Storia nr.8
incontri Una storia capovolta Non ricordo mai nessuna volta in cui un cambiamento, una nuova fase della vita, un nuovo progetto, non abbia portato con sé conseguenze disastrose. Giusto per collocare tutto questo racconto dentro una cornice che sa di realtà, di sogni rincorsi e desiderati, di sensi alla prova, di ricerche mai esaurite. Disastrose perché somigliano ai terremoti. Chi ha vissuto l’esperienza del terremoto lo sa bene. All’improvviso c’è una forza che non dipende da noi, che non si può contrastare e a chi mi chiede perché è nata un’avventura di relazione (servizio e volontariato mi sembrano parole troppo grandi…) al passo con una umanità più fragile, o comunque in cammino a piedi nudi, posso solo rispondere che è stata una “necessità interiore”. Nulla di più. Sono passati più di 20 anni da quando ho incontrato la Fondazione Exodus, e don Antonio Mazzi mi disse “Parti, vai e vedi”. E sono partita, con tantissime idee nella testa, tante certezze, ed è stato un disastro. Sapevo che avrei vissuto in una comunità per tossicodipendenti, nel Lazio e la mia intelligenza interiore aveva accumulato talmente tante risposte che mi sentivo pronta a quel cambiamento radicale. Per molto tempo, invece, mi sono sentita come quegli adolescenti africani che affrontano il rito di iniziazione completamente nudi, con il volto pitturato quasi a volerne cancellare i lineamenti, e si inoltrano nella foresta armati unicamente di arco e frecce. Se sopravvivono significa che sono diventati adulti. Me lo disse anche don Antonio: se sopravvivi… E sono passati gli anni, anni di assestamento, proprio come le scosse di terremoto. Anni in cui crescere, cambiare prospettive, cambiare i linguaggi, le competenze, le relazioni. Fino al momento in cui la “necessità interiore” si è di nuovo risvegliata e ho capito che la strada doveva in qualche modo proseguire. “Apriamo una casa aperta a tutti”, era il sogno condiviso. Una casa senza distinzioni tra disagio e normalità, tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi crede e chi non crede, o semplicemente crede e vive in modo diverso. Ma fino a quel momento la distinzione tra chi stava bene e chi no era comunque una linea di demarcazione netta, codificata, 42
incontri chiara; così come era chiaro il progetto e nel giro di poco tempo abbiamo anche trovato una casa in affitto ad Assisi. E sono partita. Con poche risorse, grandi ideali, tutti scritti sulla carta e nella testa. Ricordo perfettamente quei pochi soldi, tenuti insieme da un elastico, che don Mazzi mise nelle mie mani; con una parte comprai una vecchia macchina usata, con il rimanente detersivi e scope per spazzare via la muffa e dare una parvenza di accoglienza ad un luogo quasi abbandonato. Furono gli stessi ragazzi della comunità da cui ero partita a darmi una mano. Poi loro sono ripartiti, ed io sono rimasta, con un grande senso di smarrimento. Ci sono stati lunghi giorni e mesi di solitudine, la caldaia che non funzionava quasi mai e non c’erano soldi per farla andare come doveva, il freddo era insopportabile; e poi c’erano i giorni abitati, il via vai di nuovi ragazzi, di famiglie, di adolescenti “senza distinzioni tra chi stava bene e chi no”. Ma ecco il grande paradosso e la grande trasformazione che non mi aspettavo: non erano quelli “chi no” a creare problemi e fatiche e incomprensioni. Non erano loro a non saper stare insieme, a non rispettare quegli spazi faticosamente –e poveramente- ricostruiti; erano gli altri, quelli “che stavano bene” a rendere difficile il progetto. Se chiedi a un ragazzo che è stato in carcere di prendersi un’ora di silenzio e di solitudine ti risponderà che un’ora è davvero poca, ma soprattutto non ne avrà paura. Se chiedi la stessa cosa a un adolescente o a un giovane “normale” (giusto per distinguere, ma a questo punto diventa ben chiaro che questa separazione di identità è azzerata) ti guarderà inorridito, soprattutto se uno spazio di silenzio comprende lasciare spento il cellulare; ti guarderà spaventato se gli dici che è meglio evitare di portarsi dietro valigie tanto grandi da non starci nelle stanze, che il bagno si condivide e si lascia pulito, che se un giorno manca l’acqua non è una tragedia e che se fa freddo ci si veste un po’ di più. La casa anno dopo anno è divenuta così “la casa dei racconti”, e i muri ora sono disseminati di fogli scritti, fotografie, appunti di viaggio, saluti di chi parte a chi arriva. “Stasera voglio guardare l’infinito e rendermi conto che non si può 43
incontri morire prima che la vita finisca, non si può morire in una vita di niente, e allora voglio vivere tutti gli istanti, tutti i pensieri…”. Non so che fine abbia fatto il “ragazzo della strada” che ha scritto queste parole. È alta la percentuale di probabilità che non sia finito bene. Ma queste parole sono rimaste e niente potrà cancellarle, nemmeno la morte. Perché la verità è che molti di quei volti, le cui foto sono sparpagliate dappertutto, sono di giovani che non ci sono più. Non c’è più Carlo (nome di finzione) ma il ricordo di quei giorni insieme fa parte di quelle storie che ancora oggi, a distanza di anni, non ci stanchiamo di raccontare. Era in programma una visita agli affreschi di Giotto, e decidemmo di lasciare i ragazzi liberi di muoversi per la basilica, prendendosi tutto il tempo che volevano. Carlo disse “Io non posso essere lasciato solo, sono agli arresti”. “Ma noi ci fidiamo di te, vai tranquillo”, gli rispondemmo. Dopo un’ora il gruppo dei ragazzi ritornò, inebriato di tanta bellezza, e non ne mancava nessuno. Poco tempo dopo Carlo morì, in circostanze mai chiarite, e la notizia suscitò in tutti la tristezza estrema per chi “non ce l’aveva fatta”. Ma era davvero così? Chi di noi può definire con certezza cosa significa “farcela”? Carlo, dopo quella giornata da “libero”, disse queste parole “E’ stata la prima volta in cui qualcuno mi ha dato fiducia”. In fondo ce l’aveva fatta. Aveva conquistato la sua parte di libertà, e forse non serviva altro. Ripenso anche ad un’altra esperienza straordinaria, anche se tante altre ce ne sarebbero da raccontare. Era presente in casa un gruppo di giovani e meno giovani reduci da risvegli da coma o con gravi malattie degenerative. A dare una mano c’erano un paio di ex carcerati di una nostra comunità. Tra questi ospiti un carabiniere che non riusciva più a camminare, affidato alla cura di questi due ragazzi, che ogni mattina lo sorreggevano per scendere le scale e per accompagnarlo nelle attività. E ogni giorno si è presentata a me questa scena: il carabiniere sorretto da gente che un tempo scortava dentro e fuori le carceri, imprecava benevolmente con questo ritornello costante: un tempo ero io a farvi da scorta, oggi senza di voi non posso fare nulla. Ho assistito a un capovolgimento della storia. Ogni giorno, da quan44
incontri do sono partita per questa avventura scalza, la storia si è ribaltata, dentro e fuori di me. Eravamo nel 2003, dopo dieci anni da quel primo giorno in quella casa, con l’odore di muffa che si è via via trasformato nell’odore di vastissima umanità, ecco di nuovo “la necessità interiore” farsi spazio e spingere verso ulteriori cambiamenti e trasformazioni. Quel progetto vissuto tra le montagne dell’Umbria aveva bisogno di “scendere” tra i giovani e gli adolescenti di un territorio che forse vivevamo troppo poco. Dopo tanti anni tra tossicodipendenti, carcerati, famiglie più o meno complesse e variegate, campus educativi, lavorativi, culturali, il bagaglio era sufficientemente completo per tentare una nuova avventura e l’occasione si presentò con un progetto presentato dal Cesvol di Perugia, a cui abbiamo dato il nome “Giovani al centro”. Si trattava di proporre un modello educativo e di prevenzione nelle scuole attraverso la musica, il teatro, il movimento del corpo, la radio, per intercettare bisogni, aprire spazi di condivisione e aggregazione con una attenzione particolare alle situazioni di disagio esplicito o sommerso. Era arrivato il momento e mi sentivo pronta. Avevo attraversato mondi e storie difficilissime e bellissime, avevo la possibilità di intraprendere una nuova avventura. Niente di più sbagliato. Ancora una volta quel passo in avanti segnò un lungo periodo di smarrimento, di apparenti risposte tramutate in nuove domande. Mi sono ritrovata nelle aule scolastiche armata dei miei strumenti educativi (e dei miei strumenti musicali, visto il mio passato ormai lontanissimo nel mondo da cui provenivo, che era quello del Conservatorio) che però si rivelarono ben altro calati in quel contesto. Certo sulla carta c’era scritto che facevamo un lavoro di prevenzione attraverso l’arte e la musica d’insieme, ma quei ragazzi incontrati e conosciuti avevano davvero voglia di sentir parlare di tutto questo? Forse avevano solo bisogno di uno spazio in cui ritrovarsi. Io stessa dovevo diventare spazio. Le parole, lo stimolo alla riflessione, i pianoforti e gli spartiti erano solo una parte di questo spazio. Il resto era la voglia di ballare, di chiacchierare, di innamorarsi, di raccontare, di 45
incontri fare quel tipo di confusione a cui non ero abituata e in cui mi sentivo dolorosamente estranea. E poi c’era la fatica con gli insegnanti, che non comprendevano. Tornare a scuola per studiare sì, ma per ascoltare musica a tutto volume che senso poteva avere? E per me che senso aveva? Da quei primi giorni sono passati cinque anni. Quei ragazzi ora suonano il pianoforte, la viola, il violino, la chitarra, scrivono e recitano poesie, ed io ho imparato il rap e pure qualche passo di bachata. Ed eccoci ad ora. Una nuova sfida. Prima la comunità terapeutica, poi la casa dei racconti, poi le scuole superiori con le arti e le relazioni. Tutto era pronto per un nuovo salto in avanti. Tutto scritto, tutto chiaro. Se ero riuscita a passare per tutte queste strade ancora da inventare, e il disagio era diventato normalità, e normalità il disagio, con sconfinamenti impensabili e in fondo anche affascinanti, il passo successivo doveva essere semplice e indolore. Anche stavolta niente di più sbagliato. La Fondazione Exodus onlus ha partecipato al “Bando Adolescenza” promosso dall’impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, superando la selezione nazionale con il Progetto “Donmilani2: Ragazzi Fuoriserie”. Così per sviluppare ulteriormente il progetto anche su questo territorio umbro ho accolto la richiesta di un intervento educativo, oltre che nelle scuole superiori dove già eravamo presenti, anche in una scuola media. Dopo aver lavorato coi ragazzi più grandi ho dato per scontato che il lavoro sarebbe stato estremamente più semplice, finché tutto ha iniziato a sfuggirmi dalle mani. Ero di nuovo a piedi nudi, ad imparare nuovi linguaggi e nuove dimensioni, a gestire un gruppo di educatori che mi chiedevano risposte urgenti là dove io stessa faticavo a comprendere. Ho passato mesi a riformulare ogni cosa, a conoscere, incontrare, cercare di capire, tentare soluzioni, cambiare metodi, inventare e ricominciare ogni giorno da capo. Ricordo, in particolare, un giorno difficile, quando chiesi l’intervento di una psicologa per osservare il gruppo dei ragazzi senza controllo. 46
incontri Cercavo aiuto, ma volevo anche dimostrare che gli strumenti e le scelte erano buoni. Quindi con la massima predisposizione alla positività mi sono aggirata per l’aula sorridente sotto lo sguardo severo dell’osservatrice, finché ho deciso di sedermi su uno sgabello a cui i ragazzi avevano tolto le viti di supporto. Non me lo ricordavo, anche se li avevo visti. Così sono caduta, a rallentatore, cercando disperatamente un appiglio, e mi sono ritrovata a terra. Ancora adesso ricordo quel giorno ridicolo, e ripenso a tutte le volte in cui ho dovuto imparare a rialzarmi. Un giorno un ragazzo mi chiese il significato della parola cantiere: è un luogo dove si lavora oppure dove si canta? Ci ho pensato bene… ho risposto che significa: un luogo in cui si lavora cantando. Mi siedo al pianoforte, coi ragazzi più grandi che ormai suonano Bach, ma anche i liuti e le ghironde, e passeggiamo insieme tra le note parlando di vita e di emozioni e di vissuti. Perché non siamo un conservatorio, ma un istituto professionale e un centro di giustizia minorile, che forma uomini e donne che, forse, un giorno troveranno un lavoro umile e faticoso, e lo faranno cantando. Ma anche coi ragazzi più piccoli, i più disperati, coi sensi in divenire e segnati da contesti poverissimi è possibile sperimentare linguaggi che vanno oltre la ragione. I tasti di un pianoforte, il suono di una viola, possono emozionare e raccontare la vita più di ogni altra cosa. Così nel mondo della scuola tutte le esperienze educative e tutte le sperimentazioni di tanti anni si sono incontrate: sono diventate comunità, strada, ascolto, prevenzione, aggregazione. Non sono insegnante ma in fondo insegno, in una maniera diversa. Non sono compagna di classe ma in qualche modo mi faccio compagna. Non sono psicologa, ma passo molto tempo ad ascoltare. Non metto voti, ma provo ad aprire possibilità di apprendimento a chi fatica a stare al passo. Scriveva Jung: “prendersi cura e mettersi a servizio del povero e della persona in difficoltà è cosa molto buona e grande virtù”. Ma cosa succede se a un certo punto ti accorgi che sei tu il povero e la persona in difficoltà? Questo è il grande capovolgimento della storia, di cui non sono stata solo spettatore meravigliato, ma anche soggetto profonda47
incontri mente coinvolto. Io stessa mi sento storia capovolta. E se riguardo a tutta questa strada percorsa, questa avventura “in bilico”, penso che ogni volta in cui si raggiunge un equilibrio sia questione di un istante, poi tutto ricomincia a scomporsi, per questo è anche esperienza di bellezza. Scomposizione significa dolore ma anche semplificazione, significa frammentazione della luce nei colori che la compongono. Tutto ciò che esiste ha solo bisogno di essere trascritto e questa è una avventura di trascrizione. “Basta un gesto per salvare un figlio. Dobbiamo arrivare prima, prima che la vita dei nostri ragazzi si spezzi” Don Antonio Mazzi
Barbara Invernizzi Fondazione Exodus Onlus Exodus ha come obiettivo principale quello di offrire risposte pedagogiche efficaci ai gravi problemi di disagio sociale giovanile, con particolare attenzione alle tossicodipendenze
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