Alba d’agosto

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Alba d'agosto di Valentina Tatti Tonni

sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni

CESVOL UMBRIA EDITORE

Quaderni del volontariato 2021

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Quaderni del volontariato 8

Edizione 2021


Cesvol Centro Servizi Volontariato Umbria Sede legale Via Campo di Marte n.9 06124 Perugia tel 075 5271976 www.cesvolumbria.org editoriasocialepg@cesvolumbria.org

Edizione agosto 2021 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono In copertina foto di Armando Lanoce Stampa Digital Editor - Umbertide

Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. È vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzato.

Questa è un’opera di invenzione, ogni riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale e non intenzionale.

ISBN 9788831491143


I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo ha bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederlo, le orecchie e il cuore per imparare a sentirlo e aiutare gli altri a riconoscerlo. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati. Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, 3


per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio Cesvol Umbria

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Alba d’agosto di Valentina Tatti Tonni

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Non è necessario rinunciare al passato per entrare nel futuro. Quando si cambiano le cose non è necessario perderle. JOHN CAGE

Potete immaginare, creare e costruire il luogo più meraviglioso della terra ma occorreranno sempre le persone perché il sogno diventi realtà. WALT DISNEY

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- Hai letto quel libro in cui c’è un giovane che scrive a Rilke chiedendogli come poter diventare un poeta e come poter affinare la sua scrittura? - No, però sono curioso: che cosa gli consigliò lui? - Questo ragazzo, forse come tutti i ragazzi, sembrava essere insicuro tanto che, questa cosa me la ricordo bene, Rilke a un certo punto gli dice che – erano lettere – se voleva scrivere e ne sentiva la necessità dal profondo non era a lui che doveva chiedere come fare, perché semplicemente sarebbe stata quella volontà a permettergli di farlo. - Mi sembra giusto. - Sì, ma anche difficile.

Tra loro tutto iniziò per caso e al caso aggiunsero i dettagli, smussarono gli angoli, sfoltirono la nebbia. Al caso poi unirono i tasselli di una storia già vista per raccontarla con parole nuove.

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Torino, 15 agosto 2021 Clinica Porto Nuovo, ore 18.30 Incontro tra il paziente Romeo Roccasecca e la dottoressa Arianna Martinelli. Il medico Alessandro Casparri le sottopone il caso di un uomo con deliri e allucinazioni per un secondo parere perché il collega Michele Carletti non ne ha ricavato nulla. Forse lei con le sue tecniche di narrativa terapeutica potrebbe riuscirci, ma bisognerà impegnarsi e svestire la struttura, trovare il vero colore oltre la carta mentale. - Dottore, mi dica, il paziente non ricorda niente? - Poco e a tratti, mi sembra che soffra di un disturbo psicotico breve dovuto a un rilevante fattore di stress. - Quale di preciso? - Due mesi fa sua moglie Elena Sofia ha avuto un incidente stradale all’incrocio tra via Madama Cristina e Corso Dante. - E cos’è successo? - Sua moglie è morta sul colpo, così dopo quasi trent’anni di matrimonio lui è rimasto solo. Ha avuto un crollo e da allora si è rifugiato in una realtà parallela, si rifiuta di affrontare il presente. Il calendario ne è un esempio. - Fermo a maggio. – constatò lei. – Che lavoro faceva prima di entrare in clinica? - È stato per lungo tempo un giornalista enogastronomico, forse gliene farà vanto.

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Giorgio e Arianna non si vedevano da ventotto anni. I loro genitori erano fratelli ma un bel giorno, senza motivo apparente, avevano litigato minando per sempre i rapporti tra i cugini. O almeno così era stato per tutto quel tempo in cui non si erano frequentati. Arianna non era più la bimba cicciottella che saltellava per casa e Giorgio, già in quegli anni più grande di lei, portava tutta un’altra stazza addosso. Era stato lui a mettersi in contatto: con un nome inventato, prestato dai fumetti, Tex, gli aveva scritto un messaggio su Facebook chiedendole se lei era la persona che credeva che fosse. Lo era. Cominciarono a scriversi con curiosità e diffidenza. Prima per riempire i vuoti di quell’esistenza passata a non conoscersi, per indagare motivi e cause dell’allontanamento. Poi per cercare similitudini tra loro. Arianna, dopo poco, gli scrisse che non aveva interesse a risvegliare il passato: - Sai, da piccola avrei dato qualunque cosa per capire perché non potessi conoscerti, che cosa fosse successo tra i nostri genitori di così grave. - Ed ora no? - Magari un po’ di curiosità mi è rimasta, ma entrambi loro sono morti e non credo abbia senso continuare a parlarne. - Perché non possono più darci alcuna risposta… - Esatto, staremo qui a fare ipotesi, invece credo che dopo ventotto anni di silenzio tra noi non dovremo perdere altro tempo ma perdonarli e andare avanti. Giorgio si convinse che lei aveva ragione. Lui era un ristoratore disoccupato, Arianna una scrittrice. Quella mattina davanti al Palazzo Reale si cominciava ad intravedere il primo sole primaverile, quando lei riprese a parlare di Rilke: 12


- Mi hai detto che vuoi scrivere. Parafrasando Rilke ti dico: fallo, non chiedere a me. Poi vedremo cosa ne uscirà fuori. Poche settimane dopo aver perso il lavoro fu assalito da una voglia irrefrenabile di scrivere. Aveva il sussidio di disoccupazione, sapeva di dover trovare un posto da qualche parte prima che finissero i soldi, ma qualche risparmio da parte lo aveva e per una volta si disse che non aveva la testa per ricominciare. Almeno non subito. No, voleva scrivere. In cucina si sentiva un artista e credeva che con la solitudine acquisita dall’aver chiuso un matrimonio infelice avrebbe potuto maturare quella grandezza che gli mancava. Si sentiva in difetto, però, perché non pensava di avere uno stile e quindi, per questo, iniziò a chiedere di Rilke prima di decidersi a buttare giù qualche parola sul foglio. - Direi che dovresti avere in mente un soggetto su cui concentrarti, potrei forse consigliarti qualche esercizio di creatività… - No, grazie Arianna, ma voglio mettermici seriamente senza usare scorciatoie. Forse una storia da raccontare ce l’ho, un thriller! Arianna in quel periodo stava passando un momento difficile, quasi una crisi mistica. Dopo quasi vent’anni di servizio editoriale, ne aveva piene le tasche, la nausea verso quel mondo. Quando Giorgio arrivò a chiederle suggerimenti, lei erano già tre mesi che non scriveva nulla, ma stranamente aiutarlo e cercare di rispondere a quei suoi quesiti le faceva piacere, quasi rappresentasse una speranza. Lui seguiva quell’itinerario in modo ingenuo e fiabesco, mentre lei conosceva ogni perduta 13


strada ed ogni buca nascosta; si disse che non poteva permettergli di saltare l’ostacolo da solo. - Un thriller? Se ti vuoi cimentare nel mistero posso indicarti libri di Arthur Conan Doyle e Agatha Christie, certamente dei maestr… Ma prima che lei ebbe concluso la frase, lui era già partito in quarta. Scrisse per un bel po’ di giorni prima di presentarle un estratto.

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La uccise, non c’era altro modo. Fu più facile del previsto. Bevve dal calice di vino rosso e si alzò dalla sedia che sostava di fronte la sua vittima stesa sul pavimento. Un così bel pavimento, pensò, un peccato che avesse dovuto sporcarlo. Non le aveva lasciato molte possibilità. Se non quel pomeriggio, Helena sarebbe comunque morta prematuramente. Per non vederla più avrebbe potuto imbarcarla su una nave, comprarle vestiti eleganti e un biglietto aereo di sola andata per paesaggi esotici e lenti, riempiendole la valigia con soli costumi a taglie piccole. Helena amava la lettura anche se di rado si concedeva ai romanzi rosa, ascoltava pettegolezzi ma non aveva mai niente da dire, di musica preferiva quella che poteva capire: solo parolieri di bell’aspetto e nulla di strumenti e note. Le piaceva ridere e Alessandro amava la sua risata, persino l’ultima volta che la vide e sapeva che non l’avrebbe rivista scherzò con lei al solo scopo di udire la sua calda risata, di vedere sul suo volto riposato le curve della bocca arrampicarsi e distendersi ai lati delle guance; era giovane e sarebbe rimasta tale per sempre. - Non so perché ma questo iniziò mi ricorda Joyce, la persistenza dei morti nelle nostre vite. - Disse lei ad alta voce, ma Giorgio continuò a dare sfogo alla lettura come se nulla fosse. …tale per sempre. Nell’aprile del 1983 Alessandro apriva la sua piccola libreria nella periferia della sua città, le autovetture erano silenziose sulle strade umide, le biciclette sfrecciavano rapide. Come faceva di solito tirò fuori dalla porta principale un grande vaso con un esile alberello d’arancio, speranzoso che il bel tempo in arrivo l’avrebbe aiutato a riprendersi dal cagionevole inverno. 15


Feroci scontri invadevano i quartieri: donne e uomini di ogni estrazione sociale scendevano in strada a suon di rimostranze cercando consenso tra la gente. Helena partecipava spesso a quelle manifestazioni con l’intento di provare a cambiare le cose. Aveva una speciale predisposizione a vedere tutto in positivo, non alzava mai le mani e parlava con tono pacato e sensibile dei temi di attualità che dovevano essere dibattuti per poi coinvolgere la società gradualmente. Quella mattina mentre Alessandro accendeva le fragranze profumate al cedro e le disponeva agli angoli della stanza, tirava via le tende facendo entrare la luce dalle vetrate e accendeva la cassa per i conti, un cassone dei rifiuti ad un isolato più avanti si infuocò raggiunto da alcune urla. Le udì vicine a lui e rientrò frettolosamente nel negozio chiudendosi la porta alle spalle. Sentì dei passi moltiplicarsi e sbattere contro l’asfalto, le sirene della polizia di fianco. Un passo più lento si fermò davanti alla porta e lui sentì bussare piano. Si girò, una donna di bell’aspetto attendeva. Impacciato aprì adagio e le fece segno di entrare, quasi inchinandosi, esagerato. Sembrava che in un attimo il frastuono che aveva preceduto quell’incontro si fosse dissolto. Disse buongiorno e le chiese se avesse bisogno di aiuto, di una guida turistica o di un libro più specifico. Lei non ascoltava, era entrata per nascondersi ma si concentrava a guardare fuori dal vetro. D’un tratto uno sparo colse di sorpresa anche il libraio, assorto in lei. Helena uscì di scatto, senza il cenno di un saluto, corse verso una folla e vide a terra un corpo maschile giovane con un forellino sulla tempia e le mani inerti. Non disse nulla mentre la madre si dimenava e altri uomini cercavano di placarla e di interrompere il dolore che l’avrebbe soffocata. Era un figlio della rivoluzione che la polizia aveva eliminato forse per evitare che parlasse ad altri dei brogli elettorali, 16


del buco dell’ozono, della grammatica universale. Marco leggeva i filosofi dell’Ottocento, riparava biciclette in una vecchia officina e vestiva colorato, aveva da poco conosciuto una ragazza per cui aveva perso la testa e aveva convinto Helena a farlo partecipare all’evento sperando di potersi avvicinare a lei. Marco credeva nella rivoluzione perché i diritti non dovrebbero essere solo tasselli di una elaborata teoria economica ma bisognerebbe attuarli e rendere partecipi tutti i cittadini. L’utopia che lo aveva assassinato. Helena non aveva tempo per sentirsi in colpa. Tornò alla libreria con uno sguardo ombroso e trovò ad aspettarla Alessandro che aveva assistito all’accaduto, atterrito. Le offrì di entrare, avrebbe preparato una tisana aromatica per distendere i nervi. La polizia giunse sul luogo e trascinò via la madre di Marco disperata per prendere una deposizione mentre l’autoambulanza portò via il corpo del figlio, senza fretta. Ogni mattina Alessandro tornava al negozio sperando di poterla incontrare di nuovo, non le aveva lasciato alcun recapito telefonico e non si erano scambiati neanche il nome. Di lei sapeva solo che si impegnava politicamente, che aveva sani ideali e che portava un dolce profumo alla mandorla. Tanto dolce che quando se ne andò quel giorno dovette tenere aperta la porta almeno un paio d’ore. Anche se quel profumo gli provocava una forte nausea lo amava inconsciamente e fece in modo, sebbene i suoi sensi non lo volessero, di convincersi che in realtà gli piaceva. Non appena chiuse la libreria per l’ora di pranzo si recò in una erboristeria fornita e ordinò un flacone di profumo alla mandorla, in modo da potersi abituare a quell’odore… 17


- Che te ne sembra fin qui? – le chiese facendo una pausa. Erano seduti al tavolo del Tre Galli, al quadrilatero torinese. Arianna non aveva potuto toccare cibo da quando si erano seduti, tanta era l’impazienza di lui nell’avere un suo parere. - Bella l’idea di iniziare dalla fine. - E…? - C’è qualcosa in questo Alessandro che non mi torna, è strano. - Non sai quanto… Dai, mangiamo, qui hanno una grande attenzione per i prodotti locali. – Disse mentre la spronava ad assaggiare il vitello tonnato. - Ma, Giorgio, questa non è la tua prima prova da scrittore, vero? - Ehm no, hai ragione… sto dietro a questo racconto da qualche anno… Tutto è nato da un articolo di giornale, c’era stata una manifestazione e dagli scontri con la polizia c’erano stati dei feriti. - Ed ecco com’è nato il personaggio di Marco! - Sì, c’era il corpo di un ragazzo a terra, non so se si chiamasse Marco. Fu trasportato in ospedale d’urgenza e credo si fosse salvato; però mi sono chiesto chissà cosa sarebbe avvenuto se invece fosse morto… beh, non è poi difficile immaginarlo, ricordo la tensione degli anni di Piombo. - E, invece, dimmi: tua moglie per caso si chiamava Elena? - Sì, ma senza acca. Si oscurava sempre pensando ai tempi passati. Ma continuò a scrivere. Chissà se, ritornando a Joyce, fosse stata lei a morire per lui o viceversa. 18


A quell’odore… Da qualche settimana verso le dieci e trentacinque della mattina di fronte alla vetrina delle novità si fermava una signora, con passo svelto e vivace sostava per qualche istante nell’angolo dedicato ai romanzi storici e poi non appena vedeva lo sguardo curioso di Alessandro incrociarsi al suo se ne andava quasi correndo. Una di quelle mattine, attento all’orologio Alessandro la predisse e uscì dal negozio qualche minuto prima del suo ipotetico arrivo, si chiuse la porta alle spalle e appese al centro un biglietto che informava la clientela che sarebbe rientrato poco dopo. Andò a sedersi in un bistrot da dove poteva vedere se fosse arrivata. La lancetta dei minuti arrivò brevemente sul trentacinque e lei venne fuori da un vicolo, voltò su per la strada e si fermò a guardare i romanzi. Da quell’angolatura non poteva vedere se lei si fosse accorta di lui ma si convinse che lo stava aspettando, per cui pagò il conto e attraversò la strada per raggiungerla. Le passò di fianco sfiorandole con le dita il vestito, poi la guardò con un sorriso che gli sembrò essere appropriato alla situazione e aprì la porta attendendo un suo passo. Lei lo fissò con aria confusa e strinse gli occhi quasi per vederlo meglio, gli fece una mezza smorfia e cambiò direzione. Eppure lui, nonostante l’evidente rifiuto, chiuse di nuovo la porta e la prese per un gomito imponendole di voltarsi. In quel momento si accorse che la donna non aveva espressione, sembrava vuota e priva di significati. Non riusciva più a percepire neanche la smorfia che gli sembrò di aver visto poco prima. La donna non parlava ma in qualche modo gli intimò di lasciarla andare, cosa che lui fece con sorpresa. Il mattino seguente allo stesso orario lei passò di nuovo, in mano aveva una scatola con un nastro rosso, all’interno cioccolatini, con ogni probabilità. Entrò per porgergliela, 19


quasi per volersi scusare del comportamento ambiguo che aveva avuto il giorno precedente e Alessandro, di risposta, le andò a prendere quel romanzo storico sulle storie di Napoleone su cui tanto riponeva attenzione. Il loro rapporto sembrava basarsi su lunghi periodi di silenzio e ciò trasformava tutto il resto in banale e poco creativo. Se lei avesse saputo che, invece, gli ci voleva molta fantasia per convincerla ogni mattina ad entrare in negozio! Una volta le disse che aveva invitato uno scrittore famoso a cui avrebbe potuto chiedere un autografo, un’altra che erano arrivate nuove edizioni di libri che sicuramente avrebbe voluto leggere. Nonostante accettasse con fervore lei non parlava quasi mai, eccezion fatta per quelle poche volte che riusciva ad acconsentire o a negare. La sua comunicazione era più che altro gestuale e corporea. Una volta Alessandro volle spingersi oltre e le chiese il numero di telefono, sicuro che anche lei dopo qualche corteggiamento avrebbe ceduto e le avrebbe almeno confidato quale fosse il suo nome. Ma la richiesta non ebbe alcun seguito e lo scambio non avvenne. Un giorno proprio mentre credeva di essersi dimenticato della bella dal profumo di mandorla, Helena entrò nel negozio sbuffando. Cercava un libro sulle rivoluzioni del Novecento e parlò con Alessandro, rimasto senza fiato, come se non lo conoscesse. Non ricordava niente di quella giornata tragica in cui Marco aveva perso la vita, di come le avesse offerto quella tisana, di come l’avesse accolta nel suo rifugio sopportando quel suo odore. Era passato un anno e di lei non aveva più avuto notizia, da quella manifestazione sanguinosa e dalle scorte di profumo. Sembrava attratto da persone che non gli dicevano la verità e si convinse che Helena fosse venuta, quella mattina, solo per spiarlo e negargli una spiegazione della 20


sua assenza ingiustificata. Prese il sopravvento e le ringhiò contro come un grande felino. A quell’inquietudine Helena rispose ignorandolo. Verso le dieci e trentacinque Sophia entrò dalla porta come aveva imparato a fare da qualche settimana, perché così Alessandro le aveva indicato. Averle entrambe sotto gli occhi e nello stesso momento gli provocò una forte eccitazione nel basso ventre che dovette placare non muovendosi. Sophia gli sorrise come ogni mattina e andò verso il suo scaffale preferito, quello che avevano sistemato insieme e in ordine alfabetico qualche giorno prima; Helena in un lampo tornò nella sua mente. Nessuna delle due gli prestava attenzione, poiché anche quest’ultima era intenta a scovare un certo libro nella sezione dei saggi di politica internazionale. Non appena l’incendio interno si fu propagato, Alessandro con un sospiro di sollievo per non aver dovuto spiegare quell’incresciosa incombenza uscì dal bancone e si avvicinò ad uno scatolone che conteneva nuovi arrivi da mettere in ordine. Voleva tenere sott’occhio entrambe con la stessa distanza, sicuro che altrimenti Helena si sarebbe accorta della sua propensione a dimenticarla, come di fatto era già accaduto. Ed anche se distaccato con Sophia, era contento, felice come un bambino che rincorre i propri sogni. Da quel dì Alessandro fu pienamente sicuro che avrebbe dovuto guidare entrambe quelle donne verso un vero e reciproco sentimento. Il suo amore per loro si faceva sempre più vivo ed ogni volta che riponeva nella sua immaginazione i loro corpi non poteva che congratularsi con sé stesso, per aver scelto con così tanta acutezza. Tornato a casa tirò fuori da una scatola ricamata le confezioni di profumo che aveva comperato per ricordarsi di Helena e che aveva dovuto riporre a causa 21


della impropria gelosia dell’altra. Le ripose in bagno accanto al suo dopobarba, rendendosi conto che una volta entrata in quella stanza avrebbe avuto bisogno dei propri costumi. Fece in modo che nella stanza da bagno al piano superiore, più accurata e colorata, ci fossero le tradizioni e le saponette al muschio bianco che sua madre gli aveva tanto ripetuto di confezionare una volta che avesse avuto una donna da amare. In quel caso Sophia rispondeva decisamente a quel dono che mise agli angoli della vasca insieme alle candele bianche. Come se le stesse realmente aspettando quella sera cambiò la biancheria e gli asciugamani, prese delle lenzuola fiorate e cucinò per loro, azionò la musica in sottofondo e adagiò le luci perché non fossero di fastidio. Le aspettò tutta la sera, ma naturalmente, senza invito, non vennero. L’indomani, alle dieci e trentacinque Sophia si presentò alla libreria ma Alessandro si sentiva profondamente offeso perché nonostante l’immensa cura nei dettagli, né lei né Helena si erano presentate all’appuntamento della sera prima. Non fece parola di Helena, per non turbarla, ma le fece intendere che non aveva più interesse per lei. Alessandro non avrebbe voluto allontanarla ma sapeva amare solo in quel modo. Sophia si discostò. Gli scrisse che non accettava di non vederlo più, soprattutto dato che era stato il primo ad accettare quel suo modo silenzioso di porsi al mondo. Alessandro non poté che concordare e aggrottando la fronte balbettò di essere stanco e di non aver avuto intenzione di ferirla. Le disse parole molto false, ma fu bravo a mascherarle e a renderle sincere. Si disse che probabilmente non aveva potuto avvisarlo della sua assenza a cena perché non poteva chiamarlo senza parlare. Non poteva invitarle insieme, ma neanche rimandare. La sua ossessione per Helena aumentava e ogni parte del 22


suo corpo ne era consapevole più della ragione, nello stesso tempo non poteva in alcun modo rinunciare a Sophia. Le desiderava in diversa misura perché se con la prima avrebbe voluto avere un rapporto estremamente fisico, con la seconda stava approfondendo le idee platoniche. Helena faceva parte delle sue più intime fantasie e ogni suo più piccolo gesto rischiava di confondere l’intero suo mondo interiore. Di Sophia amava ogni sua movenza, le sue peculiarità, i suoi occhi dipinti, quel suo modo di esporre la parola pur senza pronunciarla. La curiosità e la non conoscenza di Sophia su molte delle cose che invece lui credeva di sapere facevano in modo che ogni giorno fosse diverso e in un certo senso anche più bello, una bellezza che Sophia avrebbe avuto anche senza espressione ma che Helena avrebbe invece perduto. Nel 1990 Alessandro aveva chiesto a Sophia di sposarlo e lei aveva accettato con serenità. Era andato a casa dei suoi genitori e si era convinto che la madre di lei avesse per lui un debole, tanto che non volle più andare a trovarli per non cadere nella tentazione. Sophia invece non aveva potuto conoscere i suoceri perché la madre di lui che usava comporre saponette non aveva piacere ad incontrarla, dato che credeva con fermezza che il figlio l’avesse tradita, non ricordando che non si trattava del defunto marito. Nei sogni di Alessandro Helena entrava nella sua camera da letto ogni notte e lo trasportava nelle magiche strutture delle sue nevrosi. Eppure in libreria non era più entrata. Durante una manifestazione aveva tirato addosso a un poliziotto dei sassi che lo avevano colpito in volto e per questo era stata rinchiusa in carcere per scontare una pena di due anni. Le avevano proposto di ridurre la sua pena: in cambio avrebbe dovuto fare i nomi degli altri 23


attivisti, ma naturalmente la sua riposta fu negativa e si richiamò a prigioniera politica sottoposta ad ingiustizie. Alessandro aveva seguito con tensione l’intera vicenda e aveva cercato di porvi rimedio, affiancandole un avvocato suo amico. La sua posizione non conforme alle norme del tribunale le avevano messo contro tutta una serie di uomini che nel nome della legge pensavano di essere stati offesi nell’onore. Spostato dalla bilancia il vero atto di accusa, per Helena non ci fu scampo. Dovette vivere in un ambiente angusto e senza alcuna cura per l’igiene personale e per la privacy. Nei libri che poteva prendere in prestito Alessandro aveva fatto in modo di riporvi dei bigliettini amorosi che lei, infine, scambiò per messaggi di uno squilibrato. Chiese alle guardie di non recapitarle più nessuna lettera dato che sapevano perfettamente del contenuto che erano obbligati a leggere, ma nessuno seguì le sue raccomandazioni. Nel carcere lei era un numero e rappresentava una figura dentro una cella. Alessandro era conscio che avrebbe dovuto salvarla ma in questo modo trascurava il suo matrimonio appena iniziato. Non poteva avere il tempo materiale di pensare in modo proficuo alla liberazione di Helena e nello stesso tempo preparare la cena per Sophia o mantenere in attivo la libreria. Decise che Helena non poteva aspettare e che anzi doveva essere proprio lei a volere un suo aiuto immediato, per cui prese accordi con un altro avvocato per i termini dell’appello. Disse a Sophia che doveva partire per un viaggio di lavoro: una fiera a cui potevano partecipare solo i librai. Una volta partito si prenotò presso il carcere nell’orario di visite e andò da lei per informarla di quel che stava preparando, perché era assolutamente certo che lei, come 24


la prima volta, sarebbe stata lì ad aspettarlo. Sebbene quella volta la donna fosse sua moglie, il soggetto che era cambiato nella sua mente non sembrava destargli preoccupazione: i suoi pensieri non potevano ingannarlo. Helena non riceveva mai alcuna visita perché chiunque fosse venuto sarebbe stato accusato come lei di essere membro dell’organizzazione, ma Alessandro non era tra gli indagati e di ciò lei fu molto sorpresa soprattutto quando constatò che l’autore dei biglietti che trovava nei libri aveva chiesto di incontrarla, sfrontato. Quando si sedette di fronte a lui a separarli c’era solo una vetrata e al lato un telefono dal quale avrebbe potuto parlare. Ad Alessandro piaceva che lei potesse parlare, perché con Sophia non era stato mai possibile. Si presentò cortesemente e le disse dell’avvocato, poi si lasciò sfuggire un complimento e arrossì. Dall’altra parte del vetro lei ascoltava ma non poteva del tutto riporvi fiducia perché di lui continuava a non ricordarsi. Alessandro pensò che lei non volesse sbilanciarsi e far sapere ai suoi inquisitori della reciproca passione per quell’uomo e così impersonò un ruolo. Le ricordò del loro primo incontro, della manifestazione e poi le disse del secondo, di quando cercava un libro sulle rivoluzioni. A quel punto lei sembrò ricordarsi, ma non di lui, lei si ricordò che quella seconda volta nella libreria c’era anche un’altra donna. Si ricordò che in quell’occasione lui fu molto sgarbato con quella signorina e non sembrò propensa a continuare, neanche se lui gli avesse pagato un avvocato. Alessandro fu colto dalla disperazione, spiegò che era importante per lei e per l’organizzazione se fosse riuscita ad ascoltarlo perché lui aveva il modo di farla uscire. Helena dovette cedere in favore della militanza politica. Iscritta all’appello e inviata un’istanza l’avvocato riuscì ad evitare che Helena scontasse la pena completa in cambio di duecento ore di 25


servizio sociale, un volontariato alle dipendenze dello Stato. Helena accettò e in pochi mesi uscì dal carcere. - “Alessandro era molto felice” - Arianna lesse le prime parole della frase che seguiva e si interruppe, poi chiese – Questo racconto non ha dialoghi! Perché non gli fai mai dire nulla direttamente? – - Non lo so, forse è troppo rischioso. …e in pochi mesi uscì dal carcere. Alessandro era molto felice del risultato e del fatto che il giudice non si fosse opposto. Se qualcosa fosse andato storto, non solo Helena non avrebbe più avuto fiducia in lui ma anche Sophia si sarebbe stancata delle sue menzogne. Sophia, non parlando, non aveva potuto far capire a suo marito delle implicazioni che quel piano avevano prodotto e lui non aveva più prestato attenzione alla mimica della moglie. Helena era uscita dal carcere e dovette incontrare Alessandro, per ringraziarlo. Era sicuro che quel pomeriggio lei gli avrebbe dichiarato il suo amore e che finalmente i due corpi si sarebbero uniti in una sola ombra. Ma Helena si presentò all’appuntamento chiedendogli di quella donna che era con lei nella libreria. Lui fraintese ancora, intuendo che era talmente innamorata da non potergli dire nulla per rispetto di sua moglie. Alessandro era paziente; prima di arrivare all’appuntamento aveva ritirato dalla sartoria un abito scuro e aveva portato in regalo una confezione di profumo. Di questo lei fu molto stupita perché non capiva come lui fosse a conoscenza dei suoi gusti. Ringraziò ancora e poi volle sapere il motivo di tanta gentilezza. I motivi che avevano spinto Alessandro ad essere così persuasivo nei confronti dell’avvocato e in carcere, per convincerla a fidarsi, non erano segni di gentilezza ma di convulsa passione intrisa 26


e volta al possesso. Sebbene quello che avrebbe voluto dirle rasentava l’educazione le fece credere che era la sua missione, perché credeva fermamente negli ideali libertari dell’organizzazione e non poteva - questo non lo nascose - permettere che vivesse in un luogo così cupo per due anni. Omise che non poteva perché avrebbe voluto stringerla tra le braccia, perché credeva che il linguaggio oculare avesse fatto intendere quel che voleva dire. Helena comprese la bontà di quell’uomo e lo baciò sulla fronte in segno di affetto e riconoscimento, poi tornò a chiedergli della moglie che non sapeva essere sua consorte. Quando Alessandro le fece sapere la notizia, Helena sospirò e cambiò umore. Alessandro vista l’oscurità passarle in volto, la invitò a cenare da loro e insistette talmente che lei dovette accettare per non essere scortese. Alessandro confidò a Sophia, rimasta fino ad allora all’oscuro del suo piano per liberarla dal carcere, della sua amicizia con Helena. Ma lei avrebbe voluto che il marito gli confidasse tutto quello che aveva dimenticato di dire nel frattempo. Lui le aveva sempre parlato fino a tarda notte raccontandole qualsiasi cosa avesse notato nel mondo, nella gente, nei libri. Ma nel periodo in cui era stato occupato dalla presenza di Helena, presente non solo dentro la sua mente, Sophia non aveva più sentito il marito parlarle e ciò l’aveva insospettita a tal punto da seguirlo. Lo avevo scoperto. Alessandro era sicuro che a Sophia sarebbe piaciuta, che sarebbero andate d’accordo e che finalmente avrebbe potuto aprire la stanza da bagno a entrambe. Quella mattina, infatti, aveva comperato una ventina di candele profumate e aveva fatto fare alla madre le saponette. Era assolutamente certo che entrambe, una volta vista l’accuratezza che lui aveva impiegato, avrebbero deciso di 27


deliziarlo con il loro sensuale aspetto. La sera ad aprire la porta fu Sophia che la accolse in casa con molta più educazione di quanto si aspettasse. Si presentarono immediatamente e tra loro scattò un feeling particolare, un’intesa che neanche Alessandro avrebbe voluto poiché di lui non si erano curati affatto. Aveva cucinato ma una volta spenti i fornelli e servito in tavola, le due donne avevano iniziato a scambiarsi curiosità. Helena non sembrava a disagio del fatto che Sophia non potesse parlare bene e in modo articolato per via di una lesione cerebrale dovuta alla scheggia di un proiettile sparato durante una manifestazione. Nonostante il suo mutismo nelle parole, per evitare che riecheggiassero rumori, scriveva allegramente e le sue espressioni facciali facevano il resto. Alessandro stette a guardare tutta la sera con quale incanto anche Helena sembrava ammirare sua moglie. Tuttavia quella che per lui era ammirazione, per lei era amicizia che nacque proprio in quelle ore. Da quella cena Sophia non passò più in libreria alle dieci e trentacinque ma si ricordava del consueto incontro con il marito poco prima della chiusura del pranzo; oppure entrambe entravano dalla porta alle dieci e trentacinque rompendo l’abitudine che era propria della coppia. Alessandro non era riuscito a farsi ascoltare e la madre premeva affinché riuscisse a ostacolare i piani funesti delle due donne di separarsi da lui. Una mattina le vide incontrarsi al bistrot davanti alla libreria, scambiarsi risate e gesti affettuosi, gesti come quello che usava Sophia per indicarle che aveva scritto qualcosa ma che lui vedeva come un segno indelebile del fatto che si stava allontanando da lui perché aveva scelto Helena, la stessa donna che per anni era stata la protagonista di tutte le sue soddisfazioni sessuali ora faceva parte anche di quelle della moglie. Alessandro 28


era sicuro che se non si fosse sovrapposto a questo amore nascente le avrebbe perdute entrambe. Purtroppo anche Sophia risentiva di questa ossessione poiché non era più sicura del sentimento che l’aveva legata al marito, nonostante non avesse interesse che per lui. Non potendo più spiarle dalla vetrata perché credeva che loro stessero complottando alle sue spalle, dovette scendere in strada e sedersi al loro tavolo. Furono naturalmente sorprese perché lo credevano a lavorare e Sophia cercò di spiegargli che si erano incontrate per parlare del suo compleanno che si sarebbe tenuto nel fine settimana. Alessandro tuttavia non si fidava delle sue scritture perché credeva di sapere che il motivo per cui si erano incontrate era ed era sempre stato quello di reagire al matrimonio e mettersi insieme, lasciandolo come anni prima aveva fatto la madre nei suoi confronti, abbandonandolo per risposarsi con un uomo che non era suo padre. Per tutta l’adolescenza Alessandro era cresciuto con il mito delle saponette e delle belle donne ma Helena stava per tradirlo, proprio come aveva fatto sua madre. La distorsione che era avvenuta nel suo cervello aveva prodotto molta più confusione di quando tutto ciò era iniziato e la scena doveva ancora prendere il sopravvento. Per evitarlo, si sedette con loro ed ordinò un caffè macchiato. Helena si avvicinò con la sedia a Sophia lasciandolo a guardarle nell’angolo opposto del tavolo. Le disse qualcosa all’orecchio, una parola in spagnolo che lui non aveva mai udito ma che Sophia confermò essere spagnolo perché era il titolo di una canzone che aveva fatto da colonna sonora ad un film che erano andate a vedere quella settimana al cinema, un film molto banale commentarono. 29


Sophia le tradusse il significato e Alessandro fu certo che quella era la fine perché mentre Helena non aveva mai avuto il coraggio di pronunciarsi verso di lui, a Sophia aveva addirittura inoltrato un messaggio d’amore in un’altra lingua perché lui non potesse capire. Si alzò di scatto, burbero, se ne tornò indietro da dove era partito, preferiva che lo stessero a guardare. Anche se nulla di ciò che aveva creduto di vedere aveva avuto luogo, la convinzione era talmente forte dentro di sé che non avrebbe potuto smentirlo. Sophia aveva realmente chiamato Helena per chiederle consiglio riguardo al compleanno del marito, voleva fargli ascoltare quella canzone in spagnolo perché poteva rappresentare una dedica da accompagnare al libro che gli aveva ordinato oltreoceano almeno un mese prima. Dato che lei non poteva parlare avrebbe fatto fatica a far comprendere al tecnico che avrebbe voluto trasformare quella antica incisione in un formato digitale, pertanto Helena l’aveva aiutata inoltrando la richiesta al suo posto. Alessandro però era sicuro che quella sera entrambe le donne gli avrebbero dichiarato di volerlo abbandonare e ciò lo impressionò a tal punto che trasalì. Sapeva che ad attenderlo a casa c’era una sorpresa, ma non quella che lui immaginava. Sophia ed Helena si erano sentite più volte nel resto del pomeriggio e tutto era pronto e organizzato per l’evento. Dopo cena Helena tornò dalla cucina con un vassoio d’acciaio con sopra una torta, poi Sophia accanto a lei si diresse verso lo stereo, inserì un cd e dopo pochi istanti partì una dolce canzone, melodiosa e piena di parole, le stesse che lei avrebbe voluto dirgli. Alessandro però intercettò il suo sguardo sotto un’altra inquadratura e capì che era diretto verso Helena, non capiva come potessero 30


essere così disoneste nei suoi confronti e perché mai si ostinassero a mostrare senza alcun tatto la loro relazione. Helena gli sorrise in modo complice ma ancora una volta egli non riuscì a captare in modo logico quel segnale. Andò in cucina e prese un coltello. Sophia aveva chiusi gli occhi per sentire le parole risuonare nell’emisfero del suono sperando inconsciamente che il suo cervello si ricordasse della parola inviando degli input, magari in piccole onde, attraverso tutte le connessioni nervose, perché ricominciasse a dibattere, chiacchierare, scherzare, discutere, urlare come la persona che era prima dell’incidente. Non si era accorta di tutto quello che si era venuto a creare perciò ancor meno le fu chiaro perché Alessandro fronteggiasse Helena con un coltello e perché lei non avvertisse alcun pericolo. Sophia decodificò quella situazione come un gioco, una scenetta teatrale che il marito aveva messo su per lei. Non si preoccupò quando la lama si conficcò nel torace di Helena, pensando a un trucco magico. Non prestò attenzione neanche quando dalle sue carni vi uscì un rivolo di sangue color porpora. Helena moriva sul pavimento bianco senza che nessuno dei due facesse un passo per venirle in soccorso: da una parte lui aveva accolto il pensiero che gli martellava le tempie da settimane e dall’altra Sophia batteva le mani come una ragazzina perché fermamente convinta della sua abile recitazione. Accortosi di quel che aveva commesso, ma non del tutto cosciente, Alessandro disse che avrebbe portato Helena a casa perché probabilmente aveva esagerato con il vino. Appena uscito di casa, la lasciò vicino ad un cassonetto in un vicolo deserto. Il corpo che aveva amato rimase senza vita ad attendere la polizia che lo trovò dopo mesi. Alessandro aveva fatto credere a Sophia che lei fosse 31


partita con l’organizzazione e che non l’aveva avvertita per un guasto al telefono. Lei naturalmente non ebbe alcun dubbio. Alle dieci e trentacinque di un domani sparso durante la settimana di un mese a caso Sophia entrò nella libreria. Accanto a lei c’era una donna. Si chiamava Beatriz ed era entrata a far parte delle ossessioni del marito proprio dopo aver sentito il suo profumo alla mandorla. Helena, come avevano scritto i giornali uccisa da un pazzo, era ancora viva nelle sue fantasie: pensava seriamente che la donna innamorata della moglie fosse partita e che quella invaghita di lui fosse tornata. Nella sua mente c’era chi lasciava e chi tratteneva. E lui, purtroppo, tratteneva sempre.

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Quando glielo portò finito, lei lo lesse tutto d’un fiato per non farlo attendere. - Mi sembra interessante, ma ci sono tanti non detti che forse ad un lettore che non scruta oltre le parole potrebbero dar fastidio. - Credi che potrebbe non essere compreso? - Non mi stupirei. Hai studiato psicologia? Sai, si dice che parte di quello che scriviamo riflette esperienze avute… - Mi sarebbe piaciuto, come tante altre cose, ma no, ho solo letto tanti libri. - Che titolo vuoi dare a questo racconto? - Credo, il malinteso. - Che svela e non svela, appunto; ho sentito molta malinconia, ma purtroppo non ti conosco abbastanza per dire se sia vera oppure no. Giorgio evitò di rispondere, ma chiese, perché non aveva capito, se le fosse piaciuto. Lei disse di sì senza molta convinzione, ma si scusò per non offenderlo. - È difficile che qualcosa mi colpisca, soprattutto se riguarda la scrittura. Ma tu continua, ostinati. Torino toglieva il fiato, si erano entrambi trasferiti al nord a distanza di due anni l’uno dall’altra. Una coincidenza che sapeva unirli. In quel racconto Giorgio non aveva usato dialoghi come lei gli aveva fatto notare: c’era una nube che sembrava non poter scostare. Le parole hanno delle conseguenze, come lei ben sapeva. Uno dei motivi per i quali non voleva più scrivere era che non vedeva il suo modo di lavorare coincidere con il mondo. Aveva difeso un ultimo articolo tre mesi prima e poi non ne aveva più voluto sentir parlare. Ma le parole di Giorgio erano diverse, le 33


sue volevano uscire e farsi ascoltare. Dopo una settimana, quando maggio era entrato prepotente al parco del Valentino insinuato tra i lampioni piegati, Giorgio la volle vedere di nuovo. - Voglio presentarti un altro racconto! Mi sento molto in forma. - Una grande produzione letteraria, piuttosto. - Eliminati i ritmi di lavoro, ho più tempo per me. Ti devo avvertire questa volta che non sarà un thriller. - Già stanco di omicidi e indagini? - Ho voluto provare altro, è qualcosa a cui avevo cominciato a pensare quando ero a Roma. - Quando hai vissuto nella capitale? - Ero ancora sposato, ho vissuto per anni a Trastevere, uno dei quartieri popolari più caratteristici e centrali… sei mai stata? - Certo, ci sono nata. A volte le loro conversazioni sembravano esigere pause e cadevano nel vuoto. Chissà se a Trastevere si fossero mai incontrati in passato, due estranei che si guardavano in pizzeria oppure in fila alla cassa di un supermercato. Arianna pensò che se fosse accaduto lo avrebbe certamente riconosciuto, anche se la prima volta che si videro dopo quasi trent’anni lei dovette chiedergli di indossare una sciarpa fluo per risaltare in mezzo agli altri. - Scusa, è vero, dimentico sempre che abbiamo intrapreso quasi gli stessi percorsi. Beh Roma è bellissima, ma assolutamente invivibile ormai. - Tranne che durante l’emergenza sanitaria, mi hanno detto che era cresciuta l’erba a Piazza Navona! 34


- Sì, incredibile, l’avrei voluta vedere. Ma non penso che ora sia cambiata molto da quando l’abbiamo lasciata nel caos… - Mah… insomma, questo nuovo racconto? Giorgio questa volta lesse solo una parte per farla immergere. - L’unica cosa sicura è che so già il titolo: Alba d’agosto. - Già mi piace! Perché unica cosa? - Mi convince meno il testo, ma è una storia che voglio raccontare e quindi devo trovare il modo. Ascolta, per favore.

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Suonano alla porta. Il suo muso tetro si distoglie dal caffè nero; suonano di nuovo. Alberto si alza piano, sospirando annoiato. “Finalmente! Pensavo non ci fossi”, si fa largo Gianluca, l’amico di sempre nonché vicino di casa. Ripone le buste della spesa sul tavolo e tira le tende per far entrare la luce. “Perché non rispondevi? Guarda questa casa com’è scura! Esci un po’ oggi?” scodinzola festoso. “Non ne ho voglia. Sigarette?” gli chiede senza troppa enfasi. “Sì, sì, te le ho portate… anche se lo sai, secondo me dovresti smettere!” “Grazie”, scarta il pacchetto e se ne infila subito una in bocca. “Non c’è niente che mi vada di vedere” ritira così le tende verso di sé oscurando di nuovo la sala, “accendi la luce se vuoi” lo sprona mentre si siede in poltrona. Arianna commentò subito sorpresa di quanti più dialoghi ci fossero, del fatto che aveva seguito i suoi suggerimenti. …lo sprona mentre si siede in poltrona. Gianluca Romei ha dieci anni in meno di lui, gli piace definirsi suo amico ma chi può dire se lo sia realmente, certo è che si fanno compagnia reciprocamente. Sono mesi che Alberto non esce quasi più di casa e i favori di Gianluca gli sono molto utili, salvo dover tollerare quel breve caos quotidiano. L’appartamento resta sempre in gran trambusto dopo che se n’è andato e ad Alberto gli ci vuole una mezz’ora, ogni volta, prima di riuscire a rimettere tutto com’era prima. Questo è irritante ma lo sopporta per opportunismo e solitudine. “Toh, ho preso anche la posta” gli porge una lettera e due bollette. “Sono mie?” chiede. 36


“Bevilacqua non sei tu?” lo sfotte l’altro. “Sì” annuisce stanco Alberto. “Allora son certamente tue” sentenzia il secondo. “Beh allora io vado, oggi grandi commissioni per la Clelia e la Francesca” sorride. “Ti piace come suona con l’articolo davanti al nome? È un vezzo toscano e mi garba assai!” mescola tutto, senza aspettare risposta esce accompagnandosi la porta alle spalle. Alberto scarta le bollette da pagare e le attacca al frigo, una con la calamita a forma di barca l’altra con quella a forma di cartolina: tutte e due da pagare, oltre l’impressione di andarsene. La lettera sa già di chi è e decide di non aprirla. La guarda: il dorso è scritto a penna, in corsivo, reca il suo nome. Quella scrittura la conosce fin troppo bene, la prima volta che la vide era il 1951, venne usata per scrivere un altro nome: Sofia Martinelli, viale Trastevere 34, Roma, un foglio di carta ora ingiallito che ancora custodisce tra le pagine dei suoi libri. Da quando non esce più di casa ogni mese arriva una lettera simile. La prima volta la aprì in pena. Amore mio non essere triste, abbiamo vissuto una vita bellissima ed intensa… l’aveva ripiegata pieno di rimpianti. Il mese dopo ne arrivò un’altra che aprì con curiosità e angoscia. Mio cuore, ti sono accanto… ma anche questa non era riuscito a leggerla per intero. Sua moglie avrebbe continuato a scrivergli per un anno: glielo aveva promesso prima di andare, ma ora Alberto, che in cambio avrebbe dovuto vivere per entrambi, non riusciva a portare a termine la sua parte e sopravviveva a stento. Guardò la quinta lettera con supplizio e gli occhi carichi: no, non poteva leggerla. Una settimana dopo Gianluca tornò. Attaccato al campanello fece un gran rumore quella mattina. Gli aprì 37


come al solito con lentezza. “Finalmente! Ti sorprenderesti della poca civiltà al giorno d’oggi… Cosa dici? No, no, con la Clelia ho discusso! È un’oca rinsecchita, di una volgarità, di una pochezza d’animo, non so come ho fatto a… aspetta, aspetta! Hai tirato le tende! Sei uscito? Guarda che bel sole caro…” continuando di questo passo per buoni dieci minuti. Alberto quieto lo lasciò fare finché lo interruppe brusco: “Senti bella cagnetta perché non esci subito da casa mia? Non ho bisogno di una balia, voglio stare da solo”. Ma Gianluca a conoscenza dei suoi modi di fare dapprima lo guardò offeso, poi riprese tutte le cose che aveva sparpagliate in cucina e si diresse alla porta. “Sei in-sop-por-ta-bi-le quando fai così” e scandendo bene uscì. “Eh forse lo sono, ma ti prego di lasciarmi solo” ribatté lui apatico oscurandosi. Gianluca preferì non tornare per alcune settimane, credette forse di riuscire a fa passare l’amarezza. Ma Alberto era inconsolabile. In quei giorni ripensava spesso agli anni di gioventù appena dopo la guerra. A quando prima si giocava in strada e poi si fumava nei cinema. Non c’era un granché paragonato ad oggi, ma si stava bene. A casa di suo cugino Gianni aveva conosciuto Sofia. Ballarono un lento sopra una mattonella quadrata, pestandosi i piedi a vicenda ad ogni movimento. Lei si scusava e rideva molto, lui era ancora più imbarazzato. A San Lorenzo nel ’43 le bombe avevano fatto un casino e ferito centinaia di civili, lui era originario di quel quartiere che si trova a ridosso del cimitero monumentale del Verano. Che ridere, adesso la gente lo visita con le navette turistiche, ma prima, come lui ben ricordava, i ragazzini al più ci andavano per giocare a spaventare con gli scheletri nell’ossario. Quindi, siccome il quartiere sventrato si stava rialzando a poco a poco, lui il telefono 38


a casa non ce l’aveva e fu per questo che Sofia gli scrisse su un foglio il suo indirizzo di casa. “Se i miei genitori ti conosceranno, forse lasceranno che esca con te”, aveva scritto. Lo aveva in mente come se non fosse passato un giorno. Quando arrivò la sesta lettera era ormai inverno. Gianluca lo aveva chiamato lasciando un messaggio in segreteria, auguri di buone feste diceva. La mattina della vigilia, Alberto si era alzato con un umore ancora più pesante. Non aveva fatto l’albero né il presepe. Neanche una lucetta alle finestre o una ghirlanda sulla porta. Sembrava che il Natale a casa sua non fosse proprio arrivato. Non voleva festeggiare il Natale, era solo e non voleva essere solo. Ma ogni volta che provava a uscire il panico lo assaliva. “Non ti posso lasciare sola” diceva tra sé e così si convinceva di farlo per lei e si rintanava dentro le quattro mura ammobiliate, profumate. Non aveva più ricordi da barattare ed anche il prestito era estinto. E poi se fosse uscito avrebbe dovuto portare con sé tutte le lettere che, anche se non aperte, osservava sul comodino gelosamente. Erano l’ultimo passaggio di sua moglie, l’impronta che li teneva uniti, non riusciva a non guardarle, privarsi anche della loro vista, sebbene fosse un’illusione ma altrimenti lo avrebbe spezzato definitivamente. Aveva trascorso il Natale steso a letto a guardare il soffitto. Aveva mangiato poco, Gianluca era passato più volte senza particolare esito, da sotto la porta aveva tirato un biglietto d’auguri con una faccina stropicciata che sorrideva. Incurvò le labbra ancor di più e si voltò dalla parte del letto di lei vuota, si accorse solo in quel momento che il suo lato non era più sgonfio e stava riprendendo la forma del materasso, allora d’impeto ci 39


si distese in perpendicolare agitandosi per deformarlo. Aveva trascorso il Natale in perpendicolare, a letto, con gli occhi spalancati a guardare il soffitto. In affanno a cercare di non modificare il materasso da come sua moglie lo aveva lasciato l’ultima volta.

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- Sono arrivato fino a qui ma mi verrebbe voglia di stracciarlo in mille pezzi. - Perché? - Non sono minimamente vicino a quello che vorrei dire. - La scrittura deve decantare: adesso sei in un momento molto creativo ed è un bene, ma lascia che passino alcuni giorni e poi, vedrai, lo leggerai con tutt’altri occhi. - Forse hai ragione. Ma intanto, dimmi cosa ne pensi. - Continui a fare il contrario di quello che Rilke aveva consigliato al giovane poeta. - Cioè? - Continui a chiedermi. - Vero, però dimmi, per favore, tengo molto al tuo parere. - Va bene. Intanto sarei curiosa di capire per quale motivo hai scelto di raccontare una storia dove lui è vedovo, cosa di per sé originale, perché di solito si rappresentano sempre le donne in questa condizione. - Il mio migliore amico è rimasto e perciò diventato vedovo l’anno scorso, ho preso spunto dal suo dolore. Non so quanto questo sia etico, ma i fatti sono diversi e il nome anche quindi forse non me ne vorrà… - Adesso non pensarci, la storia deve essere ancora creata. A proposito di nomi, c’è di nuovo Sofia, questa volta senza il pi-acca. Ma sinceramente eviterei di chiamare un personaggio con il nome di un autore che è esistito davvero, per non accostare o dare l’idea che si tratti proprio di lui. - Chi? - Ah, se sei sorpreso non lo conoscevi: Alberto Bevilacqua, morto nel 2013. - Non ne avevo idea, sì, sarà meglio modificarlo. E poi, 41


qualcos’altro? - Per il resto, bene quei botta e risposta, stai attento ai tempi verbali: ho capito che scrivi in modo da lasciare al lettore che si orienti nello spazio e nel tempo come meglio crede, ma per orientarsi anche il miglior viaggiatore ha bisogno di punti di riferimento che nel testo, se non lo vuoi caricare di descrizioni, si trovano nei tempi verbali, appunto, e nella punteggiatura. Sei tu la sua bussola: se il lettore ti perde, chiude il libro. - Ok, ma se intanto mi venisse in mente altro da scrivere… non sarebbe come tradirli? - Ho capito cosa intendi: pensi che, allo stesso modo in cui tu ti sentiresti tradito se ti mettessero d’un tratto da parte, lo stesso potrebbe capitare ai tuoi personaggi. - Esatto. - Ma di fatto, sei tu a crearli, riesci a distanziartene senza farli soffrire troppo? - Ci dovrò provare. - Di cosa vorresti scrivere? - Anni fa lavoravo in un ristorante a Matera, quella città presepe. Un giorno alcuni amici mi convinsero a seguirli in montagna: era il periodo della transumanza. Andai e facemmo tutto il giro insieme: fu stancante ma bellissimo. La sera ci fermavamo nei paesi e mentre le mucche riposavano noi facevamo festa. È in uno di questi paesini che ho ascoltato la musica locale dal vivo, tra cui anche la pizzica. - Sembra materiale per un reportage. - Non ero un tipo che scriveva all’epoca. Ma senti, la pizzica ti entra dentro: fu una serata, ricordo, divertentissima! Io ovviamente non sapevo ballare ma mi buttai nella mischia. 42


- Lo immagino. - Quando ripenso a quelle serate, mi ritrovo sempre a sorridere, mi cambia proprio la giornata. Così, ecco, ho pensato che vorrei scrivere qualcosa su come la pizzica possa risollevare gli animi… Ma non so se è una sciocchezza. - Però lo vuoi scrivere, giusto? - Sì, ho immaginato che potesse essere un racconto utopico.

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Nel 2073 la penisola italica è cosparsa di enormi buche surrealiste che pian piano sciolgono i bordi sotto le scottature del suolo. Gli incendi che l’hanno avvolta per ventenni hanno raso al suolo ogni forma di vegetazione e i popoli hanno ucciso le forme di vita animale rimaste arrampicate nelle nubi tossiche. Il suolo arde i piedi che devono perciò essere coperti da una scarpa alta e spessa composta di materiale non combustibile, mentre la pelle si scortica più spesso al contatto ravvicinato con il sole che ora somiglia a una sfera delle dimensioni di una casa, vicina e possente. Dieci anni fa sono cominciate le migrazioni oltreoceano, ma dopo neanche tre anni l’Asia aveva iniziato a chiudere le frontiere o a bombardare i pellegrini con le nuove granate a fusione nucleare, con il risultato che la consistenza già precaria del terreno faceva sbriciolare sotto di sé la sabbia e la gente veniva risucchiata in un vortice ultraterreno. L’Asia era sbilenca, la crosta terrestre non sopportava più il peso dei grattacieli né la potenza dei missili e ogni giorno che passava la parte nord della Russia si inabissava sempre più nelle acque inghiottita anch’essa nelle esplosioni acuite con il calore del sole. - Ho come la sensazione che tu possa scrivere qualsiasi cosa - commentò Arianna stupita. …nelle esplosioni acuite con il calore del sole. Nel 2073 Dario viveva ancora in Salento, o almeno quello che ne restava. Si aveva l’illusione che le regioni si fossero avvicinate non essendo più presente alcun ostacolo a dividerle: non più foreste e non più palazzi che erano sprofondati con le sequenze sismiche tumultuose che dal Giappone al Cile ogni mese rimbalzavano sulle piccole coste. I mari e gli oceani avevano incamerato talmente 44


tanta energia da fondersi con il cielo. I siciliani raggiungevano a piedi Roma, perché le strade erano troppo rialzate dal nucleo per reggere le auto che in assenza di equilibrio di sarebbero rovesciate. Saltando da un piano all’altro del cemento ormai quasi del tutto sgretolato, percorrevano con eccessiva attenzione la carreggiata rimasta. Dalla Toscana in su c’era il deserto, una distesa nera di piantagioni bruciate. I nordici appena compresa la gravità della situazione avevano cercato di far compiere qualche manovra politica, ma l’ormai anarchia dilagante nelle case del potere non cambiò nulla e loro decisero di emigrare ancora più a nord verso la Scandinavia o la Groenlandia che nel giro di dieci anni si era avvicinata all’Eurasia e aveva anche diminuito la sua grandezza: non era più ricoperta di ghiaccio, il surriscaldamento globale lo aveva sciolto e su parti di terra aveva creato prati finché la vicinanza con il Vecchio Continente non li aveva del tutto dati alle fiamme rendendola una terra arida senza più alcuna attrattiva. Quei pochi fiori rimasti erano enormi, un petalo era grande come un braccio umano. Gli alberi invece si erano prima ammalati per i lunghi periodi di siccità e poi infine seccati e staccati dal terreno, le loro radici non avevano più la forza per trattenere le montagne che in risposta danzavano cruente provocando frane e dissesti idrogeologici. Dario era voluto rimanere in Salento, aveva sessant’anni e neanche la ben che minima idea di come sarebbe potuto sopravvivere in un’altra terra che non fosse stata casa. Finché la tarantola mordente gli indicò la strada: la pizzica, la via maestra…

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- Ma dai, è assurdo! Non credo di essere bravo in queste cose. – sentenziò Giorgio mentre rideva scuotendo la testa. - Perché, no? Io non lascerei andare. - No, no, queste cose meglio lasciarle fare a chi se ne intende: ad ognuno il suo lavoro! - Magari fosse così, ci sono spesso molte intromissioni… Però, non lo buttare il testo, tutto serve. - Sarà… secondo te a cosa serve scrivere e a chi? - Bella domanda. C’è chi lo fa per l’immortalità, altri per elaborare; credo che però tutti, se all’inizio pensiamo di scrivere per noi stessi, alla fine speriamo serva anche a qualcun altro. Pioveva a Torino in quei giorni, il cielo era bianco e pesante. Attaccarono il telefono mentre Giorgio ancora stava pensando al da farsi, poi ebbe un’idea, un lampo, e la richiamò. Lei non fece in tempo a rispondere, si stava preparando una tisana nell’altro lato della casa. Prese la cornetta all’ultimo squillo, troppo tardi perché il suono della sua voce lo convincesse a resistere. La linea restò occupata per qualche minuto, finché richiamò. - Ehi, non ho fatto in tempo a rispondere. Dimmi tutto. - Grazie Ari, non ritrovavo più un numero di telefono ma l’ho trovato. - È per un nuovo soggetto? - Forse, ciao. Un numero, una persona che entrambi conoscevano ma di cui lui non le aveva accennato altro. C’era qualcuno che stava prendendo il suo posto? Senza motivo apparente si 46


sentì tradita come un personaggio di carta a cui non si offrono le dovute attenzioni. Nel frattempo Giorgio riprese il racconto di Alberto che trasformò in Adriano. Proseguì a scrivere per un mese, fitto, nel quale si telefonarono spesso ma non si videro. Per Giorgio era diventata una missione: non poteva lasciare che i suoi personaggi perissero. Diede tempo alla sua storia, la fece ancora decantare come gli aveva detto Arianna, ma poi provò a chiedersi se, in quel nuovo modo di vedere le cose e organizzarle, non gli fosse d’aiuto pensare a che cosa avrebbe fatto di fronte a un nuovo menù da preparare. Quali sarebbero stati i passaggi da dover fare assolutamente? Fece così un insolito appello. Materie prime? Si chiese e contò la penna, il foglio e la mente, bella attiva intuì dai pensieri. Il tavolo da lavoro c’era, ma mancava qualcosa che non riusciva a trovare. Chiamò Arianna e le raccontò, lei non ci pensò troppo: - Prova a farti una scaletta. Lo hai detto tu: hai tanti pensieri, quindi devi fare ordine. Non prepareresti mai nulla se la cucina non fosse pulita e in ordine, giusto? - Certo, come ho fatto a non pensarci prima! - Perché stai pensando alla storia e al modo migliore di renderla per iscritto, è normale avere un blocco o anche solo un po’ di confusione in testa. Ma ora, ascolta: prendi un foglio e scrivi tutto ciò che riguarda la storia che vuoi raccontare. - Tutto, dici? - Sì: i personaggi, ad esempio. Chi sono, come si chiamano, che cosa fanno? - Come se fossero persone vere… - Sì, ogni personaggio inventato o simil-vero, alla fine di una lunga narrazione diventa reale, non 47


solo per chi lo ha creato ma anche per chi ci si è immedesimato, oppure che lo ha giudicato, o con cui si è emozionato. - Grazie, Ari! Domani se riesco andiamo a cena fuori, ok? - Non ti preoccupare, questo è il tempo della scrittura. Lo sento. Se lo sentiva, energia pura attraversare persino la cornetta del telefono. Giorgio trascrisse ogni particolare e tappezzò le pareti di casa di fogli e post-it, tutti a ricordargli chi fossero i suoi protagonisti, gli amici, quale mestiere facevano. Era talmente impegnato a tessere le loro relazioni che quella sera dimenticò di cenare. Si svegliò che era passata l’una, con la testa ancora in fermento si preparò due spaghetti con aglio, olio e peperoncino. Il classico della notte. La mattina seguente andò fino alla Mole Antonelliana ed entrò a visitare per l’ennesima volta il museo del cinema, per farsi venire qualche idea, qualche pezza d’appoggio che legasse tutto. Uscito si fermò in piazza della Consolata per un bicerin che sapeva dargli quell’energia giusta per affrontare il foglio bianco. Arrivato a casa, attraversata la città a piedi fino al Lingotto, decise di stracciare interamente la parte che aveva fatto leggere ad Arianna e riscriverla daccapo. Cominciò:

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Sono nato e già non ci sei più, si svegliava sudato dal suo incubo ricorrente. Tutte le notti ormai Adriano non faceva che lo stesso sogno. Il suo inconscio stava cercando disperatamente un luogo in cui rifugiarsi e per questo l’altra mattina insieme a Gianluca si era recato in agenzia di viaggi. Cataloghi sul mare, sulla montagna, sul lago, sulla collina. Cercava ardentemente una sorta di scatola di Skinner con le palme, qualunque cosa, purché ciò che aveva imparato fosse influenzato dalle conseguenze che stava vivendo per facilitarne l’adattamento. Lo aveva letto su una rivista di psicologia e di solito, in passato, l’ambiente circostante non lo aveva mai tradito. Eppure, ora che più gli serviva un aiuto, l’ambiente, la casa, le persone che gli roteavano attorno, gli erano così avverse che voleva un luogo in cui ritirarsi, sperava di illudere quelle sue intense emozioni, scomporre la motivazione in un ricordo implicito, costante, valente. Sono nato e tu già non ci sei, si ripeteva sul bordo del letto. A volte vorrei rimuoverti dalla mente, a volte vorrei ricrearti. Pensava a sua moglie Sofia che era morta di infarto due anni prima, aveva fatto appena in tempo a compiere sessantasette anni quanti ne aveva lui ora. Adriano si sentiva intrappolato e inseguito in un lutto stretto dove lei non poteva elargire neanche più consigli. Intorno a una vita estrema e fiacca, gli altri gli apparvero felici, persino Gianluca Romei il suo amico di sempre, era stato lui a farli conoscere in una galleria di via Margutta. “Solo le memorie la sostengono”, aveva da poco letto quel libro che Jorge Amado aveva dedicato proprio al <<lutto stretto>> di Dona Flor, per sentirsi meno solo. Scoprì la verità di quelle parole, si era anche lui rinchiuso 49


nel ricordo di Sofia, mentre la parte del letto in cui ella affondava si riassestava incurante. Non riusciva a seppellirla nel cuore perché ne sarebbe morto dentro e fuori.

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Neanche questa volta riuscì a finire ché volle sapere subito cosa ne pensasse Arianna. Lei sorrise nel vederlo così esuberante. - Spiegami tutta la costruzione della storia, parti dalle fondamenta - esortò. - Allora, Adriano Roccasecca, il Bevilacqua di prima è… - No, aspetta, non è più Alberto e anche la storia è cambiata, l’hai modificata totalmente, l’hai riscritta, quindi ad Alberto non pensiamo più. - Ok, sì, giusto. Allora, c’è Adriano che era sposato con Sofia Martinelli, si conoscono a Roma in via Margutta, grazie al migliore amico di lui che si chiama Gianluca Romei. - E il tuo migliore amico come si chiama? - Romeo, perché? - Niente, vai avanti. - Sofia muore di infarto e Adriano resta vedovo. - Quindi, da quel poco che ho letto finora, questa è la storia di Adriano e delle sue pene. - Sì, la domanda che mi sono posto è stata: come riuscirà a vivere senza l’amore della sua vita? - Te lo sei chiesto anche nella tua vita, dopo il divorzio? - Direi di no; quando ci siamo lasciati lei è andata a vivere con il suo amante. Non me lo sono chiesto all’epoca, non era l’amore della mia vita. - Ah… anche qui metti in mezzo la psicologia, con Skinner. - Sì, mi sembrava un’ottima immagine e dato che parliamo di comportamento era anche pertinente. - Anche la citazione letteraria, molto elegante! Ma senti, troverò altri personaggi? 51


- Sì, i suoi amici: Alessandro Casparri e Michele Carletti. - Ti sembrerà un interrogatorio, ma spiegherai come e perché si sono conosciuti in via Margutta? - Sì. - E che lavoro fanno Adriano e Sofia? - Sofia è un’artista, mentre Adriano è un carabiniere della forestale in pensione; carabiniere come lui, ma al patrimonio, è il suo amico Gianluca. - Com’è questa passione per l’Arma? - Al giorno d’oggi si tende a screditare le forze dell’ordine, invece io per loro ho un gran rispetto: tra l’atro, se da ragazzo non mi fossi rotto il ginocchio, mi sarei volentieri arruolato. - Qualcos’altro che dovrei sapere sulla storia? - Abitano in viale Trastevere, lei era del 1951 e muore a 67 anni, lui è più piccolo di due anni ma la storia comincio a raccontarla quando anche lui arriva ai 67. - Quanti ne hai tu ora. - Sì, ho pensato che fosse più semplice immedesimarmi. - Giusto! Adriano ha delle passioni, delle abitudini? - Sì, ama la musica e la natura e tutte le mattine si sveglia alle 6.30, fa colazione, esce a comprare il giornale e cammina fino all’ora di pranzo, quando rientra a casa. - Anche i suoi amici sono vedovi? - Sì, ma quello che lo capisce meglio è Alessandro, gli altri due si sono accompagnati con altre signore: Michele con Ylenia e Gianluca con la Clelia, con cui discute sempre. - Sei stato bravo, complimenti, mi hai dato ottime basi da cui partire. Ma certo, io sono una privilegiata: il lettore saprà tutto questo pian piano, seguendoti. 52


Come continua? Non riusciva a seppellirla nel cuore perché ne sarebbe morto dentro e fuori. Si trascurò. Il desiderio di essere ancora una notte uomo con lei ruggiva e si placava sotto i palmi delle mani. Era convinto che mai più si sarebbe sentito così, anche se molti dei suoi amici nel rispetto della vedovanza avevano finito per cedere alla carne. Mai più ascoltato, nutrito, canzonato. Mai più l’avrebbe amato, Sofia. Mai più avrebbero danzato e riso, stretti, vicini, com’era stretto ora quel suo lutto oppressore. Ora poteva entrare al buio senza farsi notare, meglio era se non lo notassero. Nessun occhio posato l’avrebbe ridestato, nessuno di loro avrebbe saputo distendere il suo castigo. Il fuoco era spento, non ci sarebbero state più le discussioni sulle bollette scadute, sul mutuo da pagare, sui fogli di una spesa mai più fatta, di cose di lei mai più da comprare. Sul ripiano del mobiletto del bagno le sue creme per il viso erano ancora sigillate ed ora impolverate. Non ancora rassegnato ad una vita appesa, quando fosse stata vita, si lasciava andare a risate su cose sciocche salvo poi drizzare la schiena, d’un tratto sentirsi in colpa per aver dimenticato il suo fardello, per aver raffreddato la il ricordo della sua sposa. Sofferente quindi conduceva una vita priva di trame. Dopo due anni provava ad alleggerire il suo lutto impegnandosi ad uscire e a socializzare, tanto a nessuno veniva in mente di chiedergli qualcosa su quella sua moglie defunta, per tutti loro Sofia non era mai esistita, forse per pudore cancellata, volata nel fiume come una foglia nuova. “Hai finito di fare la vittima?” si intrometteva Gianluca tra un pensiero e l’altro. E lui continuava in quel suo stato di totale abbandono che, ne era certo, per chi non sopperiva alla condizione 53


vedovile, doveva apparire fin troppo vacuo e svogliato da attrarre preoccupazione. “Cercatemi voi” supplicava e auspicava lui all’inizio, “cercatemi perché io ho già trovato tutto e non posso far avvicinare nessuno”. Nel frattempo si ritrovava a pensare a quello e a chi aveva trovato e al perché non lo avesse trattenuto, perché non si fosse assicurato che rimanesse. “Non vorrei essere brutale ma Sofia è morta per un infarto” riprese Gianluca dal divano dove si era accomodato. Adriano si placò sotto parole che evidentemente aveva pronunciato a voce alta. Guardò un tavolino color ciliegio, nel salone. Pensò che con Sofia avevano passato anni a discutere sulla sua posizione, mentre ora lo avrebbe distrutto. Ne avrebbe voluto fare mille pezzi da usare in inverno per il camino. “Menomale che il camino non ce l’hai, non lo avete mai voluto montare” scherzò l’amico all’altro lato della stanza. Adriano da poco aveva ripreso ad uscire di casa, ma Gianluca gli veniva a far visita comunque tutti i giorni. Si erano conosciuti a lavoro, entrambi carabinieri ma in due reparti diversi: Gianluca Romei inserito nel Corpo Tutela e Patrimonio Artistico, mentre Adriano Bevilacqua al Comando per la Tutela dell’Ambiente. “Mi hai portato le sigarette?” chiese Adriano che finalmente sembrava essersi accorto di lui. “Sì, sì, te le ho portate… anche se lo sai, secondo me dovresti smettere!” imbeccò l’altro. “Grazie”, scartò il pacchetto e se ne infilò subito una in bocca. “Non ho mai capito come tu faccia a fumare, amante come sei della natura!” “È come il calzolaio con le scarpe rotte, di cosa ti meravigli?” “Udite, udite, ho sentito una battuta!?” Ripose le buste della spesa sul tavolo e tirò le tende per far entrare la luce. “Se sei di buon umore, potresti uscire un po’ oggi”. 54


“Non lo sono e non c’è niente che mi vada di vedere” ritirò così le tende verso di sé oscurando la sala, “accendi la luce se vuoi” lo spronò mentre si sedeva in poltrona. “Non posso permettermi di cadere”, ribatté a Gianluca prima che tornasse ad insistere affinché uscisse e vedesse un po’ di gente. “Se cado ancora non mi rialzo più”. “Ah perché tu credi di esserti rialzato? Ma quando!” ironizzò l’altro non notando in lui alcun cambiamento. “Sofia non vorrebbe che ti riducessi così, sai che ho rag…” ma non lo fece finire, udire il suo nome abbinato all’intuizione che lui avrebbe saputo cosa pensasse lo alterò. “Vai fuori, ora!” intimò. L’amico uscì visibilmente preoccupato, “Adriano dai, non ti fa bene stare a casa, ti incupisci e basta! Dai non fare il ragazzino, apri…” ma sapeva di avere esagerato e non aprì. Sveglia alle 6.30, faceva colazione a casa e poi usciva per andare a comprare il giornale. Riconosceva qualche amico al bar, lo salutava e si prestava per due chiacchiere. “Dove te ne vai per il ponte di Ferragosto?” chiese una mattina Michele. Era estate, Roma non più deserta come qualche anno prima. A casa, avrebbe voluto rispondere, abbracciato al cuscino. Non disse niente invece, ci avrebbe pensato. Avrebbe voluto organizzare una vacanza per due e ne immaginò una per rimettere Sofia al suo posto, accanto a lui. Gianluca certamente sarebbe partito con Clelia, la sua compagna. Non facevano che litigare per ogni minima sciocchezza e lui cambiava sempre opinione sul bene che le voleva. Una volta era accondiscendente – “Vado a far commissioni con la mia bella” – un’altra volta sembrava superbo - “È un’oca rinsecchita, di una volgarità, di una pochezza d’animo, non so come ho fatto a…”. Michele Carletti era rimasto vedovo da cinque anni e 55


da poco si era innamorato, lo gridava ai quattro venti che era stato il volere di sua moglie, quella brava donna sapeva che lui non sarebbe mai stato capace di vivere solo. “Dai Adriano, chiedo a Ylenia se ti presenta qualche sua amica! Esci con noi una sera?” lo fermava sempre più del dovuto quando lo vedeva. Lui declinava sempre. “Sofia Martinelli, vuoi tu sposare il qui presente Adriano Roccasecca?”

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- Il flash-back ti fa venire il mal di mare? - Non so, dipende da come è scritto. Giorgio gli lesse le ultime righe. Ormai, preso dalla scrittura, sembravano vivere in simbiosi. Qualunque dubbio o perplessità avesse doveva e sentiva di doverne far partecipe Arianna. Questa storia poi le piaceva, le sembrava scritta bene anche se non gliel’avrebbe detto subito. - Parteciperai a un concorso letterario o vorrai tentare con qualche editore? - No, no. Me lo tengo, scrivo per me. La risposta di lui la impressionò per la determinazione e per la somiglianza a quanto proprio in quel periodo lei stava provando verso quel mondo. Perciò concluse che lui non voleva entrarvi ma stava cercando solo un modo per sentirsi libero. - In questo racconto sei molto empatico. - Grazie, ho imparato con Romeo… - Mi dispiace, ma adesso come va? - Non ce l’ha fatta, si è suicidato quattro mesi fa. Ma Adriano sì, troverà la strada. Arianna era scossa, ancora una volta la scrittura diventava terapeutica. L’arnese perfetto per ricominciare, Giorgio imparava di nuovo ad usarlo con premura per rendere reale il riscatto ad un uomo immaginato.

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Lui declinava sempre. “Sofia Martinelli, vuoi tu sposare il qui presente Adriano Roccasecca?” ripeteva sempre sì, allo specchio, nella mente i suoi occhi, le sue labbra, nell’aria il suo profumo. Nessuna amica di Ylenia avrebbe potuto prendere il suo posto. Si sentiva ancora sposato a Sofia e quindi la vacanza l’avrebbero fatta insieme. Quando poteva disertava pranzi, cene e momenti conviviali. Inizialmente in apnea con il cuore pieno di detriti, udiva rumori attutiti e non gli interessava essere compreso. Se Gianluca tardava con la spesa, lui prendeva il cellulare e chiamava a casa. La segreteria scattava e la voce registrata di Sofia invitava a lasciare un messaggio: “Amore compri tu le gallette di riso? Il prosciutto crudo, tagliato a mano…” si sentiva dire. Per qualche secondo si convinceva che l’avrebbe richiamata, invece era lui a riprovare poco dopo, fingendo altre richieste. Alla fine però si rimproverava sempre: “Cosa sto facendo?!”, si chiedeva incredulo. “Perché non rispondevi?” Con quell’espediente Adriano aveva eluso il campanello della porta, Gianluca era in piedi di fronte a lui in attesa di risposte. “Non ho sentito” si sbrigò a dire mentre cercava di spiegare a sé stesso il comportamento, il principio di follia. Litigi, gentilezze, l’amico non si stancava di tornare mentre lui tornava a pensare all’assenza che lo assaliva. Se rasentava così la pazzia chissà come sarebbe stato vivere da soli con un vedovo come lui. Abituarsi ai suoi ritmi quotidiani, rimanergli accanto senza sfiorarlo. Viveva solo da quando Sofia era morta (sì, morta: emmeo-erre-ti-a, defunta, scomparsa, estinta, trapassata, priva di vita, esanime, lontana, remota) in quella parte del letto rigonfia. “Valeva la pena stringersi” si ricordava quando era lei a sussurrarglielo piano, ma non fece in tempo, non 58


la ritrovò. Spaventato si alzava, sul comò un flacone di fragranza intatta da prendere tra le mani, il suo profumo viveva ancora: “Non andartene” sperava e poi tornava a coprirsi sotto le lenzuola. Quante vacanze avrebbero ancora fatto insieme: Marsiglia, Firenze, Buenos Aires, Copenaghen, di città ne avevano in mente tante ma poi di colpo era svanita e non avevano più potuto fantasticare su viaggi più lunghi, senza tempo di percorrenza. “Andiamo in capo al mondo?” lo distraeva. “Sì, partiamo subito” si faceva distrarre, “colazione in Canada, a Montreal, tra cascate e boschi” proponeva lui. Avevano avuto un solo figlio, Lorenzo, che avrebbe compiuto 40 anni in ottobre. Viveva all’estero e a parte qualche visita dopo il funerale, chiamava e basta: “Esci papà, vedi gli amici. Mamma sarebbe contenta, ti voglio bene”. Queste insinuazioni nel voler sapere cosa a Sofia sarebbe piaciuto che lui facesse, cosa l’avrebbe fatta contenta, lo infastidivano. Solo a lui lei aveva confidato ogni cosa, solo con lui aveva fatto l’amore e riacceso il ventre e i seni, solo per lui aveva fatto costruire l’intera mobilia in casa, solo accanto a lui aveva liberato il suo ultimo respiro. Adriano sapeva tutto di Sofia e nessun altro, nemmeno suo figlio, avrebbe potuto dire che cosa gli avrebbe fatto piacere o dispiacere. Non voleva stare con gli amici, voleva stare con sua moglie morta. Ma Lorenzo non voleva indagare i sentimenti del padre, troppo dolore per capire oltre, e così lui smetteva di esitare: “Non preoccuparti, sto bene”, accettava con recitazione. Che cosa significava star bene dopo aver perso la donna della sua vita e aver perso con lei un pezzo della sua di vita non poteva e non riusciva ancora ad affermarlo, ma finiva per crederci. La moglie di Michele era morta di cancro, dopo l’ultimo ciclo di chemioterapia. Ylenia, da infermiera, l’aveva 59


assistita fino alla fine e per amore del cliché aveva finito per assistere anche lui. “Ma cosa credi Adriano, che io l’abbia dimenticata?” chiese dopo l’ennesimo rifiuto. “Io a lei penso tutti i giorni, ma non so stare da solo e questo lei lo sapeva” sorrise a mezza bocca. Adriano rimaneva spesso senza parole, non lo aveva giudicato però gli chiese scusa semmai lui lo avesse pensato. Si sentiva più come Enrico Valletti, talmente innamorato e dipendente dalla moglie che dopo pochi mesi l’aveva seguita al campo santo. Di certo aveva capito che nessuno di loro portava il lutto nell’abito, ma tutti lo portavano nel cuore. Anche Alessandro Casparri si sentiva ancora sposato e resisteva come poteva: ogni mattina Adriano lo trovava al bar, giocava a carte; tra loro qualcosa di familiare gli si rivelò negli occhi: un luccichio spento che li incuriosì. “Sai giocare a briscola?”, il tu cortese era d’obbligo al rione, Adriano si sedette e iniziarono una lunga partita. Entrambi erano in pensione, Alessandro aveva fatto il carpentiere e si era rovinato la schiena, “Eh, ci voleva la vedovanza per trovare un giocatore che fosse accanito quanto me” si stirava sulla sedia, ogni tre per due doveva alzarsi. Si trovava bene a parlare con lui, più che altro il gioco sembrava aiutarli a ritrovare leggerezza. “Come vi siete conosciuti con tua moglie?” chiese una volta ad Adriano, accortosi del suo imbarazzo proseguì “La mia Elena sostituiva la segretaria nella ditta dove stavo, era bellissima, ho fatto carte false per avvicinarmi a lei” rise buttando un asso. Voleva ricambiare la generosità dello scambio, del ricordo, ma Adriano era ancora troppo teso per lasciarla andare e Alessandro non insistette. Giocavano per ore, sapeva che una volta superata la soglia di casa sarebbe sprofondato di nuovo nel vuoto della solitudine. 60


- A proposito di estate, dove andrai in vacanza? – interruppe lei. - Non lo so ancora, ma aspetta, perché loro lo sanno. …nel vuoto della solitudine. “Dove andrai Adriano, hai deciso?” tornò alla carica Michele, “devi prenotare subito o ti costerà un occhio della testa!”. Avendo deciso di far credere che avrebbe preparato un viaggio per due, disse tergiversando: “Non so ancora di preciso, Lorenzo mi deve far sapere cosa preferisce”. Fortunatamente non era figlio da chiamare gli amici del papà qualora lui fosse realmente partito. “Amore mio, vieni con me in vacanza?” chiese a una Sofia ferma in una fotografia. Lei annuì nell’anima, la rivede restituita dei colori che la morte le aveva sottratto. I suoi nuovi amici sembravano conoscerlo più di quelli che dopo il funerale non aveva più visto. La morte non si attacca lo sapete? Brutte merde. Pensava spesso, ma non osava dirlo. Li sentiva più vicini per quello scherzo del destino che volle privarli delle mogli, che volle fargli provare il dolore del distacco e della perdita. “Non so come fai, non so come farei io se mi accadesse” avevano detto i vecchi amici, quelli scomparsi e per nulla frenati. Il loro viso fintamente corrucciato e maldestramente dipinto restava immobile, fisso e senza empatia. Non poteva neanche chiedergli di ascoltare il rantolo, per loro sarebbe stato un supplizio aggravato dal disagio. Adriano non voleva pensare. I pensieri se li teneva per sé e per chiunque avesse dimostrato di volerli ascoltare con serietà e rispetto. I vecchi amici si dileguarono svelti lasciando che il vedovo entrasse nel vuoto e lì perisse. Michele, Gianluca, Alessandro in questo erano diversi: non dovevi dire molto per farti capire o consolare, ma era anche facile rimanere impigliati nel troppo passato che 61


avevano in corpo. Il loro inchiostro macchiava più degli altri, le loro parole rimbombavano avide. Ecco perché erano di nuovo finiti a parlare di viaggi. “Sapete che Ylenia legge Epicuro ed Hegel?” disse un pomeriggio Michele, più sorpreso di loro. “Non vuole parlare di passato, di malattie né di morte, siamo come organismi che mutano in un inno all’autosufficienza e alla libertà” ripeté perplesso e gli amici incalzarono: “Vedi, è tua moglie che dall’alto ti tiene in riga!” risero tutti. Chissà se era vero, se la moglie di Michele poteva perseguitarlo amorevolmente perché lui alle volte faticava persino a respirare? Se ne stava lì al sole, dopo la partita a carte e cercava il punto di fuga. Alessandro gli diceva sempre che prima o poi si sarebbe abituato ma Adriano non poteva crederci e per questo si tratteneva. - Non sono mai riuscito a finire Hegel, ma credo nella forza delle donne. – commentò lui fuori campo, poi riprese. Scriveva, leggeva e la chiamava. O almeno, così gli sembrava. A volte lei rimaneva in attesa all’altro capo del telefono, in vivavoce. …non poteva crederci e per questo si tratteneva. I cataloghi presi in agenzia non gli davano più molta curiosità ed erano infatti riposti senza cura nel portariviste. Adriano si voltò a guardare le librerie di casa, il silenzio rumoroso mancante del canto di Sofia in cucina o in giardino, lo abbatteva. Dopo il lutto forzato, la mattina in casa non poteva stare. Incontrare gli altri vedovi lo distraeva da lei, onnipresente. Mentre quando non usciva, sbalzato in un presente che non lo apparteneva restava ammutolito al buio nel salone dell’appartamento con le tapparelle abbassate e le finestre aperte. Metteva sul giradischi sonate, sinfonie, quartetti, immaginando cosa le avrebbe 62


detto in proposito. Passavano ore al bar o a cena parlando di frivolezze, mai di politica o sarebbero finiti a discutere e forse anche a slacciare il legame instaurato con la vedovanza. “Sapete, vorrei chiedere a Clelia di sposarmi” Gianluca era l’unico che riusciva sempre a stupire, “vi chiedo consiglio”. Adriano lo guardò fisso e poi disse: “E lo chiedi a noi? Che ironia…”, ma Alessandro intervenne: “No, perché? La vedovanza è solo una condizione sociale, io e te” indicando Adriano, “siamo ancora sposati e lo saremo sempre, è giusto che il ragazzo chieda a noi consiglio!” strizzò l’occhio a colui che aveva posto la domanda. “Ehi, ragazzo, ma dai, ho solo dieci anni in meno di voi!” ci cascò senza freni. Michele ridacchiò quella volta e annuì “Cosa vuoi sapere, se fai bene a chiederla in moglie? Se te ne pentirai?”. Gianluca chiese perché Alessandro e Adriano erano tanto sicuri di non risposarsi, “avete raggiunto la pace dei sensi?” con sarcasmo. Il suo amico di sempre, carabiniere come lui, si era rinchiuso nel suo guscio ed evitava spesso di parlare, sembrava più una carcassa in movimento che si trascinava esasperata, al che toccava sempre al giocatore spiegare le ragioni di entrambi. “Non vedo, non vediamo la nostra vita con nessun altra. Credo sia solo amore, tutto qui” sentenziò e tutti rimasero in silenzio, abboccati a quel tutto qui.

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- Ci vediamo al Lingotto? – chiese lei un pomeriggio. Era giugno, cominciava a fare caldo. - No, fin laggiù! Avevo promesso che ti avrei portato in uno dei ristoranti che più amo: non prenderemo il bollito, seppur squisito, ma spero di trovare abbastanza spazio per sederci rispettando le distanze. - Ah già, c’è ancora quel problema. - Son disposizioni governative. - E paura indotta, certo. Comunque, come si chiama il posto? - Tre Galline. - Prima tre galli, ora galline. Un pollaio praticamente! - Per una cena come questa è perfetto. - Perché, come questa? - Sono arrivato ad una svolta nel racconto e ho continuato a scrivere da quel “tutto qui”, non è stato facile ma la storia non poteva bloccarsi… come le altre, non credi che nelle altre mi sia fermato troppo presto? - Non credo ci sia scritto da nessuna parte quale sia il modo giusto di calibrare il tempo. - Va bene, ma secondo te dovrei scavare, andare più in profondità? Io me lo sono chiesto. - E cosa ti sei risposto? - Che forse sarebbe stato meglio inserire più dettagli, una storia che catturasse l’attenzione e la curiosità, che intrigasse anche. - Forse invece servono meno dettagli, perché tutti cercano l’abbondanza. - Non so, ma secondo te importerà a qualcuno questa storia? - E tu eri quello che scriveva per sé eh… Per te è importante che lo sia? La gente fa come le pare e persino con meno domande. 64


- Per me lo è; scrivo per me sì, l’ho detto, ma poi dovesse finire in certe mani e in certi pensieri, vorrei che fosse rispettata... Ari, senti, ma perché hai smesso di scrivere? Giorgio era al telefono, stava tornando a casa a piedi. A San Salvario, su via Madama Cristina, si era fermato all’enoteca Rossorubino per rifornirsi di barolo e nebbiolo, poi in piazza Carlo Felice, sotto i portici, era andato nella sua cioccolateria di fiducia e si era fatto incartare in un sacchetto i loro tradizionali gianduiotti. - Parliamo tutti i giorni di me e delle mie elaborazioni trasversali, ma mai delle tue Ari. - Non c’è molto da dire, ho smesso e basta. - Non ti chiudere a riccio, ora! Ci deve essere per forza un motivo. Mi hai raccontato e ho visto con quanta passione e lealtà svolgevi il tuo lavoro, che per te è sempre stato più di un semplice mestiere. Quando mi hai detto che non scrivevi più, mi è preso un colpo, mi son detto che non era possibile. - E invece lo è, si cambia. - Certo che si cambia ed è sacrosanto, ma dopo vent’anni, così, senza motivo? - Ho semplicemente capito che il sistema è talmente “marcio” che il mio modo di lavorare non può trovare spazio, non funziona, tutto qui. - Però ti dà fastidio eh, non deve essere stata una scelta semplice. - No, infatti, ma se c’è una cosa che ho sempre detestato è quella di perdere tempo; ho tentato in tutti i modi di intraprendere nuove strade, ma dopo l’ennesima porta in faccia, l’ennesima scusa, non ce l’ho fatta più. La misura era colma e ho chiuso tutto. 65


- Vedi poche sfumature e non sei tipo da compromessi. - Forse non abbastanza, oppure sono solo disincantata… non mi va più di giocare. - Credi che riprenderai prima o poi? - Probabilmente, spero, ma non sarà più come prima. Io mi conosco, quando dopo mille tentativi prendo una decisione, quella rimane. - E quindi come sarà? Ma Arianna non riusciva a pensarci, era troppo presto perché volesse ricominciare. Al Tre Galline quella sera lasciarono dieci euro di mancia: la distanza non aveva creato alcun problema di socialità. Gli dissero di resistere, che i tempi sarebbero migliorati. Camminarono nella notte torinese, ancora troppo silenziosa, poi Giorgio le chiese: - Secondo te i nostri genitori sarebbero felici di saperci vicini? - Ci penso spesso anch’io, ma mi piace pensare di sì. - Perché ciò ci giustifica? Nel senso, stiamo cambiando il corso della storia. - Eh, sai che è vero! È sempre stata una famiglia disgraziata la loro, mentre noi in qualche modo stiamo sfidando il destino. Si guardarono sorridendo, complici.

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…abboccati a quel tutto qui. Dopo poco, puntuale tornava la domanda sulle vacanze. “Dai, Adriano, la città si svuota ad agosto! Possibile che Lorenzo non abbia ancora scelto nessuna meta?” chiesero di nuovo in coro. Provò a dire che era molto impegnato, di quegli impegni che nascono quando non hai nulla da fare, ma loro continuarono a guardarlo con fare indagatore. “Se lui non decide, vieni con noi in Sicilia” propose Michele. Lui rifiutò con un “no grazie” sonoro. Alessandro sarebbe andato in barca da solo, distendeva i nervi diceva. Forse, pensò Adriano dopo aver declinato ogni invito, avrebbe potuto iniziare a viaggiare anche lui solo. “Solo” ripeté piano appena rientrato in casa, poi scrollò le spalle mentre la figura di Sofia cominciava a sfumare lenta. - Non c’è più San Lorenzo, ma solo Lorenzo. – commentò ad alta voce Arianna. - È una storia diversa, ricordi? …cominciava a sfumare lenta. Quel fine settimana si impegnò per cercare un rifugio, una via di fuga lontano da tutti. Come se fosse la lontananza a guarire le ferite. Per quanto volesse stare in mezzo alla gente perché sapeva che la casa con i suoi spiriti legati l’avrebbe ancor più turbato, cominciava ad esitare quando veniva invitato. Non gli piaceva più stare al centro dell’attenzione perché tutti avrebbero potuto accorgersi di quanta sofferenza lo attanagliasse, eppure esercitava il suo racconto su testimoni involontari. Poco importava chi si sarebbe soffermato a guardare dentro. Parlare di quanto accaduto a Sofia, parlare di lei e di come si era sentito a lasciare andare il suo corpo vuoto, parlare di ogni cosa lo aiutava a rielaborare e parlarne sempre lo costringeva a restare 67


in quella realtà e a non andare fuori. Ma non è facile stare vicini a qualcuno che rimette veleno dallo stomaco per liberarsene. Aldriano non lo faceva apposta, come neanche i suoi vedovi, ma nel momento in cui ci riuscì non poteva stancarsi di parlarne e lo faceva anche con lei quando l’andava a trovare al cimitero. All’inizio si sentiva in colpa e poi presa coscienza, scioccato: “Quale vita? Ti sto insultando amore mio, sto sopravvivendo” confermò. Si persuase che un luogo di silenzio per ritrovare sé stesso sarebbe stato perfetto per il soggiorno estivo su cui i suoi amici tanto insistevano. Non c’era bisogno di andare in capo al mondo per trovarlo. Tra cartine e guide turistiche, la sua attenzione ricadde su una cittadina in particolare: Spoleto, in Umbria. Spoletum Umbriae Caput, scelse infine. Decidere di partire per le vacanze senza Lorenzo e senza Sofia si era rivelata un’ottima mossa perché gli permetteva di ripensare sé stesso in una nuova condizione, in solitudine. Non che non avesse mai viaggiato in solitaria ma già quando era fidanzato si divertiva spesso a fare gite fuori porta nel fine settimana oppure prendere e partire senza avere in mente la destinazione, solo partire, andare. Se quindi era convinto che quella esperienza gli avrebbe giovato, dall’altra, da qualche giorno aveva notato un appesantimento, un umore nero. Poco prima che tutti partissero, incontrati al solito bar Alessandro e Gianluca se ne accorsero subito. “Possibile che sei sempre qui?” chiese a Gianluca infastidito. “Siete a due passi da piazza Sant’Ignazio dove ti ricordo lavoro ancora” rispose lui senza molto badare. Nessuno di loro aggiunse altro, pensarono si fosse svegliato male vista anche l’acidità con cui si era proposto. Ma poi dopo le chiacchiere e le risate, notarono Adriano ancora più 68


ammutolito e allora non poterono tacere, vollero sapere cosa avesse. Alessandro chiese: “Che ti prende oggi?” certo di essersi spiegato. L’amico aggrottò la fronte e scosse la testa, “Eh? Nulla”, rispose. Mai un nulla fu così pesante. E Gianluca si intromise: “Ragazzo mio tu ci nascondi qualcosa, non sei contento di andare a Spoleto?” lo guardò e non si sarebbe mosso finché non avesse ricevuto risposta esauriente. Preso alle strette Adriano si alterò un poco, erano affari suoi, pensò scortese, poi di scatto si riprese mettendosi sulla difensiva: “Certo che sono contento, non vedo l’ora, non ho niente ora mi passa” promise. Ma se doveva passare, evidentemente qualcosa c’era. Se il rapporto con Gianluca era più confidenziale, con Alessandro dopo tutto aveva scambiato poche parole e forse poteva spiegarsi in quella la sua diffidenza, oppure era più probabile che non volesse informare quest’ultimo, non più affranto pensava lui sbagliando, delle sue perplessità, dei suoi malumori, delle sue nostalgie perenni. Che cosa avrebbero capito? E poi, perché dire loro quanto si ostacolava dall’idea di andare in vacanza, che pure lo emozionava, senza sua moglie? Dei due, dopo il breve silenzio, fu Alessandro a sorprenderlo: “Al Circeo ci andavamo sempre insieme in questo periodo, tagliavamo a piedi per la pineta: da quando Elena non c’è più, cerco sempre nuove strade”, disse come pensando ad alta voce. Non era un pensiero lanciato a caso, in realtà aveva capito che cosa poteva affliggere Adriano. Quella vacanza da solo che, nessuno credeva sarebbe stata con il figlio, rappresentava uno strappo alla quotidianità. Quei giorni senza i suoi luoghi, le sue strade, i profumi della sua casa, lo avrebbero allontanato da ciò che più lo facevano sentire al sicuro, protetto da una presenza che Sofia aveva saputo cucirgli addosso. In quei luoghi, nei 69


suoi ricordi, sarebbero stati insieme per sempre. Tempi assoluti, perduti, traditi dal tempo, eppure nessuno a casa li avrebbe divisi. Allontanarsi invece, più che per la paura di agire per il timore di trovarsi bene, gli destava angoscia. Si sentiva molto vulnerabile, anche davanti ad Alessandro che gli aveva dimostrato di sapere esattamente cosa stesse provando e che infatti riprese: “Adriano, davvero pensi che non posso capirti? Perché mi vedi allegro, forse pensi che non soffro più e che quindi sia inutile parlarne?” chiese con delicatezza, sensibile alla sua sofferenza. “Grazie, ma non voglio pesare… Non è niente, davvero” rispose lui in imbarazzo. Anche Gianluca prese la palla al balzo: “Credo che siano momenti che passano, ma se li racconti non ti privi di lei e non diventi d’un tratto debole” volle spronarlo e consolarlo assieme. - Ci ho provato tanto a consolarlo e a spronarlo… - si interruppe lui. - Parli di Romeo? - Sì. - Ma sai, credo che fosse lui a non volerlo, tu potevi fare ben poco, ma sono sicura che ti è stato grato per quello che hai fatto. - Non so, grazie, ma queste son cose che si dicono, non saprò mai cosa ha pensato. …e consolarlo assieme. Michele, da poco arrivato e inserito nella conversazione confidò agli amici di credere molto nell’arte del chiedere aiuto: prima che arrivasse Ylenia era andato per qualche mese da uno psicologo, doveva riprendersi perché lo aveva promesso a sua moglie, “Non avevo tempo di vergognarmi e non mi sono sentito meno valoroso per questo”. Parole sante, commentarono tutti. Guardò in alto e sbatté le palpebre 70


in fretta, disse che gli era entrato qualcosa nell’occhio che lacrimava. Pensava di averle esaurite da tempo le lacrime. “So che starò bene, ma mi chiedo quando” disse d’un tratto Adriano, “È molto difficile per me partire senza Sofia, è vero, chissà questo viaggio come le sarebbe piaciuto, avrebbe voluto vedere tutto, sarebbe stata più curiosa di me”. Gianluca riprese: “Ha ragione Alessandro sai, non sei solo”. Adriano tacque di nuovo mentre faceva scivolare poche pillole sparse, utili solo per chi avrebbe ascoltato. Gli amici smisero di chiedere, non volevano insinuarsi nel suo privato ma solo dargli conforto e fargli capire che su di loro avrebbe potuto contare se lo avesse voluto. Avevano compreso che il malessere sul suo volto era dipeso dalla mancanza di Sofia e di tutto quello che non sarebbe più stato. Solo se si fosse dato tempo, Adriano avrebbe ripreso a vivere nel pieno delle forze. Per il momento, la vita appariva tortuosa, difficile da percorrere, una strada bianca su cui ogni passo si annullava il giorno seguente costringendolo a ricominciare da capo il mattino. Sono nato e già non ci sei più, si svegliava sudato dal suo incubo ricorrente.

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- Come ti è venuto in mente questo incubo ricorrente? - Mettendomi nei panni di Adriano ho pensato che dovesse essere molto difficile vivere senza Sofia, soprattutto perché loro avevano un matrimonio molto felice e appagante. - E perché è ricorrente? - Romeo mi aveva spiegato che i primi due anni di un lutto sono molto complicati, lui mi diceva che ogni mattina si svegliava quasi sotto anestesia. Quindi ho creduto che potesse essere lo stesso anche per Adriano, cioè che svegliarsi ogni mattina senza sua moglie fosse un incubo… - …e quale modo migliore di rappresentarlo se non con un concetto mentale che si tramutasse in immagine. - Esatto. - Ma perché lui dice che è “nato” ? - È una metafora. Ovviamente non è nato in quel momento, viveva già, ma con lei. Quindi ora che è rimasto vedovo, è come se dovesse nascere di nuovo. - Senti, ma perché proprio Spoleto di tante mete di vacanza? - Ho vissuto anche lì, una cittadina molto graziosa. - Nulla sembra essere un caso… - Beh, come dicevi anche tu, è più facile raccontare ciò che si è visto o vissuto, rispetto a ciò che bisognerebbe costruire da zero. - Ah, se sono io che l’ho detto!

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…dal suo incubo ricorrente. Non posso stare a casa. Adriano era prossimo alla partenza, sarebbe rimasto solo qualche settimana e aveva già preparato la valigia. I sampietrini venivano scaldati da un sole cocente, mentre lui si aggirava per i vicoli semi aperti. Dalla sua Trastevere, dove era andato ad abitare con Sofia appena sposati, quella mattina dopo la sveglia delle 6.30 anziché alzarsi come di consueto, stanco di nessuna fatica si era riaddormentato. Era uscito di casa solo con un paio d’ore di ritardo, scombussolando tutta la routine quotidiana. Per raggiungere il suo panettiere di fiducia aveva percorso il viale lungo, incrociato i Noantri che preparavano la festa e prima di arrivare a piazza Sonnino aveva svoltato l’angolo, sempre a piedi, oltrepassando la Chiesa di Sant’Agata dove sugli scalini c’è sempre qualcuno a chiedere l’elemosina e poi avanti per via dell’Arco di San Calisto. I nomi delle strade a volte iniziava a confonderli e si diceva che poco importava dato che le aveva tutte in mente, sapeva le scorciatoie, come arrivare da qualunque punto partisse. Giunse in piazza Santa Maria che era tarda mattina, la vide ancor più caratteristica di come la ricordasse. “Ecco qua il primo tempio cristiano del quartiere” pensò tra sé, “è la Basilica che Sofia preferiva in assoluto”. Se non fosse stato a lavoro Gianluca avrebbe sicuramente commentato, con una certa irriverenza, che era una gran fortuna trovare la fontana, la piazza e la chiesa in un unico posto. “Questa è l’unica fontana che si avvicina ai modelli classici medievali, lo sapevi?” avrebbe chiesto invece la moglie, certa che lui avrebbe risposto di no pur di farsi raccontare. “Fu costruita su disegno di Carlo Fontana nel 1692, restaurata dal Bernini… Ti rendi conto che viviamo nelle fessure che la Storia ci ha lasciato? È 73


così affascinante”, lo avrebbe tenuto lì per ore. Si lasciò la piazza alle spalle e proseguì in via della scala arrivando al Museo di Roma dove troverà una mostra di fotografia o simili. Prese vicolo del cinque poi via del moro dove risalì brevemente per comperare due rosette e un pezzo di pizza bianca. Alla Renella dove l’odore del pane appena sfornato lo senti per strada a metri di distanza offrono sempre biscotti e ciambelle, ma i turisti anche qui hanno finito per metterci l’impronta. Riscendendo trovò come al solito piazza Trilussa esausta dalla movida, sospirò e continuò sul lungotevere Sanzio fino al ponte: da una parte vide in lontananza il Castello da cui Tosca si gettò per non finire nelle grinfie della polizia, dall’altra il ponte Garibaldi, l’isola tiberina, il quartiere ebraico. Non desistette e passò oltre, nonostante il gran caldo. Non era mai stanco di girare per i vicoli di Roma. La città con gli anni era diventata caotica e invivibile, alle volte gli andava perfino stretta senza Sofia. Lei gli avrebbe fatto conoscere particolari della storia dell’arte che ignorava, visitando luoghi davanti ai quali magari era sempre passato davanti senza sapere bene cosa rappresentassero. Senza di lei Roma era diventata una città qualunque, eterna solo nei suoi ricordi. I suoi amici, invece, ci stavano benissimo; Alessandro, ad esempio, in estate riviveva il cinema all’aperto all’isola Tiberina perché era stata Elena a farglielo conoscere e apprezzare. Le pantegane facevano il dorso nel Tevere ma questo non gli impediva di restare al margine respirando l’aria umida della notte. All’inizio, pensò, è come se non riuscissi a fare niente senza la parte mancante e quel tipo di niente appesantiva più di qualunque altra cosa. Imboccata via Giulia con tutti i suoi palazzi adornati di filacci di rampicanti sempreverdi e di buganvillee rosse 74


e viola, era arrivato in Corso Vittorio Emanuele II tra la Chiesa di Sant’Andrea della Valle e Piazza Navona ma era andato oltre verso il Pantheon, fatto lo slalom tra la gente, musicisti di strada, bambini che assaggiavano il gelato per la prima volta, aveva dato le spalle al Parlamento, salutata la Galleria Alberto Sordi, via, oltre. L’obiettivo di quel giorno era raggiungere a piedi, dal suo rione, la terrazza del Pincio sopra piazza del Popolo, a due passi da Villa Borghese. Immergersi nel verde, proprio nel cuore della città perché quando si sentiva così in tumulto Adriano doveva ristabilire l’equilibrio dentro di sé e sapeva che solo gli alberi e gli animali che abitavano l’ambiente lo avrebbero ridestato. La natura riesce ad adattarsi ovunque si trovi, pensò, ed anche lui voleva fare lo stesso. Poteva forse sperare che Spoleto lo proteggesse, proprio perché qui nell’intima memoria (parafrasando Alda Merini) il giorno lo guadagnava con fatica? Sperava che risvegliato nell’abbraccio delle montagne avrebbe saputo amare ancora. Non lì, dove tutto gli ricordava lei. “Sai che secondo la leggenda è all’inizio della salita del Pincio che Galileo pronunciò le parole ‘Eppur si muove’?” avrebbe chiesto Sofia tra i giardini e le statue del belvedere. “Ti faccio vedere una cosa” lo prese per mano, strinse e lo attirò a sé. Per un attimo furono vicinissimi, un respiro, lui non disse nulla e Sofia prese a camminare per le strade alberate immerse nel traffico. Partendo dal Circo Massimo corsero a valle verso l’Aventino. “Dove corriamo?” chiese in un momento affannato. “Seguimi, ti faccio vedere una cosa” ripeté lei. Arrivarono al parco Savello, meglio conosciuto come Giardino degli Aranci; Adriano dovette fermarsi a riprendere fiato: “Qui volevi portarmi? Ma lo conosco!”, esclamò tra un sospiro e l’altro. “Ma certo, immagino che ci avrai portato tante 75


ragazze e non avrai fatto caso ad una cosa straordinaria. Ti cambia la prospettiva” assicurò lei. “Vieni, dai, mancano pochi passi” lo esortò e ripresero la strada. Sorpassarono qualche albero e si fermarono davanti a una porta di legno, seminascosta dalle foglie. “Chinati a guardare”, lui lo fece senza esitare incuriosito dall’espressione dei suoi grandi occhi. Nella fessura della porta, laddove avresti potuto inserire una chiave, si aprì e si distese Roma, immensa. Rimase a guardare affascinato poi entrarono nel giardino profumato di agrumi. “Adrià, oh, ma che dormi pure ad occhi aperti ora?” lo strattonò Gianluca. Volle aprire gli occhi ma li aveva già spalancati e si scoprì a fissare l’indefinito dinnanzi a sé. “Adrià, oh, Adriano?” chiedeva attenzioni l’amico. “Eh, sì, ci sono! Stavo solo pensando… Che c’è?” chiese infastidito lui. “C’è che mi sono innamorato di te…” sghignazzò Gianluca stonando Tenco. Si ritrovarono al solito bar con Alessandro, chiese di Michele ma lui era partito come al solito prima degli altri, con molto anticipo “per evitare la calca di ferragosto” diceva. “Ale che leggi? Sembri così preso” chiese Adriano; faceva talmente caldo che non riuscivano neanche a giocare a carte e se ne stavano seduti a chiacchierare o a far battute. “Ho trovato un articolo interessante su Spoleto” rispose Alessandro allungando il giornale sul tavolo. - Ci sono molti dettagli della città e descrizioni. - Sì, tutte quelle strade e quei luoghi ce li ho in mente, mi basta chiudere gli occhi e rivedo tutto, sento persino i profumi! - Pure la pizza bianca in via del moro? - Certo, appena sfornata. Volevo omaggiare i luoghi in 76


cui ho vissuto, ma non so se ci sono riuscito… - Perché, cosa ti sembra che manchi? - È vero che io sono un cuoco e non una guida turistica, ma ci sono autori che sanno raccontarti una città, un posto, a me sembra di aver fatto solo una lunga lista della spesa. - C’è chi è più portato alla descrizione ed è anche minuzioso nel farlo e poi c’è anche chi per spiegare o per presentare un determinato luogo o città sa farlo solo con poche parole e pochi rimandi. Non mi sentirei di giudicare negativamente un autore solo per questo, anche perché gran parte dei giudizi si risolve in base al gusto soggettivo di chi legge. Ma ci sono anche testi oggettivamente esemplari che resistono al tempo: penso alla Divina Commedia, alle tragedie di Shakespeare, alla letteratura russa. - Quindi pensi che anche così può andare bene? Anche se le vie saltano quelle reali? Sai può essere che abbia sbagliato qualcosa. - Io ti seguo volentieri, il fatto che lasci spazio di manovra anche al lettore senza suggerirgli tutte le strade che può prendere in una scena, mi piace. Mi soffocano gli autori che presumono di sapere persino che tipo di scarpe indosserai di fronte al camino di pagina 183. Giorgio quindi non soffocava, non insisteva, ma sperimentava. - Ah sai il numero di telefono che ti volevo chiedere ma che poi ho trovato? - Vagamente. - Ma sì che mi hai chiesto pure se fosse per un nuovo soggetto letterario! 77


- …Quindi? - Beh, in un certo senso lo era… Ho telefonato a Beatrice, la ragazza della porta accanto a dove abiti, lei è una storica dell’arte, ricordi? - Beatrice, sì, certo, lo so. - Ecco, è lei che mi ha aiutato a mettere ordine nella testa. - Ma avevi la scaletta! - Sì, ma non era sufficiente. Intendo il disordine, il vero caos dovuto a tutto quello che volevo dire di Roma e di Spoleto. - E ti è stata utile? – chiese lei con un imprevisto misto di gelosia e diffidenza, il trasferimento dell’equilibrio. - Di Roma sa proprio tutto, è davvero bello passeggiare con lei, ti sa dire il perché e il per come di ogni cosa. Mentre di Spoleto, un po’ meno, ma mi ha dato delle dritte su libri da poter consultare.

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… allungando il giornale sul tavolo. “L’artista Anna Mahler di ritorno nell’ex Ducato terrà una personale a Palazzo Collicola” era il titolo. Adriano lo lesse con gran velocità scuotendo la testa e aggrottando la fronte, “Non è possibile”, ripeté più volte. “Perché no?” chiese Alessandro. Anche Gianluca, incuriosito, lesse l’articolo giungendo alla stessa conclusione: non era proprio possibile una cosa del genere. “Io non vi capisco, se c’è scritto così, sarà vero”, poi rivolto ad Adriano “Guarda le date, sono le stesse del tuo soggiorno: vai alla mostra così ci saprai dire”. Un pomeriggio d’agosto Gianluca telefonò ad Adriano e gli chiese di raggiungerlo in via dei Nari: “Ti voglio presentare una persona, ci ha aiutato a smascherare una organizzazione che falsificava opere d’arte”, disse per interessarlo. Adriano era ancora un ragazzo, da qualche anno entrato all’Arma dei Carabinieri appena aveva potuto aveva fatto subito richiesta per passare al Comando per la Tutela Ambientale e ci era riuscito proprio in quei giorni. “Dobbiamo festeggiare, ricordi?” gli aveva detto l’amico, “Dai accompagnami, ci vediamo dove iniziano le botteghe”. La via dei Nari che intendeva lui non esisteva più e da tempo era stata sostituita con via Margutta, parallela del Corso, dove si apparecchiavano gli artigiani dell’arte: tutta la strada si riempiva di pittori che mettevano le loro opere in mostra proprio accanto agli ingressi delle gallerie, era uno spettacolo unico al mondo e potevi trovare veramente il genio. - Capito cosa intendo? – chiese Giorgio a bruciapelo. …trovare veramente il genio. Adriano non ne capiva granché di arte ma era sempre interessato a ciò che non 79


conosceva, anche perché su invito esplicito di Gianluca non poteva rifiutare. “Ma chi è, come si chiama? Se anche stavolta devo fare il terzo in comodo me ne vado eh…” aveva sbuffato al ricordo di tutte quelle volte che lo aveva chiamato solo per fargli da spalla. “Non fare il difficile! Dai che adesso devo lavorare, ci vediamo nel pomeriggio” chiuse la telefonata. Il pomeriggio arrivò presto e si incontrarono proprio dove aveva detto, all’inizio delle botteghe, o meglio, si sarebbero dovuti incontrare là ma Gianluca era in ritardo. Arrivò correndo e gridando “Adrià scusa il ritardo, er comandante nun me lasciava più andare… ‘na pippa!”, Adriano fumava allegramente e abbozzò un sorriso “Da quand’è che parli romanesco?”. Si asciugò il sudore dalla fronte, si guardò intorno poi trovò chi cercava “Eh in caserma, è per l’identità della divisa… ora andiamo” spiegò non dando neanche lui molto peso a ciò che aveva detto mentre attraversavano i banchetti. “Eccola!”, esclamò davanti a tele e colori sparsi e lei si voltò subito sorridente. “Gianluca, ciao, sei venuto! Che piacere vederti!”, ma lui non perse tempo e le presentò subito Adriano. “Sono venuto con un collega, ti presento Adriano che è anche un mio caro amico”, gli uomini si scambiarono un’occhiata poi Gianluca come si fa in questi casi fece finta di avere un inderogabile impegno e con uno sguardo malizioso si congedò, disse che si sarebbero rivisti presto. “Mi sa che voleva lasciarci soli” lo sgamò lei, “ciao, il mio nome è Sofia”. Parlarono a lungo e lei riuscì a vendere cinque quadri, più di quanto si sarebbe aspettata. “Perché? A me piacciono molto” gli disse lui scoprendola sorpresa. “Grazie, ma sono solo paesaggi, la mia tecnica non è ancora affinata come vorrei”. La sera camminarono lungo una città buia, la riaccompagnò a casa e l’indomani, trovato lo slancio non ricordava bene dove, le chiese se le faceva piacere rivederlo. 80


“All’inizio quando mi sono iscritta all’Accademia, avrei voluto fare la scultrice” gli raccontò mentre erano seduti su una panchina sotto quell’albero d’aranci. Una città che sapeva resistere ai terremoti come quello che gli era capitato all’interno, lo incuriosiva, lo affascinava. Gli serviva un posto che non gli ricordasse sempre lei. Gli dispiaceva che Sofia non avesse visto Spoleto se non filtrata dai suoi occhi, dal suo cuore; Sofia era sempre insieme a lui, ovunque si girasse la sentiva, ma quella volta provò a camminare da solo. Fu spaventoso andare avanti senza di lei. Gli sembrava quasi come procedere dritto eppure inclinato, una bambola di pezza sgonfia, ammaccata, strisciante, gli sembrava di tradirla ogni volta che incrociava lo sguardo di un’altra donna, anche se per caso o solo per gentilezza, ed ogni sorriso regalato gli sembrava strappato a quella vita in comunione che non avrebbe più avuto. Fu spaventoso vivere senza di lei, ma necessario. Anche se farlo da solo gli appariva strano: gli veniva sempre da chiederle cosa ne pensasse di una certa cosa o se volessero andare a visitare un museo, andare a cena. Prima di abituarsi a un cambiamento tanto forte la vita ha bisogno di esercizio, pensò sospirando. Spoleto forse avrebbe potuto allenarlo. Esposto alla bufera nella città natia, sperava che Spoleto magicamente avrebbe saputo accorciare le distanze. Arrivato al Complesso di San Nicolò La donna che guarda il sole era ancora lì. Quel fine settimana ci sarebbero stati molti spettacoli e il Chiostro, come lo chiamavano, ne avrebbe ospitato uno. Osservò quella donna di pietra e si chiese se tutto ciò fosse reale. Alessandro prima di partire, forse per tenerlo occupato, gli aveva fatto promettere di tenerlo aggiornato sulla questione Anna Mahler, anche 81


se sia lui sia Gianluca continuavano ad essere piuttosto perplessi. Aveva ripiegato quell’articolo e lo portava sempre con sé nella tasca della giacca. “Durante la guerra per sfuggire a Hitler scappa a Praga e solo negli anni Sessanta, viaggiando in Italia, scopre a Roma De Chirico e Canetti” gli aveva raccontato Sofia, “mi piacerebbe tanto vedere le sue opere dal vivo, anche perché molte furono distrutte a Vienna”. Nulla era per caso, non stava facendo nulla per caso. Sospirò stanco. Alloggiava a Villa Redenta in fondo alla città. Era arrivato già da qualche giorno e sebbene le persone che incontrava fossero molto gentili e disponibili con lui, non riusciva ad arrendersi a questa sua nuova solitudine e rimaneva perciò in camera contrariato. Aveva letto su una di quelle guide prese in agenzia che nel 1911 Hermann Hesse aveva inviato una lettera alla moglie insistendo perché venissero a vivere qualche mese in questa cittadina, “la scoperta più bella che ho fatto in Italia” scriveva, “C’è una tale ricchezza di bellezze pressoché sconosciuti, di monti, di valli, foreste di querce, conventi, cascate!”. Era curioso di vedere con i propri occhi tutte quelle ricchezze, laddove i monumenti e le arti penetravano nella natura. - Qui c’è lo zampino di una donna. – Chiosò Arianna di tutto punto. …nella natura. Poco prima di uscire, una mattina, sul cuore precipitò un sussulto: una breve scossa di terremoto fece tintinnare i bicchieri, per un attimo, poi passò. Esitante si affacciò alla finestra, immaginando crolli o agitazione tra la gente, ma nulla riuscì a fermare la quotidianità, le mura in pietra dei palazzi, ferme, sembravano addomesticate. Di nuovo gli tornò in mente Sofia, immobile e irreale era 82


stato il suo funerale e niente, neanche la sua prematura scomparsa, era riuscito a cambiare il corso delle cose, la reazione nella gente. Ricordava perfettamente che il giorno dopo aver seppellito sua moglie, in casa non riusciva a muoversi mentre tutti erano già tornati alle loro vite come se nulla fosse accaduto. Bruciava quella indifferenza, quella mancanza di tatto verso la sua perdita. “Fermatevi!” avrebbe voluto gridare, “Smettete di fare quello che state facendo, mia moglie è morta!”. Anche il terremoto, come la morte, passava indisturbato o distruggeva e a quelli che rimanevano non restava che rialzarsi, in qualunque modo andare.

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- Sei voluto tornare a parlare di morte, pensavo che Adriano si fosse ripreso. - Lo pensavo anch’io: l’obiettivo era farlo arrivare a Spoleto rinato. - E poi cos’è successo? - È successo che ho capito che la cosa non poteva essere così repentina, come se Spoleto fosse magica. Voglio che questa storia sia il più realistica possibile. - Vedremo come la continuerai… E Anna Mahler, da dove l’hai tirata fuori? - Era la figlia del musicista, l’ho “scoperta” nel libro che sua madre, Alma, scrisse sulla loro vita. Tu lo sapevi che aveva vissuto proprio a Spoleto? - No. - Non credo sia una notizia risaputa e poi siccome avevo deciso di farlo arrivare in Umbria senza Sofia, mi serviva un appiglio che non lo lasciasse solo. - Qui ne vedo due. - Sì: la Mahler, che poteva essere una sostituta della moglie, a legarle c’era l’arte infatti, e poi la natura, immensa, incontaminata, perché dopotutto era un carabiniere della tutela ambientale, quindi aveva insita già la passione per gli alberi e gli animali. - Mi sembra interessante anche l’analogia doloreripresa-terremoto. - Quella è arrivata così, non so neanche come.

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…in qualunque modo andare. Era agosto, ormai si era conclusa l’edizione del Festival dei Due Mondi, quella meravigliosa kermesse ideata dal compositore Gian Carlo Menotti ma da qualche anno in decadenza; non era voluto partire prima appositamente, non era ancora capace di sorridere senza sentirsi in colpa e non voleva trovare divertimento a tutti i costi, il suo era un processo lento e consapevole. A casa andavano bene le chiacchierate con gli amici, le passeggiate, ogni sera a giocare a carte, invitato a cena o al cinema. Ma lì no, non c’era bisogno di fingere perché Spoleto non lo conosceva e non poteva ammonirlo per i suoi atteggiamenti bizzarri, i suoi sbalzi d’umore, le sue lacrime facili. All’ombra del Ducato e dei grandi artisti, tra cui Michelangelo e Filippo Lippi, voleva ritrovare sé stesso. - E la musica, altro particolare è sicuramente la musica! – esclamò Arianna. …ritrovare sé stesso. Trovò un bar in piazza Garibaldi, di lato alla chiesa di San Gregorio Maggiore. Notati gli arredi si convinse che a Sofia sarebbe piaciuto e cominciò a recarvisi ogni giorno. La trovava ad aspettarlo, immaginava che fosse così anche se di notte dormiva solo e in bagno c’era un solo spazzolino. Quando scendeva per la colazione sulle tavolate allestite c’erano dolci, come la tipica crescionda, oppure le marmellate, i cornetti e i vari tipi di caffè e thé. A volte dimenticava di essere partito senza di lei e al tavolo portava un bis di tutto: il suo sorriso però si affievoliva, quasi stordito, quando scopriva il posto vuoto accanto a sé. La cittadina non era così esuberante come aveva sperato e gli ci volle tempo per abituarsi alla nuova solitudine. 85


Quando accadeva l’impulso di chiamare i suoi amici era irrefrenabile. Tornava in camera, si sedeva sul letto e chiamava Gianluca. “Ciao bello, come va a Spoleto?” rispondeva lui raggiante dopo due squilli. Avrebbe voluto dire ‘male’, ma mentiva per non essere compatito. “Bene, è molto silenziosa, devo ancora visitarla e poi ti saprò dire” rispondeva, “e tu che mi racconti?” domandava sperando avesse qualcosa in più da dire. Sentire Gianluca lo rasserenava. Doveva solo mettere un piede di fronte all’altro come faceva Alessandro e tutto sarebbe andato bene. Doveva solo stare in equilibrio, proprio lui che non era per nulla preciso e distratto. Si ricordò del bar in piazza, quando una volta Alessandro gli parlò di certi suoi rituali, l’osservanza meticolosa che usava avere durante i primi anni di vedovanza. Gli sembrava che anche lui, ora, stesse facendo lo stesso: quella tormentata ricerca di lei ovunque, il tentativo di riaffermare la sua presenza oltre il tempo. Una prova deludente eppure ostinata. “Ogni mattina andavo come un cretino al negozio di ferramenta, anche se non mi serviva niente” raccontava Alessandro, “poteva servire qualcosa a Elena e anche se non era vero, sempre lì tornavo”. Scuoteva la testa e si rimproverava ipercritico. Il volto dell’amico scompariva dalla mente nello stesso modo in cui era apparso, proprio mentre si chiedeva se anche lui non volesse creare e seguire abitudini precise, un puzzle senza ritorno. Alessandro lo aveva avvertito subito, il rituale alla lunga deve essere spezzato o sarà lui a spezzare te più della perdita. “All’inizio pensi che se lo segui non ti perdi, resti a galla. Ma alla fine è il rituale stesso a mandarti giù, perché nasconde la realtà”. Non aveva capito quando aveva udito queste parole, ora invece gli sembravano chiarissime. “Ma certo” si disse con lucidità, “se perseguo le stesse strade che avrei seguito 86


con Sofia lei resterà ancorata a me, all’amore che ho provato e all’egoismo che non posso smettere di sentire; se continuerò a nominarla in ogni discorso, inserirmi nella sua parte concava del letto, seguire i suoi progetti ed annullare i miei…” Ora era più consapevole delle sue azioni, ma allo stesso modo si chiedeva come avrebbe potuto continuare a vivere diversamente. Portava avanti le sue ricerche e i suoi studi convincendosi che fossero a lui congeniali, anche quando si accorgeva che non avrebbe avuto, prima, con lei, il ben che minimo interesse alla materia. Era egoismo, una forma di sopravvivenza. Michele, a parte le comparsate di Ylenia, all’inizio spesso non si dava pace, erano più i giorni che non riusciva neanche ad alzarsi. Erano giornatacce in cui la luce lo opprimeva. “Se la gente non mi vedrà passeggiare con il sorriso se ne domanderà il motivo… Chi se ne frega, che la gente pensi quello che vuole, che ricami sui miei dolori! Non sa nulla, nulla e nulla di più saprà”. Era convinto, Sofia gli avrebbe detto di calmarsi, di non esasperare l’invidia e la frustrazione altrui, lo avrebbe fatto ridere. “Che ti importa di quello che pensa la gente? Ci sono io con te”, ma lei non c’era più. Alla sua vita pensava ora l’orchestra di Alan Hovhaness, il compositore americano di cui Sofia le aveva regalato un disco all’ultimo compleanno passato insieme. Si intitolava Montagne misteriose, proprio come quelle in cui si trovava, pensò, comprendendo di non aver scelto autonomamente. Una mattina dopo l’incubo ricorrente prese coraggio, scese a fare colazione, si fece dare qualche indicazione ed uscì. Arrivò sulla strada principale, da una parte riusciva a vedere il Teodelapio e dall’altra l’inizio della cittadina medievale con le sue mura e la sua porta trionfale. La sorpassò abbassando la testa, quasi chinandosi. Volle 87


salire camminando, anche se era costretto a fermarsi spesso per respirare a pieni polmoni. Salire in cima: il borgo, la Torre dell’Olio, la chiesa di San Domenico, al Teatro Nuovo si fermò ripensando all’estro di Menotti, poi proseguì ancora verso Piazza della Signoria laddove quella donna di pietra sarebbe stata riposta, salì verso il Duomo senza fare troppo caso alle decine di persone che affollavano il piazzale. Comparso in via Saffi, diede le spalle allo Spagna e alla piazza del Mercato per arrivare a imboccare il Giro che circonda la fortezza, la Rocca Albornoziana. Percorrendo la strada gli sembrò di andare incontro alla montagna, prendimi, supplicò. “Suo padre morì quando lei era una bambina, i suoi occhi celesti non avevano visto abbastanza cielo e troppe poche favole le erano state raccontate” tornarono le parole di Sofia a proposito della Mahler, “Eppure, nelle sue sculture come nelle sinfonie di Gustav si sente un’atmosfera libera… Le opere di Anna erano influenzate dall’ambiente e dalla città” concludeva sognante. La mostra sarebbe stata inaugurata in serata quindi disponeva ancora di tempo per sé. Al Giro della Rocca, arrivato davanti al Monteluco, si emozionò come un bambino e prima del Ponte delle Torri e dell’iscrizione a Goethe riscese verso la chiesa di San Pietro per intraprendere il lungo sentiero che lo avrebbe portato fino al bosco sacro. Aveva letto degli eremi, del bosco di Leccio, delle battaglie fatte in passato per la conservazione dell’area. Nella foresta, mentre gli alberi suonavano la musica del silenzio al ritmo del vento, si sentì a casa. Era rientrato alla Villa solo per cambiarsi, ma subito risalì verso Palazzo Collicola per l’apertura della mostra: doveva provare ad Alessandro che era impossibile incontrare Anna Mahler quel giorno. In disparte ascoltò 88


la presentazione, “pittrice di talento” dissero e già questo si discostava molto da ciò che sapeva ma si chiese se anche lei non avesse voluto fare altro nella vita. I suoi occhi erano di un blu scuro con striature più chiare, sembrava fiera, poteva avere più o meno la sua età. Accortasi di lui le fece cenno di avvicinarsi, “benvenuto” poi guardandosi intorno aggiunse “non mi aspettavo davvero tutta questa gente. Le piace qualcosa?”, ma Adriano che continuava a non intendersi d’arte approfittò del momento di conversazione per chiederle come mai fosse tornata a Spoleto proprio ora. “Sa mio padre è morto quando ero piccola e appena ho potuto me ne sono andata, era tremendo per me ricordarlo ovunque andassi” le sorrise, “Faccia un giro per le sale e poi mi dica se le piace qualcosa, le farò un buon prezzo”. Adriano nella folla fu lasciato solo e cercò, in quella sua indagine improvvisata, di trovare un senso. Anche suo padre era morto quando era piccola, ma era lo stesso Gustav Mahler? Ecco, si rimproverò, avrei dovuto chiedergli se anche lui era un musicista. - Lui non lo sa… rincorre un fantasma… - disse Arianna tristemente. …se anche lui era un musicista. Rimase fino a sera sperando di poter rivedere Anna ma lei lo salutò frettolosamente invitata a cena dai cerimonieri. Il giorno dopo era di nuovo lì, si soffermò su un quadro che le ricordava Sofia, era uno di quei paesaggi che lei avrebbe venduto subito alle botteghe. Sorrise per aver trovato ancora una somiglianza; Anna sopraggiunse, “Salve, è tornato. Le piace questo quindi?” chiese indicandolo. “È solo legato a un ricordo” la guardò, “Mi perdoni se torno sull’argomento: suo padre che mestiere 89


faceva?”. Attese e lei senza esitazione o imbarazzo rispose che suo padre era un pianista, “perché, lo conosceva?” domandò. Adriano non sapeva come divincolarsi e alla fine non poté, “No, non di persona almeno” si salvò. Incuriosita, forse a dir poco intrigata, gli chiese se poteva attenderla e se gli andava di prendere un aperitivo. Lui declinò ma propose una passeggiata, “Domani accetterò” promise e l’indomani fu. Si videro al Giro della Rocca, davanti all’acquedotto che unisce le due montagne, “Lei non è di Spoleto, vero?” chiese Anna. “Vero, vengo da Roma e sono qui in vacanza” e poi si corresse, “più o meno”. Adriano chiese se anche lei suonava il pianoforte e Anna rispose di no che bastava un musicista in famiglia. Questo forse riportava la sua tesi dalla parte della ragione. “Com’è portare un cognome così pesante?” chiese d’un tratto per sfatare ogni dubbio, d’altronde essendo coetanei doveva esserci per forza un’altra spiegazione. “Mah, oddio, dice? Di Malle conosco solo i miei familiari” rispose con una smorfia. Lui si ritrasse, si chiese se non avesse capito male e ripeté, “Malle?”, tirando fuori dalla tasca della giacca l’articolo incriminante. Lei capì l’equivoco, “Ah, di nuovo, non sa quante volte abbiano sbagliato a scriverlo! La Mahler è morta nell’88, non posso certo essere io le pare?”.

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- Cosa c’è, non ti piace? - Insomma… - E cosa in particolare? - Per cominciare il fatto che tu abbia avuto fretta. - Cioè? - Nel momento in cui il lettore e quindi io mi stavo affezionando alla storia e tenevo davvero alla sorte di Adriano, tu hai invertito la rotta. Ti eri stancato di scrivere? - Un po’ sì, stava durando troppo. - Devi prenderti cura della tua storia. - Sei arrabbiata per questo o per Beatrice? - Per la storia, solo per lei. - D’accordo… le pagine trasudavano di troppo dolore e così, come dici tu, ho cambiato rotta, ho modificato il ritmo, ho accorciato i tempi. Che male c’è? - Forse nessuno, ma è come se tu non fossi stato onesto con chi in te ha riposto fiducia. O forse speravo che durasse più a lungo. - È solo una storia Ari! - Eh, no. Qui ti sbagli: pensi che quello che cucini sia solo cibo? - Se la metti così, no. - E che cos’è? - È… è come una forma d’arte, è musica, è fantasia. - Bene, anche la letteratura lo è: quello che scrivi esiste se hai l’accortezza di formarla bene come hai fatto con la storia che mi hai appena raccontato. Ora Adriano ha un’anima anche oltre te.

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“…La Mahler è morta nell’88, non posso certo essere io le pare?”. La forza del destino si era infranta. Credere che Sofia gli stesse ancora suggerendo come andare avanti senza di lei, rincorrendo teorie incredibili, era da pazzi. Era tornato al bosco sacro, affacciandosi sulle nuvole gonfie cercando nuova pace che non trovò. Lasciata Anna, aveva chiamato Alessandro e Gianluca spiegando loro il malinteso, “Allora adesso che fai torni a Roma?” gli avevano chiesto. “Starò qui ancora per un po’” rispondeva non del tutto sicuro, ma volendo provare a resistere in un luogo senza motivo apparente. Sono nato e non ci sei più, rimandava la partenza. Era quasi settembre quando dai monti udì l’eco dell’ouverture della Gazza Ladra di Rossini. I concerti all’alba, ricordò, li organizzano sul piazzale della Rocca. Quando giunse ai piedi del gigante, due cantori intonavano l’aria del dì felice di Verdi. Molte donne, uomini e bambini erano seduti sul prato fresco incantati ad ascoltare, mentre guardavano il sole che piano sorgeva. Tra loro vide anche Anna ma, ricordando l’inganno cui si era prestato, non le si avvicinò. Era uscito presto quella mattina, Sofia ancora dormiva. Appoggiò la schiena alla staccionata, mentre la magia dell’alba si ritagliava uno spazio tra loro.

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- È un finale degno di un’opera con un’anima? - Sì, anche se in realtà non la chiudi, essa diviene e lascia a me in questo caso il compito di farla continuare, farla vivere ancora. - Questa è stata una scelta importante su cui ho riflettuto parecchio tempo. Poi ho deciso che così fosse meglio e anche più autentico, perché nella vita non si sa mai che cosa potrebbe accadere e se un pezzo di Adriano è rimasto con te, veramente, allora forse sarai più forte di me e saprai dargli una direzione più precisa. - Vuoi che resti a Spoleto? - Credo che lui si troverebbe bene; con il suo carattere, che è un po’ come il mio, riuscirebbe anche a farsi degli amici. - Magari questa tua idea di seminare indizi, c’era pure un mistero da risolvere dopotutto, può essere vincente, perché ad esempio a me adesso hai lasciato una grande curiosità: vorrei vedere dal vivo Spoleto e tornare nei vicoli di Roma che hai citato. Nel conversare tra loro si sovrappose l’Egizio, il museo del Risorgimento, la palazzina di caccia di Stupinigi, il profumo della cucina piemontese (fassona battuta al coltello, agnolotti del plin, barbaresco). - Sai, pensavo a quando mi sei venuto a prendere alla stazione di Porta Nuova. Pensavo al tuo sguardo in attesa… Aspettavi davvero me? - Certo amor… Scusa, stavo pensando a… cosa dicevi?

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In quell’agosto la città si muoveva lenta e lui si ridestò. - Ari, pensi che la storia che abbiamo raccontato all’inizio, per come l’abbiamo raccontata, sia credibile? Che qualcuno abbia continuato a leggerci fin qui? - Se lo hanno fatto a questo punto saranno confusi… - Sì, lo credo anch’io, qualcosa mi è sfuggita di mano. - Capita, ma puoi aiutarli. Magari torneranno indietro per vedere se hanno “perso un pezzo”. - Se fossi stato io a perdermi, saresti tornata indietro? - Certo, Giorgio. In quell’agosto non c’era altro che potesse dire. Il medico le fece un cenno, lei gli porse due pastiglie. Lui prendendole con accondiscendenza guardò oltre il vetro della finestra: - Solo qui mi chiamate con quel nome – sospirò con un’inusuale lucidità e poi, d’un tratto smarrito, chiese: - Ari, ma tu esisti davvero? - Finché ci pensi, sì.

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Q

uesta è una storia di scrittura e di viaggio, la cui struttura è l i b e r a m e nt e i s p i r at a a l m o d e l l o d e l l a Te r ap i a dell’Esposizione Narrativa (NET) indicata per il trattamento a breve termine dei disturbi da stress traumatico e qui adattata, senza alcuna pretesa di diagnosi, per l'elaborazione del lutto. Sullo sfondo di una Torino presente, di una Roma passata e di una Spoleto da conoscere, Romeo, aiutato da Arianna e dalla letteratura, dall'arte e dalla natura, pur di andare avanti e ritrovare sé stesso dopo aver perso la sua amata moglie Elena So a, diventerà paziente, poi scrittore ed esploratore di mondi reali e immaginari.


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