio, con la testa china sui risultati degli esami. Alla fine, chiuse le cartelle e riordinati i fogli, a braccia conserte volse lo sguardo verso Pietro e la moglie e cominciò: “Signor Pietro, probabilmente, per il complesso intreccio dei diversi sintomi che ha avuto, la sua malattia ha una storia travagliata, tanto che è difficile, anche per noi medici, metterne a fuoco l’immagine. Ma quello che ora le abbiamo diagnosticato con certezza è il morbo di Parkinson. Si manifesta in genere dopo i 60 anni di età, sia con una progressiva riduzione delle performance intellettive, sia con alterazioni comportamentali. Quindi gli scoppi d’ira di Pietro” disse rivolgendosi ad Anna “non erano volontari, ma non erano altro che un preludio alla malattia, che progredendo porta con sé anche la sovrapposizione di altri disturbi piuttosto invalidanti, come la bradicinesia, la disartria e la disfagia. Nelle fasi avanzate il quadro neurologico è caratterizzato da un marcato rallentamento dei movimenti, dalla rigidità, fino a provocare la perdita dell’autosufficienza del malato”. Si fermò, credendo di dover spiegare con parole più semplici ciò che aveva detto, ma si accorse che sia Pietro che Anna si erano assentati: entrambi avevano perso davvero le speranze, avevano ricevuto la conferma. Avevano ascoltato quello che non avrebbero mai voluto sentirsi dire. 45


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Ma il dottor Angeletti continuò: “Questa malattia sicuramente non è guaribile, ma sono state sperimentate cure che ne rallentano il decorso, consentono di prevenire alcune complicanze e alleviano le sofferenze. A questo punto” -rivolgendosi a Pietro- “dal momento che l’azienda ospedaliera non accoglie malati cronici non autosufficienti, deve decidere se entrare in una Residenza sanitaria assistenziale oppure rimanere a casa, usufruendo degli aiuti che la sua Regione dispone per i malati. Ci sono liste molto lunghe, con tempi di attesa che possono durare anche anni. I fondi che le Regioni stesse stanziano si rivelano per la maggior parte delle volte insufficienti per poter offrire cure a tutti i pazienti che ne fanno richiesta”. Si fermò per dare ai due la possibilità di assimilare ciò che stava loro dicendo. Poi proseguì: “Per facilitare la vostra scelta, vi ricordo che non ci sono particolari differenze tra le case di cura in Italia, dal momento che in tutte le regioni si verificano molti casi di negazione dei diritti, da parte delle istituzioni, che invece dovrebbero garantirli. Solo la conoscenza delle leggi e il sostenimento delle proprie ragioni può darvi la possibilità di godere delle prestazioni di cui dovreste usufruire per diritto. Infine se doveste trovare ulteriori difficoltà, rivolgetevi alle associazioni che promuovono il diritto alla salute. Esse costituiscono l’unico spiraglio di luce in una così profonda oscurità”. Da quelle parole la vita di Pietro era diventata l’oscurità e, senza saperlo, la luce. La sua speranza era racchiusa tra i libri che aveva studiato, tra i suoi ricordi: era la vita che aveva vissuto. Una domanda sorgeva dal suo profondo: “Perché io? Che cosa ho fatto per meritarmi questo?” Non volle rispondere. Sapeva che molto spesso le risposte sono 46


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più dolorose di una domanda, del dubbio. Decise quindi di convivere con la malattia. Quella diagnosi gli aveva fatto prendere atto di quante frivolezze, di quante cose necessarie, ma anche superflue è costituita la vita. Dopotutto non aveva paura di morire: si soffre e si muore perché si ha un corpo; le malattie e il dolore sono nati con l’uomo. Perché gli uomini hanno paura di morire? Perché non hanno vissuto ma sono solo esistiti anonimamente in mezzo all’umanità. Pietro, invece, aveva vissuto lontano dall’umanità. Per questo decise di non cercare anni da vivere, ma la vita in quei pochi che gli restavano, cercava qualcosa che valesse la pena vivere, che non facesse svanire tutto quello che aveva fatto e amato. Pietro, però, doveva decidere dove trascorrere gli ultimi suoi anni. Inizialmente pensò di ricevere le cure a casa, ma poi si rese conto che questa scelta avrebbe messo in grandi difficoltà sia Anna che il figlio. Decise allora di seguire le procedure per accedere, conformemente alla legge, alla casa di cura della sua città natale, una Residenza sanitaria assistenziale. Ci vollero alcuni mesi prima che Pietro abbandonasse per sempre la sua casa. Non ci ritornò più, mai più. Facendosi aiutare da un’associazione locale di volontariato e con il supporto della moglie, riuscì a ottenere le cure di cui aveva bisogno, inviando apposite richieste scritte all’Azienda sanitaria locale. Si era ricordato di quanto gli avevano detto il dottor Parrini e il dottor Angeletti e decise di avvalersi delle utilissime informazioni che gli erano state fornite sul diritto alle cure previsto dalla legge vigente per la tutela dei malati non autosufficienti. Così riuscì ad ottenere in breve tempo il ricovero in una Residenza sanitaria assistenziale usufruendo del contributo economico dell’Asl per il pa47


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gamento di almeno la metà della retta mensile di ricovero, come prevedeva la legge. Pietro visse ancora per due anni e mezzo, in condizioni psichiche serene nonostante la malattia fosse progredita notevolmente nei mesi successivi alla diagnosi, per poi stabilizzarsi, costringendolo ad una vita vegetativa fino alla morte. Nell’ultimo mese della sua vita, tutte le parti del corpo di Pietro tremavano. Anche se non riusciva a parlare, cercava sempre di comunicare affetto alla moglie, ai medici e agli infermieri. Si rese, tuttavia, necessaria la gastrostomia, poiché non riusciva più a deglutire. Di fronte alle condizioni invalidanti del marito, Anna cercò di recuperare il rapporto con Pietro, facendogli sentire la sua vicinanza e il suo affetto, e compensando parzialmente l’atteggiamento di disinteresse mostrato per tanto tempo. Anzi, negli ultimi tempi fece di tutto per prendersi cura di lui. Pietro percepì chiaramente le continue attenzioni di Anna, che gli furono di grande beneficio, e le mostrò tutta la sua gratitudine per quanto lei stava facendo, data la sua impossibilità a parlare e a muovere gli arti. Pietro si spense il 20 dicembre del 2050, in una notte stellata che ricopriva la superficie terrestre di un’aria di mistero. Tornò da Gea, la Madre Terra, dove quella sera ogni forma di vita sembrava spegnersi con lui. Il silenzio lasciava spazio al riposo. Ognuno in casa si stava godendo il clima natalizio in compagnia degli amici e dei propri cari. Per gli altri, era la fine di una giornata, una pausa temporanea dalle attività quotidiane. Ma per Pietro quella notte segnò la conclusione definitiva della sua vita. Il suo aspetto, dopo anni, lasciava trasparire nuovamente quello che era stato: amante delle lettere, sensibile, tendente alla depressione. 48


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Il giorno seguente Anna vide uscire dalla porta dell’ospedale una donna e un uomo abbracciati, forse una madre e un figlio colpiti anche loro da un lutto familiare; nello stesso momento due genitori entravano in un negozio di giochi, probabilmente per comprare il regalo di Natale al loro bambino. Pensò che la vita e la morte non sono due condizioni lontane l’una dall’altra, ma sono come due gambe che camminano insieme, ed entrambe ci appartengono: viviamo e moriamo allo stesso tempo. Carlo Alberto Angelini Davide Bettolini Federica Dominici Maria Maestrini

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LA STAGIONE DEL VENTO Est igitur adulescentis maiores natu vereri Spetta ai giovani dunque rispettare gli anziani (Cicerone, Cato maior de senectute) ESTATE L’aria pesante e appiccicosa portava con sé un forte odore di sale, l’orizzonte oscillava caldo sotto gli infuocati raggi del sole, l’unico rumore che accompagnava l’infrangersi delle onde sugli scogli erano i loro passi. La figura più ricurva tra le due allunga una mano verso una panchina, indicandola, e insieme si siedono. Dopo essersi seduti l’anziano tira fuori il giornale mal riposto nella tasca della giacca e inizia a sfogliarlo. Il primo a rompere il silenzio è il vecchio che dopo aver fatto scorrere il dito sulla carta appena stampata si rivolge al giovane amico, con cui era solito fare passeggiate sul lungomare: “Hai sentito della vittoria della squadra di bocce del paese?” Gli risponde Nicola: “Hanno vinto solo perché non hai partecipato tu!” Alfonso accenna una risata, ma rivolgendo nuovamente lo sguardo verso il quotidiano, la sua espressione di colpo muta. Nicola, incuriosito dalla reazione del vecchio, sposta lo sguardo nel punto in cui gli occhi di Alfonso erano fissi: “Incidente in autostrada A13, coinvolte due vetture: muore un bambino, ferito il padre”. Il vecchio porta la mano nel punto in cui si trovava un’appassita cicatrice. Nicola allora chiede: “C’è qualcosa che non va, Alf ?” Ma improvvisamente il vecchio inizia a respirare affannosamente e Nicola spaventato, non sapendo cosa fare, urlando chiede aiuto. Nicola nella sala d’aspetto vede un dottore che gli si avvi50


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cina nel caos dell’ospedale, e scambiandolo per un parente dell’anziano gli chiede: “Lei è il figlio del signor Baldelli?” e senza lasciargli tempo di rispondere continua: “Ci sono stati alcuni problemi con il suo familiare ma fortunatamente niente di grave, dovrebbe avere un principio di polmonite; gli prescriverò degli antibiotici e per qualsiasi perplessità sa dove trovarci. Ora può tornare a casa senza alcun problema”. Rientrati a casa, Nicola si prende cura del vecchio aiutato dalla moglie di quest’ultimo con maggiore attenzione. Durante una cena, tra un boccone e un altro, Nicola coglie l’occasione per dare una notizia ai due anziani: “A mio padre è stato offerto un nuovo lavoro in Spagna, e i miei genitori mi hanno proposto di andare con loro”. La signora Rosa lo interrompe e sorridendo gli dice: “Ma noi come faremo senza di te! Alfonso ultimamente è cagionevole di salute io sono molto debole, e non me la sento di affidarlo all’assistenza di un estraneo; sei l’unico di cui ci fidiamo, ti conosciamo da quando sei nato, ti abbiamo visto crescere, sei come un figlio per noi…” Nicola risponde: “Non c’è di cui preoccuparsi, avevo già deciso di rimanere e volevo chiedervi se potevo restare qui”. Alfonso felice della notizia: “Puoi stare nella camera di…” Ma subito viene interrotto dalla moglie che prende la parola: “…nella camera degli ospiti”. Nicola, però, nota uno scambio di sguardi malinconici tra i due coniugi, ma non prestandogli attenzione, contento va a prendere le sue cose. AUTUNNO Le condizioni di salute di Alfonso con il tempo si aggravano. I malori non passano e la temperatura corporea con51


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tinua ad aumentare, così i medici decidono di fargli degli accertamenti adeguati. Attraverso i risultati delle analisi del sangue scoprono che si tratta di leucemia, un tumore che non permette la produzione di anticorpi, impedendo la protezione anche contro un semplice raffreddore; presenta comunque il vantaggio di poter essere controllata e addirittura se curata bene assicura la possibilità di una vecchiaia serena, o almeno così sostiene il dottore… Il cielo è velato da una folta coltre di grigie nubi e il vento fa cadere le foglie che compongono un mosaico con i colori dell’autunno. La pioggia scrosciante cade sul volto di Nicola che si precipita verso l’ospedale. Sale velocemente le scale, schivando dottori, barelle e qualsiasi ostacolo, recandosi verso la camera 103. Entrato nella stanza trova davanti a sé un dottore con un volto preoccupato e Alfonso ansimante nel lettino. A Nicola vengono comunicate le condizioni dell’anziano e gli viene riferito che presto avrebbe dovuto iniziare la chemioterapia. Il dottore lascia la camera e i due rimasti soli iniziano a parlare tra di loro; Alfonso, che prima sembrava essere completamente ignaro di quello che accadeva intorno a sé, rompe il silenzio: “Solo un principio di polmonite dicevano eh... ma per fortuna i medici sono riusciti a stabilire la mia diagnosi con gli ultimi accertamenti”. Nicola preoccupato gli chiede: “Come ti senti? Cosa ti hanno detto i dottori?” Con fatica il vecchio risponde: “I dottori stanno sempre a parlare, sempre a dire di fare questa operazione, di prendere quella medicina ma sappiamo tutti come andrà a finire… Non lo vogliono ammettere che sono troppo vecchio per guarire.” Nicola contrariato: “Non dire così, i medici hanno scoperto cos’hai, ora devi seguire i loro consigli; inizia la chemio, vedrai che andrà 52


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bene, io ti starò vicino, non sarai solo”. Alfonso scoraggiato: “Non credo che guarirò... domani inizierò la chemio, so che i dottori faranno il possibile, ma... mi raccomando, se le cose non dovessero andare bene resta vicino a Rosa, non ti chiedo altro”. Nicola esce dalla stanza per far riposare Alfonso e varcata la soglia della porta viene fermato dal medico che si occupa di lui, e gli propone un programma di cure a domicilio che gli avrebbe fornito l’assistenza di personale medico e infermieristico. INVERNO Passa un anno, un anno molto lungo soprattutto per Rosa, tutta presa dalle cure del marito. Poi un episodio spiacevole: ad Alfonso in un giorno festivo vengono negate le cure necessarie. Con l’aiuto di Nicola Rosa decide di scrivere alcune lettere all’Azienda sanitaria locale per far valere i diritti del marito malato. Alfonso, ormai costretto a letto, a seguito di tante sofferenze dovute al mancato effetto della chemio e di altre terapie proposte in seguito dai medici, ritrovatosi a parlare con Nicola gli rivela, pur a fatica, l’affetto nei suoi confronti: “Stefano, figl…” ma non riesce a completare la frase. Sotto il cupo cielo invernale, l’ululante vento circonda ogni figura intrappolandola nel suo gelido abbraccio. Tra le lapidi in un silenzio assordante, le persone come nere spighe vacillano di fronte alla muta tomba. Seduta sugli alti gradoni della chiesa con lo sguardo perso, Rosa sembra una candela sopravvissuta alle tenebre, ma la cera non era ancora finita, non era stata del tutto spenta. Forte, troppo forte ed intenso era il dolore. Passati alcuni giorni Nicola chiede a Rosa spiegazioni per le 53


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parole pronunciate da Alfonso in punto di morte. La donna scossa dalla domanda si siede sulla poltrona, un tempo occupata da Alfonso, e comincia a raccontare: “Sono passati quarant’anni da quel giorno e ogni volta che ci ripenso il dolore che mi assale è sempre lo stesso. Avevamo un figlio, Stefano, che all’età di dieci anni è morto in un incidente stradale. Alla guida c’era Alfonso. Abbiamo sofferto molto questa perdita, è stato doloroso e tu sei stato la primavera che dopo un lungo inverno ci ha fatto rinascere. Sei stato come un figlio, e ci hai dato la possibilità di riprovare cosa significa essere genitori”. La donna con gli occhi lucidi guarda Nicola e quasi istintivamente si avvicina per abbracciarlo. “Sai Rosa, dalla morte di Alf mi sono sentito in dovere di fare qualcosa, voglio cominciare ad impegnarmi in modo da riuscire ad aiutare persone che come lui sono malate. Il modo migliore mi sembra quello di entrare a far parte di un’associazione di volontariato”. Rosa accennando un sorriso, il primo da quando era morto suo marito, risponde prontamente “Caro, conosco una ragazza simpaticissima, sempre sorridente. è la figlia di una mia amica e fa parte di un’associazione di volontariato, il suo nome è Eleonora”. Nicola, fiero della propria decisione, dopo qualche settimana entra a far parte di questa associazione, dove conosce Eleonora, la ragazza per cui Rosa aveva speso bellissime parole. L’associazione si occupava di fornire informazioni alle famiglie di malati non autosufficienti per formulare le richieste all’Azienda sanitaria locale sulla base delle norme di legge, che riconoscono i diritti per la tutela della salute di questi malati.

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PRIMAVERA (10 anni dopo) Nicola in piedi all’altare di una chiesa, molto agitato, sposta il peso prima sul piede destro, poi su quello sinistro; sta aspettando Eleonora, la donna che di lì a poco sarebbe diventata sua moglie. Nel cielo blu zaffiro le appena giunte rondini tagliano soffici nuvole trasportate da un vento leggiadro che volteggia qua e là su petali di accesi fiori. Passano alcuni mesi dal loro matrimonio. Nel frattempo Nicola è diventato oncologo, ma continua a dare il suo contributo come volontario all’associazione per la tutela dei diritti dei malati non autosufficienti. Sua moglie però si è ammalata, di quella stessa malattia che aveva colpito e portato via Alfonso, la leucemia. Data la sua giovane età le cure sono riuscite ad avere un riscontro positivo. Eleonora viene inserita in lista d’attesa per un trapianto di midollo osseo. Dopo un anno il trapianto. Infine la guarigione. Nicola nel difficile percorso di Eleonora non ha mai smesso di starle accanto, proprio come aveva fatto con Alfonso. ESTATE Mentre soffia un leggero vento e il grande sole lento si appisola specchiandosi sull’acqua, le ombre cominciano a profilarsi silenziose, due figure sedute su una vecchia panchina si abbracciano strette di fronte al roseo dipinto del tramonto. Gregorio Ceccagnoli Chiara Franceschini Alessandra Fusco Luisa Pecetti 55


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IL FUMO DELLA VECCHIAIA γηράσκω δ’ αἰεὶ πολλὰ διδασκόμενος Con l’invecchiare apprendo ancora molte cose (Solone, Fr. 18 W.) Marcello De Silvio stava tornando a casa dal bar, come ogni giorno, fumando la sua solita sigaretta che gli avrebbe provocato un tossire continuo prima di prendere sonno. Settantaquattro anni, noto barbiere di Bari andato in pensione da otto, fumatore accanito da circa quaranta, Marcello era sposato con Maria e padre di tre figli: il più grande, Giulio, viveva a Hall, in Austria, ormai da quindici anni ed era un biologo. Il secondo, Matteo, aveva finalmente trovato di recente un lavoro a Padova come muratore ed era in prova; infine Eleonora lavorava come modella per delle note marche parigine. Era da poco sorto il sole e ben presto si fece pienamente mattino. Marcello già aveva acceso la sua prima sigaretta e nonostante fosse consapevole che tutto quel fumo non gli avrebbe giovato, si immaginava il momento, molto vicino, in cui non avrebbe più potuto avvertire il calore del sole sul suo volto solcato dalle rughe. Verso mezzogiorno, mentre Maria stava preparando le sue speciali orecchiette al pomodoro, Marcello cominciò ad avere una strana sensazione: iniziò a girargli la testa e a percepire un forte dolore al capo. Improvvisamente si ritrovò a terra, senza neanche capire come gli fosse successo; Maria, alla vista di quanto accaduto, si sentì svenire e le parve che il mondo le stesse crollando addosso. Allarmata, subito chiamò l’ambulanza che portò Marcello nell’ospedale più 56


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vicino. Una volta arrivati, Maria, preoccupatissima per suo marito, raggiunse il medico del pronto soccorso, il quale le diede quella notizia da lei tanto temuta. “Signora De Silvio?” disse il dottor Roberti. “Sì, mi dica” rispose Maria. “Devo comunicarle a malincuore che suo marito ha appena avuto un ictus, che gli ha provocato una paralisi di tutta la parte destra del corpo a cui si associa la sua bronchite cronica da fumatore”. Nel sentire queste parole Maria scoppiò in lacrime, e tra un singhiozzo e l’altro, ripensò a ciò che dieci anni prima era successo alla madre Paola. Anche lei, infatti, aveva avuto un ictus che l’aveva portata alla morte poco tempo dopo. Il dottor Roberti, vedendo la signora in quello stato, cercò di rincuorarla e concluse: “Signora, non si preoccupi, terremo suo marito qui in ospedale una settimana. Gli infermieri si prenderanno cura di lui; sarà seguito anche da un fisioterapista e da una logopedista. Poi predisporremo un programma terapeutico da seguire quando suo marito tornerà a casa. Il programma prevede anche fisioterapia e logopedia tre volte alla settimana presso il centro di recupero funzionale dell’Azienda sanitaria locale. La situazione di suo marito è ancora recuperabile e non troppo critica, ma dovrà assisterlo una volta lasciato l’ospedale”. Una settimana di ricovero? Non era assolutamente sufficiente! – pensò Maria, preoccupandosi ancora di più, nella consapevolezza di tutte le difficoltà che avrebbe incontrato dopo averlo riportato a casa, in particolare l’inadeguatezza ad assisterlo da sola. Chiese allora al medico di fare in modo che Marcello continuasse ad essere curato in ospedale o trasferito in un’altra struttura sanitaria che si prendesse tutte le responsabilità sul suo stato di salute e lo 57


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monitorasse costantemente. Il medico però le comunicò che non era possibile farlo restare in ospedale, né trasferirlo in altre strutture, perché non c’erano posti letto disponibili. Tuttavia consigliò a Maria di fare richiesta all’Azienda sanitaria locale per un ricovero in una Residenza sanitaria. Dopo l’ictus del marito, Maria si recava tutti i giorni in ospedale, passando ore ed ore a fissare quelle mura entro cui si affollavano così tanti pazienti, tra ambulatori e sale d’attesa; la casa, invece, era ormai diventata grande e vuota da quando non c’era più Marcello. Maria si sentiva sempre più sola con il marito in ospedale, due dei suoi figli all’estero e uno ancora in cerca di un lavoro stabile. Maria era casalinga e viveva della pensione del marito, e ora pensava a come poter usare quei soldi in maniera utile, per trovare qualcuno che lo assistesse e le alleviasse parte del carico di lavoro che purtroppo la malattia del marito ora comportava. Quella sera decise di chiamare tutti e tre i figli per informarli della grave situazione in cui si trovavano. Eleonora, la più affezionata al padre, rispose non appena il suo telefono squillò, mentre lo schermo illuminato indicava la parola “mamma” con una bella foto di Maria sorridente sullo sfondo. In genere la mamma non chiamava mai i suoi figli, in quanto sapeva che tutti avevano i propri impegni; infatti Eleonora capì subito che si trattava di qualcosa di serio. La mamma al telefono la informò di quanto era accaduto e delle difficoltà economiche per assicurargli le giuste cure. Eleonora cominciò a piangere, cercando di trattenere i singhiozzi e di asciugarsi le lacrime. Dopo un po’ di silenzio, 58


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riprese a parlare e spiegò alla madre che dalla Francia sarebbe dovuta partire per un tour in America. Poiché il papà non si trovava in pericolo di vita, promise che dall’impegno che la obbligava al di là dell’oceano sarebbe tornata il prima possibile. Poi Maria si affrettò a chiamare anche Giulio, al quale comunicò con tono ansioso la notizia dell’ictus che aveva colpito il padre e chiedendogli di andarlo a trovare appena possibile. Anche Giulio cercò di tranquillizzare la mamma e le promise che sarebbe corso dai genitori non appena finito il programma di studio con scadenze improrogabili. A Maria non restò che chiamare l’ultimo dei suoi figli, Matteo, al quale chiese nuovamente sostegno e conforto con la sua presenza. Il ragazzo, dispiaciuto nel sentire le cattive notizie, mise al corrente la madre delle piccole ma belle novità della sua vita: aveva superato il periodo di prova e aveva finalmente un lavoro fisso, dal quale in quei primi tempi era difficile essere esonerato. Infine le diede anche il consiglio di chiamare il dottor Bellini, medico di famiglia, che, sempre gentilissimo con tutti, avrebbe dato senz’altro un aiuto e un supporto per le prestazioni a cui il papà aveva diritto. Maria era psicologicamente distrutta: dopo lo spavento per tutto ciò che era successo al povero Marcello, dopo le frenetiche giornate in ospedale, all’ansia per le condizioni del marito si era aggiunta la delusione per l’atteggiamento dei figli: da una parte la irritava il pensiero di aver dato tanto per loro, di aver fatto tanti sacrifici per crescerli e di vedere in loro un atteggiamento di indifferenza ed egoismo nella priorità che davano al lavoro, dall’altra però li giustificava, immaginando quella vita piena di impegni e di scadenze 59


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che a volte non danno respiro. Però l’ultimo figlio con cui aveva parlato le aveva dato una buona idea. Maria chiamò il medico di base e, preso un appuntamento per l’indomani, si precipitò nel suo ambulatorio. Il dottor Bellini era una persona estremamente scrupolosa e disponibile, sempre lì con la sala d’aspetto piena zeppa di pazienti fino a tarda ora. Faceva un sacco di straordinari e per Maria arrivò con un largo anticipo. Il medico la tranquillizzò molto, le spiegò per filo e per segno tutti i passi necessari da compiere nelle procedure di richiesta delle prestazioni a cui il marito aveva diritto, e si rese disponibile a visitarlo a domicilio non appena fosse tornato dall’ospedale. Il mattino seguente l’aria era tersa e limpida, un po’ frizzante, ma già intiepidita dal sole: era una di quelle giornate che non potevano non suscitare buonumore tra i passanti, che si salutavano con il sorriso sulle labbra, e la città stessa, brulicante di gente, emanava l’energia e l’entusiasmo dei suoi abitanti. Maria, però, non riusciva a godere quella serenità; sospirava per le sue preoccupazioni, si sentiva triste e sola. Ma forse quel cielo azzurro e quel sole splendente alla fine dettero anche a lei la forza di reagire: si recò di buon mattino al Distretto sociosanitario dell’Asl per fare la richiesta di ricovero di suo marito in una Rsa, come il dottore le aveva detto di fare. Maria entrò in questo edificio e le parve ancora più freddo dell’ospedale in cui era ricoverato Marcello. Era un posto piccolo, poco colorato e molto cupo. I suoi pensieri vennero interrotti nel momento in cui un operatore le andò incontro. 60


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“Posso aiutarla?” disse. “Sì grazie, vorrei fare la richiesta per far entrare mio marito in una Residenza Sanitaria Assistenziale locale” rispose Maria. “Prima di tutto occorre che suo marito sia sottoposto alla visita dell’unità valutativa geriatrica. Ecco il modulo della richiesta da compilare per la visita. Successivamente il medico responsabile dell’unità valutativa le rilascerà la certificazione di non autosufficienza e suo marito sarà inserito nella lista di attesa per il ricovero in Rsa” - concluse l’operatore del Distretto sociosanitario. Maria allora annuì e, tenendo in mano il modulo della richiesta da compilare, uscì dall’edificio in fretta, poiché quel posto non le piaceva affatto. Tuttavia mentre camminava velocemente per tornare a casa andò a urtare contro un’altra signora più o meno della sua età. “Mi scusi tanto, signora, non l’avevo proprio vista” disse Maria. “Non si preoccupi, nessun problema, Mi sbaglio o lei è appena uscita da quell’edificio?” ribatté l’altra. “Esatto, perché me lo chiede?” “Perché suppongo che sia stata a fare la richiesta per il ricovero in Rsa”. “Sì, lei ne sa qualcosa?” “Eh, diciamo di sì. Mio marito non è più autosufficiente da circa cinque anni. All’epoca feci subito richiesta per il ricovero in Rsa ma lo inserirono in lista di attesa. Da allora sta ancora aspettando di essere chiamato”. Allora Maria, interessata, chiese ancora: “Perché? Mi può spiegare meglio?” “Queste liste sono solo vaghe illusioni per raggiungere un 61


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posto che in realtà non arriverà mai. Solo le persone molto facoltose riescono a ricoverare i propri malati in strutture private adeguate; infatti io che non ho molti soldi mi ritrovo ad occuparmi da sola di mio marito”. Nel sentire queste parole, Maria sentì crescere dentro di sé un grande sconforto, poiché, non essendo benestante, si sarebbe trovata in difficoltà. Doveva assolutamente tornare a parlare con il dottor Bellini, le cui informazioni erano state chiare e precise, e in fondo non proprio così catastrofiche come la signora le aveva dipinte. “Mi dispiace per lei, mi trovo nella sua stessa situazione e non so come fare; ora la devo salutare, grazie delle informazioni, arrivederci!” Senza rendersene conto, arrivò l’inatteso giorno delle dimissioni del marito dall’ospedale e Maria si fece forza e cercò di trovare una soluzione perlomeno temporanea. Inizialmente, l’unica strada possibile sembrò quella di una badante che avrebbe dovuto assistere Marcello solo la mattina, in quanto Maria non poteva permettersi di farla lavorare tutto il giorno. Si andò ad informare, e fra tante persone che offrivano il servizio, ne riuscì a trovare una qualificata, ma allo stesso tempo meno costosa; si chiamava Liliana, una donna possente e robusta, sui cinquant’anni, di origini rumene, che a prima vista le sembrò cordiale e adatta a prendersi cura del marito. Così decise di assumerla. Il giorno seguente Liliana si recò dalla famiglia De Silvio. Maria, facendosi aiutare da Liliana che guidava l’automobile, incominciò ad accompagnare Marcello a fare fisioterapia e logopedia presso il centro di recupero funzionale dell’Asl. Ma dopo una settimana Marcello si aggravò: aveva la feb62


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bre alta, tosse e una crisi respiratoria. Maria chiamò subito l’ambulanza e Marcello venne nuovamente ricoverato d’urgenza in ospedale. L’aggravarsi dello stato di salute di Marcello si accompagnava ad un parallelo esaurimento psicofisico di Maria che pensava alle difficoltà di tutela del marito quando l’ospedale le avrebbe comunicato di nuovo la dimissione. La notte non riusciva a chiudere occhio. Era arrivata al limite, aveva davvero toccato il fondo. La situazione che le si presentò la lasciò senza forze e stavolta la sua reazione la portò in una direzione sbagliata. Un giorno, mentre era in salotto, rivide una vecchia foto che raffigurava lei, Marcello e tutti i loro figli; sorridevano, nel parco dove erano andati per quella scampagnata. Le tornarono in mente alcuni ricordi di quando erano uniti. Non poteva sopportare questa situazione, con un marito sul letto d’ospedale e i suoi figli lontani, che presi ancora dal lavoro e dagli impegni, tardavano ad arrivare, nonostante avessero promesso di tornare, seppur temporaneamente, a casa. Trovò anche del cognac nella credenza: non beveva quasi mai, ma nell’angoscia decise di prenderne un bicchierino. A stomaco vuoto fece subito effetto, cominciò a sentire dei giramenti di testa, e per dimenticare tutte le ansie, ne bevve ancora: sorsi abbondanti che alla fine le fecero quasi perdere la coscienza. Sul tavolino accanto, c’erano ancora i sonniferi che Marcello prendeva a giorni alterni. Nella totale mancanza di lucidità in cui ormai si trovava, non pensò alle conseguenze pericolosissime di quella combinazione: voleva dormire, cancellare per un momento quel senso di disperazione e chissà quante pillole alla fine ingoiò con il cognac. Ma fece in tempo a raggiungere 63


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la camera: in pigiama entrò nel letto e si mise a dormire e… cadde in un sonno eterno. Il giorno seguente Giulio arrivò a casa: la madre però non rispondeva alle chiamate; quando, preoccupato, entrò, la trovò sdraiata sul letto, e subito si rese conto che non c’era più niente da fare. Chiamò immediatamente i fratelli, che sconvolti si affrettarono a tornare a casa. Solo in quel momento, dinanzi al corpo senza vita della loro mamma, tutti e tre capirono quanto fosse vano affannarsi per le piccole faccende quotidiane, quanto fosse inutile stressarsi per quegli impegni lavorativi che sembrano improrogabili, e quanto insignificanti fossero i successi cui tanto aspiravano, trascurando gli affetti, i sentimenti, l’amore dei loro genitori. Giulio corse in ospedale dal padre, ma decise di tacergli inizialmente la triste notizia. Parlò subito con il dottor Roberti per sapere le condizioni del padre; il dottore fu breve e chiaro: il signor Marcello stava migliorando e presto lo avrebbero dimesso. Giulio si rese conto che non avrebbe potuto garantire le cure sanitarie di cui il padre aveva bisogno. Parlò nuovamente anche con il dottor Bellini, che aveva partecipato al funerale della madre e aveva avuto modo di raccontargli come avesse cercato, insieme alla signora Maria, di fare richiesta per un ricovero in una Rsa, soluzione che, ahimè, non aveva avuto alcun esito. Ma Giulio, dedicando adesso una parte del suo tempo al papà, tenacemente, insistette: si informò sulle leggi per la tutela di persone anziane non sufficienti; attraverso un suo amico, nella sua stessa situazione, ebbe in mano un 64


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dépliant di informazioni di un’associazione di volontariato impegnata a promuovere i diritti dei malati non autosufficienti e a informare i familiari su come era possibile difenderli in base alla legge. Avvalendosi di queste informazioni, in seguito decise di scrivere una lettera di opposizione alle dimissioni ospedaliere, indirizzandola ai direttori dell’ospedale e dell’Azienda sanitaria locale, riuscendo ad ottenere la continuità delle cure residenziali presso una Rsa evitando i lunghi tempi d’attesa. La trafila fu lunga e penosa, ma alla fine la determinazione di Giulio ebbe i risultati tanto attesi. Nel frattempo i due fratelli si erano trasferiti a Bari. Eleonora non abbandonò il suo lavoro di modella, ma cercò di conciliarlo con le esigenze della famiglia. Matteo fondò un’associazione per la difesa dei diritti delle persone anziane non autosufficienti, si impegnò a promuovere iniziative contro le lunghe liste d’attesa e a fornire ai familiari dei malati le informazioni utili per ottenere dall’Azienda sanitaria locale la continuità delle cure dovute. Maria era stata una donna forte, desiderosa di aiutare il marito: chissà, se avesse ricevuto le giuste informazioni per tutelarlo, avrebbe compreso che c’era una soluzione al problema, che poteva ottenere la continuità delle cure per Marcello, e forse non sarebbe caduta in quel grave stato di depressione che l’aveva portata a morire. Quando ormai non c’era più nulla da fare, i figli l’avevano compianta provando un dolore sincero, profondo, che riportava un po’ di lucidità sulla loro vita obnubilata dalle piccole beghe della routine giornaliera che li tenevano continuamente indaffarati. Alla fine, si erano ben resi conto della grandezza dell’amo65


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re dei genitori e di quanto fosse importante l’impegno a tutelare il diritto alla salute dei loro cari. Valentina Negri Riccardo Regni Giorgia Sfodera Cecilia Tozzuolo

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DOVE I SOLDI NON ARRIVANO οὐδέ τίς ἐστιν / ἀνθρώπων ᾧ Ζεὺς μὴ κακὰ πολλὰ διδοῖ Non esiste alcun mortale cui Zeus non dia molti mali (Mimnermo, fr. 2 West) “Alla nostra salute, Ivana!” Così Silvio, settantenne milionario, brindava con la sua nuova compagna nel suo sfarzoso attico nel centro di Milano. Avevano appena comprato l’ultimo modello della Bentley e stavano per partire per i Caraibi. “Non provo nemmeno a chiamare Mario, quello scansafatiche che non fa altro che criticarmi dopo l’inizio della nostra relazione. Fra lui e Luigi, non so chi mi odi di più.” Mario e Luigi erano i figli di Silvio, avuti dalla precedente moglie, morta da qualche anno a causa di un infarto. Dopo ciò, Silvio aveva conosciuto Ivana e si era completamente lasciato sopraffare dal denaro, poiché da ricco imprenditore quale era poteva permettersi grandi lussi. I figli non avevano reagito bene alla nuova relazione, ritenendo Ivana responsabile del cambiamento del padre, ed avevano così reciso completamente i contatti con lui. Silvio era un uomo alto e magro, con gli occhi castani e un naso molto pronunciato; le rughe che gli solcavano il viso erano il segno evidente della vecchiaia, insieme ai pochi capelli canuti sulla testa. Nonostante la sua età, aveva un carattere forte e autoritario, era facilmente irascibile e un po’ scontroso. La moglie era stata per lui un punto di riferimento e, dopo la sua scomparsa, Silvio si era dato completamente alla vita mondana. Quella notte Silvio accusò molti crampi e una forte debo67


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lezza agli arti. La mattina seguente decise di rivolgersi al suo medico curante che lo tranquillizzò dicendogli che era un classico effetto della sua vita smodata. Tornò a casa rasserenato grazie al responso del dottore; anche Ivana tirò un sospiro di sollievo: “Per fortuna non dobbiamo rimandare il nostro viaggio ai Caraibi, sarebbe stata una sfortuna rinunciare a quel paradiso. Ovviamente sono anche contenta che tu stia bene!” Silvio si sentiva quasi onnipotente con tutto il suo denaro: “Ma cosa mi potrà mai succedere? E se anche stessi male, riceverei le migliori cure!” Il pomeriggio stesso, i due si imbarcarono nel loro jet privato, diretti verso le Isole Cayman. Già dal finestrino dell’aereo potevano vedere il paesaggio: acque cristalline, vegetazione esotica e meravigliosi hotel. Trascorsero dieci giorni all’insegna del lusso e del divertimento; passavano giornate intere su uno yacht girando per le piccole isole caraibiche; tuttavia, tra feste ed escursioni, Silvio continuava ad avvertire, con una progressiva intensificazione, i dolori muscolari della notte prima della partenza. Nonostante ciò, non diede molta importanza a questi sintomi e li soffocò con antidolorifici consigliati da Ivana. Tutto procedeva come sempre e Silvio non era minimamente allarmato dalla sua condizione fisica. Non potevano immaginare cosa sarebbe successo. Una volta tornato a Milano, Silvio riprese la sua vita con gli affari che fruttavano sempre più denaro, ma con l’invisibile malattia che progrediva. Tre mesi dopo, i dolori divennero insopportabili e Silvio si ritrovò in quella stessa sala in cui tempo prima era stato rassicurato proprio dal medesimo medico, il quale ora, ri68


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scontrando rigidità e contrazioni muscolari, gli consigliò di farsi visitare da un neurologo. Silvio non aveva mai fatto una visita neurologica e ciò lo spaventava molto. Lo studio era completamente bianco, freddo e l’atmosfera non era affatto accogliente. Gli si presentò il neurologo, un uomo di piccola statura, con una cartella clinica in mano: “Salve, lei deve essere il signor De Giorgi, mi ha chiamato il suo medico per farle un esame clinico.” “Sì sono io, piacere. Il dottore non mi sembrava molto preoccupato, quindi sbrighiamoci a svolgere queste formalità.” Il neurologo lo accompagnò al macchinario per effettuare quell’esame, infine lesse i dati e aggiunse: “Forse dovremo fare ulteriori accertamenti. Le farò sapere”. Da quel momento iniziò un vero e proprio calvario. A Silvio venne diagnosticata la Sla, una terribile malattia degenerativa che colpisce le cellule adibite al movimento dei muscoli. Non se lo sarebbe mai aspettato, pensava che i suoi soldi avrebbero potuto garantirgli una vita perfetta, senza alcun tipo di problema. La sua malattia era inguaribile, non esistevano farmaci per farla regredire completamente, ma con il monitoraggio clinico e le cure si poteva rallentare il decorso degenerativo, prevenire complicanze e prolungare il periodo di vita. Silvio era disperato, condannato ad una sedia a rotelle. Ivana, consapevole della situazione del compagno, rivelò un’insensibilità e un cinismo senza pari: quello di una giovane donna che, pur di vivere nel lusso e negli agi, si accompagna ad un uomo anziano, ricco, senza provare per lui alcun autentico affetto: proprio nel momento in cui lui aveva più bisogno, lei si allontanò sempre più. Non era passato molto tempo dal momento in cui Silvio era rimasto immobiliz69


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zato sulla sedia a rotelle che i due arrivarono ad una rottura definitiva. Distrutto e affranto anche per la fine di questa relazione, Silvio ebbe un aggravarsi della malattia, e attese l’arrivo del suo autista, che lo portò in ospedale. Appena arrivato, Silvio poté rendersi conto della situazione sanitaria presente in Italia; in sala d’attesa vide un uomo poco più anziano di lui, che pareva gravemente malato. “Anche lei qui?” disse l’uomo. “Per cosa?” controbatté Silvio. “Lo sappiamo entrambi per cosa; mi chiamo Riccardo, piacere.” “Piacere, Silvio.” “Non sembri così malandato, la malattia non ti ha molto indebolito; a me, invece, ha portato via tutto: famiglia, soldi, dignità” . “Fortunatamente posso permettermi una buona casa di cura” . “Io aspetto da circa un anno e ancora sono molto lontano dal ricevere delle cure; sono riuscito a pagare per pochi mesi una casa di cura di quarta fascia, ma era un inferno: cure non adeguate, servizi insufficienti, un disastro! Ho scoperto solo adesso che attraverso una richiesta scritta avrei potuto avere un posto, ma oramai per me non c’è più nulla da fare. Ora devo andare in ambulatorio per un controllo, arrivederci”. Silvio, sorpreso dalle parole di Riccardo, e continuando a riflettere, attese il suo turno. “Quanto mi resta da vivere, dottore?” chiese Silvio. “Sicuramente più di un anno, i farmaci la aiuteranno.” “Mi terrete qui?” 70


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“No, le liste di attesa sono chilometriche; la dimetteremo a breve, passata questa prima fase acuta”. Qualche giorno dopo, di ritorno dall’ospedale, provò invano a telefonare ai figli, che ignoravano le sue chiamate serbando ancora rancore verso il padre e non potendo immaginare una disgrazia simile. Abbandonato da tutti non sapeva più a chi affidarsi, viveva da solo e la malattia peggiorava ulteriormente. Era disinformato sui suoi diritti di malato e non sapeva a chi rivolgersi. Caduto in una forte depressione e non sapendo più nemmeno trarre alcuna gratificazione dai suoi soldi, ottenne l’accesso in una casa di cura privata molto costosa e rinomata. Gli ottimi servizi e l’alloggio nella struttura avevano un costo base di circa diecimila euro mensili, ma la cosa non lo impensieriva più di tanto. “Nella mia sfortuna mi ritengo fortunato, poiché posso permettermi di ricevere cure e servizi adeguati in una clinica privata; ma le persone malate che non hanno le mie stesse possibilità economiche, come riescono a condurre una vita dignitosa? Da ciò che mi ha detto il medico, le liste di attesa per ricevere le cure sociosanitarie in una Rsa sono infinite... Mi piacerebbe informarmi meglio sui nostri diritti sanitari, perché non è ammissibile dover aspettare tanto tempo per ottenere ciò che ci spetta” – pensava fra sé. Dopo circa sei mesi di permanenza nella clinica, Silvio era abbattuto e non riusciva più a controllare i suoi movimenti. I servizi primari erano buoni, ma la sua voglia di vivere diminuiva sempre di più: era lontano dai suoi affetti, malato, non autosufficiente e dipendeva completamente da persone sconosciute che si limitavano a mantenerlo in vita. Non 71


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viveva, sopravviveva. Non era più in grado di occuparsi del suo lavoro, non poteva più beneficiare come prima dei suoi soldi e si era addirittura dimenticato dei figli. Tutti questi fattori lo portarono ad una drastica decisione: l’eutanasia attiva diretta. Questa consisteva nella somministrazione di un farmaco che provocava la morte, pratica che in Italia era appena stata legalizzata; infatti Silvio sarebbe stato uno dei primi a usufruirne. La notizia fece un grande scalpore in tutto il Paese, tanto da attirare l’attenzione dei giornali nazionali, che dedicarono tutte le prime pagine a questa vicenda. Quando Mario, il figlio minore di Silvio, lesse sul giornale la notizia, rimase scioccato e contattò immediatamente il fratello. “Luigi, hai letto il giornale? Ormai ne parlano tutti, il papà...” “Ho visto il telegiornale, non me lo sarei mai aspettato, conoscendolo. Dobbiamo assolutamente fare qualcosa! Si è comportato molto male, ma dopo tutto è sempre nostro padre. E noi non abbiamo mai voluto rispondergli, nemmeno una volta!” I due si incontrarono e andarono alla clinica dove era assistito il padre, che stava concludendo le pratiche per conseguire l’eutanasia. “Qual è la stanza del signor De Giorgi?” Un assistente chiese: “Scusate, chi siete voi?” “Siamo i suoi figli! Diteci dov’è nostro padre!” “Non sapevamo avesse dei figli, non ci ha mai parlato di voi” “Adesso non c’è tempo per le chiacchiere, vogliamo incontrarlo”. “Vedo cosa posso fare... Sta ultimando a fatica le ultime pratiche”. I fratelli si precipitarono freneticamente a cercare il padre; 72


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lo trovarono nella sua stanza all’ultimo piano, immobilizzato e sofferente sul letto: era irriconoscibile. “Papà, cosa ti è successo?” esclamarono i figli. “Da quanto tempo ti trovi in questa condizione?” aggiunse preoccupato Luigi. “Ora… Oramai non pensavo che vi avrei più visto” balbettò il padre, sbigottito da quella apparizione improvvisa. Dopo qualche minuto, Mario e Luigi uscirono dalla stanza per confrontarsi. “È diventato pazzo! Si vuole ammazzare!” esclamò Luigi “In queste condizioni non ha tutti i torti... -replicò Mario con tono stizzito- ormai non ci sono possibilità di guarigione per papà e restare in vita per lui sarebbe solo una grande sofferenza”. “Ancora gli rimangono due anni, secondo i medici; anche se la morte è inevitabile, le cure possono alleviare i suoi dolori e prolungare l’aspettativa di vita...”, disse Luigi cercando di convincere il fratello Mario a non appoggiare la scelta del padre. “La sua morte eliminerebbe ulteriori sofferenze e poi l’eutanasia è stata appena legalizzata in Italia. Non dovremmo nemmeno portarlo in altri Paesi” disse Mario. Il fratello replicò: “Mario, non siamo stati con lui per tutti questi anni; ora che è in difficoltà e sta trascorrendo gli ultimi momenti della sua vita, dobbiamo lasciarci alle spalle il passato e stargli vicino, perché nonostante gli errori che ha commesso è sempre nostro padre”. “Forse hai ragione, sto sbagliando e sto guardando solo il lato concreto della situazione”. Entrando nella stanza, Luigi prese i fascicoli che stava compilando il padre, e: “Cosa stai facendo?! Quei fascicoli 73


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mi servono. È un mio diritto scegliere cosa fare della mia vita!” – balbettò nuovamente Silvio. “Papà, sappiamo di aver sbagliato, di non esserci occupati di te, ma ora siamo qui, cerchiamo di superare il passato. Adesso che non sei più autosufficiente, lascia che ti aiutiamo noi.” Il padre, parlando a fatica, perché impedito dalla malattia, si calmò: “Siete… siete i miei figli e io come padre, sono il primo che deve scusarsi perché dopo la morte di vostra madre mi sono comportato in modo sconsiderato, soprattutto nei vostri confronti. Grazie, ragazzi, di esserci. La vostra presenza e l’affetto sincero che mi state dimostrando mi fanno riconsiderare questa scelta, che ormai consideravo definitiva; mi siete rimasti solo voi, e vi sarei davvero grato se vi prendeste cura di me per il poco tempo che mi rimane”. Mario lo abbracciò stretto e Luigi, appoggiandogli affettuosamente una mano sulla spalla, disse: “Torniamo a casa papà, riusciremo a ottenere le cure sanitarie domiciliari e ti daremo tutto ciò che serve”. Silvio trascorse il suo ultimo anno di vita con serenità, con un’ottima assistenza medica e infermieristica domiciliare fornita dall’Azienda sanitaria locale; un fisioterapista e un logopedista lo assistevano e c’era sempre uno dei due figli a fargli compagnia e ad accudirlo. Riuscì così a riscoprire anche quei valori della vita che vanno oltre il denaro e i beni materiali, una dimensione che aveva completamente dimenticato, prima a causa della perdita della moglie e in seguito con l’avvento della malattia. Inoltre, chiese ai figli di aiutarlo ad informarsi sulla situazione dei malati non autosufficienti e si rese conto di quanto i diritti alle cure dei malati, in condizioni simili alle sue, fossero spesso negati. 74


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Silvio volle promuovere petizioni alle istituzioni pubbliche, dandosi molto da fare a diffondere informazioni utili sulla difesa dei diritti dei malati cronici non autosufficienti per ottenere dalle Aziende sanitarie locali la continuità delle cure. Investì gran parte del suo patrimonio per fondare un’associazione di promozione sociale a cui si affidarono molte centinaia di cittadini. Il 20 settembre del 2047, il giorno della sua morte, i giornali scrivevano la sua storia, un esempio per tutti coloro che, colti dalla disperazione, decidono di intraprendere la strada dell’eutanasia. Al fondo, la sua vicenda dimostrava a tutti due aspetti importanti: oltre a ricevere le cure a cui ha diritto, per la tutela della sua salute, ogni malato non autosufficiente, Silvio aveva ricevuto infine anche un affetto sincero, l’amore disinteressato dei propri figli, un’altra importante realtà, a cui ognuno di noi, di qualsiasi ceto sociale, sesso o età, si può affidare. Riccardo Campana Vittoria D’Alessandro Francesco Dean Camilla Mastrolia

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L’ULTIMO TRENO Chi non ha casa e non ha letto / si rifugia in sala d’aspetto. [...] Non trova lavoro, non ha tetto, di sera torna in sala d’aspetto. (Gianni Rodari, La sala d’aspetto) 6.37 del mattino. Gli uccelli cinguettavano ma non furono loro a svegliare Vittorio. Passò il primo treno, puntualmente in ritardo. Quel povero senza tetto, abbandonato a se stesso, aprì gli occhi. Il gelido e duro pavimento della stazione tremava con il continuo flusso dei passeggeri. I volti ignoti dei viaggiatori scivolavano sull’immagine di Vittorio steso su una panchina. Coperte, scatoloni e una ventiquattrore logorata erano i suoi pochi averi che stava raccogliendo per affrontare un’altra giornata. L’unica cosa significativa per lui era un vecchio libro, ormai senza copertina, comprato durante i suoi studi, l’ultimo simbolo della sua precedente vita, ormai sfumata. A chilometri da lì si stava alzando Andrea Torinesi, un giovane laureato da poco in lettere, con tanti sogni e speranze. A destarlo non era di certo il violento frastuono di un treno, bensì la sveglia del cellulare che, come ogni giorno, suonava alle 7 in punto. Caffè, brioche con il cioccolato e un’occhiata veloce alla gazzetta per partire con il piede giusto. Il telefono si illuminò mostrando, come al solito, il buongiorno da parte di sua sorella. Dopo essersi vestito, Andrea uscì velocemente di casa e si diresse verso la stazione e, essendo in netto anticipo, non perse l’occasione per discutere con dei ragazzi della partita del giorno precedente. Terminata la discussione, i giovani si allontanarono. Solo pochi metri separavano Vittorio da Andrea 76


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e, in pochi secondi, questa distanza venne colmata da un fiume di persone; ciò nonostante, lo sguardo di Andrea era attratto dal povero Vittorio ignorato da quella moltitudine di gente. Avanzò un passo alla volta, facendosi strada in mezzo a quel flusso vorticoso. Il giovane si avvicinava con un’espressione enigmatica, un sorriso accennato con un pizzico di curiosità che lo distingueva dagli altri passeggeri. Il ragazzo, infatti, notava in lui una certa somiglianza con il padre ormai scomparso e scrutava con una certa intensità quel volto, a cercare, dietro quella fisionomia, l’immagine familiare. Andrea lasciò una modesta offerta sulla coperta del vecchio continuando a guardarlo negli occhi e con un’espressione dolce e compassionevole. Vittorio, sorpreso dal gesto, lo ringraziò, e incuriosito dallo sguardo del giovane, quella volta continuò: “Come ti chiami?” “Mi chiamo Andrea Torinesi, mi sono trasferito qui da poco, non sono molto pratico della zona. Mi sa dire per caso a che ora passa il treno che si dirige verso l’ufficio editoriale?” “Beh, il treno dovrebbe passare sul binario 5 tra circa 30 minuti. Nel frattempo se vuoi puoi restare a farmi compagnia, sembri un bravo ragazzo”. Andrea si sedette accanto al vecchio e i due iniziarono a colloquiare. Il giovane spiegò all’uomo di essersi da poco laureato e di scrivere per lavoro. “I libri mi sono sempre piaciuti fin da piccolo”. Trovarono subito una passione in comune: “Ti piace scrivere, eh? Anch’io sono un appassionato di libri; purtroppo però me ne rimane solo uno”. Arrivò il treno e Andrea andò al lavoro salutando con un cenno la nuova conoscenza. 77


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Giorno dopo giorno continuarono a incontrarsi ed entrarono l’uno nel quotidiano dell’altro. Ci fu un giorno, però, in cui quella panchina era vuota. Andrea si sorprese della sua assenza ed entrò nel treno dispiaciuto, sperando di vederlo il giorno successivo. Dopo quasi una settimana il giovane, entrando nella stazione ferroviaria, vide Vittorio appoggiato alla solita panchina, intento a racimolare qualche soldo. Andrea si avvicinò chiedendogli cosa fosse successo. Vittorio gli raccontò tra un colpo di tosse ed un altro del breve periodo passato in ospedale e di ciò che lo aveva causato. Iniziò dal principio: “Quando ero giovane il mio unico pensiero era lo studio, affiancato al lavoro; trascuravo la mia famiglia e la mia vita privata, continuando a star piegato sui libri. Per questo venni abbandonato da tutti, ma almeno mi rimaneva la mia professione. Ero docente universitario a contratto e spendevo ogni mia giornata tra aula e biblioteca. Un giorno, quattro anni fa, durante una lezione, mi sentii male e, portato all’ospedale, scoprii di essere affetto da fibrosi polmonare idiopatica, una rara malattia dei polmoni. È una malattia degenerativa non guaribile, ma solo curabile con metodi ancora non molto efficaci. Il primo sintomo è il riempimento dei polmoni con tessuto cicatriziale, che comporta una scarsa ossigenazione, aumentando il rischio di insufficienza respiratoria; perciò è importante che io resti sotto controllo, non solo per tenere in osservazione il progredire della malattia che, pur essendo difficilmente guaribile, può essere rallentata, ma anche perché questa malattia può avere dei picchi che inducono alla carenza di ossigeno particolarmente acuti. Ero terrorizzato: i miei parenti non si preoccuparono affatto della mia malattia e lasciarono 78


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che mi ricoverassi senza il supporto di alcun familiare. I ricoveri all’ospedale però non erano sufficienti: dopo pochi giorni, venni dimesso ed ebbi una nuova ricaduta che mi allontanò nuovamente dal lavoro. Mi sentivo abbandonato dalla mia famiglia, anche se non li biasimo più di tanto dato il mio comportamento nei loro confronti, ma ancora di più dall’Azienda sanitaria locale. Questa, infatti, prima della dimissione di una persona nel mio stato dall’ospedale, dovrebbe assicurare le cure necessarie. Invece, venni inserito in una lunghissima lista di attesa per il ricovero in una Residenza sanitaria assistenziale. Era un’attesa destinata a durare parecchi anni, ma io non potevo aspettare. Mi sentivo calpestato nei miei diritti di malato. I medici continuavano a insistere che era la prassi, la burocrazia e non era colpa loro; beh, io ti dico che la prassi uccide, se è così! A causa della fibrosi polmonare idiopatica non potevo lavorare, ma mi impegnai comunque a sostenere i trattamenti e pagai la retta per il ricovero in una casa di cura privata, tutto a mie spese. Non mi venivano riconosciuti i diritti alle cure per una malattia degenerativa e, essendo i costi della casa di cura piuttosto elevati, i miei già scarsi fondi cominciarono ad assottigliarsi sempre più. Mi trasferii quindi in una casa di cura privata di classe inferiore, ma le condizioni con cui venivo trattato mi portarono ben presto a rimpiangere gli elevati costi della struttura precedente. Quando i miei risparmi finirono, mi cacciarono dalla casa di cura, lasciandomi in mezzo alla strada, malato e senza un soldo. Ed è stato allora che ho sofferto ancora di più l’abbandono. Tuttavia è inutile piangersi addosso. La scorsa settimana ho avuto l’ennesima ricaduta, ed un passante 79


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ha chiamato l’ambulanza. Nonostante la mia situazione e i miei problemi sono stato dimesso dopo pochi giorni, poiché i medici non ritengono la mia malattia abbastanza degenerata da trattenermi in ospedale. La mia unica fortuna è quella di avere una vecchia amicizia dell’università, il mio amico Lorenzo: ogni pomeriggio mi porta delle medicine per aiutare a contenere i sintomi della fibrosi polmonare idiopatica e un po’ di cibo; tuttavia, nemmeno lui si trova nelle condizioni economiche per potermi ospitare a casa, ma comunque gli sono estremamente grato, perché continua ad aiutarmi”. Andrea, commosso da questa triste storia, pensava a come poterlo aiutare. Proprio in quel momento sentì la vibrazione del cellulare in tasca. Era la sorella. Il giovane si illuminò: Angela era uno stimato avvocato, ed avrebbe potuto aiutare Vittorio ad ottenere giustizia! Le descrisse la situazione di quel povero anziano gravemente malato e solo; le chiese che cosa si poteva fare per tutelarlo. Angela consigliò ad Andrea di accompagnare immediatamente Vittorio al Pronto Soccorso per farlo ricoverare, intanto, in ospedale. Vittorio era gravemente malato e Andrea non poteva lasciarlo da solo in quelle condizioni di abbandono. L’ospedale non poteva rifiutare il ricovero di un malato in quello stato. Andrea, preoccupato, disse che in passato l’ospedale aveva già dimesso Vittorio varie volte. Ma Angela lo tranquillizzò: “La legge obbliga l’Asl a garantire ai malati anziani non autosufficienti la continuità delle cure residenziali necessarie. Aiuterò Vittorio a scrivere delle lettere da inviare per via raccomandata, con ricevuta di ritorno, agli Organi competenti, per fare opposizione alle dimissioni ospedaliere e ottenere la continuità assistenziale 80


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di cui ha bisogno e che gli spetta di diritto”. Angela fu felice di aiutare il nuovo amico del fratello; Andrea era molto legato alla sorella, l’unica persona della sua famiglia ancora vivente. I genitori erano morti entrambi in un tragico incidente stradale che aveva portato via, oltre a loro, anche il fratello più piccolo; era accaduto tredici anni prima e da quel giorno Andrea era vissuto solo con la sorella, isolandosi dal mondo esterno e richiudendosi nel suo. Iniziò a scrivere tutti i suoi pensieri e i suoi sentimenti in un diario; successivamente cominciò anche a comporre storie di fantasia e iniziò a sognare di poter fare, di questa sua grande passione, una professione. Da qui il grande impegno nello studio e la scelta dell’università, che gli aveva poi permesso di andare a lavorare in una casa editrice. Ora però aveva bisogno di un contatto con la realtà, di uscire dal suo mondo, trovare nuove strade e vivere esperienze. Grazie all’incontro con Vittorio, capì che una di queste poteva essere raccontare le sofferenze altrui, trovando anche un modo per farle cessare e sentendo dentro un desiderio di giustizia, che lo avvicinava molto ad Angela. Tale legame era molto prezioso per entrambi. Per prima cosa, naturalmente, si occuparono della salute del povero Vittorio. Andrea seguì il consiglio della sorella e accompagnò Vittorio al Pronto Soccorso dell’ospedale. In seguito, con l’aiuto di Angela e Andrea, l’uomo firmò e inviò alle autorità competenti la lettera di opposizione alle dimissioni ospedaliere citando gli articoli di legge che lo tutelavano: in primis l’articolo 32 della Costituzione e gli articoli 1 e 2 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, ma anche la normativa che prevede i Livelli essenziali di assistenza sanitaria e sociosanitaria. 81


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Finalmente, grazie a queste lettere in difesa dei suoi diritti di malato, Vittorio ottenne il ricovero in un’adeguata Residenza sanitaria assistenziale, con trasferimento diretto, a spese dell’Asl, dall’ospedale alla struttura sociosanitaria che si era resa disponibile ad accoglierlo e a curarlo, ma ciò non gli bastò. Perché Vittorio aveva tanto sofferto e non poteva accettare il pensiero che altri in futuro provassero la sua esperienza. La sua storia doveva essere conosciuta da tutti, doveva diventare un esempio positivo di tutela del diritto alla salute. Andrea dunque, insieme a Vittorio, diventato ormai quasi un padre per lui, iniziò a scrivere un libro sulla loro vita che divenne il suo successo, quello tanto desiderato per uscire fuori dal guscio che si era creato. Il libro servì ad informare dei propri diritti chiunque si trovasse nella stessa situazione di Vittorio, o comunque in uno stato di non autosufficienza; questo libro diede speranza a chi l’aveva persa. Il ricavato della vendita del libro venne donato a un’associazione di volontariato che si occupava della tutela dei diritti dei malati non autosufficienti e che aiutava tutti coloro che non avevano i mezzi per difendersi e che avevano bisogno di giustizia, come nel caso di Vittorio. 6.47 del mattino. Il fischio del treno si avvicina sempre di più. Andrea entra nella polverosa stazione. Si guarda intorno, poche volte era successo che si trovasse lì solo, e la mancanza dell’anziano amico si faceva sentire. Rivolge una nostalgica occhiata alla panchina, e nota subito il logorato libro che Vittorio custodiva un po’ come un tesoro. Lo prende in mano e con un sorriso si avvia verso il treno che conduce alla casa di cura di Vittorio. 82


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Il flusso di gente, che scorre come un fiume, affluisce nella stazione e il treno si avvia lentamente, verso una nuova vita. Francesco Arcese Ludovica Barcaccia Valentina Giunta Alberto Moretti

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A BRACCIA APERTE Homo sum, humani nihil a me alienum puto Sono un essere umano, penso che non mi sia estraneo nulla che riguardi l’uomo (Terenzio, Heautontimorumenos) Rientro nella mia stanza di albergo dopo una stancante riunione di lavoro a Boston; volevo solo stendermi sul letto e riposare. Stavo per assopirmi quando lo squillo del cellulare mi fa alzare di soprassalto: era una telefonata dall’Italia. “Pronto chi parla?”-esordisco con voce roca. “Salve, sono Lucia...parlo con il signor Alberto Martini? Chiamo dalla casa di riposo Villa Armoniosa ... So che è una persona molto impegnata ma suo padre Mauro non fa altro che parlare di lei. Purtroppo devo darle una cattiva notizia. Le condizioni di suo padre si sono aggravate e siamo stati costretti a trasferirlo in ospedale. Ma anche lì la situazione non è migliorata, si rifiuta di prendere le medicine perché dice che l’unica di cui abbia effettivamente bisogno è quella dell’affetto, che il dottore non può prescrivergli”. “Ho capito...” rispondo cercando di non far trapelare la mia preoccupazione. “È mio dovere avvertirla che la permanenza di suo padre in ospedale è limitata, quindi le consiglio di informarsi; ha più diritti di quanto crede”. Rimango in silenzio nella mia camera d’albergo; quelle parole mi hanno profondamente turbato; mi sento solo, spaesato, ho come la sensazione che nulla abbia più senso a partire dal mio lavoro per il quale mi ero così tanto dato da fare. Com’è possibile che io, Alberto Martini, imprenditore 84


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di successo che può avere qualsiasi cosa desideri, mi senta così piccolo e bisognoso dell’aiuto altrui? In realtà da un po’ di tempo sento che la vita mi è avversa; il mio stato di salute non è più quello di un tempo. Piccoli disturbi mi hanno spinto a fare dei controlli dai quali è emersa una diagnosi che mai avrei creduta pensabile per la mia vita. Eh già… sono affetto dal morbo di Parkinson, una malattia che non dà scampo in quanto a guarigione anche se grazie alle giuste cure, devo ammetterlo, sono riuscito per lo meno allo stato attuale a metterle come un freno. Sicuramente non sono guarito, ma posso dire che almeno sono riuscito a bloccare il suo avanzamento e di questo non posso non ringraziare quanti, a cominciare dal personale medico, sono stati preziosissimi per curarmi ed incoraggiarmi. Pensavo che tutto fosse come terminato e adesso…beh adesso ho un problema molto molto più serio e delicato da risolvere . Devo pensare a mio padre e al suo stato di salute. Così mi ritrovo a mettere tutto in discussione, vita privata, carriera perché lui ha bisogno di me. Compro il primo biglietto d’aereo disponibile e mi precipito a Roma, da lui. Il viaggio mi riserva una sorpresa: chi l’avrebbe mai detto che un malato non autosufficiente abbia tutti questi diritti? Il mio sguardo viene attirato dal dépliant di un’associazione di volontariato che si occupa di fornire informazioni su come tutelare il diritto alle cure dei malati non autosufficienti. Una frase mi colpisce particolarmente: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. E subito dopo leggo: “Gli anziani malati non autosufficienti hanno diritto alle cure in ospedale, a casa e nelle resi85


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denze sanitarie assistenziali con il contributo dell’Azienda sanitaria locale”. Entrando in ospedale, mi dirigo in segreteria in cerca di un dottore che mi possa aggiornare sulle condizioni di mio padre. Un uomo alto mi si avvicina: è il dottor Farinelli che, dopo essersi presentato, aggiunge: “Suo padre è stato colpito improvvisamente da un ictus nella casa di riposo Villa Armoniosa dove risiede da un po’ di tempo. Il medico della struttura ha precisato che il paziente non aveva manifestato sintomi precoci quali debolezza facciale, la deriva di un arto o difficoltà nel parlare. Per fortuna è stato disposto comunque il ricovero in ospedale per fare degli accertamenti”. Chiedo più precisi chiarimenti. “Suo padre ha perso la mobilità degli arti inferiori, in seguito all’ictus; tuttavia può ritenersi fortunato in quanto l’area cerebrale colpita è poco estesa e ciò gli ha consentito di non perdere lucidità e per questo è prossima la dimissione.” “Ma come? Volete dimettere un anziano che ha appena avuto un ictus? Non pensate che il suo stato possa aggravarsi?” “Abbiamo fatto il possibile, le ricordo che suo padre non ha mai perso lucidità; ci sono casi peggiori cui dare priorità. Ci dispiace…” “Dov’è adesso?”- chiedo con tono fra l’irritato e il dispiaciuto. “Primo piano, stanza dodici”. Ho il cuore in gola mentre salgo le scale, dei ricordi troppo dolorosi affiorano alla mia mente. Speravo di averli rimossi, ma evidentemente mi sbagliavo. Si susseguono incessantemente immagini di mio padre forte e fiero che mi 86


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aspettava alla porta quando tornavo tardi a casa, che mi stringeva forte a sé quando ero triste, che mi rimproverava quando sbagliavo. Ho paura di vedere mio padre indifeso, solo, ho paura di vedere nei suoi occhi il terrore della morte. Aspetto cinque minuti davanti alla porta, fin quando la voce di mio padre interrompe i miei pensieri. “Serviva un ictus per venirmi a trovare? Sei venuto a vedermi morire? Beh, ti risparmio la scena”. Rimango pietrificato, non mi ero mai reso conto di quanto l’assenza possa lasciare un dolore così grande. Prendo coraggio e facendomi avanti rispondo: “Non stai morendo, il dottore mi ha detto che sei stato molto fortunato, perché le conseguenze dell’ictus possono essere molto più disastrose”. “Cosa ne può sapere il dottore di come sto? Come vedi sono solo a dover affrontare questa malattia; anche i dottori con la loro presunzione ti guardano con pietà, e ti posso assicurare che non mi serve qualcuno che mi guardi in quel modo; so già di essere un peso!” Non riuscivo a parlare, tutte le mie motivazioni sarebbero sembrate inutili di fronte a tutto quel dolore. Mentre mio padre mi era sempre rimasto accanto in qualsiasi occasione, io l’ho abbandonato per seguire il mio desiderio di gloria. Tutte le paure che avevano invaso la mente poco prima si erano personificate in mio padre. È debole e indifeso nonostante non lo voglia far vedere e nei suoi occhi c’è il terrore della morte. Non sono pronto a vederlo in queste condizioni, non sono pronto a vederlo soffrire, a vederlo morire. Voglio, anzi devo rimediare ai miei errori, voglio diventare padre di mio padre. L’unica cosa che riesco a fare è scoppiare in un pianto di87


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sperato e abbracciarlo. Braccia calde mi avvolgono, per un momento non ho più paura. “Papà, hai ragione, mi vergogno di essermi comportato così, ma pensavo di non avere alternative. Non molto tempo fa ho scoperto di essere affetto da una malattia degenerativa, il morbo di Parkinson. Ho avuto paura di vedermi cambiato, paura di perdere le mie forze; mi sono chiuso in me stesso, in una sorta di guscio protettivo e difensivo sperando di riuscire ad accettarla. Poi grazie alle giuste terapie mi sono reso conto e sto comprendendo che è possibile rallentare il decorso invalidante, anche se non è possibile guarirne. Puoi comprendere, spero, il mio silenzio. Ora mi sento bene anche se non sono guarito e non guarirò mai, non ho paura né di quello che dirà la gente né di quello che penserà, anche se, ti confesso, ho paura per me stesso: sarò pronto ad accettare tutto questo? A volte non ne sono così convinto... Però l’amore, l’affetto, ecco la nostra unione sarà la nostra forza. Ne sono certo”. Mio padre mi guarda e i suoi occhi si riempiono di lacrime, ma trova comunque la forza di confortarmi: “Nessuno sarà mai pronto ad accettare un malattia, in modo particolare un uomo giovane come te, so solo che non ti devi far sopraffare da ciò, perché sicuramente affronterai anche questo”. Ammiro in mio padre questa sua forza e questa sua capacità di dare sempre i consigli migliori. Lui nonostante la sua malattia è riuscito ad aiutarmi ed ora è il mio turno. Sono riuscito a contattare un’associazione di volontariato che mi ha fornito informazioni sui diritti spettanti ad un malato non autosufficiente e su come rivolgersi all’Azienda sani88


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taria locale per ottenere l’assistenza e la fisioterapia necessarie. Ho deciso di soggiornare temporaneamente a Roma per occuparmi di mio padre e perché gli siano garantite le cure a cui ha diritto. “Papà, chiudi gli occhi e prendi un bel respiro – ti porto a fare una passeggiata ” gli dico mentre lo accompagno. Mio padre mi guarda incredulo, nei suoi occhi finalmente c’è speranza... Mi accoglie a braccia aperte. Arianna Flamini Maria Chiara Orsini Francesca Piazzai Michele Rondini

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LA SCELTA Ah, gentile morte, [...] non toccare le mani, il cuore dei vecchi. [...] addio, cara, addio, mia dolcissima Mater. (Salvatore Quasimodo, Lettera alla madre) Era la fine di un tiepido mese di settembre, il freddo era alle porte, Umberto stava tornando a casa dalla passeggiata quotidiana. Percorreva sempre lo stesso tragitto: usciva dal suo palazzo, luminoso d’estate e buio d’inverno, attraversava la trafficata via principale trattenendo il respiro per evitare il fetido smog concentrato in quel punto, poi faceva una pausa dall’altro lato della strada per assaporare con il gusto della sua immaginazione i magnifici muffin, appena sfornati, della pasticceria Dolce Cuore, muffin che non poteva permettersi per colpa del diabete. Dopo una lunga contemplazione della dolce vetrina, proseguiva verso il parco comunale, salutava la fiera statua di Garibaldi a cavallo e tirava una monetina nella “fontana portafortuna”. Uscito da una delle stradine alberate, sbucava davanti alla pizzeria O’ sole mio, svoltava l’angolo e si ritrovava di nuovo davanti a casa. Saliva la lunga tromba di scale, umida e luminosa, fino ad arrivare sulla soglia dell’appartamento. Nella casa aveva sempre regnato la felicità, fatta di unione, non di soldi o di lussi. Giorgio, il figlio, era stato cresciuto in modo amorevole e attento dalla sua famiglia: il focolare era sempre acceso, il profumo delle candele che compravano i suoi genitori gli dava un senso di sicurezza, lo faceva sentire parte di quella casa. Prendersi cura dell’appartamento era sempre stata la priorità di Elda, perché per lei era come coccolare la famiglia; aveva per90


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sino ristrutturato la mansarda, alla quale si accedeva con una scaletta di legno profumato, per riporvi tutti i ricordi. Ultimamente però le giornate erano sempre le stesse: con il passare degli anni Giorgio si era trasferito in un appartamento poco distante dai genitori, e ogni tanto andava a trovarli. Di colpo però la situazione degenerò, si ruppero gli equilibri, anche se la famiglia non si rendeva conto di quello che stava realmente accadendo. Elda accusava continuamente dolori alla schiena, Umberto però non si preoccupava più di tanto, poiché ogni mattina la vedeva prendersi cura del chiostro comune del palazzo e quindi pensava che il dolore derivasse dagli sforzi che la donna compiva nel lavoro di pulizia e giardinaggio. La donna aveva sempre amato curare le piante: il chiostro era il suo piccolo mondo segreto, nascosto da tutto e da tutti, amava la fragranza dei gelsomini, della buganville e delle mimose, i colori vivaci delle rose, dei tulipani e dei ciclamini, ma soprattutto le curatissime piante aromatiche, sempre presenti nei suoi gustosi piatti. Con l’arrivo dell’inverno, però, Elda si dedicava ad altro, come realizzare sciarpe di lana e maglioni natalizi, ascoltare Mozart e Chopin, e parlare spesso con la vicina di casa, sul divano del salone, con un tè caldo tra le mani. I nuovi interessi tuttavia non riuscivano a distoglierla dal suo mal di schiena, che la tormentava già da due mesi. Assumeva antidolorifici continuamente per non far preoccupare il marito e per convincersi di star bene. Con il passare dei giorni, la sua situazione peggiorò: una fredda mattina di dicembre decise di farsi visitare e Umberto la accompagnò all’ospedale della città. Lì fu sottoposta a degli esami e i medici le riscontrarono qualcosa di strano. 91


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Solo il dottor Berardi però, primario di nefrologia, ebbe un’intuizione e fece fare una risonanza magnetica alla donna. Il referto fu traumatico e a Umberto cadde il mondo addosso. Il sangue gli si gelò. Non sapeva più cosa dire. Rimase totalmente spiazzato, non riusciva a immaginarsi un mondo e una vita senza sua moglie. C’era un altro problema: doveva riferire la notizia al figlio Giorgio. Questi, manager di successo, aveva da pochissimi giorni ricevuto una proposta di lavoro da una società in Cina. Nel giro di poco tempo si sarebbe dovuto trasferire a Shanghai, lasciando la famiglia per un lungo periodo, se non per sempre: “Pronto?” “Giorgio, sono papà, devo parlarti di una cosa molto importante”. “Papà! Anch’io ho delle cose da dirti, belle notizie!” “Giorgio, non so come dirtelo ma... la mamma ha bisogno di noi in questo momento”. “Che stai dicendo papà? Che è successo alla mamma?” “Oggi il dolore è diventato insopportabile, e l’ho portata in ospedale per un esame”. “E cosa hanno trovato?” “La mamma ha un tumore ai reni e si trova ad uno stadio avanzato, pensano che ci conviva già da mesi” “Un tumore?!” Giorgio aveva il cuore in gola e non ebbe più il coraggio -gli sembrava tutto inopportuno a quel punto- di raccontare al padre la bella notizia della sua nuova e promettente prospettiva di carriera. Poi, cambiando idea, riprese: “Papà, la notizia che mi hai appena dato mi addolora moltissimo. Sarei dovuto partire per Shanghai, ma annullo il biglietto dell’aereo e rinvio il mio viaggio di lavoro. Prenderò informazioni e predispor92


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rò tutto ciò che occorre per garantire alla mamma le cure necessarie. Partirò solo quando sarò sicuro che la mamma sarà curata e che avrete gli aiuti che servono. Di’ alla mamma che più tardi la passo a trovare in ospedale. A dopo, papà”. Giorgio riattaccò, con un senso di ansia crescente, e certamente un po’ combattuto nell’animo per la decisione presa: quando purtroppo gli affetti familiari e gli obiettivi professionali entrano in conflitto, odiosissimo è il bivio della scelta. Umberto era molto preoccupato: la moglie non era più autosufficiente e aveva bisogno di cure ma i medici gli avevano detto che l’avrebbero dimessa dall’ospedale dopo due o tre giorni. Lui non era in grado da solo di assisterla a casa e il figlio sarebbe dovuto partire prima o poi per la Cina. Così decise di chiedere all’ospedale di trasferire sua moglie in una Residenza sanitaria assistenziale. Gli risposero che c’era una lista di attesa che prevedeva tempi molto lunghi: si parlava addirittura di anni. Gli dissero che intanto doveva riportarla a casa. A Umberto venne in mente una casa di cura privata specializzata nella cura dei malati di cancro: la sede era un vecchio casale di campagna con giardini e chiostro interno, proprio come quello del loro palazzo; il personale era educato, rispettoso e preparato. Era il luogo perfetto per Elda: l’unico problema era il costo. La retta mensile era di ottomila euro. I due coniugi erano in pensione da sei anni ma non avevano una situazione economica capace di sostenere una spesa così ingente; inoltre, Umberto non voleva chiedere un aiuto finanziario al figlio. Era il loro unico figlio e come genitori erano orgogliosi della carriera che si stava aprendo per lui. Desideravano 93


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tanto che realizzasse i suoi sogni. L’uomo non sapeva più che fare: dove avrebbe dovuto mandare la moglie malata? Quando Giorgio raggiunse il padre in ospedale, lo vide disperato e cercò in tutti i modi di tranquillizzarlo. “Papà, vedrai, troveremo una soluzione. Ci deve essere un modo per tutelare la mamma: è molto malata, non possono dimetterla dall’ospedale senza assicurarle le cure di cui ha bisogno”. Il giorno seguente Giorgio fece ricerche dalla mattina alla sera per avere informazioni sui diritti previsti dalla legge per la cura dei malati non autosufficienti. Scoprì un sito web di un’associazione di volontariato da cui prese informazioni che gli furono molto utili. Fu così che grazie a queste informazioni Giorgio scrisse e inviò delle lettere alle autorità pubbliche competenti per fare opposizione alle dimissioni ospedaliere di sua mamma. Citò nelle lettere le norme di legge che prevedono che l’Asl ha l’obbligo di garantire le cure senza limiti di durata ai malati non autosufficienti. Chiese all’Azienda sanitaria locale di garantire a sua mamma la prosecuzione dell’assistenza sanitaria residenziale, come prevede la legge. E così, grazie a queste lettere, Elda non venne dimessa dall’ospedale. Dopo circa venti giorni venne trasferita direttamente in una Residenza sanitaria assistenziale che era vicino all’ospedale, in modo da agevolare l’attuazione delle periodiche terapie ospedaliere di cui Elda aveva bisogno. Umberto andava a trovarla tutti i giorni e le portava sempre una candela profumata o una piccola pianta. Elda ascoltava spesso la musica classica che amava tanto. Venne curata in modo esemplare da personale medico e infermieristico molto preparato e pieno di attenzioni dal punto di vista umano. La terapia del dolore veniva dosata in modo da alleviare efficacemente le 94


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sue sofferenze fisiche; grazie a quelle cure Elda trascorse dignitosamente i mesi che seguirono sempre con il sorriso sulle labbra, ogni volta che si presentavano momenti lieti da vivere e condividere nel quotidiano con i suoi cari, con i medici e gli infermieri della residenza sanitaria. Mentre Giorgio era in Cina per il suo lavoro, tutti i giorni aveva un appuntamento via Skype per vedere e parlare con la sua mamma e il suo papà. Anche se il figlio era cosi lontano da loro, Umberto e Elda lo sentivano spiritualmente e virtualmente vicino nella quotidianità. Era passato un anno. Giorgio tornava dalla Cina proprio in quei giorni, per le vacanze. Vedere la casa in condizioni fatiscenti fu per lui un duro colpo al cuore e ai bei ricordi della sua infanzia. Con il passare del tempo, a causa dell’assenza della donna, l’appartamento aveva mutato il suo aspetto: non profumava più; l’unico odore che si percepiva era quello di muffa, di chiuso, di stantìo. Nessuno si era più occupato di pulire e non c’era più alcuna traccia dei bei vecchi tempi in cui quell’ambiente era stato per Giorgio un nido felice. Il fuoco, sempre acceso quando Giorgio era piccolo, veniva tenuto spento ormai da troppo tempo. I ragni avevano invaso angoli di pareti e soffitti con delle spessissime e resistenti tele, i fiori si erano seccati, poiché nessuno si prendeva più cura del chiostro. Le piante appassite popolavano quel giardino di sofferenza, lasciando nell’animo di Giorgio una sensazione di tristezza e di morte. Il giovane abbracciò il padre e gli chiese scusa, perché anche se si sentivano e si vedevano via Skype tutti i giorni, si era pentito di aver ritardato il suo ritorno in Italia. Appena venne a sapere delle gravi condizioni della madre, si pre95


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cipitò in strada, prese la macchina e andò all’ospedale. Arrivato, chiese agli infermieri il numero della stanza e attraversò l’infinito corridoio illuminato a neon, fino in fondo. Se ne stava immobile accanto alla porta della camera, con una piccola pianta fiorita orientale per la mamma. Elda, distesa nel letto, aveva lo sguardo perso nel vuoto. La sua carnagione era priva di colorito ormai, aveva perso i capelli e teneva quasi sempre gli occhi chiusi. Quando Giorgio sussurrò “mamma…”, il viso della donna si illuminò del suo solito sorriso e Giorgio la salutò con un bacio sulla fronte. Le fece sentire da vicino l’odore di quella piantina ed Elda riuscì a dire, con un lieve sorriso: “Come sono felice, com’è bella questa pianta: ha un profumo meraviglioso, che mi porterà in paradiso. Grazie”. Giorgio si commosse, poi le disse: “Scusami mamma, avrei dovuto venire a trovarti prima”. La madre, sorridendo, rincuorò il figlio: “Ma ci siamo visti e parlati tutti i giorni via Skype! Per me è stato un grande dono poterti avere vicino, anche se eri lontano.” Le lacrime cominciarono a scendere lungo il volto di Giorgio, che si chinò su di lei e la abbracciò. Elda si addormentò e Giorgio la assistette fino all’alba. Quella stessa notte Umberto, che era rimasto a riposare a casa sua, fece un sogno che ultimamente era ricorrente: si sentiva svuotato e camminava per le strade deserte della città; era da solo, intorno a lui un silenzio totale, non sentiva più i profumi della città, il suo cuore era fermo, ghiacciato, non batteva più. Ad un certo punto, nel sogno si metteva a correre e a gridare il nome di Elda per cercare e ritrovare la moglie. Ma nel sogno di quella notte, dopo lunghe e continue ricerche della moglie, la vide per un mo96


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mento e poi lei svanì repentinamente. Si svegliò di colpo nel letto della sua abitazione per abbracciarla e sentirla vicina, con l’amara consapevolezza delle poche giornate che restavano da vivere insieme, ma si rese conto che lei era in ospedale. Allora si vestì in fretta precipitandosi lì: aveva un brutto presentimento. Quando arrivò, trovò l’equipe di medici e infermieri intorno al lettino della moglie e Giorgio che piangeva. Il momento era purtroppo arrivato: Elda non c’era più. Era gelida, gli occhi socchiusi racchiudevano tutta la sua sofferenza. Il marito la abbracciava disperatamente. Con il cuore fermo, il respiro in gola, l’uomo le rimase accanto cercando di tenere per sé quell’enorme bruciore che provava dentro, non accettando il fatto di averla persa. I funerali si svolsero due giorni dopo. Durante la cerimonia, Giorgio, seppur affranto, seppe pronunciare un breve discorso, dolcissimo, in ricordo della madre, suscitando la commozione di tutti. Ottaviano Augusto Sofia Braccalenti Luca Caporaletti Federica Grasselli

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IL SOLE DELLA FELICITÀ Chi trova un amico trova un tesoro

(Proverbio)

Era una calda mattina dei primi di settembre a Città del Sole. I tetti delle poche e piccole case che la caratterizzavano risplendevano, colpiti dai primi raggi di luce. Negli ultimi giorni prima della riapertura delle scuole, nell’aria risuonava solo il rintocco della campana della chiesa principale. Paolo, dopo cornetto e caffè quotidiano, era pronto ad uscire per le solite commissioni mattutine. Preso cappello e cappotto, improvvisamente sentì un dolore lancinante al petto e cadde a terra. La moglie, Marina, mentre stava lavando i piatti, sentì un tonfo sordo. Spaventata, corse verso l’ingresso e vide il marito riverso sul pavimento, privo di conoscenza. Chiamò d’urgenza l’ambulanza che arrivò in pochi minuti e lo portò all’ospedale. Paolo aprì gli occhi lentamente e notò subito un ago che gli premeva sul braccio. In quel momento si ricordò degli ultimi istanti prima di svenire. Si guardò intorno: era in una stanza di ospedale, ampia, con un altro letto occupato da un uomo che all’incirca aveva la sua stessa età. Entrarono nella stanza la moglie e il dottor Rubiconi. Paolo, che aveva diverse malattie croniche, venne informato di essere stato colpito da un infarto miocardico acuto e che la lesione del muscolo cardiaco era estesa. Da quel momento non era più autosufficiente, ma con le opportune terapie le sue condizioni di salute sarebbero migliorate. Probabilmente il ricovero in ospedale sarebbe durato due settimane per le cure e gli accertamenti necessari a evitare 98


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recidive. L’infermiera gli diede dei farmaci. Mentre era in corso il monitoraggio cardiaco, Paolo lanciò un’occhiata al suo nuovo compagno di stanza, tipo un po’ strano, coricato sul letto accanto e, in parte incuriosito, in parte desideroso di condividere la sua improvvisa condizione di infermità, iniziò la conversazione: “Buongiorno!” “Buongiorno un corno!” rispose con tono aggressivo l’uomo. Paolo ritentò, facendo finta di niente: “Come mai qui?” e l’uomo, vedendo che Paolo non aveva desistito a quella sua risposta brusca, cambiò approccio, pensando che si sarebbe stancato prima o poi: “Problemi di un vecchio malato: un infarto tre giorni fa con grave lesione invalidante. Probabilmente, visto che sei qui, avrai avuto anche tu un infarto”. Paolo annuì e cercò di continuare la conversazione, essendo per natura un tipo espansivo e alquanto chiacchierone: “Mi chiamo Paolo Verdi, stamattina per me era un giorno come gli altri, fino a che non mi ha preso questo… colpo. Per fortuna mia moglie Marina si è accorta subito ed è corsa in mio aiuto. Lei c’è sempre stata per me e so che ci sarà sempre. Adesso sono sicuro che arriveranno anche i miei tre figli: Giacomo, Pietro e Caterina. Già, i miei gioielli. Sono il mio più grande orgoglio, sa? Giacomo e Caterina vivono qui in città e li vedo spesso; Pietro, purtroppo, lavora all’estero, comunque ci sentiamo per telefono frequentemente e ogni tanto ci viene a trovare. E che mi dici di te?” L’altro, piuttosto spazientito nel sentire l’accurata descrizione della famiglia che Paolo aveva iniziato, sbuffando rispose: “Mi chiamo Luigi Faggi, ho 72 anni”. “È tutto?” domandò Paolo stupito dalla riposta secca. “Che altro vuoi sapere?! Non tutti hanno una famiglia per99


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fetta come la tua. Mia moglie non c’è più ormai da sei anni e i miei figli da quel giorno si sono allontanati sempre di più. Sono convinti che una telefonata al mese sia sufficiente per mantenere un rapporto. Ma non mi manca niente. Non ho bisogno di loro e neanche del loro aiuto economico. Ho un portafoglio bello pieno, sai?” Paolo, compreso il tipo di persona che aveva accanto, abbassò lo sguardo e decise di tacere e di provare a riposare un po’. Non fece in tempo a chiudere gli occhi che entrò nella stanza l’infermiera con il pranzo per Luigi. Dietro di lei ecco Marina, con un vassoio per Paolo. Marina, ancora con gli occhi lucidi, provava ad imboccare Paolo, che aveva la parte destra del corpo completamente paralizzata, e lo rassicurava con dolci parole. Il compagno di stanza, alla vista di quella scena, si rattristò senza tuttavia darlo a vedere. All’idea di essere imboccato da un’infermiera, pensò nostalgico all’autonomia che gli permetteva di fare tutto da sé in casa e fuori e che aveva perso appena tre giorni prima. Marina, uscita dalla stanza, si recò dal dottor Rubiconi per chiedere chiarimenti sulle cure e sulla permanenza in ospedale del marito:” Scusi La posso disturbare?” “Mi dica pure” rispose Rubiconi. “Sono la moglie del signor Verdi e volevo avere informazioni sui farmaci e le terapie di cui ha bisogno mio marito”. E il dottore: “Certo! Mi segua nel mio ufficio, ho un quarto d’ora libero”. La invitò ad accomodarsi e continuò: “Se non ci saranno complicazioni, dimetteremo suo marito entro due settimane e avvieremo un programma sociosanitario personaliz100


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zato a casa; in caso contrario la permanenza in ospedale verrà prolungata”. Marina non sapeva se sentirsi rassicurata per la notizia appena ricevuta. Il dottor Rubiconi, notando l’espressione incerta sul viso della donna, le consegnò la ricetta con le medicine da procurarsi dopo la dimissione. Marina appena vide la lunga lista di farmaci, sentì un nodo alla gola. Come avrebbe potuto prendersi carico di una spesa così ingente con le due pensioni minime con cui a mala pena lei ed il marito arrivavano a fine mese? Ma il medico aggiunse una precisazione che la tranquillizzò subito: “Sono tutte medicine che non dovrete pagare, perché suo marito ha diritto all’esenzione”. Marina ringraziò il dottore con una stretta di mano e uscì, lasciandolo al suo lavoro. Girando per i corridoi dell’ospedale, assorta nei suoi pensieri e cercando la stanza di Paolo, fu interrotta dalla suoneria del telefono. Sua figlia Caterina le voleva comunicare che sarebbe arrivata a breve, accompagnata da Giacomo, e che Pietro aveva preso il primo volo per raggiungerli. Nel frattempo Luigi si era svegliato dal suo sonnellino pomeridiano e aveva ricevuto la notizia che dopo alcuni giorni sarebbe stato dimesso dall’ospedale, poiché non aveva avuto ricadute. Luigi, non potendo tornare a casa, in quanto non autosufficiente, e non sopportando l’idea di rimanere insieme ad una badante che si occupasse di lui, si preoccupò subito di fare richiesta per un posto in una Residenza sanitaria assistenziale. Fortunatamente non c’erano più le chilometriche liste di attesa di un tempo: grazie alle nuove leggi e ai finanziamenti pubblici stanziati, lo Stato poteva assicurare sia le prestazioni sociosanitarie domiciliari ai malati cronici non autosufficienti, sia il ricovero di coloro 101


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che avevano bisogno di essere curati nelle Residenze sanitarie assistenziali. Al tramonto, mentre il sole ancora emanava gli ultimi bagliori dalla collina più bassa di Città del Sole, arrivarono Giacomo e Caterina, che dopo aver incontrato il padre e prima di tornare a casa, si fermarono a parlare con la madre riguardo all’organizzazione delle cure. Giacomo rassicurò subito la madre: “Non ti preoccupare mamma, tutti noi faremo ciò che occorre per tutelare il papà e vedrai che ce la faremo!” Caterina, dando ragione al fratello, intervenne: “Sì mamma, non ti devi preoccupare di nulla, conosco alcune associazioni che ci potranno aiutare a far valere i diritti che spettano a nostro padre!” Finita la discussione, i figli andarono via e Marina tornò dal marito. Paolo passò una notte tranquilla sapendo che era ben curato in ospedale e che la famiglia non lo avrebbe abbandonato, mentre Luigi dormì appena un’ora, tormentato da tanti brutti pensieri che gli passavano per la testa: immaginava di rimanere solo durante questo difficile momento, e si prefigurava il momento della morte, in solitudine e senza affetti. La mattina seguente, Paolo, dopo una colazione che considerò soddisfacente, smantellando la sua ferma convinzione che la qualità del cibo in ospedale lasciasse molto a desiderare, fu sorpreso dalla visita dei suoi figli: anche il compagno di stanza, all’ingresso di tutti quegli sconosciuti, fu inevitabilmente coinvolto e incuriosito. Erano infatti in quattro: c’era anche Pietro, che aveva portato con sé la figlia Sofia, la maggiore tra i nipoti di Paolo. La presenza di tutte quelle persone lo rallegrò molto e gli fece dimen102


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ticare la sua situazione: chiacchierarono tutta la mattina di argomenti svariati, e Paolo fu aggiornato su tutto ciò che riguardava la vita dei figli e dei nipoti L’umore, dall’altra parte della stanza, era completamente diverso. La scena cui assisteva, l’affetto dei figli, le feste dei nipotini, riportarono Luigi alle gioie del passato: diciassette anni prima, in una domenica come tante del 2018, si trovava in compagnia di sua moglie Sandra e dei suoi due figli, Laura e Manfredi. Ricordava quello spirito di armonia e di unità che si percepiva chiaramente entro le quattro mura della sua casa. Gli sembrava di rivivere le emozioni di un tempo ricco di gioie e di soddisfazioni, di serenità e di amore. Si cominciò a rendere conto che tutto questo non faceva più parte della sua vita e provava nostalgia per quel “nido” che ora non c’era più. Pensò che i soldi, per quanto costituissero una base di sicurezza e autonomia, forse non davano la felicità e non potevano comprare emozioni e sentimenti veri. Luigi cominciò a commuoversi e si portò le mani al viso per non darlo a vedere. Paolo sapeva che dietro l’atteggiamento un po’ burbero di Luigi e quelle prime rudi risposte si celava un uomo fondamentalmente solo, e in modo discreto, riuscì a distrarlo, coinvolgendolo nella conversazione con i suoi familiari. Nei giorni seguenti, Paolo e Luigi cominciarono ad entrare sempre più in sintonia: scoprirono di tifare per la stessa squadra di calcio, di amare i film di Totò, di cui ricordavano le scene più esilaranti, di avere le stesse reazioni a quel pasto d’ospedale che guardavano sempre con aria scettica; si misero anche a commentare le notizie di politica, di cronaca, di gossip che guardavano alla TV prima di addormentarsi. E cominciarono anche a confidarsi reciprocamente 103


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sempre più episodi o dettagli della loro gioventù, ingannando così quelle lunghe giornate d’ospedale che, a volte, sembrano dilatare il tempo all’infinito. Ma una mattina, ecco che arrivò nella stanza un’infermiera con la comunicazione per entrambi della loro dimissione, all’indomani, dall’ospedale. La famiglia di Paolo, grazie all’associazione di cui parlava Caterina, riuscì a trovare una soluzione per l’assistenza a casa. Vennero a conoscenza del fatto che il padre aveva numerosi diritti, prima di tutto quello alle cure sociosanitarie a domicilio: Paolo sarebbe dunque stato seguito a casa non solo dal suo medico di base, ma anche monitorato una volta alla settimana da un infermiere del Distretto sociosanitario. All’occorrenza avrebbe ricevuto a casa le visite medico-specialistiche e tutti gli interventi infermieristici di cui aveva bisogno. In caso di complicanze, Marina, che accudiva il marito, avrebbe potuto chiamare in qualsiasi momento della giornata, anche di notte, il servizio medicoinfermieristico domiciliare dell’Asl, che era operativo 24 ore su 24. Tutte le prestazioni sanitarie fornite a domicilio erano gratuite. Inoltre l’Azienda sanitaria locale avrebbe corrisposto a Marina, che aveva firmato l’impegno di accudire il marito a casa, un assegno di cura per il rimborso forfettario delle spese di assistenza sostenute per assumere una badante che le desse il cambio per alcune ore del giorno. Così Paolo riuscì ad affrontare in modo più sereno e senza troppe difficoltà la malattia. Luigi, pur vivendo gli ultimi anni di vita senza la compagnia della sua vera famiglia, non rimase solo, proprio grazie all’amicizia che mantenne con il vecchio compagno di stanza e la famiglia di quest’ultimo. Infatti fu trasferito in 104


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una Rsa, a pochi chilometri di distanza dalla casa di Paolo, che aveva scelto tra una rosa di strutture disponibili ad accoglierlo, dopo essersi assicurato dell’effettiva disponibilità nella Residenza. Lì Luigi ottenne ottime cure da medici, infermieri e operatori sociosanitari molto preparati. Ricevette anche la visita da parte dei suoi due figli, Laura e Manfredi. Infatti erano venuti a sapere dalla famiglia di Paolo del ricovero del padre e non esitarono a correre da lui, anche se in ritardo. Luigi trascorse nel modo più sereno il resto della sua vita, non solo insieme ai figli, ma anche con la famiglia del suo nuovo amico, Paolo, che, con la sua solita voglia di chiacchierare, una volta alla settimana si faceva accompagnare dai figli per andare a trovare Luigi nella Rsa dove era ricoverato. Stavano in felice compagnia, sempre pronti a una lunga conversazione, a una partita a carte, e a guardare insieme una partita di calcio o un film di Totò alla TV. Bianca Paoletti Benedetta Perretti Elisa Rossi Virginia Santi Antonio Scarponi

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I MARTINEZ Vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee al padre alcun figliuolo. (Dante Alighieri, Purgatorio, I) In una grande città vive la famiglia Martinez: mamma Maria è una donna premurosa e allegra, papà Antonio è un uomo d’affari molto spesso impegnato; dei due figli il maggiore, studente universitario, si chiama Marco, la minore Livia. I nonni materni vivono lontani, sono spagnoli, e si riuniscono con la famiglia solo due mesi all’anno durante le vacanze estive. La vita in casa Martinez è frenetica, chi esce la mattina presto per andare a lavoro, chi per andare a scuola, è il periodo degli ultimi esami per Marco e di audizioni di danza per Livia, insomma un via vai continuo. Maria, ultimamente, è spesso stanca e spossata, non è più raggiante e vivace come suo solito. Inizialmente ai figli aveva spiegato che si trattava soltanto del carico di lavoro e dello stress conseguente. I due ragazzi hanno sempre fatto finta di credere a questa motivazione, sapendo, in cuor loro, che c’era ben altro sotto. Gli ultimi tempi, inoltre, Maria è spesso al telefono: parlotta con la madre che vive a chilometri e chilometri di distanza. Un giorno, mentre tutta la famiglia è riunita a tavola, cosa alquanto rara per i diversi impegni lavorativi, Maria annuncia una spiacevole notizia. Suo padre si è ammalato nuovamente di tumore ai polmoni, la situazione per fortuna non 106


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è critica e non c’è di che preoccuparsi. Antonio abbraccia la moglie calorosamente, i due figli si guardano, chiedono dettagli sulla situazione. Marco si offre di partire per la Spagna per aiutare i nonni, soprattutto con i trasporti, nessuno dei due ha la patente e l’ospedale è lontano. Marco, malgrado la lontananza, ha un affetto particolare per il nonno. Lo ha sempre visto come un gigante, un gigante buono sin da quando era piccolo. Gli ha trasmesso l’amore per la lettura, lo ha visto sempre come un modello da imitare: lui professore di liceo con la passione per la letteratura, sempre immerso fra le pagine di un libro. I libri erano la sua vita, suo nonno aveva la capacità di far rivivere le storie che gli leggeva con quella sua voce così suadente così commossa e partecipe delle storie che amava raccontare e nelle quali si immedesimava. Ora non può abbandonarlo, ora il nonno ha bisogno del suo aiuto, ora tocca a lui trasformarsi in un paladino che impavido accorre in suo soccorso. Maria respinge commossa la proposta del figlio; ci sono degli amici dei suoi genitori che si sono offerti di accompagnarli all’ospedale ogni volta che ne abbiano bisogno. Inoltre non è proprio il caso che lui parta, rischia non solo di perdere le lezioni in facoltà ma, quel che è peggio, di rinviare chissà a quale data gli esami ormai prossimi. Con il passare del tempo la situazione va peggiorando; Maria è sempre più esausta e abbattuta, la preoccupazione le si legge in faccia. D’altronde come biasimarla, i suoi genitori vivono in un altro paese, per giunta in una località tropicale nella quale, a breve, con il sopraggiungere dell’inverno, non sarebbe rimasto più nessuno. Anche il fratello di Maria, Bruno, vive in un altro paese e, anche lui, è sposato e ha tre 107


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bambini piccoli a cui badare. Dopo un periodo di apparente miglioramento delle condizioni della malattia, una notte in casa Martinez squilla il telefono e Maria si affretta ad alzarsi e a rispondere. è la nonna, dice di aver appena portato il nonno in ospedale e chiede alla figlia di partire per la Spagna il prima possibile. Maria compra su internet il primo biglietto che trova disponibile di sola andata per Malaga. Due giorni dopo Maria e il fratello Bruno finalmente arrivano all’ospedale dai genitori. Passano un periodo pesante, cercando di aiutare la madre con la casa, mentre le condizioni del padre sono ancora delicate. Un mese dopo Maria e Bruno fanno ritorno dalle proprie famiglie e lasciano i genitori. La situazione sembra essersi stabilizzata: il padre è curato da un assistente familiare disponibile ad aiutarli in qualsiasi momento del giorno. Tutto sembra più tranquillo, la situazione sotto controllo anche grazie all’aiuto dell’assistente. Una sofferenza la separazione. Perciò Maria, angosciata, decide di chiamare il fratello Bruno per trovare una soluzione. Compone frettolosamente il numero e attende. “Pronto, Maria?” risponde lui sospirando. “Sì, sono io. Come stai?” “Come sempre. Perché hai chiamato?” “Ascolta Bruno, tu sai in che condizioni si trova papà laggiù, lo vediamo troppo raramente e io non mi fido di lasciarlo in quella grande casa, con questo assistente di cui sappiamo ben poco, per il resto dei suoi giorni. Preferirei che lui stesse o a casa mia o a casa tua, così da essere più tranquilli e averlo accanto” esordisce Maria. 108


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“Non se ne parla! Dovremmo spendere troppo, pensare a molte cose, e io non ne ho neanche il tempo. Lavoro tutto il giorno! Trasferiamolo in una bella casa di cura per anziani e problema risolto” controbatte lui. “Ma che dici? Papà non ci vuole stare in quegli ambienti, e lo sai bene”. “Si abituerà, non ti preoccupare. La vita in fondo è fatta di abitudini e, anche a quelle meno belle, piano piano ci si adatta”. “Sei un egoista! Stiamo parlando di nostro padre!” Bruno sbuffa sonoramente. “Va bene, se tu ti comporti in questo modo, vorrà dire che me ne prenderò cura io, troverò il tempo” conclude irritata Maria. Bruno, in modo rapido e seccato, le risponde “Fai come ti pare, io ora devo andare. Ho un importante impegno di lavoro. E poi…” aggiunge “di papà me ne sono già occupato abbastanza, per tutto il tempo in cui siamo stati in ospedale con lui. Adesso lasciami fare la mia vita”. “Non sei cambiato neanche un po’” osserva lei, rivolgendosi al fratello con un tono di disprezzo. Bruno ignora queste ultime parole, i due restano in silenzio per qualche istante e poi, la sorella, indignata, gli chiude il telefono in faccia. Turbata dopo la telefonata con il fratello, Maria riflette sulla faccenda e sfinita dalla discussione e dal susseguirsi di tristi eventi, si stende sul divano di casa e si addormenta. “Papà papà, corri!” “Forza Maria, fallo volare alto quell’aquilone!” Maria durante il sogno ricorda quei bei momenti passati al mare con il padre, quand’era solo una bambina spensierata 109


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e tutto andava così bene, tutto era così tranquillo, come un mare calmo, piatto, senza alcuna increspatura d’onda. Maria, svegliatasi di soprassalto e messa da parte la rabbia, inizia quindi a pensare al trasferimento, ad una possibile sistemazione dei genitori, alle cure da garantire al padre, a come organizzare il lavoro, a modificare la sua routine. Assorta nei suoi pensieri, prende il telefono in mano senza saper bene cosa fare. All’improvviso, il ricordo di una persona le riaffiora alla mente e le illumina il volto: Paola. “Come ho fatto a non pensarci prima?” riflette tra sé e sé. Maria scorre velocemente tra i contatti della sua rubrica e trova il numero di Paola, una sua amica, volontaria di un’associazione impegnata a fare promozione sociale dei diritti dei malati non autosufficienti. La chiama, e dopo averle parlato e averle spiegato la situazione, l’amica le fornisce informazioni utili e la aiuta a formulare le richieste scritte per ottenere dall’Azienda sanitaria locale un programma personalizzato di cura a domicilio. Riuscita quindi a prenotare all’Asl la visita dell’Unità valutativa geriatrica per ottenere le cure di cui suo padre aveva bisogno, Maria ritorna ad essere più fiduciosa e scaccia via i pensieri negativi che tanto l’avevano oppressa. I genitori, dopo non molto tempo, felici di stare con la figlia, si trasferiscono in Italia. Maria decide, poi, di assumere un badante competente: garantirà al padre le migliori cure ed un’assistenza continua. Grazie alle richieste presentate per far valere il diritto alle cure del padre, Maria riesce ad ottenere dall’Asl l’assistenza medico-infermieristica a casa e un assegno di cura per il rimborso parziale della retribuzione del badante. Le cure favoriscono un miglioramento delle condizioni 110


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di salute del padre di Maria, circondato quotidianamente dall’affetto e dalle confidenze della figlia e dei nipoti. Tutto sembra tranquillo, tutti sono sereni. Poi… una sera. “Nonno? Cosa succede, hai bisogno di riposare?” il volto di Livia, da tranquillo e calmo, cambia immediatamente espressione. “Nonno?!?” Nessuna risposta, il nonno rimane ad occhi chiusi. Nella stanza aleggia un silenzio angosciante, rotto solo dalle voci confuse ed indistinte provenienti in sottofondo dalla televisione. Livia lancia il telecomando sul divano, raccoglie il viso del nonno tra le sue mani e visibilmente preoccupata grida. “NONNO!!! Apri gli occhi, ti prego!!” agitatissima, una lacrima inizia a scorrerle lungo la guancia. Il nonno respira affannosamente, è come immobilizzato. Livia, senza neanche realizzare appieno la scena a cui aveva assistito, si precipita subito in cucina dal resto della famiglia, che stava preparando la cena. Alla mamma basta lo sguardo della figlia, per capire cosa stava succedendo. Livia resta immobile in cucina, mentre vede tutti gli altri scomparire in un attimo dalla stanza e fiondarsi dal nonno. Livia non riesce a muoversi, è rimasta sconvolta dalla scena. Tutto le è passato davanti agli occhi in un attimo. L’unica cosa che riesce a sentire, tra i singhiozzi del pianto, è la voce decisa della madre, al telefono. Il servizio medico infermieristico d’emergenza, operativo 24 ore su 24, arriva dalla famiglia in pochi minuti. Il medico del servizio, con l’aiuto dell’infermiere che lo 111


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accompagna, dopo aver stabilizzato temporaneamente il padre di Maria, accerta che le sue condizioni sono molto critiche. Maria, poi, in seguito ad una conversazione più approfondita con il medico, esce un attimo dalla stanza per riflettere. Il padre ha avuto una ricaduta, e lei vede tutto ricrollarle addosso. Tra un misto di rabbia, tristezza, fretta e agitazione, arriva anche a pensare che la colpa sia stata la sua, per non aver fatto abbastanza. In testa le risuonano le parole del medico. “Signora, le scelte sono due. Con l’opportuna terapia farmacologica è possibile fargli trascorrere un fine vita sereno a casa, circondato dal calore dei suoi cari. Oppure, bisogna ricoverarlo in ospedale”. Maria realizza che al padre non rimane molto tempo da vivere, e tutto ciò a cui riesce a pensare in quel momento è stare con lui finché possibile, per paura di perderlo in sua assenza. Il padre doveva trascorrere i suoi ultimi giorni insieme ai suoi cari, sentendosi amato e non confinato in un letto d’ospedale. “Non permetterò che se ne vada via triste e vuoto”. Maria, non pensandoci due volte, sceglie quindi la prima soluzione, con l’approvazione di tutti gli altri. “Sei a casa, papà, va tutto bene”. La figlia, la sera dopo, vede il padre addormentarsi con un sorriso sulle labbra, che sente la mano delicata della figlia accarezzargli il capo e dargli un bacio sulla fronte. Quelle furono le ultime parole percepite dal padre. Il giorno del funerale Bruno non osa presentarsi. I funerali non gli sono mai piaciuti e, certo, le ultime battute scambiate 112


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con Maria non erano state tra le più affettuose. E del resto preferiva ricordare il padre vivo piuttosto che circondato da quattro assi di legno. Maria, insieme alla madre, i figli e il marito, pensando ai mesi trascorsi insieme al padre, trovano in quel clima di tristezza la sola consolazione di essere riusciti ad alleviarne la sofferenza, di averne addolcito l’ultimo periodo di vita, e tutto questo grazie al loro calore e alle cure di medici e assistenti. Fattosi coraggio attraverso lo sguardo tenero e fragile della madre, dagli occhi ricolmi di lacrime, che sembrava gli chiedessero di aprire il suo cuore a tutti i presenti, prende la parola il giovane Marco, che ha sempre avuto un rapporto speciale con il nonno. “Ti ricorderemo sempre come un uomo sorridente che non si è mai fatto abbattere da nessuno. Sarai sempre il mio modello, mi hai trasmesso le tue passioni e mi hai insegnato tante cose, mi hai fatto scoprire il mondo della letteratura e del cinema, te ne sarò sempre grato; grazie per ogni tuo consiglio, grazie anche solo per tutte le volte che mi hai ascoltato, anche quando magari non eri dell’umore di parlare. So bene che mi ascoltavi, e mi capivi…il tuo viso appariva meno stanco quando ero accanto a te; questo è ciò che mi ha da sempre spinto a raccontarti che cosa succedesse nel mio piccolo mondo. Ti voglio bene”. Qualche mese dopo, Marco si laureò in lettere e dedicò la sua laurea al nonno, che sicuramente sarebbe stato fiero di lui. Diletta Protani Alice Sacchi Lisa Simonetti 113


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MEMORY LANE UNA PASSEGGIATA TRA I RICORDI [...] e scioglie all’urna un cantico che forse non morrà (Alessandro Manzoni, Cinque maggio) Io mi chiamo Beatrice La Rocca, sono nata a Molfetta nel 2000 e sono morta ieri. Non siate tristi per me, sapevo che prima o poi sarebbe andata così e in fondo lo sappiamo tutti. Ho vissuto la mia vita e sono anche stata felice, certo non è andato sempre tutto bene ma non mi lamento. Mio marito era solito dire che chi si lamenta soffre due volte e ora credo avesse ragione. Povero Stefano, mi è stato vicino fino alla fine dal primo giorno in cui ha giurato che sarebbe stata solo la morte a separarci. E così è stato. Ah, la morte, meschina ombra sorella del sonno. Forse però sono troppo dura con lei, è la malattia di solito a far soffrire di più, mentre la morte in un certo senso libera. Abitavo ancora a Molfetta e erano ormai passati almeno quarant’anni dalla prima volta in cui avevo visto Stefano durante quella festa e avevo capito di essermene innamorata. Figli non ne avevamo avuti e mi era dispiaciuto, ma a parte questo la nostra vita era felice. Tutto è cambiato due giorni dopo il mio sessantesimo compleanno: Stefano ed io eravamo andati a festeggiarlo al mare, era estate, e prima di tornare a casa avevamo deciso di fare un’ultima passeggiata in spiaggia. Sono caduta a terra, non rispondevo a mio marito, ma al pronto soccorso già stavo meglio. Tornammo a casa e per un po’ non se ne parlò, ma ho iniziato a notare dei cambiamenti in me. Accadde ancora, tre mesi dopo, e questa 114


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volta rimasi incosciente per diverso tempo. Ictus. Questa era stata la parola usata dai medici in ospedale. Io non ne sapevo niente, non avevo avuto esperienze né in famiglia né tra i miei amici, non avevo idea di ciò che mi aspettava. Nel periodo successivo mi sono dedicata alla logopedia e alla fisioterapia recuperando quasi completamente l’uso della parola e la funzionalità motoria. Ma non sono stata più la stessa, come potevo? Avevo dovuto prendere dolorosamente coscienza della mia umana fragilità: non ero più nel fiore degli anni, e non ero invincibile. Riflettevo sempre di più, mio malgrado, sulla morte. In quei momenti, non riuscivo a immaginarmi niente di peggiore della morte, non rivedere più Stefano, i miei amici, il sole che si specchia nel mare. Malgrado il tempo ancora quei pensieri non mi abbandonavano del tutto nonostante ormai l’ictus fosse un lontano ricordo. Fortunatamente le cose erano molto diverse da quando ero ragazzina: grazie allo stanziamento di cospicui finanziamenti pubblici sul territorio si erano moltiplicati servizi medico-infermieristici domiciliari, centri diurni e residenze sanitarie per garantire le cure a tutti i malati non autosufficienti, ma soprattutto era cambiata la cosa più importante, il modo di pensare delle persone. Piano piano si era imparato a considerare gli anziani come risorse, e non scarti di cui liberarsi al più presto, e io che ormai avevo superato la settantina ne ero più che felice. Vedevo negli occhi della gente non pietà, o disgusto, ma rispetto. Pensavo ancora alla fine, ma in cuor mio sapevo che arrivarci dignitosamente non sarebbe stato difficile come in passato. Mi ricordavo di mia zia, malata di Alzheimer; era stata ricoverata in ospedale per una polmonite e dimessa dopo poco tempo senza garantirle la continuità 115


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delle cure sociosanitarie di cui aveva bisogno. L’avevano abbandonata a casa dei suoi figli, i miei cugini, che non erano in grado in alcun modo di provvedere a lei. Avevo visto la famiglia sfaldarsi, ma ora era diverso e mi sentivo più fiduciosa. Nulla però poteva prepararmi alla mia malattia. Tutto era iniziato con dei semplici dolori articolari: alla schiena, alle spalle, qualche volta alle gambe quando io e Tommy, il mio amato cagnolino, allungavamo le nostre passeggiate. Inizialmente credevo che fossero soltanto gli acciacchi della vecchiaia, in fin dei conti avevo ormai settantatré anni, ma poi si sono aggiunti anche i tremori alle mani: quando sparecchiavo rompevo sempre qualche piatto o qualche bicchiere, faticavo sempre di più a scrivere e non riuscivo più a cucinare. La diagnosi del nostro dottore non lasciava spazio a dubbi, morbo di Parkinson. Quello è stato uno dei pochi momenti della mia vita in cui ho pensato di non farcela, in cui ho avuto paura di ciò che mi aspettava: non sarei stata più autosufficiente? Avrei dovuto passare la mia vecchiaia in un letto d’ospedale? Avrei dovuto costringere Stefano ad affrontare un destino così crudele con me? Tutti questi dubbi mi attanagliavano ogni sera, quando mi stendevo a letto e mi chiedevo se la mattina successiva mi sarei svegliata come mi ero addormentata. Non ero stata ospedalizzata, poiché ancora la malattia era a uno stadio lieve, ma temevo che sarei peggiorata molto. Naturalmente non potevo aiutare in casa e Stefano, anche con tutta la sua buona volontà, non ce la faceva da solo. In poco tempo avevo perso la capacità di camminare, anche solo per casa. Fu quello il periodo in cui spesso veniva ad aiutarci Veronica, la sorella minore di Stefano. Tra noi non scorreva buon sangue, non aveva mai perso l’occasione per 116


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criticarmi e sminuirmi di fronte a mio marito, con discorsi assurdi: “Non ti vergogni? Ti rendi conto che hai rovinato la vita di Stefano? Adesso neppure cammini e lui è costretto a portarti da tutte le parti. Ostinarti a rimanere qua è da egoista!” Qui dove? mi domandavo. In questa casa o in questa vita? “Se davvero ami mio fratello, per il suo bene devi andare in una casa di riposo”. Stefano non era d’accordo. Lui non mi avrebbe mai abbandonata lì da sola per il resto dei miei giorni ed era sicuro che saremmo riusciti a trovare un’alternativa valida. Chiese informazioni ad un’associazione di volontariato che si dedicava alla tutela dei malati non autosufficienti, per sapere quali fossero i miei diritti. Palesò il suo desiderio di trovare un’alternativa alla casa di riposo. L’Associazione lo aiutò a scrivere un’apposita richiesta all’Asl che poi gli fornì un elenco di residenze di cura disponibili ad accogliermi. In questo modo Stefano aveva scoperto che ad Altamura esisteva da poco una casa di cura proprio per i malati di Parkinson. Dopo un mesetto siamo partiti per Altamura e siamo stati accolti da una simpatica infermiera quarantenne: “Prego! Questa è Villa Eden!” abbiamo passeggiato a lungo per i viali del giardino, prima di entrare. Voglio dire, mio marito passeggiava, io stavo seduta sulla mia carrozzina mentre mi spingeva ed io assaporavo l’aria fresca d’inizio settembre. Mi portarono all’interno della struttura, mi fecero fare un giro, conoscere il personale ed alcuni pazienti nelle mie medesime condizioni. Stefano aveva trovato un appartamentino lì vicino, Tommy era rimasto il suo fedele compagno e a ripensarci mi prendeva la nostalgia. Ero ferma su di una sedia a rotelle, in una struttura lontano dai miei cari, mi mancava ogni piccolo aspetto di quella 117


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che era la mia quotidianità, le passeggiate con Tommy, la mia città natale, le camminate in riva al mare e il fantastico cibo che cucinavo con mio marito. Sicuramente non mi mancava Veronica. Non so se si fosse rassegnata, ma sicuramente non chiamava più. Nonostante tutto ciò che ho perso, non riuscivo ad evitare di sentirmi grata: grata allo Stato che non ci aveva abbandonati, grata all’associazione trovata da mio marito, grata agli operatori della villa che mi hanno sempre assistita, curata e trattata con rispetto, grata soprattutto a Stefano, l’amore della mia vita. 25 giugno. Oggi ricorre il nostro anniversario di matrimonio, Stefano mi ha portato quel bellissimo mazzo di rose rosse che ogni anno mi regala ma io purtroppo non posso far nulla; sono immobilizzata a letto a causa di una crisi che mi ha obbligata anche ad utilizzare un respiratore. La vita mi sta voltando le spalle ma io ancora non ho intenzione di abbandonarla e per fortuna c’è lui che è la mia forza e tutto quello che mi sento di dirgli anche se non riesco a comunicarglielo è che lo amo e che è e sarà sempre la mia fonte di felicità. Mi fa scendere dal letto e mi mette a sedere sulla carrozzina, quando lo fa lui è diverso, non mi fa sentire una vecchietta; mi sento una donna, che insieme a suo marito si prepara ad affrontare una giornata speciale. Per fare colazione mi ha portato quei pasticcini di cui sono sempre andata pazza, certo, non erano quelli del fornaio di Molfetta, ma se era Stefano ad avermeli portati allora erano perfetti. Siamo usciti in giardino, dove mi aspettava anche Tommy, che non poteva mancare in quel momento di riunione della nostra famiglia, e ci siamo seduti sotto quell’adorabile gazebo che mi aveva colpito dal primo momento 118


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in cui ero entrata a Villa Eden. Mi ricordava la veranda di casa nostra, dove avevamo consumato così tante di quelle colazioni… Aveva sapore di casa. Avrei tanto voluto dire qualcosa, almeno ringraziare Stefano, ma lui aveva esordito: “So che ora vorresti dirmi tante cose, lo leggo nei tuoi occhi che nonostante tutto sono rimasti quelli di cui mi sono innamorato tanto tempo fa, ma oggi voglio essere io a parlare. Sei bella come quella sera di tanti anni fa, quando ti ho intravisto nella fila d’ingresso di quella festa. Mi sei subito rimasta impressa, avevi quel qualcosa in più che non ho mai visto in nessun’altra, era come se solo con uno sguardo mi avessi sollevato dalle preoccupazioni, dalle sofferenze, da tutto quello che non era bello e piacevole. Ti ho accompagnato da sempre e continuerò a farlo finché, in un modo o nell’altro, non ne usciremo”. Ha distolto lo sguardo, non voleva farsi vedere con le lacrime agli occhi. Avrei voluto gettarmi tra le sue braccia, dirgli che lo amavo e che andava tutto bene. è stato bellissimo veder scorrere tutti i miei ricordi. Ora che me ne sono andata posso finalmente affermare che nonostante la malattia, la mia è stata una vita splendida. Mi chiamo Beatrice La Rocca, e sono morta ieri, nella mia camera di Villa Eden, a causa di un altro ictus. O meglio, mi sento morta, nonostante continuino tutti a definirmi in “coma vegetativo” quando parlano vicino a me, convinti che non li senta. Adesso sono ricoverata in ospedale. Ma come definireste voi il trascorrere monotono delle giornate su un letto, se non morte? Nonostante tutto, però, sono ancora qui. E non solo: ho raccontato la mia storia e adesso grazie ad essa vivrò per sempre. Non sarò io la sola a diventare eterna grazie a questa storia, ma lo diventeran119


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no tutti quelli che, come me, hanno vissuto una vita segnata dalla malattia, e magari non hanno avuto la possibilitĂ di far sentire la propria voce. Ora sono io la loro voce e, in questo momento, sono piĂš viva che mai. Costanza Fiorucci Benedetta Micucci Rebecca Ranieri Layla Stabile

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POSTFAZIONE La non autosufficienza non è mai un fatto privato Nel film “E se vivessimo tutti assieme?” (regia di Stéphane Robellin, Germania 2011) Jane Fonda, una bella signora di 73 anni, scopre di avere un tumore e pochi mesi da vivere, ma la cosa che più la inquieta è suo marito, di cui da un po’ di tempo ha saputo che ha una demenza e ne vede il progredire giorno per giorno. Cosa ne sarà di lui quando lei morirà? Perché di questo è certa: sarà lei ad andarsene per prima. Così si scaglia contro la vita; la ritiene ingiusta, perché sin da piccoli ci insegnano di tutto per stare al mondo, ma nessuno si preoccupa invece di spiegarci quali sono i nostri diritti, se diventiamo malati e non autosufficienti. Nel film l’attrice cercherà di trovare una soluzione per entrambi, ma sarà una soluzione privata e risolta con i molti soldi che hanno a disposizione. In questo libro, invece, si cerca di far capire che la non autosufficienza, che è conseguente ad una o più malattie croniche, non è e non deve essere una questione solo privata. Non è una faccenda personale del tipo “ti è capitata una disgrazia, mi dispiace, ma è un problema tuo”. Non deve essere così; la non autosufficienza è un problema di tutti. La non autosufficienza è un problema sociale La non autosufficienza, meglio sarebbe dire “le non autosufficienze” ci riguardano. Non è tanto l’invecchiamento della popolazione il problema (si invecchia meglio rispetto a un tempo), ma i passi da giganti fatti dalla medicina che aumentano le possibilità di vita tanto a un neonato con gravi patologie croniche, quanto a un giovane paralizzato 121


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dopo un incidente d’auto o sul lavoro, così come ad un anziano ultraottantenne dopo un infarto. Tutte situazioni in cui la persona continua a vivere, ma non guarisce più a causa della malattia cronica/disabilità ed è dipendente in tutto e per tutto dall’aiuto di altri. Le storie di fantasia, ma verosimili, dei nostri giovani scrittori in erba, descrivono bene le situazioni che possono capitare. Sono bravi i ragazzi a far emergere tutti i luoghi comuni che devono essere scalzati: non è la famiglia che deve garantire l’assistenza sanitaria e curare il malato non autosufficiente. I legami affettivi non si possono imporre; semmai, come si dimostra nei racconti di questo libro, quando ci sono, aiutano a tutelare questo diritto, perché un conto è la cura, un altro è il sostegno morale. Il diritto alle cure sanitarie è garantito, bisogna imparare a farlo valere in modo corretto e per iscritto In Italia la legge impone al Servizio sanitario nazionale di garantire il diritto alle cure qualunque sia la malattia e la durata e senza limiti di età o discriminazioni personali o di genere1. Inoltre, definisce i Livelli essenziali di assistenza socio-sanitaria (Lea) per i malati che diventano non 1 Le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, sono dovute anche agli anziani cronici non autosufficienti ai sensi della legge 23 dicembre 1978, n. 833 il cui articolo 2 stabilisce che il Servizio sanitario nazionale deve assicurare «la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata» e deve altresì provvedere «alla tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione». Inoltre l’articolo 1 della stessa legge 833/1978 sancisce che il Servizio sanitario nazionale deve garantire le prestazioni domiciliari, semiresidenziali e residenziali «senza distinzioni di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’uguaglianza dei cittadini nei confronti del Servizio» sanitario nazionale.

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autosufficienti, ovvero stabilisce quali sono le prestazioni indispensabili, che devono (e non “possono”) essere assicurate dalle Asl per il soddisfacimento dei loro bisogni che sono indifferibili e durano per sempre, ovvero cure domiciliari, centri diurni o ricoveri convenzionati in una struttura sociosanitaria2. Ma da alcuni decenni si approvano provvedimenti che hanno l’obiettivo di negare il diritto alle cure e per non entrare in evidente contrasto con quanto sancisce la legge 833/1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale, si falsifica la realtà. Così i malati diventano solo “persone fragili”, le prestazioni sanitarie si riducono a “interventi sociali o socioassistenziali”; i bisogni di prestazioni terapeutiche si riducono a semplice «bisogno di vigilanza/ badanza». In sostanza si nega la condizione di malati e, in tal modo, si nega il diritto a chiedere prestazioni al Servizio sanitario nazionale, dirottandoli dal settore sanitario, dove hanno un diritto esigibile, a quello dell’assistenza preferibilmente privata, ovvero sostenuta direttamente in proprio dai familiari. Contemporaneamente si cerca di rendere sempre più complicato l’accesso alle prestazioni del Servizio sanitario nazionale. È il caso delle valutazioni multidimensionali che, anziché essere utili per definire i progetti assistenziali personalizzati, sono sempre più strumenti di sbarramento per negare o ritardare la prestazione Lea: come se un malato non autosufficiente 2 L’articolo 54 della legge 2889/2002 conferma che il Servizio sanitario nazionale garantisce le prestazioni sanitarie e socio-sanitarie rivolte alle persone non autosufficienti e l’esigibilità dei diritti sanciti dai Lea è stata riconosciuta anche dalla Risoluzione n. 8-00191 approvata all’unanimità l’11 luglio 2012 dalla Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati.

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potesse aspettare, in lista d’attesa anche per anni, di ricevere le cure domiciliari o un posto letto in Rsa. I diritti esigibili e quelli da conquistare Nei racconti è indicata la via d’uscita, attraverso le leggi in vigore: in alcuni casi utile per il presente, in altri per costruire un futuro in cui sia “normale” ottenere, senza dover battagliare, le prestazioni sanitarie e socio-sanitarie a cui ha diritto un malato non autosufficiente, qualunque sia la sua età e la sua malattia. Il messaggio al lettore dovrebbe essere chiaro: “non basta toccare ferro perché a me non capiti”, ma d’ora in poi è meglio impegnarsi per non perdere i diritti acquisiti (ad esempio quello ad un posto letto convenzionato in una residenza socio-sanitaria senza entrare in lista d’attesa)3 e per ottenere dal Servizio sanitario nazionale quello che ancora oggi manca: la priorità delle cure domiciliari. Nel nostro Paese oggi non sono garantite in modo omogeneo le prestazioni domiciliari sanitarie e sociosanitarie e non è neppure riconosciuto un contributo forfettario per le maggiori spese a cui va incontro il familiare che volontariamente si rende disponibile ad accudire 24 3 Nel caso l’ospedale o la casa di cura convenzionata con il Servizio sanitario nazionale vogliano dimettere la persona malata non autosufficienza, le norme vigenti prevedono la facoltà di opporsi e richiedere la continuità delle cure fino a quando l’Asl di residenza inserisce il paziente in una struttura socio-sanitaria convenzionata. In base ai Lea l’Asl deve versare almeno il 50% del costo della retta; la parte restante è a carico dell’interessato che contribuisce con le proprie risorse; in caso non siano sufficienti può chiedere l’integrazione della retta all’ente gestore dei servizi socio-assistenziali, che è obbligato a intervenire in base all’Isee. L’Isee è definito dal decreto legislativo 159/2013 e s.m.i. ed è un livello essenziale, ovvero deve essere attuato con i medesimi criteri in tutto il territorio nazionale.

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ore su 24 un proprio congiunto malato/con disabilità non autosufficiente. Gli interventi sono sporadici, erogati dai Comuni e quindi compatibilmente con le risorse disponibili e in base all’Isee. Ricordiamo che non vi sono leggi che obbligano i familiari a prendersi in carico un loro congiunto non autosufficiente. Per incentivare le cure domiciliari ed estenderle in modo diffuso nel nostro Paese devono diventare una effettiva alternativa al ricovero in una Rsa. Nell’ultima petizione popolare per il diritto prioritario alle cure domiciliari, depositata in Parlamento nel mese di marzo 20164, abbiamo chiesto di riconoscere un contributo forfettario dell’Asl quale rimborso delle maggiori spese a cui va incontro un familiare che si rende disponibile 24 ore su 24 ad accudire un proprio congiunto malato non autosufficiente. Ciononostante il Parlamento non ne ha tenuto conto e non è intervenuto perché, nel testo dei nuovi Lea approvato dal Governo nel mese di gennaio 2017, venissero equiparate le prestazioni professionali assicurate da un operatore sociosanitario in una Rsa alle stesse che sono invece assicurate a casa dal familiare o da una persona di sua fiducia, con la supervisione del medico di famiglia o dell’infermiere del servizio di assistenza domiciliare. In caso di non autosufficienza conosciamo i nostri diritti? Il problema con cui dobbiamo fare i conti, come emerge dai racconti degli studenti, è che in generale diamo per scontato che riceveremo tutte le cure necessarie e senza 4 Il testo integrale della petizione popolare è disponibile sul sito www.fondazionepromozionesociale.it

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limiti di durata, se diventiamo non autosufficienti a seguito di un evento improvviso: un ictus, un infarto, un incidente in moto o in auto, sul lavoro, in montagna, una caduta dall’albero o dalla bici. In realtà non è affatto scontato. Non lo è neppure di fronte a una malattia cronica grave: un tumore, una malattia neurologica come la Sla o il Parkinson. Tragedie annunciate Così succede che, al termine di un ricovero ospedaliero, il familiare si senta “scaricare” letteralmente sulle sue spalle il peso del congiunto non più autosufficiente. Lo sgomento viene ben descritto nel libro, che ha il coraggio di affrontare anche temi dolorosi, ma giustamente gli studenti scelgono di evidenziare in prevalenza percorsi virtuosi, che assicurano la giusta soluzione. Nella realtà, al contrario, le conseguenze di dimissioni forzate possono essere tremende. Il familiare finisce per subire le dimissioni, ma non sempre è in grado di sostenere il peso economico e la fatica che ciò comporta e può finire in tragedia: il marito che uccide la moglie demente e poi si suicida5. Oppure si cerca un ricovero in una struttura privata che non costi molto, se non si hanno i mezzi per sostenerla. Il rischio di finire in pensioni abusive è altissimo, dove sono poi i Nas a scoprire le gravissime condizioni in cui versano gli anziani malati non autosufficienti e a provvedere al loro ricovero in strutture ospedaliere6. 5 Cfr. l’articolo di Carlotta Rocci, Soffocò la moglie malata di Alzheimer. Si uccide a 91 anni», in La Repubblica, 7 maggio 2016. 6 Nel libro di M.G. Breda e A. Ciattaglia, Non è sufficiente! Storie e proposte di chi lotta per garantire il diritto alle cure alle persone non autosufficienti (Altra Economia, Milano, 2013) nel capitolo «Per non dimenticare» è riportata una rassegna stampa di tragedie familiari che potevano essere evitate.

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Informazioni scritte Attraverso i racconti i giovani studenti si sono esercitati ad anticipare con la fantasia quello che potrebbe capitare anche a loro o a un loro caro. L’esperienza con l’Associazione Umana ha senz’altro fornito utili istruzioni per non cadere nelle trappole in cui sono finiti invece alcuni dei protagonisti dei testi. I libri, la cultura, servono per questo. Prepararci a situazioni impreviste e attrezzarci per saperci difendere. Attraverso i protagonisti dei racconti scopriamo che sono sufficienti poche lettere raccomandate per ottenere dal Servizio sanitario le cure necessarie per poter affrontare una realtà che non si può sostenere da soli. Ma bisogna saperlo. I racconti sono quindi un prezioso contributo che ci regalano i 52 studenti del Liceo classico Annibale Mariotti e i loro insegnanti, che hanno accettato di mettersi in gioco con un argomento certamente non facile, ma che siamo sicuri sarà un prezioso aiuto per loro e per le loro famiglie. Il laboratorio di scrittura non ha la pretesa di formare nuovi «Premi Strega», bensì quello di educare ad una coscienza etica e civile, perché i giovani protagonisti siano un domani adulti consapevoli dei loro diritti e capaci di intervenire per difenderli, soprattutto quando si intacca il diritto fondamentale alla salute. Interessarsi per tempo Attraverso ben 13 storie diverse, tutte con una verità di fondo, gli studenti ci stimolano a interessarci per tempo alle tutele di cui avremo bisogno in caso di perdita dell’autonomia nostra o di un nostro familiare. Ma c’è di più. Si coglie anche il desiderio di trasmettere la voglia di 127


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cambiare le cose che non vanno. Ad esempio il cittadino dovrebbe imparare a chiedere informazioni scritte alle istituzioni: allo sportello dell’ospedale, dell’Asl del distretto, dal medico di medicina generale, dagli assistenti sociali dell’unità di valutazione geriatrica. Sarebbe sufficiente un foglio nel quale siano indicati i diritti del malato non più autosufficiente, le norme di riferimento e gli uffici a cui rivolgersi per chiedere e ottenere subito le prestazioni di cui ha bisogno. Un nonno malato di demenza senile e, spesso, affetto da altre malattie croniche, non è una persona a cui basta un po’ di compagnia: è una persona con una malattia che gli impedisce sovente di dire anche solo dove ha male o di assumere correttamente le terapie da solo, o che non si ricorda di mangiare e di bere. È un malato che deve essere seguito 24 ore su 24, come un bambino di 2-3 anni. Conclusioni A volte ci telefonano persone con un articolo del quotidiano che risale a tre-quattro anni prima e la prima domanda è: “Siete la Fondazione? Vi occupate sempre degli anziani malati non autosufficienti?”. Sono persone che nel momento del bisogno hanno saputo utilizzare l’informazione che, previdenti, avevano messo da parte. L’invito quindi è a preoccuparsi di noi stessi e dei nostri familiari per tempo, attraverso l’assunzione consapevole di alcuni semplici comportamenti che potrebbero tornare utili: non rifiutare un volantino che ci viene distribuito per strada o davanti a un ospedale; partecipare a qualche conferenza, tenersi aggiornati ad esempio consultare ogni tanto il sito della Fondazione promozione sociale onlus. 128


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Gli studenti suggeriscono anche l’adesione o addirittura la promozione di associazioni di volontariato per la tutela dei diritti, ma anche le associazioni dei medici, degli infermieri, degli assistenti sociali, i sindacati e ogni associazione di malati cronici possono adoperarsi per promuovere informazioni sui diritti dei malati non autosufficienti. Ottenere il diritto alle prestazioni previste dalla legge per i malati non autosufficienti significa garantire anche i servizi sanitari e sociosanitari e le relative professionalità in misura adeguata al fabbisogno. I servizi sociosanitari sono infatti una risorsa economica e contribuiscono a creare ricchezza e posti di lavoro. I racconti hanno sicuramente aiutato questi giovani a prepararsi per il loro futuro e l’augurio è che siano artefici, con i lettori, di una nuova cultura dei diritti dei malati non autosufficienti, che ribalti la cultura dello “scarto” più volte denunciata da Papa Francesco, nei confronti di chi è ritenuto inutile dalla nostra società consumista e individualista. Un importante documento del Senato del 20157 sulla sostenibilità del sistema sanitario (forse troppo tecnico per trovare una cassa di risonanza nei mass media) rileva che “l’invecchiamento della popolazione, soprattutto l’invecchiamento in buona salute, è una conquista sociale e non può continuare ad essere considerato un drammatico fattore di crescita della spesa sanitaria e una grave minaccia per la sostenibilità del sistema”. E per quanto riguarda le risorse la relazione conclude: “la sostenibilità del sistema sanitario è prima di tutto un problema culturale e politico”. In sostanza è quello che noi (cittadini e istituzioni che lo rappresentano) decidiamo che sia. Se la medicina ci aiuta 7 Cfr. Commissione igiene e sanità del Senato, relazione del 10 giugno 2015

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a sopravvivere, pur restando cronici e non autosufficienti, inguaribili ma curabili, il Servizio sanitario deve garantire risorse anche per la lunga durata delle prestazioni e cure di cui avremo bisogno. Negarci le cure equivale a condannarci ad una eutanasia da abbandono terapeutico. E i nostri giovani fanno ben sperare. Nell’ultimo racconto la protagonista è una di loro, una persona anziana malata e non più autosufficiente, ben curata e accudita prima dai familiari con l’aiuto del servizio sanitario a domicilio e poi, nella fase finale della vita, ricoverata in una Rsa. Trasmette serenità e preannuncia un fine vita dignitoso. Si capisce che è questo che si attendono i giovani autori per sé, per i loro cari ed in generale per ogni individuo. Il consiglio è che, qualunque sia l’ambito in cui si troveranno a vivere da adulti, non dimentichino questa esperienza e siano a fianco di quanti continuano e continueranno a difendere i diritti dei malati non autosufficienti. L’auspicio è che siano in molti a leggere il libro e a farne tesoro e che ci siano altri insegnanti generosi, disponibili a mettersi in gioco (e a sobbarcarsi una fatica extra) per promuovere e sostenere la cultura dei diritti delle persone malate e non autosufficienti. Maria Grazia Breda Presidente Fondazione Promozione Sociale Onlus Torino

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RINGRAZIAMENTI Questo libro non sarebbe stato possibile senza il contributo, a vario titolo, di molte persone. Hanno contribuito alle attività formative preliminari: Patrizia Mecocci, Direttrice dell’Istituto di Gerontologia e Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia; Maria Grazia Breda, Presidente della Fondazione promozione sociale Onlus di Torino e Andrea Ciattaglia, giornalista, autori del libro Non è sufficiente! Storie e proposte di chi lotta per garantire il diritto alle cure alle persone non autosufficienti, edito nel 2013 da Altra Economia di Milano; Giovanni Ciocca, Lorenzo Curti, Vittoria Marsili e Tommaso Guarducci, studenti universitari diplomati del Liceo Classico Annibale Mariotti, autori del libro La giovane Umana, edito nel 2016 dal Cesvol; Domenico Madera e Alessia Rosi, attori, Associazione culturale Le Onde, hanno letto alcuni estratti dei racconti del libro La giovane Umana, in occasione della presentazione del progetto scolastico. Il laboratorio di lettura, preparatorio dell’auspicabile futura realizzazione della versione audio-libro, si è avvalso della collaborazione di: Sandra Fuccelli, bibliotecaria referente del progetto Leggi per me della Biblioteca comunale San Matteo degli Armeni di Perugia; Gabriele De Veris, bibliotecario della medesima Biblioteca; Fausto Minciarelli, donatore di voce del progetto Leggi per me; Caterina Fiocchetti, attrice, Compagnia Art Niveau; Enrica Tosti, referente della Sezione provinciale di Perugia 131


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dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti. Hanno contribuito alle altre attività svolte nell’ambito dell’esperienza scolastica: Lucia De Stuers, Presidente dell’Unione Parkinsoniani di Perugia; Fiammetta Burani, collaboratrice dell’Unione Parkinsoniani, autrice del libro Le mani tremano i ricordi no, edito nel 2015 dal Cesvol; Barbara Gentile e Luca Bisdomini, autori del libro Io ce l’ho fatta...!, edito nel 2015 dal Cesvol. Ilaria Truglia, psicologa, Associazione Clinè; Claudio Francescaglia, rappresentante della Fondazione Centro Studi Aldo Capitini di Perugia; Alessandro Lucibello, Presidente della Sezione Amnesty International di Perugia. David Grohmann, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie Alimentari e Ambientali dell’Università degli Studi di Perugia, ha donato il suo contributo di lettore e disegnatore ispirato dai racconti, realizzando l’illustrazione di copertina del libro. Stefania Iacono, referente del Cesvol, ha fornito la sua preziosa collaborazione alla promozione del progetto scolastico e curato la realizzazione editoriale.

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indice Prefazione di Giuseppina Boccuto p.7 Introduzione di Elena Brugnone p.9 Racconti Con gli occhi di un bambino di Celene Di Matteo, Tommaso Dottori, Maria Vittoria Fulvi e Federica Moriconi

p.15

Storia di un ricordo p.20 di Francesca Bugiardi, Valentina Margaritelli, Isabella Martani e Alessandro Volpe Tracce di vita p.28 di Mohammed El Aouach, Luigi Giovagnoli, Martina Mori e Costanza Valdina Nebbia dell’anima p.35 di Carlo Alberto Angelini, Davide Bettolini, Federica Dominici e Maria Maestrini La stagione del vento p.50 di Gregorio Ceccagnoli, Chiara Franceschini, Alessandra Fusco e Luisa Pecetti 133


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Il fumo della vecchiaia di Valentina Negri, Riccardo Regni , Giorgia Sfodera, e Cecilia Tozzuolo

p.56

Dove i soldi non arrivano di Riccardo Campana,Vittoria D’Alessandro, Francesco Dean e Camilla Mastrolia

p.67

L’ultimo treno p.76 di Francesco Arcese, Ludovica Barcaccia, Valentina Giunta e Alberto Moretti A braccia aperte p.84 di Arianna Flamini, Maria Chiara Orsini, Francesca Piazzai e Michele Rondini La scelta p.90 di Ottaviano Augusto, Sofia Braccalenti, Luca Caporaletti e Federica Grasselli Il sole della felicità p.98 di Bianca Paoletti, Benedetta Perretti, Elisa Rossi, Virginia Santi e Antonio Scarponi I Martinez p.106 di Diletta Protani, Alice Sacchi e Lisa Simonetti Memory Lane - una passeggiata tra i ricordi di Costanza Fiorucci, Benedetta Micucci, Rebecca Ranieri e Layla Stabile 134

p.114


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Postfazione di Maria Grazia Breda p.121 Ringraziamenti p.131

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