Quaderni del volontariato
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In copertina: Oltre il deserto di Nello Palloni. L’artista perugino, particolarmente legato allo stile dell’aeropittura di ascendenza dottoriana, traccia in quest’opera, un percorso che muove dall’aridità della sofferenza verso la speranza di una realtà in cui una dimensione di luce che ravviva, accompagna e rasserena, si diffonde lungo il cammino dell’umana esistenza, allontanando abbandono e solitudine.
Annalisa Longo Umberto Senin
100 anni di Alzheimer Conoscere per assistere
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Sandro Penna, 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel. 075/5271976 fax: 075/5287998 www.pgcesvol.net cesvol@mclink.it pubblicazioni@pgcesvol.net
Coordinamento editoriale Chiara Gagliano Pubblicazione a cura di
Con il Patrocinio della Regione Umbria
Progetto grafico e videoimpaginazione Studio Fabbri, Perugia Stampa Graphic Masters, Perugia Š 2007 CESVOL 2007 EFFE Fabrizio Fabbri Editore srl ISBN: 978-88-89298-41-1
I quaderni del volontariato: un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale
Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.
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Indice
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Capitolo Primo La Storia Capitolo Secondo Conoscere la malattia Cosa vuol dire demenza Non tutto è Alzheimer Che cos’è l’Alzheimer Chi colpisce Come si presenta Quali le cause Quanto dura Capitolo Terzo Come si cura Farmaci per i disturbi cognitivi Farmaci per i disturbi del comportamento Terapia non farmacologica Capitolo Quarto Come si assiste il malato Conoscere i suoi diritti Conoscere la sua storia Comprendere ed essere compresi L’ambiente in cui vive L’igiene personale L’utilizzo della toilette Il vestirsi L’alimentazione Il problema del sonno La sessualità La guida di autoveicoli Capitolo Quinto L’impatto sulla famiglia Conoscere la sofferenza di chi assiste Come gestire i disturbi del suo comportamento
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Capitolo Sesto Aspetti etici La comunicazione della diagnosi Il rispetto delle scelte individuali La ricerca scientifica nei pazienti con demenza Le decisioni di fine vita
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Capitolo Settimo Aspetti legali Lo stato di incapacità del malato di Alzheimer La responsabilità a carico di chi esercita l’assistenza La normativa a tutela del malato
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Capitolo Ottavo La rete di servizi L’assistenza domiciliare Il centro diurno Il centro clinico esperto L’ospedale Day Hospital e Day Service Il nucleo Alzheimer Il giardino Alzheimer
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Capitolo Nono Le Associazioni dei familiari
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Capitolo Decimo A.M.A.T.A. Umbria
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(scheda tecnica)
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Capitolo Undicesimo Il centro clinico di riferimento di A.M.A.T.A. Umbria (scheda tecnica)
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Le attività per immagini
“Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata”. Libro del Siracide 3, 12-14
Collaborano costantemente all’attività formativa di A.M.A.T.A. Umbria: Maria Adelaide Aguzzi Alessandro Aramini Giuliana Casciani Simonetta Cesarini Emanuela Costanzi Francesco Delicati Sara Ercolani Cristina Falomi Tiziana Ingegni Anna Liscio Elena Mariani Martina Pigliautile
Capitolo Primo
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a Storia
Capitolo Primo La demenza, epidemia silente del terzo millennio, rappresenta una delle maggiori sfide per la nostra società che si trova ancora impreparata ed inadeguata a gestire una malattia devastante non solo per chi ne è direttamente colpito ma anche per chi è chiamato ad assisterla. Il convincimento, ancora molto radicato, è che si tratti di condizione che non vale la pena curare perché inguaribile, in quanto conseguenza inevitabile dell’invecchiamento, divenendo oggi esempio paradigmatico di un radicato, diffuso e inconfessabile ageismo. Umberto Senin, 2006
1906. È l’anno in cui uno psichiatra tedesco, Alois Alzheimer, presenta, nell’ambito di un Convegno che si teneva a Tubingen in Svevia (Germania), città sede di una delle più prestigiose facoltà mediche dell’epoca, il caso di Auguste D., una donna di 51 anni, di origine prussiana, ricoverata nell’Ospedale per “insani di mente ed epilettici” di Francoforte (così allora venivano chiamati gli ospedali psichiatrici!) in quanto affetta da demenza e morta per setticemia da infezione di piaghe da decubito insorte nelle ultime fasi di malattia, quando ormai era costretta a letto dall’immobilità. L’importanza di quella presentazione fu nel fatto che Alois Alzheimer, dopo il decesso della paziente, ne aveva potuto studiare il cervello, e quindi di descriverne gli elementi più caratteristici. L’aspetto era quello di un organo “raggrinzito”, cioè significativamente ridotto di volume, cosparso al suo interno di numerose formazioni che, per come si erano presentate al suo microscopio dopo averle colorate con il metodo che allora si utilizzava per mettere in evidenza le cellule
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nervose (quello della cosiddetta impregnazione argentica, vennero definite placche senili (PS) e grovigli neurofibrillari (GNF) date le loro caratteristiche morfologiche. Espressione le prime di agglomerati di cellule morte e dei loro filamenti immersi in una sostanza amorfa; le seconde di cellule neuronali degenerate. Alla loro descrizione un contributo significativo fu dato da un giovane ricercatore italiano, Gaetano Perusini, friulano di origine, che attribuì i GNF all’azione “cemenPS GNF tante” di una sostanza non meglio precisata.
1910. Viene pubblicata la nuova edizione del più importante Trattato di Psichiatria dell’epoca, scritto da Emil Kraepelin, studioso e clinico di rilievo nella storia della neuropsichiatria, nel quale il caso di Auguste D. viene per la prima volta riportato con la denominazione di “Malattia di Alzheimer”. Per il contributo dato dal Perusini alla descrizione della malattia, nella letteratura medica italiana essa è stata per decenni definita “Malattia di AlzheimerPerusini”, o addirittura “Malattia di Perusini-Alzheimer”. Seguono quindi diversi decenni di sostanziale silenzio, durante i quali le conoscenze della malattia non fanno apprezzabili progressi. È solo a partire dagli anni Cinquanta che, a causa di un progressivo e significativo aumento del numero di pazienti, comincia ad essere sempre più evidente il suo stretto legame con l’invecchiamento ed a rendere sempre più labili gli elementi che la differenziavano da un’altra forma di demenza, quella cosiddetta “senile”, ritenuta ancora fino a qualche decennio fa malattia a sé stante, convinzione questa purtroppo ancora diffusamente presente ai nostri giorni, e non solo nel nostro Paese. La malattia di Alzheimer da condizione rara, se non eccezionale, come era ai tempi della sua prima descrizione, propria dell’età adulta o giovane-anziana, diventa così malattia tipica dell’età avanzata ed ancor più di quella più avanzata. A contribuire significativamente al suo riconoscimento è la messa a punto di protocolli diagnostici sempre più sensibili e specifici, nel-
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l’ambito dei quali un ruolo preminente viene ad essere assunto dall’acquisizione di una nuova e rivoluzionaria metodologia di indagine la tomografia assiale computerizzata (TAC) che ha portato i suoi inventori, Godfrey Newbold Housfield (ingegnere inglese) ed Alan McCormack (fisico sudafricano), ad essere insigniti nel 1979 del Premio Nobel per la Medicina. L’importanza di tale strumentazione ai fini della diagnosi di malattia di Alzheimer, così come di quella successiva di Risonanza Magnetica Nucleare (RMN), sta nel fatto che essa fornisce le immagini del cervello del paziente da vivo, fornendone le caratteristiche morfo-volumetriche, permettendo così di escludere altre forme di demenza, come quelle da infarti cerebrali, emorragie, ematomi, tumori, ecc.
1976. Due ricercatori statunitensi, Peter Davies del Dipartimento di Patologia Albert Einstein di New York e David Bowen del Dipartimento di Medicina dell’Università di Washington (Seattle, USA), formulano l’ipotesi colinergica della malattia, sulla base della costatazione che nel cervello dei pazienti alzheimeriani si documenta una significativa carenza di acetilcolina, una sostanza chimica (neurotrasmettitore) che svolge un ruolo centrale nei processi cognitivi e di memoria. Analogamente pertanto alla carenza di dopamina responsabile del morbo di Parkinson. È dall’ipotesi colinergica che prende il via la ricerca di farmaci in grado di aumentare la disponibilità di acetilcolina nel cervello dei malati e, di conseguenza, migliorare le loro capacità cognitive. 1980. L’Agenzia regolatoria dei farmaci degli Stati Uniti (la Food and Drug Amministration - FDA), approva l’utilizzo di tacrina per il trattamento della malattia di Alzheimer, una sostanza che, negli studi sperimentali, si era dimostrata capace di aumentare il tono cerebrale di acetilcolina inibendo l’acetilcolinesterasi, un enzima di cui il cervello si serve per distruggerla non appena ha svolto il suo compito al fine di mantenere in equilibrio il sistema e, nei pazienti affetti da Alzheimer, di migliorare i sintomi della demenza.
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1984. Viene formulata l’ipotesi beta-amiloide della malattia da parte di George Glenner e Caine Wong, due ricercatori del Dipartimento di Patologia dell’Università della California, (San Diego, USA). Essi sostengono che la sostanza “cementante” di Alzheimer e Perusini sia una particolare proteina, detta beta-amiloide, risultato della modificazione di quella naturalmente prodotta dal cervello (per finalità solo in parte note) a causa dell’attivarsi di meccanismi che ne impediscono lo smaltimento, inducendone un progressivo accumulo e la sua trasformazione in sostanza tossica per i neuroni. È da questa ipotesi che si dà avvio ad una intensa ricerca di farmaci o di vaccini in grado di impedire la formazione o ridurre la tossicità della beta-amiloide considerato un “killer” per il nostro cervello. 1997-2004. La FDA degli Stati Uniti e il corrispondente organismo europeo, l’EMEA, approvano l’impiego clinico di 3 farmaci per il trattamento della malattia di Alzheimer, ad azione simile a quella di tacrina ma ad assai minore tossicità: donepezil, rivastigmina, galantamina. 2000. In Italia, viene attivato dal Ministero della Sanità il Progetto CRONOS che prevede la prescrizione gratuita dei farmaci donepezil, rivastigmina, galantamina da parte di Centri clinici esperti, attivati dalle Regioni, cui spetta anche l’accertamento della diagnosi ed il controllo periodico del malato: le cosiddette Unità Valutative Alzheimer, UVA. 2006. Esce sulla rivista scientifica “Nature”, una delle più prestigiose del mondo, un articolo nel quale, sulla base del fatto che negli ultimi tre anni la ricerca non ha prodotto nulla di significativamente nuovo per la cura della malattia, che – seppure meglio trattabile e gestibile di un tempo rimane tuttavia inguaribile –, si auspica che gli scienziati “invadano” questo campo di nuove idee, che portino a sviluppare proposte terapeutiche innovative, veramente capaci, se non di arrestare, almeno di contrastare il progressivo, angosciante aumento del numero dei malati.
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Capitolo Secondo
C
onoscere la malattia
Capitolo Secondo “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Gabriel Garcìa Màrquez
Cosa vuol dire demenza Per demenza si intende una malattia che va a colpire un cervello precedentemente sano, determinando progressivamente nel soggetto che ne è colpito la perdita di tutte le facoltà intellettive. La diagnosi di demenza viene posta sulla base di specifici criteri, di cui i più utilizzati sono quelli proposti da una Commissione di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Associazione americana di Psichiatria. Secondo tali criteri, per far diagnosi di demenza non basta il semplice disturbo di memoria (amnesia), anche se importante, ma deve essere documentabile almeno un altro dei seguenti disturbi, la cui presenza deve essere di entità sufficientemente severa da interferire significativamente con le attività del vivere quotidiano: - disturbi del linguaggio scritto e/o verbale (afasia) - difficoltà a compiere azioni finalizzate (aprassia) - difficoltà a riconoscere persone o cose (agnosia) - disturbi delle funzioni esecutive come capacità di astrazione, giudizio e pianificazione di programmi.
Non tutto è Alzheimer La malattia di Alzheimer non rappresenta l’unica forma di demenza, anche se è quella di gran lunga più frequente. Esistono altre demenze che vengono classificate, in base alla natura dei danni cerebrali, in: degenerative, vascolari, miste, di altra natura.
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Le demenze degenerative, delle quali a tutt’oggi sono ignote le cause, comprendono: - la malattia di Alzheimer; - la demenza fronto-temporale, nella quale prevalgono i disturbi del comportamento su quelli cognitivi, essendo la memoria almeno inizialmente meno compromessa; - la demenza a corpi di Lewy, caratterizzata dalla comparsa precoce di allucinazioni e parkinsonismo, oltre che da fluttuazione dei sintomi anche nella stessa giornata; - le demenze cosiddette sottocorticali (spesso dovute anche a cause vascolari), caratterizzate dalla coesistenza di disturbi motori, quali andatura rallentata e incerta, rigidità, ecc.; di esse fa parte la demenza che insorge in circa il 30% dei soggetti affetti da malattia di Parkinson. Le demenze vascolari sono quelle che insorgono in soggetti il cui cervello subisce danni causati da infarti o emorragie, uniche o multiple. Le demenze miste devono questa denominazione alla coesistenza nello stesso cervello delle lesioni proprie delle forme degenerative e di quelle vascolari. Esistono, infine, altre forme di demenza, nelle quali i danni che subisce il cervello sono secondari all’abuso cronico di alcool o di altre sostanze tossiche, all’azione lesiva di malattie extracerebrali (ipotiroidismo, insufficienza epatica e renale, ecc.), alla carenza di alcune vitamine importanti per lo stato di salute del cervello, a gravi disturbi della vista e dell’udito e ad altre cause ancora. Una forma particolare di demenza, di riscontro frequente in età avanzata, è quella che insorge quando il cervello viene sottoposto ad un aumento della pressione liquorale (demenza da idrocefalo occul-
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to). Il liquor è un fluido nel quale il cervello si trova immerso e che scorre anche all’interno di esso; il suo compito è quello sia di proteggerlo dagli urti cui è sottoposto dall’essere contenuto in un contenitore rigido, la scatola cranica, così come essere mezzo di diffusione di sostanze utili o di eliminazione di quelle dannose.
Che cos’è l’Alzheimer?
17 settembre 2006, Corriere della Sera, Salute
Come già ricordato, la malattia di Alzheimer è la forma di demenza descritta da Alois Alzheimer in una donna, Auguste D., di 51 anni, costretta al ricovero in ospedale psichiatrico per crisi di gelosia, paura di essere abbandonata, gravi disturbi della memoria e disorientamento sia nel tempo che nello spazio e che presentava a carico del cervello, una importante atrofia in presenza di particolari lesioni, i grovigli neurofibrillari e le placche senili, da allora ritenute tipiche della malattia.
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Chi colpisce “Raccogliere il suo smarrimento...raccoglierlo e aggiustarlo un po’...provare a definirlo, a dargli una concretezza, a rimetterlo su un percorso. Adesso che ne conosco bene i segni, vedo che sono tante le persone smarrite. Che dicono dal fondo degli occhi un po’ opachi, un po’ stupiti: “Ci sono, sai, ci sono ancora, ma non so. Io non so”. In Smarrirsi: la mente nel labirinto di Maria Sandias
Nella prestigiosa rivista scientifica Lancet, pubblicata nel dicembre del 2005, questi sono i dati: 4.6 milioni di nuovi malati di Alzheimer all’anno, uno ogni 7 secondi nel mondo, in totale attualmente 24,3 milioni che raddoppieranno ogni 20 anni e saranno 81,1 milioni nel 2040. In Italia, secondo le stime più recenti, i malati di Alzheimer erano nel 2006 circa 520.000, con 80.000 nuovi casi all’anno. Si tratta però di una stima destinata ad aumentare. Se infatti consideriamo l’attuale andamento demografico, che vede la popolazione anziana e quella più anziana in continua e veloce crescita, la previsione è che nel 2020 i nuovi casi di demenza saliranno a 213.000 l’anno, di cui 113.000 attribuibili all’Alzheimer. Sono queste cifre e la loro enorme crescita nel tempo che giustificano il perché si parli della malattia di Alzheimer in termini di vera e propria epidemia dei nostri giorni, dagli altissimi costi umani, sociali ed economici. Per quanto riguarda età e sesso, anche se è vero che può insorgere tra i 40 ed i 90 anni sia nell’uomo che nella donna, sono le donne da un lato e i più anziani tra gli anziani dall’altro ad esserne maggiormente colpiti.
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Come si presenta “Era una persona molto fine, che non aveva mai disturbato nessuno e non riceveva mai visite... Solo che negli ultimi tempi era diventata un po’ strana: lei così metodica (tutti i giorni lo stesso giro dei piccoli negozi, l’acquisto di due brioches fresche il sabato, la periodica capatina in banca...) stava magari senza uscire per giorni e giorni e poi, all’improvviso, suonava il campanello alle tre di notte per chiedere se il fornaio era aperto”. In La sottoveste sopra la gonna di Giovanni Bigatello
La malattia, nella sua evoluzione, prevede il passaggio attraverso tre fasi successive (Figura 1): - fase precoce (corrisponde allo stadio di malattia di grado lieve): il paziente presenta difficoltà a ricordare fatti recenti, a trovare la parola giusta, a prestare attenzione, a ricordare il nome di persone meno familiari ed a riconoscerle, ad organizzare e pianificare attività abituali; risulta invece conservata la capacità di ricordare eventi significativi della propria storia personale; - fase di stato (corrisponde allo stadio di malattia di grado moderato e severo): il paziente appare spesso disorientato sia nel tempo che nello spazio, non è in grado di apprendere e ricordare nuove informazioni, perde progressivamente la capacità di parlare e comprendere il linguaggio verbale, necessita di assistenza anche nelle funzioni basilari della vita quotidiana (mangiare, vestirsi, andare in bagno, ecc.); frequenti anche i disturbi del comportamento; - fase terminale (corrisponde all’ultimo stadio della malattia): il paziente è gravemente decaduto anche sul piano fisico, confinato tra letto e poltrona, totalmente incapace di controllare urina e
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feci e di alimentarsi, non più in grado di riconoscere nemmeno i familiari più stretti. La morte in genere è dovuta a complicazioni infettive. Così come si evince dalla sua storia naturale, la malattia è caratterizzata da disturbi cognitivi, cioè delle funzioni più complesse e nobili del nostro cervello (vedi Tabella 1), ad andamento inevitabilmente ingravescente, anche se con velocità variabile da individuo ad individuo e da disturbi del comportamento (vedi Tabella 2), variamente presenti nel singolo malato, quelli a cui maggiormente si deve il grave carico assistenziale per chi ne ha cura, e la condizione di stress psico-fisico che ad essa consegue. Figura 1. Storia naturale di un caso paradigmatico di demenza di Alzheimer per una durata di malattia di 10 anni
MMSE: è la sigla del Mini Mental State Examination, strumento utilizzato in clinica per valutare lo stato delle funzioni cognitive di un soggetto: più il punteggio che si ottiene è alto più le sue capacità cognitive sono conservate e viceversa; il punteggio da 27-30 esprime una condizione di sostanziale normalità.
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Tabella 1. I disturbi cognitivi della malattia di Alzheimer Disturbi di memoria (amnesia): all’inizio difficoltà a ricordare e quindi ad apprendere nuove informazioni; successivamente incapacità a ricordare eventi anche recenti e, in fase avanzata, quelli più lontani, della propria personale, delle conoscenze comuni e del significato delle parole. Deficit di attenzione: all’inizio difficoltà nell’attenzione quando il soggetto si trova impegnato in più compiti (come ad es. conversazione tra più persone), in seguito sempre meno attenzione all’ambiente circostante fino al totale estraneamento da esso. Disturbi nel linguaggio scritto e/o verbale (afasia): all’inizio occasionali difficoltà a trovare le parole e progressiva semplificazione del linguaggio, che poi diventa ripetitivo e con molti errori, fino ad una completa incoerenza con ripetizioni di parti di parole o suoni; in seguito perdita progressiva della capacità di scrivere e leggere e, nelle fasi più avanzate, di comprendere sia il linguaggio scritto che quello parlato. Difficoltà a compiere azioni finalizzate (aprassia): all’inizio difficoltà nel vestirsi, curare la casa e guidare l’automobile; in seguito anche nella utilizzazione di oggetti comuni (come ad es. spazzolino, cucchiaio, penna, ecc.). Difficoltà a riconoscere persone o cose (agnosia): all’inizio difficoltà a riconoscere oggetti e situazioni; in seguito a riconoscere i volti di persone familiari, parti del proprio corpo nonché la propria immagine riflessa nello specchio. Disturbi delle funzioni esecutive: all’inizio ridotta capacità di sintesi ed a cogliere il significato di espressioni astratte (es. proverbi), o somiglianze e differenze tra concetti; in seguito scomparsa dell’autocoscienza del proprio stato di malattia ed anche della propria persona.
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Tabella 2. I disturbi del comportamento della malattia di Alzheimer Deliri: sono ideazioni (dette paranoidee) a diverso contenuto che preoccupano il paziente determinandone anche specifici e consequenziali comportamenti; spesso crede che qualcuno lo spii, lo voglia derubare, o che il proprio coniuge lo tradisca o lo voglia abbandonare, oppure ha una patologica gelosia; altre volte può ritenere che i familiari o chi lo assiste siano degli impostori, o degli estranei; così come può avere una errata percezione delle immagini televisive interpretandole come situazioni reali, che accadono nella propria casa e con le quali interagisce. Allucinazioni: sono percezioni di cose, parole, suoni, che il malato crede di udire, vedere o sentire. Ansia, fobie, agitazione: fanno parte di questi disturbi l’attività motoria continua ed afinalistica (come ad es. aprire e chiudere armadi e cassetti, indossare e togliere indumenti, rifare continuamente il letto), compiere attività inappropriate (come ad es. riporre cibo nell’armadio) camminare avanti e indietro incessantemente, manifestare compulsivamente il desiderio di uscire di casa, chiedere continuamente di voler tornare nella casa della prima infanzia, ecc. Irritabilità, aggressività: spesso sono disturbi legati all’incapacità a dare risposte appropriate a specifiche richieste o ad assumere comportamenti adeguati all’ambiente, anche se a volte si scatenano senza una causa apparente; gli atteggiamenti aggressivi possono essere di tipo verbale (offese, minacce, turpiloquio, urla), o fisico (calci, pugni, morsi), il più delle volte diretti verso chi fa assistenza; molto più rari sono invece i fenomeni di autolesionismo. Depressione: nelle fasi iniziali principalmente tristezza e facile tendenza al pianto, spesso dovuti al percepito senso di inadeguatezza o di incapacità; altre volte sono evidenti sensi di colpa, mancata speranza per il futuro, senso di inutilità. Apatia: in genere i pazienti apatici manifestano un totale disinteresse per l’ambiente, rimanendo senza far nulla per molte ore al segue
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giorno; spesso i pazienti smettono di parlare con gli altri e si chiudono in sé stessi.
Euforia-disinibizione: esagerata allegria, iperattività, comportamenti socialmente inopportuni, ipersessualità (es. masturbazione in pubblico, avances sessuali inappropriate, ecc.); queste manifestazioni non sono però frequenti della malattia. Disturbi del sonno: difficoltà nell’addormentamento, risvegli precoci o frequenti durante la notte, fino alla totale inversione del ritmo sonno-veglia (stanno svegli di notte e dormono di giorno). Disturbi dell’alimentazione: i soggetti dementi spesso presentano un rapporto alterato con il cibo, che può presentarsi come ricerca continua di cose da mangiare, a volte anche non commestibili oppure come inappetenza, fino al totale rifiuto del cibo.
Nel 2005 l’American Alzheimer Association, la Società scientifica americana che riunisce i maggiori esperti internazionali, ha pubblicato i “10 campanelli di allarme della malattia di Alzheimer” cioè quelli che rappresentano i segnali premonitori di malattia e che, quando presenti in numero di almeno quattro, consigliano di rivolgersi allo specialista (Tabella 3). Tabella 3. I 10 campanelli di allarme dell’Alzheimer (American Alzheimer Association) 1. Va spesso in confusione e ha dei vuoti di memoria È normale scordarsi un appuntamento, ma è preoccupante se le dimenticanze sono frequenti o si è spesso confusi. 2. Non riesce più a fare le cose di tutti i giorni Dimenticare una volta la pentola sul gas è distrazione; ma non cucinare un pasto e scordarsi di servirlo o di averlo preparato. segue
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3. Fa fatica a trovare le parole giuste È normale avere, ogni tanto, un nome sulla punta della lingua, ma non scordarsi parole semplici sostituirle con altre illogiche (come ad es. zuccotto al posto di cappotto, tabella al posto di tavolo). 4. Sembra che abbia perso il senso dell’orientamento Non è preoccupante sbagliare la fermata dell’autobus, lo è se si perde la strada di casa o non si capisce dove ci si trova. 5. Indossa un abito sopra l’altro, come se non sapesse vestirsi Può succedere a tutti di uscire di casa con il golf indossato al rovescio, non però indossare due giacche, una sopra l’altra, o l’accappatoio al posto del cappotto. 6. Ha grossi problemi con i soldi e i calcoli Può succedere a tutti scambiare una moneta con un’altra, ma non sbagliarsi tra uno e cento euro. 7. Ripone gli oggetti nei posti più strani Cercare gli occhiali e poi accorgersi di averli in testa è pura sbadataggine, non invece riporre il ferro da stiro in frigorifero o i surgelati in guardaroba. 8. Ha improvvisi e immotivati sbalzi d’umore Capita a tutti svegliarsi ogni tanto con la “luna storta” ma non frequenti, improvvisi ed immotivati sbalzi d’umore. 9. Non ha più il carattere di un tempo Invecchiando certi difetti si accentuano, meno frequentemente migliorano, ma non è normale cambiare completamente il carattere, diventando irascibile, diffidente dopo essere stato per tutta una vita una persona tranquilla. 10. Ha sempre meno interessi e spirito di iniziativa È possibile che invecchiando uno perda lo spirito di un tempo, ma deve far riflettere un comportamento trasandato per la propria persona o per la propria casa.
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Quali le cause “Perché la nonna ha questa malattia?”, ha domandato Daniela. “Perché lei? È colpa mia? Perché le ho fatto spingere troppe volte l’altalena? È questo che le ha fatto male?”. Daniela pensava che fosse colpa sua...e io pensavo che fosse colpa mia.., perché avevo fatto correre troppo la nonna... Ma il nonno ci ha detto che non era colpa nostra. E che d’altronde non era colpa di nessuno. Era così, punto e basta”. In Cara nonna di Sandrine Lavallè e Anja Thielen
Le cause della malattia di Alzheimer sono ancora oggi sconosciute. Negli ultimi venti anni sono stati però individuati alcuni fattori che, quando presenti, aumenterebbero il rischio di ammalare. Fra questi, quello sicuramente più importante è l’età: più si invecchia, maggiore è la probabilità di ammalare. Lo dimostra il fatto che essa colpisce una persona su otto dopo i 65 anni, circa uno su due dopo gli 85. Ma altri sono i fattori di rischio e, tra questi, soprattutto l’ipertensione arteriosa, quando presente fin dall’età adulta e non adeguatamente curata; cosi come il diabete, l’ipercolesterolemia, il fumo di sigaretta. Numerosi sono inoltre gli studi che documentano come fattore di rischio sicuramente importante in chi è già anziano, il rinunciare ad una vita socialmente attiva, ricca di stimoli, relazioni interpersonali, interessi culturali e momenti di svago. Emblematica è infatti la comparsa di demenza negli anziani poco dopo il loro ingresso in case di riposo. Altro fattore di rischio è avere, tra i propri consanguinei, qualche caso di Alzheimer: in questi casi il rischio di ammalarsi risulta
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aumentato di tre volte rispetto a chi non si trova nella stessa condizione. Questo però non significa automaticamente che l’Alzheimer è una malattia ereditaria, se non limitatamente ai rarissimi casi in cui si trasmette da una generazione all’altra un gene difettoso, evenienze queste nelle quali la malattia compare in più membri e per lo più entro i 60 anni di età. Il timore infine che la malattia di Alzheimer sia contagiosa – domanda tutt’altro che infrequente –, è assolutamente fantasioso in quanto non si tratta di malattia infettiva.
Quanto dura “Non esiste buono o cattivo tempo, esiste solo buono o cattivo equipaggiamento”. Sir Robert Baden Powel
Nella forma più comune di Alzheimer, quella cosiddetta sporadica in quanto colpisce casualmente la popolazione, la sua durata media è di 7-10 anni, con un minimo di due anni ed un massimo di venti, questo a sottolineare che si può vivere da malati Alzheimer quasi due decadi della nostra vita! Ciò a dimostrare che non solo l’età di esordio ma anche le manifestazioni e la velocità di progressione variano moltissimo da individuo a individuo, dando ragione del fatto che la diagnosi di inizio è spesso difficile e che esprimere un giudizio sulla sua durata è, di fatto, impossibile.
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Capitolo Terzo
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ome si cura
Capitolo Terzo “Non sono sicuro che l’Alzheimer sia un killer nel senso comune del termine, ma veramente è menomante. Sono certo che è menomante – ma cosa sto dicendo? – è sicuramente un killer dei pensieri”. In Visione parziale di Cary Smith Henderson e Nancy Andrews
Purtroppo, nonostante siano numerose le proposte di cura basate sia sull’impiego di farmaci che di interventi non farmacologici aggiuntivi od alternativi, la malattia resta a tutt’oggi una delle più avare di risultati soddisfacenti. Per quanto riguarda la terapia farmacologica dei disturbi cognitivi, il primo farmaco specifico per l’Alzheimer è stato, come già ricordato, la tacrina, proposta quasi 80 anni dopo la scoperta della malattia, presto però abbandonata per la sua alta tossicità soprattutto a livello del fegato. Nell’ultimo decennio sono stati invece messi a disposizione altri farmaci con meccanismo d’azione simile alla tacrina, l’efficacia dei quali, anche se comunque non pari alle aspettative, non è comunque gravata da importanti effetti collaterali. Sono questi i motivi per cui il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) che ha previsto la prescrizione gratuita nell’ambito di uno specifico protocollo che individua i pazienti idonei al trattamento. Successivamente altre sono state le sostanze proposte per la cura e prevenzione della malattia, sulla cui effettiva utilità i pareri sono però molto discordanti e, per questo, non dispensati gratuitamente dal SSN. Relativamente al trattamento dei disturbi comportamentali, o per lo meno di alcune modalità di espressione di essi, numerosissime sono le scelte possibili, anche se i risultati sono del tutto imprevedibili, spesso deludenti e con il rischio di effetti collaterali anche gravi, che ne prevedono pertanto la prescrizione soltanto da parte dei Centri clinici esperti o di specialisti della materia.
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Farmaci per i disturbi cognitivi Come è stato appena affermato non esiste a tutt’oggi alcun farmaco in grado di prevenire, arrestare o far regredire la malattia. Ma se è vero che attualmente la malattia di Alzheimer non è né prevenibile né guaribile, questo non vuol dire che sia incurabile. Infatti con i farmaci disponibili si è almeno in grado di migliorarne i sintomi e quindi la qualità di vita del paziente e di chi lo assiste, rallentandone la progressione verso gli stadi più avanzati. Per raggiungere obiettivi terapeutici più ambiziosi si dovrà invece purtroppo attendere ancora molti anni per sperare di entrare in possesso di sostanze più efficaci. Inibitori dell’acetilcolinesterasi Donepezil (ARICEPT, MEMAC), galantamina (REMINYL) e rivastigmina (EXELON, PROMETAX) sono attualmente gli unici farmaci dotati di un favorevole rapporto costo/efficacia, documentato da numerosi studi condotti su casistiche di pazienti estremamente numerose e selezionate. La loro efficacia, riscontrabile in circa il 6070% dei pazienti trattati, si identifica con il miglioramento dei sintomi della demenza e/o nel rallentamento della sua progressione. Su quando sospenderne la somministrazione, così come sul loro uso nelle fasi più avanzate, esiste discordanza da ciò che è previsto dalle disposizioni vigenti (nota 85) e ciò che risulta dalle ricerche più recenti e dalla esperienza clinica relativa al trattamento di ormai molte migliaia di pazienti. Per la loro prescrizione da parte Centri clinici esperti, le cosiddette Unità Valutative Alzheimer (UVA), occorre però che sia certa la diagnosi di malattia, che la malattia non si trovi in una fase particolarmente avanzata e che non esistano controindicazioni relative alla coesistenza di definite patologie elencate nei protocolli di trattamento. Memantina Si tratta di un farmaco con una modalità di azione completamente diverso dagli anticolinesterasici. Esso agisce su un altro possibile
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meccanismo inducente la malattia, quello di un eccessivo rilascio nel cervello di una sostanza eccitatoria ad azione tossica sui neuroni, il glutammato, a cui conseguirebbe o un’aumentata produzione di beta-amiloide oppure una maggiore vulnerabilità dei neuroni alla sua esposizione (ipotesi glutammatergica dell’Alzheimer). Non esistono in pratica controindicazioni assolute all’ assunzione di memantina (AXURA, EBIXA), anche se una particolare attenzione va posta nei pazienti con storia di crisi epilettiche. Seppure gli effetti positivi di memantina sono limitati, da cui la decisione del SSN di non farsene carico, si tratta di un’ulteriore opportunità terapeutica per le forme più avanzate di malattia, o in presenza di controindicazioni all’uso dei farmaci anticolinesterasici. Antiossidanti Il loro impiego parte dal presupposto che alla base della morte dei neuroni ci sia una aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno, prodotti naturali del metabolismo energetico cellulare, contro i quali l’organismo possiede meccanismi in grado di immediatamente neutralizzarli in quanto altamente lesivi dei tessuti dai quali vengono prodotti o con i quali vengono a contatto. Tale ipotesi, cosiddetta dello stress ossidativo, viene chiamata in causa anche per spiegare lo stesso processo di invecchiamento. In realtà dall’utilizzo in clinica di tali sostanze, quali Vitamina E, selegilina, ginko-biloba, non si è avuto alcun significativo risultato. Anche la loro proposta ai fini preventivi non poggia su alcuna evidenza di efficacia scientificamente documentata. Utile può essere invece consigliare una dieta ricca di frutta e verdura per il suo alto contenuto di antiossidanti naturali. Antinfiammatori L’osservazione che l’utilizzo cronico di questi farmaci in donne affette da malattie reumatiche diminuiva il rischio di Alzheimer, ha acceso la speranza di avere in mano la possibilità di prevenire e/o curare la malattia. In realtà risultati degli studi clinici condotti per verificare la effettiva utilità di questa forma di intervento hanno dato risultati negativi.
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Estrogeni La constatazione che questa malattia colpisce in maggiore misura il sesso femminile dopo la menopausa, quando cioè gli ormoni sessuali femminili (estrogeni) drasticamente diminuiscono e di cui è nota l’azione protettiva nei confronti di quella particolare parte del cervello, l’ippocampo, sede dei processi di memorizzazione, ha portato alla proposta di utilizzarli per la prevenzione e terapia della malattia. Anche in questo caso, i risultati degli studi più recenti, non hanno consentito però di confermarne l’utilità di impiego. Antiamiloide Negli ultimissimi anni sono iniziati nell’uomo studi con sostanze che, nell’animale, si sono dimostrati in grado di ridurre la produzione cerebrale di beta-amiloide sperimentalmente indotta o la sua trasformazione in sostanza tossica, in questo modo ponendosi l’obiettivo di agire su quello che è ritenuto il processo causale della malattia. Ricerche su pazienti alzheimeriani sono attualmente in corso coinvolgendo Centri di eccellenza, sia statunitensi che europei, dei quali fa parte il Centro per lo Studio dell’Invecchiamento Cerebrale e Demenze nell’Anziano dell’Istituto di Gerontologia e Geriatria dell’Università degli Studi, del quale fa parte l’Unità Valutativa Alzheimer dell’Azienda Ospedaliera di Perugia. Vaccino Molte le attese riposte nella possibilità di impedire la deposizione di beta-amiloide mediante l’iniezione intracerebrale di vaccini. Brillanti le dimostrazioni nel topo, ma assolutamente fallimentari fino ad oggi quelle nell’uomo per il verificarsi di gravi casi di meningo-encefalite, di cui tre mortali. Attualmente la ricerca, dopo un periodo di ripensamento, è il fase di ripresa con vaccini più purificati e selettivi.
Trattamento dei fattori di rischio vascolare Sono numerosissimi ormai gli studi condotti negli ultimi 20 anni ad avere dimostrato che i tradizionali fattori di rischio per le malattie
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cardiovascolari quali l’ipertensione arteriosa, le iperlipemie, il diabete, il fumo di sigaretta, la sedentarietà, da sempre riconosciuti importanti nei confronti della demenza vascolare, sono oggi ritenuti tali anche per la malattia di Alzheimer ad insorgenza in età avanzata. Seppure manchi a tutt’oggi la prova del nove che il loro trattamento riduca la probabilità di ammalare nei soggetti a rischio, pur tuttavia è doveroso intervenire efficacemente su di essi, rappresentando l’unica possibilità concreta che ci viene offerta in tema di prevenzione. Quali allora le conclusioni che si possono trarre da quello che è lo stato dell’arte in merito alla prevenzione della demenza di Alzheimer dopo tanti studi e ricerche e quali i suggerimenti concreti che possono essere attualmente proposti? “Le 10 regole d’oro per il cervello” (Tabella 4), recentemente pubblicate dall’Associazione Alzheimer Americana, rappresentano indubbiamente un utile riferimento.
Tabella 4. Le 10 regole d’oro per il cervello (American Alzheimer Association) 1. La testa innanzitutto La salute inizia dal cervello. È uno degli organi più vitali del corpo e ha bisogno di cure e attenzione. 2. Dal cervello al cuore Ciò che è buono per il cuore è buono per il cervello. Fare qualcosa tutti i giorni per prevenire malattie cardiache, ipertensione, diabete e ictus può ridurre il rischio di Alzheimer. 3. I numeri che contano Tenere sotto controllo peso, pressione, colesterolo e glicemia. 4. Nutrire il cervello Assumere meno grassi e più sostanze antiossidanti. segue
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5. Far lavorare il corpo L’attività fisica ossigena il sangue e aiuta le cellule nervose: camminare 30 minuti al giorno tiene attivi mente e corpo. 6. Stimolare la mente Mantenere il cervello attivo e impegnato stimola la crescita delle cellule e delle connessioni nervose: leggere, scrivere, giocare, imparare cose nuove, fare le parole crociate. 7. Avere rapporti sociali Occupare il tempo libero con attività che richiedono sforzo fisico e mentale: socializzare, conversare, fare volontariato, frequentare un club, ritornare sui banchi di scuola. 8. Attenzione ai colpi! Usare le cinture di sicurezza, stare attenti al rischio di cadute, indossare il casco quando si va in bicicletta. 9. Essere saggi Evitare le cattive abitudini: non fumare, non bere troppo, non fare uso di droghe. 10. Guardare avanti Iniziare oggi a preparare il domani.
Farmaci per i disturbi del comportamento Antidepressivi Sono estremamente preziosi per migliorare il tono dell’umore di questi malati, soprattutto nelle prime fasi quando essi hanno ancora la consapevolezza del proprio stato. Naturalmente il medico deve sapere che non tutti gli antidepressivi sono indicati, dovendo essere almeno prioritariamente esclusi quelli che hanno un effetto negativo sul sistema colinergico già di per sè compromesso.
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Ansiolitici ed ipnotici Seppure anche essi comunemente impiegati, prima della loro prescrizione occorre sempre verificare che non vi siano condizioni cliniche (come febbre, dolore, stitichezza) od ambientali (assenza di quiete, illuminazione eccessiva o buio intenso, televisione dal volume troppo alto, più persone che parlano contemporaneamente, assistenza da parte di persone nuove, ecc.), di per sè in grado di giustificare stati d’ansia od insonnia, per non rischiare di prescrivere farmaci, non solo inutili, ma anche potenzialmente dannosi. Antipsicotici La somministrazione di questa categoria di farmaci rappresenta spesso una scelta ineludibile quando la gestione del malato diventa veramente difficile, se non impossibile, per la presenza dei gravi disturbi del comportamento (vedi Tabella 2). Occorre a tal proposito essere consapevoli che sia gli antipsicotici tradizionali o “tipici“ (aloperidolo, promazina, clorpromazina, ecc.) che, quelli cosiddetti non tradizionali o “atipici” (risperidone, olanzapina, quetiapina, aripiprazolo, ecc.), oltre a non dare garanzia di efficacia, non sono immuni da effetti collaterali anche gravi, dalla parkinsonizzazione del paziente, alla comparsa di eventi vascolari maggiori (infarto cardiaco ed ictus cerebrale) e di complicanze ematologiche. Ne deriva che, come precedentemente affermato, la loro prescrizione, sia che si tratti dei tipici che degli atipici, deve essere sempre effettuata dopo una compente valutazione clinica e sottoponendo successivamente i pazienti a frequenti e regolari controlli nel tempo. La terapia farmacologica dei più gravi disturbi del comportamento rappresenta il momento sicuramente più difficile ed impegnativo per il medico, in quanto è quello maggiormente contrassegnato da insuccessi e da frustrazione per chi assiste questi malati. Diventa pertanto imperativo categorico verificare che non esistano fattori estranei alla malattia ad esserne responsabili, seguendo la metodologia indicata in Figura 2.
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Figura 2. Percorso diagnostico-terapeutico dei disturbi psicocomportamentali nel paziente con malattia di Alzheimer (Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia – BPSD)
Terapia non farmacologica 1. Interventi di tipo riabilitativo Si tratta di interventi che agiscono sulla sfera cognitiva, cognitivocomportamentale, relazionale ed emotiva, in pazienti con demenza di grado lieve-moderato, quando la memoria remota è ancora sostanzialmente conservata e le funzioni sensoriali non sono significativamente compromesse. La loro efficacia si basa sui risultati di numerosi studi anche se sono necessarie ulteriori conferme su piÚ ampie popolazioni di pazienti trattati.
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L’obiettivo è quello di ridurre il livello di disabilità del paziente, migliorare la qualità della sua vita ed, auspicabilmente, rallentare anche il decorso della malattia, potenziando le residue funzioni intellettive, fisiche e affettive. Indipendentemente dalla metodica utilizzata prioritario è sottoporre il paziente ad una valutazione volta a definire la gravità della demenza, la presenza di disturbi comportamentali, la coesistenza di altre malattie, nonché le condizioni sociali e ambientali che possono interferire, sia positivamente che negativamente, con l’intervento. A tal fine è anche necessario che si venga a creare un rapporto di fiducia tra l’operatore, il paziente e la famiglia, il cui coinvolgimento è fondamentale, non solo come sostegno psicologico, ma anche per l’attuazione compiuta dello stesso programma terapeutico; così come porsi sempre degli obiettivi realistici, sapendo che la malattia allo stato attuale ha un decorso inesorabilmente progressivo di cui non conosciamo la velocità di progressione. Vengono di seguito riportati quelli più sperimentati e di uso comune. Terapia di riorientamento nella realtà (Reality Orientation Therapy-ROT) Tale intervento si basa sull’ipotesi che la stimolazione neurosensoriale (visiva, uditiva, fisica, ecc.) attivi connessioni nervose scarsamente utilizzate e/o ne favorisca lo sviluppo in una sorta di vicarianza funzionale. Fornendo punti di riferimento spaziali, temporali e relazionali, la ROT permette al paziente di riappropriarsi di quegli strumenti che gli consentono di ritrovare un rapporto con se stesso e con la realtà in cui vive. Sul piano operativo essa prevede: - attività di orientamento temporale che consistono nel dare informazioni sul tempo cronologico (calendario), relativo (mattino e sera), stagionale e meteorologico; - attività di orientamento spaziale che richiamano l’attenzione sulla sede degli incontri, i percorsi abituali ed i luoghi familiari; - attività di riappropriazione corporea volte a portare il paziente a
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focalizzare l’attenzione sul proprio corpo e sulle sue funzioni attraverso tecniche di concentrazione, massaggio e toccamento; - attività di stimolazione sensoriale idonee a riportare il soggetto al contatto con l’ambiente circostante in modo progressivo. Della ROT vengono individuate due fasi fra loro complementari: formale, che consiste in periodiche sedute in gruppi di 4-5 malati in ambienti adeguati; informale, che prevede la stimolazione continua del paziente durante l’intero arco della giornata, coinvolgendo anche i familiari. Con questa metodica è possibile indurre un miglioramento moderato, ma significativo, non solo delle prestazioni cognitive, ma anche dei disturbi comportamentali, anche se non dell’autonomia funzionale. Da segnalare la possibilità di effetti negativi quali comparsa di irritabilità, ansia o depressione. Terapia della Reminiscenza (Gruppi Remember) Momento centrale del programma riabilitativo è l’utilizzazione del ricordo come strumento indispensabile per gettare un ponte tra passato, presente e futuro, al fine di meglio interpretare e vivere la realtà quotidiana. Esso si sviluppa in tre diverse fasi: di potenziamento delle capacità mnesiche remote; di integrazione dei ricordi passati con quelli recenti; di ampliamento della memoria recente. I soggetti vanno incoraggiati a parlare del loro passato, a ricordare e riportare al gruppo esperienze vissute durante l’età adulta e l’infanzia; successivamente, vanno stimolati a verbalizzare i loro problemi attuali e ad ascoltare quelli degli altri per permettere di comprendere meglio la loro condizione, così da raggiungere sempre più un maggior adattamento al presente ed un miglior livello di socializzazione. L’utilizzo di questa metodica sembra poter significativamente contribuire a prevenire il processo di disintegrazione della personalità, garantendo l’allenamento mentale necessario per una attività di introspezione, arricchendo i propri ricordi e facilitando gli aspetti relazionali. Sono stati eseguiti numerosi studi di efficacia i cui risultati, seppure
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modesti, appaiono comunque positivi, anche se vengono purtroppo rapidamente persi con l’interruzione del trattamento. Riabilitazione della memoria (Memory Training) Il trattamento riabilitativo consiste nell’indurre il soggetto ad associare spontaneamente la cosa da ricordare a persone, animali, episodi e momenti appartenenti al proprio vissuto. Esso si basa sul fatto che ogni informazione viene tanto più facilmente appresa quanto più risulta motivata ed affettivamente vissuta. Il programma consta di due momenti: uno strutturato, costituito dalla seduta di memory training vera e propria, l’altro non strutturato, che accompagna il paziente per il resto della giornata. La durata della terapia è di 60-75 minuti circa, con una frequenza di 2-3 volte la settimana. Il programma prevede l’utilizzo di una serie di materiali capaci di stimolare i vari canali sensoriali per acquisire quelle informazioni che dovranno poi essere richiamate alla memoria. Sarà pertanto essenziale favorire l’esecuzione di associazioni spontanee con persone, animali, oggetti, momenti della propria vita quotidiana, anche in virtù del fatto che fattori emotivi e motivazionali giocano un ruolo centrale nell’attività della funzione mnesica. L’informazione sarà infatti appresa tanto più rapidamente quanto più risulterà motivata e affettivamente vissuta. - Ausili esterni passivi: consistono in adattamenti ambientali idonei a consentire al paziente di meglio orientarsi negli spazi in cui vive: segnalazioni ben in evidenza, scritte a grandi lettere, utilizzazione del colore come elemento di identificazione (ad es., porte dei bagni di colore giallo, frecce verdi per indicare il giardino, altri), ecc. - Ausili esterni attivi: rientrano in questa categoria agende, timer, calendari, elenchi della spesa e delle cose da fare, lavagne, piantine stradali, piccoli registratori tascabili, ecc.; compito del riabilitatore è in questo caso addestrare il paziente al loro uso corretto. Terapia basata sull’accettazione della realtà nella quale il paziente è convinto di vivere (Validation Therapy) Viene proposta come tecnica di comunicazione in pazienti con demenza che credono di vivere in epoche precedenti della propria vita.
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Mediante l’ascolto e l’osservazione, si cerca di conoscere e capire la realtà del soggetto, al fine di stabilire con lui contatti significativi. Non si tratta di riportare il malato alla realtà attuale, ma di seguirlo nel suo mondo per cercare di capire quali sono i sentimenti, le emozioni e i comportamenti che derivano da questo suo rivivere esperienze, relazioni e conflitti passati. Sulla sua reale utilità i pareri sono attualmente discordi.
2. Altri tipi di Intervento Numerose altre forme di intervento sono state sperimentate e proposte per cercare di contrastare l’evoluzione della malattia e per rendere meno pesante il carico assistenziale soprattutto nelle sue fasi più avanzate. Si tratta di interventi non tradizionali e pertanto non codificati tra le prestazioni previste dai piani sanitari regionali in quanto non derivati da studi che consentano giudizi di sicura efficacia, ma che pur tuttavia poggiano ormai su molte esperienze positive sia italiane che estere. Terapia effettuata con l’ausilio di animali (Pet Therapy) Si tratta di una terapia basata sull’intuizione, che risale all’antichità, del valore terapeutico degli animali e che trova oggi la sua strutturazione metodologica e impieghi mirati a specifiche patologie. Nel giugno del 1994 il Centro di Collaborazione OMS/FAO per la Sanità Pubblica Veterinaria di Roma, interagendo con altre strutture, organizza il 1° corso informativo di “Pet Therapy” ed Ippoterapia. Il razionale al suo impiego è basato sulla certezza che la presenza di un animale migliora da un punto di vista psicologico la vita dell’individuo, diminuendo la solitudine e la depressione, agendo da supporto sociale, dando un impulso alla cura di se stessi e diventando una fonte di attività quotidiane significative. Si tratta naturalmente di una terapia di supporto che integra, rafforza e coadiuva le terapie normalmente effettuate per il tipo di patologia considerato. Per quanto riguarda il suo utilizzo nei pazienti dementi, molti studi dimostrano che la compagnia di un cane (sempre in presenza del suo istruttore) riduce l’aggressività e l’agitazione, così come migliora il comportamento relazionale dei malati.
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Altri studi dimostrano che la presenza di un acquario nella stanza da pranzo può ridurre i disturbi del comportamento alimentare. Inoltre possono esserci benefici anche sulle funzioni cognitive, in quanto con questa metodologia si incoraggia l’interazione verbale e non verbale tra persona e animale, stimolando non solo la memoria del paziente (gli animali possono riportare ricordi del passato), ma anche il suo orientamento temporale (orario del pasto dell’animale o della passeggiata), nonché dei suoi organi di senso stimolati dall’odore emesso dall’animale, dal colore e dalla sensazione tattile del suo pelo. Musicoterapia Questa metodica si propone di: favorire l’opportunità di espressione “non verbale” delle emozioni tramite il movimento, la danza, il suono di strumenti; stimolare la comunicazione attraverso il canto di motivi familiari e la rievocazione di esperienze di vita; stimolare il ricordo attraverso le associazioni tra canzoni, musica ed esperienze personali; migliorare l’autostima; facilitare il rilassamento ed alleviare lo stress. Deve essere condotta da operatori con formazione specifica, in quanto, se non ben gestita, può peggiorare stati d’animo e comportamenti. Attività fisica Tale proposta terapeutica si basa sulle seguenti motivazioni: - i soggetti anziani fisicamente attivi ed in buona forma fisica hanno prestazioni cognitive e psicomotorie migliori rispetto ai loro coetanei sedentari; - la maggior parte degli studi indicano che una singola seduta di esercizio così come un programma di allenamento fisico inducono un miglioramento delle funzioni cognitive, in particolare di quelle che diminuiscono con l’età; - i meccanismi attraverso i quali l’attività fisica determina un miglioramento delle prestazioni cognitive sono molteplici, in parte legati ad un miglioramento del metabolismo cerebrale e forse del trofismo neuronale ed in parte di natura psicologica.
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Laboratorio di oggettistica Il suo significato è quello di impegnare il paziente in piccole attività manuali, in maniera guidata e facilitata, al fine di ridurre stati d’ansia e di tensione ed aumentare l’autostima. Orticoltura Consiste nell’affidare al paziente la cura di una o più piante, con obiettivi non solo di tipo ricreativo, ma anche terapeutico, consentendo, ad esempio mediante la cadenza dei tempi di annaffiatura o potatura, di migliorarne il senso di orientamento. Attività spirituali L’esperienza di molti studi insegna che può essere utile per un paziente con demenza partecipare a funzioni religiose. Per coloro che hanno avuto un importante ruolo nella vita della propria comunità, partecipare ad attività spirituali può rappresentare un modo per mantenere l’autostima ed il senso di appartenenza sociale, per affrontare lo stress della malattia e per favorire la comunicazione con gli altri. Inoltre le funzioni religiose possono aiutare a rievocare ricordi e tradizioni del passato e mantenere l’orientamento temporale, data la cadenza delle festività religiose nel corso dell’anno. È ovvio che tali attività devono essere gradite al malato e consone al suo vissuto ed alle sue attuali condizioni. Visione di film Può essere un’attività gradita e stimolante per il paziente affetto da demenza lieve-moderata, purché non sia causa di spavento o di agitazione per le scene e le vicende trattate. Inserimento in gruppi intergenerazionali Si basa sul presupposto che, creando momenti di interazione tra anziani dementi e giovani sani, si possano migliorare la memoria stimolando la rievocazione di racconti ed episodi di vita vissuta, migliorando nel contempo il livello di socializzazione.
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Capitolo Quarto
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ome si assiste il malato
Capitolo Quarto “Non abbiate paura di baciarli o di farvi baciare da loro. Non prenderete l’Alzheimer. E allora sorridete pure e loro capiranno. Carezzateli senza paura, sentiranno. Baciateli se non vi fa schifo: comprenderanno ancor di più tutto il resto. Abbracciateli, come facevate con il vostro bambino. Cantate con loro, vi seguiranno. Scherzate con loro delle miserie, che sono comuni a entrambi” Renato Bottura, medico
Al fine di assicurare la migliore assistenza possibile al malato ed aiutare la famiglia, i principali aspetti da considerare sono quelli di seguito riportati.
Conoscere i suoi diritti “Chi ti dà il diritto di non informarmi?...di non curarmi perché sono inguaribile?...di cacciarmi via dall’ospedale?...di spogliarmi nudo davanti agli altri?” In Carta dei diritti degli anziani non autosufficienti della Fondazione E. Zancan
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Nel 1999 le Assemblee Generali di Alzheimer’s Disease International, Alzheimer Europa ed Alzheimer Italia, approvano la Carta dei Diritti del Malato di Alzheimer, i cui principi sono riportati in Tabella 5. Tabella 5. Carta dei Diritti del Malato di Alzheimer Diritto del malato al rispetto ed alla dignità al pari di ogni altro cittadino. Diritto del malato ad essere informato nelle fasi precoci della malattia, e dei congiunti o rappresentanti legali in qualsiasi fase della stessa, anche della sua prevedibile evoluzione. Diritto del malato o del rappresentante legale a partecipare, per quanto possibile, alle decisioni riguardanti il tipo di cura e di assistenza presente e futura. Diritto del malato ad accedere ad ogni servizio sanitario e/o assistenziale al pari di ogni altro cittadino, senza preclusione alcuna in rapporto al suo stato di malattia che lo rende spesso disturbante e difficile da gestire. Diritto del malato di disporre di servizi adeguati specificamente dedicati ad affrontare i problemi della demenza. Diritto del malato e di chi si prende cura di lui di scegliere fra le diverse proposte di cura/assistenza. Diritto del malato ad una speciale tutela e garanzia contro gli abusi fisici e patrimoniali, data la sua vulnerabilità . Diritto del malato, in assenza di rappresentanti legali, o nel caso in cui i potenziali rappresentanti legali rifiutassero la tutela, di avere per legge un tutore ufficiale scelto dal tribunale.
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Conoscere la sua storia “Ho sempre amato molto profondamente la musica e trovo che sia di gran conforto. Mi riempie le giornate e mi dà qualcosa da fare – ascolto e vado a ricercare i dischi che più amo. Mi sembra che sia un gran bel modo di andare a tempo e anche perderlo. E poi è divertente...mi basta ascoltar la musica per sentire che sto proprio facendo qualcosa che amo. Non posso più eseguirla, ma posso certamente utilizzarla come intendo io – cioè per sentirmi splendidamente”. In Visione parziale di Cary Smith Henderson e Nancy Andrews
Conoscere la persona che si è chiamati da estranei ad assistere, è fondamentale, ancor più se si tratta di un paziente affetto da demenza. Da qui la proposta di acquisire notizie relative a stile di vita, famiglia, amici, tradizioni, abitudini, preferenze, esperienze di lavoro, hobby, da raccogliere in un libro – il cosiddetto libro della biografia del paziente – da utilizzare come prezioso strumento di lavoro per la possibilità di personalizzare le modalità di intervento. Su come costruire il libro della biografia, in Tabella 6 vengono elencati gli elementi da considerare.
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Tabella 6. Elementi da considerare per la costruzione del libro della biografia A. Stile e formato Piacevole a vedersi. Di facile consultazione. Fatto di materiale resistente, difficile a rompersi. Preveda la possibilità di essere ampliato ed aggiornato. Utilizzi anche materiale fotografico, disegni, ritagli di giornale, cartoline e qualsiasi altra cosa richiami alla memoria esperienze di vita vissuta.
B. Contenuti Dati anagrafici relativi anche ai familiari. Dati relativi all’infanzia, ai rapporti con i familiari, alla casa dove si è nati, ai primi anni di scuola, agli amici dei primi giochi, al primo amore e ad altri eventi o aspetti significativi (ad es. veniva chiamato con il proprio nome oppure aveva qualche soprannome; e se sì perché?). Dati relativi alla scuola frequentata, al titolo di studio conseguito, alle materie preferite, a quelle più difficili, ecc. Dati relativi al periodo di vita militare. Dati relativi alla attività lavorativa svolta, al tipo di lavoro, al ruolo, al grado di soddisfazione, al primo stipendio, al rapporto con i colleghi, all’età del pensionamento ed al modo in cui è stato vissuto. segue
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Dati relativi alle proprie esperienze di vita con descrizione dei luoghi dove si è vissuti; al proprio matrimonio ed a quello dei figli e/o amici, alla prima casa, alla prima macchina (o motocicletta), ecc. Dati relativi al carattere (felice, scherzoso, ottimista, pessimista, espansivo, riservato, introverso) ed alle modalità di rapportarsi con i propri familiari e le altre persone. Dati relativi ai rapporti con la religione con descrizione della comunità di fede e del luogo frequentato (ad esempio la parrocchia), alle preghiere preferite, ad eventuali esperienze di volontariato, ecc. Dati relativi alla vita relazionale con parenti, amici, vicini, colleghi, ecc. Dati relativi ad onorificenze e/o ad appartenenza a gruppi e/o associazioni. Dati relativi agli interessi culturali (letture preferite), musicali (musiche e/o artisti preferiti), alle attività ludiche (giochi e/o sport preferiti), ricreative (hobbies), ai viaggi effettuati (località visitate), al rapporto con gli animali (ad es. animali preferiti e relativi nomi), all’alimentazione preferita (piatti e bevande).
In aggiunta o in sostituzione del libro altrettanto efficace può essere anche la utilizzazione di video, poster, bacheche con immagini, murales, grandi foto, didascalie incollate su fogli di carta ecc., così come avere una scatola contenente oggetti che hanno contrassegnato le tappe della vita del paziente.
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Comprendere ed essere compresi “Mia moglie sta facendo di tutto per rendermi le cose sopportabili, per tenermi occupato e farmi sentire bene. La apprezzo veramente tanto. Comunque, se ti capitasse di avere l’Alzheimer, la cosa migliore che puoi fare è trovare una brava persona che ti assiste, come la mia meravigliosa moglie. Ho paura di perdere i contatti col mondo. Lei è la sola che veramente mi capisce e io non sono facile da capire”. In Visione parziale di Cary Smith Henderson e Nancy Andrews
La comunicazione La comunicazione è una condizione essenziale della vita, dello sviluppo umano e della salute mentale. Si tratta di una relazione che presenta sia contenuti concreti ed obiettivi (quello che io dico, quello che io sento), che affettivi ed emozionali (come lo dico, come vedo chi lo dice). Si tratta quindi di un processo interattivo dove il dire ed il fare di ogni individuo influenza e, nello stesso tempo, è influenzato dal dire e dal fare dell’altro con cui interagisce. La comunicazione può essere verbale e non verbale: quella verbale utilizza il linguaggio delle parole, quella non verbale il linguaggio del corpo. Per quanto riguarda la comunicazione verbale, bisogna sapere che il malato di Alzheimer presenta problemi sia nella comprensione che nella produzione delle parole e nell’espressione dei pensieri. A seconda dello stadio di gravità della malattia egli passa progressivamente dalla difficoltà a trovare le parole (anomie) ed a comunicare i pensieri, all’incapacità di esprimere frasi di senso compiuto pur parlando continuamente (afasia fluente), fino allo stadio finale in cui diventa totalmente incapace di parlare e di comprendere (afasia globale). Nelle fasi iniziale e moderata della malattia, il paziente riesce, a volte, a nascondere i problemi di linguaggio tenendo, per esempio,
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un atteggiamento schivo e diffidente. Quando il disturbo del linguaggio diventa grave, esso può dar luogo a reazioni catastrofiche sia nel paziente che in colui che presta assistenza (caregiver), per l’impossibilità di comprendersi utilizzando l’usuale linguaggio verbale. In elenco vengono riportati suggerimenti che possono migliorare la comunicazione verbale con il malato di Alzheimer: 1. Chiamarlo per nome e richiedere sempre la sua attenzione. 2. Accertarsi che possa sentirvi. 3. Usare parole brevi, frasi semplici e corte. 4. Parlare lentamente, fare solo una domanda semplice per volta. 5. Dare tempo sufficiente per rispondere. 6. Abbassare il tono della voce. 7. Stare attenti e non interrompere, non avere fretta, dare suggerimenti necessari se non gli viene una parola. 8. Chiedere sempre di svolgere un compito alla volta e non diversi contemporaneamente. 9. Eliminare rumori e attivita’ distraenti. 10. Evitare di parlargli come se fosse un neonato. 11. Evitare di parlare di lui liberamente in sua presenza, anche quando la demenza è grave. 12. Imparare ad utilizzare il linguaggio non verbale.
Per quanto riguarda la comunicazione non verbale occorre sottolineare che, quando la malattia è in fase avanzata e le capacità espressive sono totalmente compromesse, il malato tende ad utilizzare sistemi alternativi, che vanno compresi per non scatenare reazioni comportamentali che potrebbero essere di difficile gestione. È quindi importante conoscere il modo di relazionarsi correttamente con lui facendo di tutto per ridurgli il senso di frustrazione conseguente alla sua incapacità a comunicare.
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Sono elementi delle comunicazione non verbale: • i gesti, le espressioni del viso, gli atteggiamenti; • il riso, il pianto, lo sbadiglio, i cambiamenti nel tono della voce, le pause, i silenzi; • il contatto fisico, il modo in cui ci si colloca nei suoi confronti (distanza, posizione eretta o seduta vs posizione sdraiata, posizione seduta vs posizione seduta, ecc.); • l’aspetto esteriore determinato dall’abbigliamento, dal trucco e dagli ornamenti (gioielli, tatuaggi, piercing, ecc.). È da sottolineare che la comunicazione non verbale è molto più efficace di quella verbale, nel senso che il modo in cui mi comporto è molto più importante rispetto a quello che dico. Posso dire “ti amo” e far capire chiaramente come non sia vero; posso dire “ti odio” ma lasciar trasparire dal modo in cui lo dico che il mio sentimento è ben diverso. Nel mentre la capacità di comprendere il linguaggio verbale inesorabilmente diminuisce con il procedere dalla malattia, la capacità di comprendere il linguaggio non verbale non viene mai meno, nemmeno negli stadi più avanzati di essa, rappresentando quindi la modalità comunicativa privilegiata con il malato Alzheimer. Importante è pertanto per chi assiste questo malato, saper stargli accanto, prendere le sue mani, toccarlo con delicatezza, con amore, in modo che possa sentire il bene che gli si vuole, scherzare insieme, stare al gioco del suo delirio, cantare canzoni conosciute, ninne nanne, inni religiosi, anche nelle fasi più gravi. Così come utile può essere farlo ballare, se era per lui un elemento di svago, spesso per creare, attraverso la musica e il contatto fisico, l’idea di un’intimità legittima; cercare di mantenere vivo in lui, se predisposto, l’interesse spirituale, invitandolo a pregare ed a pregare insieme in modo da aiutarlo a ricordare le parole.
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L’ambiente in cui vive “Ho una paura folle di salire le scale. Soprattutto perché i miei piedi vanno per conto loro. In altre parole non sono per niente sicuro di dove io voglio che vadano. L’Alzheimer uccide molte cose che prima facevo d’istinto”. In Visione parziale di Cary Smith Henderson e Nancy Andrews
Ogni individuo è estremamente dipendente dall’ambiente in cui vive, tanto più il malato di demenza man mano che le sue abilità diminuiscono, in quanto diminuiscono sempre di più le sue capacità di adattamento. Occorre quindi: • assicurare che l’ambiente sia tranquillo, stabile, accogliente, familiare; • fare solo i cambiamenti necessari ad evitare cadute ed altri incidenti, come ad esempio togliere tappeti, mettere in sicurezza farmaci, detersivi e liquori, sostituire i fornelli a gas con quelli elettrici, ecc.; • programmare la giornata in maniera da dare un ordine costante alle diverse attività della vita quotidiana (come ad esempio sveglia mattutina, orario dei pasti, della passeggiata, del riposo, ecc.), perché creare una routine significa migliorare il rapporto con lo spazio e con il tempo, così come passeggiare all’aria aperta aiuta a controllare disturbi quali agitazione, iperattività, insonnia; • applicare targhette, frecce direzionali, insegne, promemoria su armadi, cassetti e altri mobili; contrassegnare le porte delle camere con colori e nomi diversi, avere calendari ed orologi grandi e bene in vista, abbellire la stanza con immagini fotografiche dei familiari e congiunti, di grandi dimensioni e recanti il nome di questi, aiuta il malato a vivere con maggior autonomia;
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• incoraggiare la lettura, ascoltare musica, fare i cruciverba, curare piante, lavorare a maglia, ecc., in quanto dedicarsi a passatempi piacevoli aiuta a mantenersi più sereni e a contrastare il deterioramento cognitivo; • non privarlo dei suoi soldi anche quando ci si accorge che non dà più valore al denaro per non umiliarlo, magari chiedendo collaborazione ai vicini e negozianti della zona con i quali si è più in confidenza; • assicurarsi che abbia sempre con sé un documento di identificazione o anche un semplice biglietto con il numero telefonico delle persone con le quali prendere contatto in caso di necessità, è estremamente importante in caso di smarrimento, malessere, incidente, ecc. Perché l’ambiente abbia sufficienti requisiti di sicurezza, occorre fare attenzione ai seguenti punti: • l’illuminazione deve essere adeguata, non troppo debole, né troppo diretta e abbagliante; le superfici riflettenti, come finestre e specchi, vanno adeguatamente schermati; vanno eliminate le possibili cause di abbagliamento o pronunciati giochi d’ombre; gli interruttori della luce devono essere facilmente accessibili; • i mobili vanno disposti in modo tale da non ostruire il passaggio, usare sedie con braccioli e gambe robuste che aiutino ad alzarsi e sedersi; • eliminare tappeti e scendiletto, ancor più se logori o strappati, oppure assicurarsi che siano adeguatamente fissati al pavimento; ricordarsi che i pavimenti con superficie troppo liscia o sdrucciolevoli, ad esempio per uso di cera, possono rappresentare un grave rischio di cadute e fratture; • in cucina mettere in sicurezza coltelli appuntiti, forbici, oggetti di vetro; controllare periodicamente le scadenze dei cibi; porre gli oggetti più frequentemente usati ai livelli più bassi e posizionare le mensole ad una altezza accessibile; per ridurre il rischio di lasciare aperto il fornello del gas, scrivere sugli interruttori in maniera chiara le parole “APERTO” e “CHIUSO”, ancor meglio sostituire gli impianti a gas con quelli elettrici o ad induzione elettromagnetica;
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• in bagno applicare sul pavimento strisce anti-scivolo o tappetini di gomma; utilizzare ciabatte idonee e sedili nella doccia e nella vasca; preferire la doccia al bagno in vasca; utilizzare servizi igienici più alti ed applicare maniglioni di sostegno, così come rendere impossibile al paziente di chiudersi dall’interno; • le scale, la più importante fonte di pericolo per gli anziani ma soprattutto per quelli con demenza, dovrebbero avere scalini di altezza adeguata (max 30 cm), essere provviste di corrimano ed avere accesso controllato. Per i problemi visivi del paziente, quali agnosia (vedi Tabella 1), vulnerabilità ai fenomeni di abbagliamento, alterata percezione della profondità (per cui un disegno di colore diverso sul pavimento rispetto a quello dello sfondo è interpretato come un “vuoto” pericoloso), è necessario: • ricorrere a contrasti cromatici perché possa vedere gli oggetti che deve utilizzare o il pasto che deve mangiare (è inutile chiedergli perché non mangia se la pasta “in bianco” viene servita in un piatto bianco posto sopra una tovaglia anch’essa bianca); • differenziare il colore delle maniglie delle porte, delle finestre, dei mobili, ecc. dal colore di fondo; utilizzare posate e piatti che siano in risalto rispetto alla tovaglia; fare in modo che la tavola del WC sia di una colorazione forte, diversa dal resto, in modo da poter ben individuare la zona di seduta; • mantenere porte, maniglie, serrature dello stesso colore della parete per quei vani nei quali il malato non deve entrare; “mascherare” ad esempio con grandi poster le porte di ingresso per ridurre al minimo i tentativi di fuga; • garantire la possibilità di mantenere, mediante interruttori che consentono la regolazione dell’intensità luminosa, lo stesso grado di visibilità all’interno dell’abitazione al variare del giorno e delle situazioni di luce; • differenziare cromaticamente, se vi sono scale, l’alzata dalla pedata o almeno sottolineare con diverso colore il margine di ogni gradino; prevedere un’illuminazione diffusa in modo da impedire che la propria ombra si proietti sui gradini.
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L’igiene personale “Ricordiamo alla nonna che bisogna lavarsi e così è sempre pulita. Alle volte l’aiutiamo. Controlliamo la temperatura dell’acqua per evitare che si bruci o le mettiamo il dentifricio sullo spazzolino, altrimenti si sbaglia e prende lo shampoo”. In Cara nonna di Sandrine Lavallè e Anja Thielen
Garantire un’adeguata igiene personale al paziente non solo fa bene alla salute (il termine deriva da Igea, dea greca della salute) in quanto evita infezioni, irritazioni o macerazioni della pelle, ulcerazioni, ma rappresenta anche uno dei principali modi di aiutarlo a conservare la dignità di persona. Se nelle prime fasi della malattia il malato di Alzheimer è ancora in grado di badare a se stesso se adeguatamente stimolato e controllato, nelle fasi più avanzate necessita di sempre maggiore aiuto nel lavarsi, fino a diventare totalmente dipendente da chi lo assiste. Poiché quella del lavarsi è un’attività che riguarda l’aspetto più intimo della persona, guai a non tener conto del suo senso del pudore e delle sue abitudini. Da qui l’opportunità di tener conto dei sotto elencati suggerimenti: • pianificare il luogo e l’orario nel momento della giornata in cui il malato è più tranquillo; • prepararlo spiegandogli cosa e perché di quello che si sta facendo; • invitarlo a collaborare con sollecitazioni o comandi semplici, uno alla volta; per il bagno in vasca, utilizzare poca acqua; • per la doccia (generalmente preferibile), tenerlo seduto su uno sgabello; • utilizzare tappeti antisdrucciolo e maniglie di sostegno; • non lasciarlo mai solo;
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utilizzare saponi poco schiumogeni e non irritanti per gli occhi; controllare sempre la temperatura dell’acqua; invitarlo a lavarsi da solo le zone genitali; avere attenzione per le zone “difficili” del corpo, come la regione sottomammaria, le pieghe dell’inguine, la regione anale; asciugare accuratamente senza strofinare; attenzione al phon!; garantire un’adeguata igiene della bocca, compresa l’eventuale protesi; curare piedi ed unghie; utilizzare la musica o il canto nei pazienti con disturbi del comportamento; trovare la motivazione giusta in presenza di rifiuto (“ti sei macchiato”, “vengono a farci visita…”, “andiamo fuori a passeggiare e mangiare un gelato appena pronti”, ecc.), anche ritardando o rinviando al giorno successivo l’intervento; essere amabili e rispettosi, avere pazienza e calma, altrimenti è meglio farsi sostituire.
L’utilizzo della toilette “In effetti le persone con l’Alzheimer pensano, forse non le stesse cose delle persone normali, ma pensano. Si domandano come le cose succedano, perché succedano in un dato modo. Ed è un mistero”. In Visione parziale di Cary Smith Henderson e Nancy Andrews
Con il progredire della malattia il paziente con Alzheimer va incontro ad incontinenza, dapprima urinaria, poi anche fecale, ossia diventa incapace di controllare urine e feci. L’incontinenza è uno degli eventi tra i più problematici sia per il malato che per chi lo
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assiste; occorre perciò sempre informare il medico al suo primo manifestarsi, perché a volte può essere dovuta a problemi medici curabili e guaribili, come un’infezione delle vie urinarie o la diarrea. Al suo primo apparire, è bene comportarsi come segue: • è sbagliato imporre la propria presenza nella toilette, perché questo crea imbarazzo; è meglio cercare che faccia da solo, garantendo che abbia a disposizione tutto ciò che gli serve; non affrettiamo insomma i tempi, perché il momento in cui andrà totalmente assistito prima o poi arriverà inesorabilmente; • verificare che la porta del bagno abbia apertura verso l’esterno per rendere possibile l’immediato soccorso ove necessario; • verificare che la distanza tra camera e bagno sia facilmente percorribile e ricorrere eventualmente all’uso di raccoglitori di urine portatili; • preoccuparsi che il WC sia fornito di maniglioni d’appoggio e che sia collocato ad un’altezza dal pavimento tale da renderne facile l’utilizzo e sia dotato di una tavola di colore tale da richiamare l’attenzione sul dove e come sedersi; • sollecitarlo a recarsi alla toilette ad intervalli di tempo regolari, per esempio non appena si sveglia al mattino, ogni 3 ore durante il giorno, prima di coricarsi la sera ed una volta durante la notte.
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Il vestirsi “...la nonna ha dimenticato come fare per vestirsi correttamente. Prima, quando si vestiva ancora da sola, era divertente: alle volte si metteva tre pullover uno su l’altro, senza gonna né pantalone; oppure si metteva la gonna sopra un pantalone. E poi, anche se fuori c’era un caldo da soffocare, si metteva sempre i suoi grossi maglioni di lana. Così, da allora, aiutiamo la nonna a vestirsi, le prepariamo gli abiti e le ricordiamo come indossarli. Così la nonna è sempre bella”. In Cara nonna di Sandrine Lavallè e Anja Thielen
Relativamente alla funzione del vestirsi, come d’altro canto nelle altre attività, bisognerebbe limitarsi, finché possibile, ad una semplice supervisione, semplificando le scelte disponibili e facendo in modo, ad esempio, che l’armadio contenga soltanto un ristretto numero di indumenti stagionali e restare nelle vicinanze mentre il malato si veste, rammentandogli passo passo, se necessario, la sequenza con cui indossare di vari capi. Metterlo in condizione di vestirsi con il minor aiuto possibile è infatti importante sia per mantenere alto il suo livello di autostima, sia per stimolarlo a compiere autonomamente questa funzione. Se indossa un indumento in modo sbagliato, intervenire con molto tatto, aiutandolo a ripetere l’operazione in modo corretto. È bene scegliere chiusure con velcro, pantaloni con elastico, reggiseni che si allacciano davanti, evitare abiti con chiusure complicate, meglio lunghe cerniere lampo; così come riporre gli abiti nello stesso ordine in cui vanno indossati. In camera lasciare in vista solo i vestiti del giorno e la sera, quando dorme, rimuovere subito gli indumenti sporchi e metterli in posti non accessibili al malato.
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Fargli indossare scarpe con suole antiscivolo, evitare che resti tutto il giorno in pantofole, perché non sostengono bene il piede e lo fanno deambulare con meno sicurezza.
L’alimentazione “Vorrei parlare con altre persone colpite da Alzheimer per sapere fino a che punto sono impacciati, fino a che punto dimenticano rapidamente le cose, fino a che punto sanno rendersi utili. Io cerco il più spesso possibile di apparecchiare la tavola e di sbrigare alcune faccende domestiche. Mia moglie me lo lascia fare, grazie a Dio”. In Visione parziale di Cary Smith Henderson e Nancy Andrews
I soggetti con demenza spesso presentano un rapporto alterato con il cibo, che può presentarsi come ricerca continua di cose da mangiare (iperfagia) così come scarso appetito (inappetenza) fino al suo totale rifiuto (anoressia). Nel caso dell’iperfagia può essere utile far sparire dalla portata del soggetto cibi altamente calorici come i dolci, merendine, patatine, che possono portare ad obesità e indurre diabete e offrire invece frutta di stagione ed ortaggi. L’inappetenza può invece essere il risultato di situazioni contingenti, come ad esempio una masticazione inadeguata, (per rifiuto od inadeguatezza della protesi), la solitudine, una grave riduzione della capacità visiva (il paziente potrebbe non vedere quello che c’è sul piatto e per tale motivo non finire tutto) oltre che per la malattia di per se stessa. Per tutti valgono le seguenti indicazioni: • assicurare che il pasto avvenga in un ambiente silenzioso e tranquillo, evitando rumori e distrazioni; • se non ha altre malattie che richiedono diete specifiche, come ad
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esempio il diabete, l’alimentazione è assolutamente libera e deve essere, oltre che fonte di equilibrato nutrimento, anche momento piacevole della giornata; variare quotidianamente il menù ed accontentare le richieste se accettabili; preparare pasti semplici, che il malato possa mangiare con facilità, come bocconcini di carne o pesce senza intingoli, pasta corta con sughi densi, dolci da mangiare anche con le mani, tutto ciò per fare in modo che il malato sia per quanto più possibile a lungo indipendente nello stare a tavola; utilizzare bicchieri e tazze di facile e sicura presa; stoviglie infrangibili e colorate, tovaglioli e tovaglie molto assorbenti o di plastica; servire un cibo per volta, assicurandosi che non sia troppo caldo o freddo; farlo visitare regolarmente dal dentista per cercare di garantire la migliore masticazione possibile; se compaiono disturbi della deglutizione o se il paziente rifiuta di mangiare, consultare subito il medico.
Il problema del sonno “Il nonno ci ha spiegato che spesso la nonna, da quando ha la malattia di Alzheimer, di notte non dorme, si sveglia più volte e cammina per la casa. Allora, neppure lui può dormire. Sta appresso alla nonna. Ha paura che le capiti qualcosa. Forse è proprio sorvegliando la nonna che il nonno stanotte è caduto dalle scale”. In Cara nonna di Sandrine Lavallè e Anja Thielen
Per cercare di prevenire e trattare al meglio i disturbi del sonno, così frequenti specie nelle fasi più avanzate, è utile cercare di: • evitare i “pisolini” durante il giorno;
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• incrementare l’attività fisica, ad esempio con brevi passeggiare ripetute nell’arco della giornata; • ridurre l’uso di bevande la sera; • evitare situazioni stressanti nelle ore serali, favorire attività rilassanti come la musica o il massaggio delle mani; • assicurare un ambiente confortevole per quanto riguarda caldo/freddo, luce/buio, silenzio/rumore; • non somministrare farmaci senza consultare prima il medico. Ci sono poi situazioni particolari di cui tener conto come la cosiddetta “Sindrome del tramonto” ed il “Girovagare notturno”. “Sindrome del tramonto”: esprime la condizione che vede il malato diventare più irrequieto, ansioso, confuso, dicendo che deve tornare a casa sua, quando al tramonto compare la prima oscurità. Si suppone che questo accada in quanto verso sera la persona è più stanca e fragile e la diminuzione della luce aumenta le difficoltà visive e/o percettive e favorisce errate interpretazioni degli stimoli ambientali. È consigliabile quindi , durante le ore serali, non impegnarlo in attività stimolanti o stancanti, ma eventualmente mettere musica in sottofondo o fargli un pediluvio. Così come utile può essere evitare la presenza di più stimoli nell’ambiente (televisore acceso, bambini che giocano, più persone che parlano), ed aumentare l’illuminazione, stando attenti a che non si creino zone d’ombra, fenomeni di abbagliamento o rifrangenza. “Girovagare notturno”: è una delle situazioni più disturbanti e problematiche in quanto impedisce all’intera famiglia di godere del giusto riposo notturno. Diventa allora importante cercare di rendere tale girovagare privo di pericoli, adottando precauzioni quali chiudere la porta della cucina, quella che conduce fuori dall’abitazione, tenere luci accese nelle stanze, rimuovendo tutti i possibili ostacoli. Per cercare di correggere l’insonnia, limitare o abolire i sonnellini diurni mantenendolo quanto più possibile in attività, ma cercando prima di tutto di capire se esistano cause speci-
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fiche eliminabili o comunque correggibili (sedativi assunti a dosaggi inadeguati, letto scomodo oppure una sopravvenuta incapacità a distinguere tra giorno e notte), Utile può essere in certi casi far bere un po’ di latte caldo, far mangiare qualche biscotto; così come cambiare le dosi e l’orario di somministrare dei farmaci ipnotici concordandolo con il medico. E se proprio non vuole tornare a letto, lasciarlo dormire dove vuole, purché non in condizioni di rischio (divano, poltrona, sedia, per terra, ecc.).
La sessualità “Anche quello, anche fare l’amore diventa altro da me....sono disponibile perché penso che forse per lui è un tentativo, il tentativo più vero e più semplice per restare in contatto con la vita, perché forse è lo sforzo per non sentirsi solo...”. In Smarrirsi: la mente nel labirinto di Maria Sandias
Si tratta di un altro grande problema di cui solitamente si tende a non parlare. È invece importante sapere che le relazioni affettivosessuali in alcune coppie in cui uno dei partner è malato possono continuare anche a lungo in modo tranquillo e soddisfacente, eventualmente anche con modalità nuove per la coppia, Se invece sorgono problemi non bisogna esitare a chiedere aiuto, prima di tutto al medico curante ed eventualmente, dietro suo consiglio, allo specialista che lo ha in cura per l’Alzheimer. Talvolta il malato può anche tenere in pubblico un comportamento inappropriato e imbarazzante (spogliarsi, toccarsi, tentare approcci, ecc.); in questi casi occorre sempre ricordare che questi comportamenti sono una conseguenza della malattia, quindi non bisogna reagire esageratamente, ma provare a distrarre il malato scoraggiandolo con dolcezza e cercando di coinvolgerlo in altre attività.
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La guida di autoveicoli “Alla fermata dell’autobus aspettiamo qualche minuto. Poi lui dice: “È tutta colpa delle mie sorelle che non mi lasciano prendere la macchina perché si preoccupano... Mi sono detta: dove vado con un problema così? Questo suo muoversi nel vuoto dove il prima e il dopo sono così confusi, sempre mi sgomenta... meglio muoversi nelle vicinanze conosciute”. In Smarrirsi: la mente nel labirinto di Maria Sandias
Si tratta di un problema a volte tutt’altro che facile da risolvere, quando ci si trovi nelle fasi iniziali di malattia. I provvedimenti da prendere sono i seguenti: • si deve cercare prima di tutto di convincerlo che si tratta di un provvedimento transitorio, facendogli accettare l’idea di farsi accompagnare da un congiunto o di utilizzare il trasoporto pubblico; • se necessario chiedere l’intervento del medico che rappresenta pur sempre un’autorità per il malato, sempre che sia ancora in grado ricordare quanto gli viene detto; • se ancora non si riesce nell’intento, può essere risolutivo mettere fuori uso il veicolo e cercare di farlo sparire dalla sua vista con la scusa che è stato necessario portarlo in officina per la riparazione; • può rivelarsi alfine indispensabile richiedere la revoca della patente di guida, ai sensi dell’art. 130 del Nuovo Codice della strada. Tale richiesta, da presentare alla Motorizzazione Civile, può essere avanzata da un parente (entro il quarto grado), un affine (entro il secondo grado), il tutore o il curatore, il Pubblico Ministero o un procuratore speciale.
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Capitolo Quinto
L’
impatto sulla famiglia
Capitolo Quinto “Rischio, passi cauti, a volte follemente incauti sul ciglio dell’abisso. E camminare sempre. Con lo sguardo rivolto in alto avanti. Mai guardare l’abisso che, incolore, si fa massa e potere di attrazione indicibile. L’attrazione del nulla in cui sei tentato di lasciarti andare. Non guardare, non guardare. Avanti, un passo dietro l’altro su quell’orlo esiguo dove ti pare di poter posare il piede con sicurezza. Un passo dietro l’altro. Per oggi è andata. Domani ricomincerà l’esercizio”. In Smarrirsi: la mente nel labirinto di Maria Sandias
Conoscere la sofferenza di chi assiste La famiglia costituisce a tutt’oggi, e resterà ancora a lungo, il più diffuso ed efficiente strumento di assistenza domiciliare per le persone affette da demenza. Infatti essa si fa carico di tale servizio in oltre l’80% dei casi, in tale compito essendo impegnata per molti anni, continuativamente, spesso anche quando, per disperazione, è costretta a chiederne l’ospitalità in struttura residenziale, e comunque fino alla morte del proprio congiunto. Un recente studio condotto nel nostro Paese dal Censis ha fatto emergere una realtà veramente drammatica: in genere è una donna, il più spesso una figlia, a prestare assistenza a malato sette giorni su sette; spesso per oltre 5 anni; l’87,3% afferma di sentirsi spossato, il 53,6% indica di non dormire a sufficienza, il 43,1% di soffrire di depressione, il 31,9% segnala di aver subito modificazioni rilevanti del proprio peso, il 20% di essere stato costretto a ricorrere all’uso di farmaci per meglio sopportare il proprio stato di sofferenza psicologica. Tra i farmaci più assunti il 30% è rappresentato dagli antidepressivi; il 29% dagli ansiolitici. Si comprende quindi il perché dell’affermazione “l’Alzheimer fa due malati”: chi ne è affetto e chi lo assiste”; così come del perché si
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parli di Alzheimer come malattia “familiare”, per quanto globale è il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare. Dallo stesso studio Censis, emerge comunque il convincimento che sia la casa il luogo più idoneo per l’assistenza, e come radicato sia il rifiuto del ricovero definitivo come la risposta più adeguata. D’altra parte è facilmente comprensibile quanto sia stressante prendersi cura della persona con demenza, tanto più se si tratta di un familiare: ci sono nuovi compiti da imparare, così come di accettare, sia sul piano emotivo che su quello pratico, un nuovo modo di vivere, per la necessità di supportare un bisogno sempre maggiore di aiuto, subendo al contempo la dolorosa perdita di un’importante relazione personale. Molti sono infatti gli aspetti da considerare da quelli pratici (come per es. applicare sistemi di sicurezza, semplificare l’ambiente, farsi carico di compiti prima svolti dal malato, controllare la scadenza delle bollette, ecc.) ed organizzativi (come ad es. tempi da dedicare alla sorveglianza, tempi da dividere fra il malato e gli altri componenti della famiglia, ecc.), a quelli esistenziali (per es. quanto tempo resta per me che mi prendo cura del malato?), psicologici (come l’ansia di non capire che cosa il malato vuole comunicare, le resistenze ad accettare questa malattia, ecc.) ed economici, dato l’alto costo assistenziale che grava per ben oltre il 70% sulla famiglia. Un altro aspetto da considerare è anche quello che vede ogni familiare alle prese con la sofferenza di vedere il proprio caro perdere progressivamente tutte le sue capacità, la sua identità, le modalità di rapportarsi con lui e con gli altri, riducendosi a poco a poco gli spazi di comunicazione, di contatto e scambio che erano abituali. Inoltre, quando la persona che si ammala è un genitore o un coniuge, i rapporti fra i vari componenti della famiglia si invertono: da persona che curava, aiutava, proteggeva, rassicurava, sosteneva, ora è persona che ha bisogno di essere curata, aiutata, guidata, protetta, rassicurata, sostenuta.
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Come gestire i disturbi del suo comportamento “Camminavi di continuo, con ritmo frenetico, su e giù per la casa, avanti e indietro dal giardino, senza tregua, anche di notte (cosa che non avevi mai fatto), salendo e scendendo le scale, aprendo e chiudendo i cassetti; a volte avevo l’impressione di avere in casa un topo ballerino, quei topi che, per un’anomalia genetica corrono sempre intorno, tic tic tic, tic tic tic”. In Ascolta la mia voce di Susanna Tamaro
L’Associazione Internazionale di Psicogeriatria ha pubblicato un documento sui disturbi del comportamento presenti nella malattia di Alzheimer, sicuramente quelli più difficili e problematici da trattare, comunemente indicati con la sigla BPSD (Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia) I contenuti di quel documento vengono qui integralmente riportati, data la loro grande utilità ai fini di saper gestire meglio questi malati Che cosa sono i BPSD? Si tratta di disturbi psicologici e del comportamento che compaiono nella maggior parte dei pazienti durante il corso della malattia di Alzheimer, così come di altre forme di demenza. I disturbi più comuni sono agitazione, apatia marcata, modificazioni dell’appetito, alterazioni del pensiero ed ansietà. Essi possono includere aggressività, azioni ripetitive ed afinalistiche, tendenza alla fuga, girovagare senza meta, depressione, sospettosità ed accuse (deliri), allucinazioni visive ed uditive (vedere o sentire cose che non ci sono) e mancanza del sonno notturno (vedi Tabella 2, pagg. 26-27). Quali le cause? Sono molteplici. Studi recenti suggeriscono che molti disturbi del comportamento sono strettamente correlati con le stesse basi biologi-
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che della malattia alle quali vanno aggiunti fattori genetici, stress, eccessiva stimolazione, variazioni nell’ambiente e malattie e disturbi intercorrenti (vedi Percorso diagnostico-terapeutico dei disturbi psicocomportamentali nel paziente con malattia di Alzheimer, pag. 40). Quanto durano? I BPSD solitamente durano circa un anno ma, a volte possono durare anche due o più. Sapere che arriverà il giorno in cui essi cominceranno a diminuire ti aiuterà ad assistere il malato. La maggior parte degli studi dimostrano che i BPSD spesso iniziano cinque o sei anni prima che la demenza si renda evidente e che possono dipendere dallo stadio e dalla severità della demenza. Sappi che la depressione è spesso il primo dei sintomi. Gestire i BPSD Il punto di attacco al problema è di verificare che i disturbi lamentati non siano da attribuire a fattori estranei alla malattia, procedendo secondo il percorso diagnostico terapeutico indicato in Figura 2 (pag. 38). Le persone con demenza non sempre possono tenere sotto controllo i loro comportamenti, per questo i loro pensieri e le loro sensazioni non sempre riflettono quello che dicono e quello che fanno. Con la comprensione e la conoscenza puoi diventare capace di rispondere in modo appropriato. Un valido aiuto ti può venire dall’imparare a guardare dietro al disturbo del comportamento, cioè dal provare a capire ciò che causa il comportamento e non le azioni di per se stesse. Per esempio, le persone con demenza che chiedono sempre di tornare a casa propria, possono in realtà voler dire che non si sentono sicure dove stanno, ma non sono in grado di capirlo e, quindi, non potrà farli sentire meglio la risposta “Ma caro, tu sei a casa tua”. Anzi, questa frase probabilmente le farà sentire ancor più frustrate ed irritate. Un approccio sicuramente più utile può essere dimostrare affetto, abbracciarle, rassicurarle con amore e comprensione.
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Molte volte le persone con demenza non sanno dove si trovano, non capiscono cosa succede e non possono dire quello che vogliono. È allora molto importante che cerchi di capire quello che la persona con demenza prova e che lo tratti in modo gentile, per ridurre che il rischio che si inneschi una tensione o una reazione di paura. Ugualmente importante è garantirgli un ambiente confortevole dal momento che i problemi del comportamento si verificano più frequentemente quando il malato è costretto in una stanza chiusa a chiave, senza la possibilità di girovagare; sottoposto a mezzi di contenzione; si trovi a dover vivere in un ambiente caotico o molto rumoroso, subisca un cambio di assistenza o si trovi a vivere in un ambiente a lui sconosciuto. Da qui l’utilità per te di tenere un diario sul quale annotare i possibili fattori scatenanti in modo da evitare il loro ripetersi. I farmaci possono aiutare I farmaci antidepressivi, antipsicotici ed antiepilettici possono ridurre i BPSD. Siccome però essi sono gravati da effetti collaterali anche importanti, è il medico l’unico legittimato a prescriverli. Sappi inoltre che dal momento che i BPSD non sono “per sempre”, il trattamento prescritto dovrebbe essere periodicamente controllato. Cosa posso fare io? Pensa a come puoi affrontare il comportamento della persona e quale potrebbe essere la “vera” ragione che sta dietro al disturbo, non ti fermare semplicemente a come si presenta il disturbo del comportamento, a quello che il malato fa. Se una donna con demenza si agita quando fa il bagno può essere d’aiuto avere un’assistente donna e non un uomo. Poiché i soggetti con demenza non sempre possono ricordare le cose, può aiutare il dare sempre un’istruzione per volta. Una routine regolare nell’utilizzare il water può prevenire l’agitazione in chi non è capace di dirti quando ne ha bisogno. Trattare le persone con demenza come se fossero bambini può farle sentire cattive e possono infuriarsi. Parlare in modo caldo, gentile, da adulto ad adulto, è la cosa migliore. Il “come” tu dici qualcosa può
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essere ancor più importante della “cosa” che dici. È più facile per chi assiste diventare frustrato e perdere la pazienza quando deve occuparsi di questi problemi comportamentali. L’impazienza spesso fa peggiorare il comportamento. Restare calmi e pazienti sarà meglio per tutti. Puoi acquisire le capacità che ti sono necessarie, che ti possono aiutare quando affronti i BPSD. Per esempio, coloro che assistono i malati possono compensare il comportamento sbagliato dando a qualcuno con demenza più attenzione quando sta urlando, e non facendo attenzione a lui quando sta pacifico e tranquillo. Le Associazioni Alzheimer locali mettono insieme persone con demenza, i loro familiari, gli assistenti socio-sanitari, i ricercatori fornendo supporto pratico e consigli, sostegno legale e corsi di formazione sulla gestione dei malati con demenza. Molte Associazioni Alzheimer organizzano corsi di formazione per aiutare chi assiste ad imparare tecniche di risoluzione dei problemi. E tu che assisti il malato che cosa puoi fare per te stesso? Prenditi cura di te stesso. Cerca di capire che la rabbia, la paura, la frustrazione, la tristezza che provi sono reazioni normali. I BPSD sono la più importante causa di stress in chi assiste, ancor più della perdita di memoria e della capacità funzionale. Se i disturbi impegnativi possono essere fermati o perlomeno ridotti, anche il tuo stress dovrebbe ridursi. È importante che tu rimanga in salute; questo ti aiuterà a prenderti cura di chi ami in modo migliore. Se chi assiste è sano, felice e rilassato maggiore è l’effetto positivo su chi viene assistito e di soddisfazione e gratificante può essere il suo compito. Non dimenticare che anche tu hai bisogno di aiuto. Se ti senti stressato e frustrato, puoi aggravare la situazione anche senza volerlo. Ridurre il tuo livello di stress può aiutarti a rompere un circolo vizioso. Chi presta assistenza può realizzare questo con l’aiuto di consigli, gruppi di supporto, attività di gruppo, training di rilassa-
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mento, gestione dello stress e terapia psicologica. Prendi un po’ di tempo per te stesso usando l’assistenza di sollievo se disponibile. Se sei sano e meno stressato, sarai capace di gestire meglio i disturbi del comportamento. In conclusione, prendersi cura di un malato di demenza può essere molto logorante ed i sintomi comportamentali e psicologici possono rendere l’assistenza più difficile. Ci sono cose che possono aiutare a ridurre lo stress di chi assiste e migliorare l’assistenza alle persone con demenza e tu puoi farle. Il primo passo è sviluppare una migliore comprensione dei BPSD e di come essi incidono su te che assisti e sulla persona con demenza. Perciò, cerca aiuto! Questo aiuto ti può venire dalla corretta diagnosi, dal miglior farmaco ed anche dal supporto per te stesso. Impara di più sui disturbi del comportamento e così potrai anche imparare ad assistere meglio individuando di volta in volta le metodologie più efficaci così potrai migliorare la qualità della tua vita e, contemporaneamente, quella del malato. I 16 suggerimenti che seguono ti possono aiutare a ridurre i BPSD: • Abbi un atteggiamento gentile, premuroso, “caldo” nei riguardi del malato. • Sii consapevole del fatto che è la malattia a causare i disturbi del comportamento e non il malato; i comportamenti alterati non sono intenzionali o personali, sono il risultato della malattia. • Sii paziente; non mettere fretta al malato. • Sii flessibile, le cose non sempre devono per forza essere in un determinato modo. • Accetta il fatto che ci saranno cambiamenti.
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• Cerca di avere aspettative realistiche su quello che il malato può fare. • Sii paziente con alcuni “problemi” comportamentali, per esempio, le domande ripetitive. • Mantieni il malato impegnato nelle attività di ogni giorno. • Incoraggialo a sentirsi importante ed utile. • Forniscigli possibilità di scelta, per esempio: “Preferisci un toast o delle uova per colazione?”, è meglio di “Cosa vorresti per colazione?”, o di “È ora di colazione adesso”. • Enfatizza gli aspetti positivi. • Abbi cura anche dei tuoi bisogni; riconosci i tuoi limiti, chiedendo aiuto, prendendoti un po’ di riposo e facendo una sosta quando necessario. • Accetta l’aiuto di familiari e amici: ti possono aiutare nei compiti quotidiani ed anche con il solo ascolto. • Manifesta i tuoi sentimenti e le tue sensazioni a qualcuno di cui hai fiducia. • Sii creativo, cerca differenti soluzioni ai problemi che ti trovi a gestire. • Trai soddisfazione dal riconoscere che l’attività di assistenza che stai facendo è davvero importante”.
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Capitolo Sesto
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spetti etici
Capitolo Sesto “Un padre mise un mucchietto di fagioli sul tavolo. Ne tolse alcuni dal mucchio e spiegò così al figlioletto la malattia del nonno: il nonno ha una malattia che lo fa essere così. Non è contagiosa, nessuno di noi diventerà come il nonno. È come avere un braccio rotto: ci sono delle piccole parti del cervello del nonno che sono rotte. E non guarirà più. Questa piccola parte del cervello del nonno è rotta, e così non si ricorda cosa gli hai appena detto, quest’altra piccola parte è rotta, e così si dimentica come si usano le posate a tavola; questa piccola parte è rotta, e allora si arrabbia facilmente. Ma la parte che serve a voler bene, il nonno ce l’ha ancora”. In Demenza e malattia di Alzheimer, di N.L. Mace e P.V. Rabins
La diagnosi di malattia di Alzheimer (come anche delle altre forme di demenza) si accompagna a numerosi e difficili problemi di tipo etico che coinvolgono il paziente, i familiari, i medici e le persone addette all’assistenza. Per molti dei problemi è difficile dare risposte definitive, perché fattori legati ai valori, alla cultura, alla religione possono influenzare le scelte degli individui. Il rispetto della libertà e dell’autonomia della persona, la condivisione ed il dialogo tra paziente, familiari e operatori dovrebbe sempre essere alla base di qualsiasi decisione da prendere.
La comunicazione della diagnosi Uno dei problemi più delicati è certamente quello della comunicazione della diagnosi, su cui così si esprime un gruppo di esperti di discipline diverse, di cui facevano parte anche la Federazione Alzheimer Italia e la Associazione Italiana Malati di Alzheimer, in un “Documento di consenso sulla Malattia di Alzheimer” promosso dalla Società Italiana di Neuroscienze: “Il paziente ha il diritto
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morale e legale di conoscere la sua diagnosi e la comunicazione ai famigliari dovrà essere preventivamente autorizzata da egli stesso. Tale diritto non può essere negato, nei limiti della praticabilità correlata con lo stadio di malattia del paziente, così come la richiesta di preventiva autorizzazione del paziente alla comunicazione della diagnosi ai famigliari. Pur essendo una iniziativa non facile, il medico farà ogni sforzo, sempre nel rispetto della volontà del paziente, per comunicargli la diagnosi di malattia di Alzheimer. Lo informerà inoltre che la malattia – attualmente non guaribile – è suscettibile di cure e trattamenti che faranno sì che molti sintomi possano essere controllati e che molti problemi possano essere rimossi o attenuati. Nel comunicare al paziente che la malattia di Alzheimer è inguaribile, non dovrà mai essere omessa l’informazione che la condizione non è incurabile e che alcuni suoi sintomi sono controllabili. La comunicazione della diagnosi permetterà inoltre di richiedere al paziente il consenso informato alla sua partecipazione in iniziative di ricerca sulla malattia di Alzheimer”. Del tutto recentemente l’Associazione Alzheimer Europe, che raggruppa 31 Associazioni nazionali, ha preso posizione su questo tema complesso e controverso pubblicando la “Carta sulla comunicazione della diagnosi”, che qui di seguito viene riportata così come recentemente apparsa sul Notiziario della Federazione Alzheimer Italia n. 32 del I trimestre 2007: 1. Le persone affette da demenza hanno diritto ad essere informate sulla loro diagnosi. 2. L’informazione sulla diagnosi non deve essere rifiutata solo in base al fatto che la persona non è in grado di capirla. 3. Le persone affette da demenza hanno diritto ad essere informate anche sul loro stato di salute generale, prognosi, terapie disponibili ed eventuali effetti collaterali, terapie non farmacologiche, servizi e provvidenze economiche a cui possono accedere e a conoscere il nome del medico che li prenderà in carico. 4. Le persone affette da demenza hanno diritto a ricevere sempre una relazione scritta. 5. Le persone affette da demenza hanno diritto ad avere un eventuale
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secondo incontro con il medico per ricevere ulteriori informazioni o chiarimenti, se necessario. Le persone affette da demenza devono essere indirizzate all’associazione Alzheimer nazionale o locale e informate sui servizi offerti dall’associazione. Si deve studiare un metodo per tenere aggiornati i medici sulle associazioni Alzheimer, preferibilmente con la collaborazione di Istituzioni e associazioni dei medici. Si devono fornire le informazioni in modo che la persona affetta da demenza possa capire, facendo particolare attenzione alle sue difficoltà di comprensione e comunicazione nonché al suo livello di istruzione, capacità di ragionamento e background culturale. I medici devono essere aggiornati sulle nuove terapie e preparati a comunicare la diagnosi. Il familiare della persona affetta da demenza deve essere informato, se lo richiede, purché il malato sia d’accordo o non abbia richiesto, in precedenza, di non comunicare ad altri la diagnosi. Si deve rispettare il chiaro rifiuto della persona affetta da demenza di non comunicare ad altri la diagnosi, indipendentemente dal suo grado di incapacità, a meno che sia chiaro che ciò non sarebbe nel suo interesse. La comunicazione, nei due casi precedenti, deve essere fatta per permettere al familiare di prendersi cura del malato in maniera efficace. Le persone venute a conoscenza della diagnosi di una terza persona a causa della loro attività (sia volontaria sia pagata) devono trattare l’informazione con riservatezza. I medici non devono comunicare la diagnosi a familiari o amici della persona affetta da demenza solo per non avere la responsabilità della comunicazione alla persona affetta da demenza. I medici che non comunicano la diagnosi di demenza al paziente devono registrare questo fatto sulla cartella clinica insieme alla motivazione. Le persone affette da demenza hanno diritto a richiedere di non essere informate sulla loro diagnosi. Le persone affette da demenza hanno diritto a scegliere chi debba essere informato per loro conto. Le persone affette da demenza hanno diritto a richiedere un secondo parere medico. Tutti i diritti elencati qui sopra dovrebbero essere riconosciuti da una legge nazionale.
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Il rispetto delle scelte individuali La diagnosi di malattia di Alzheimer non significa di per sé che la persona sia immediatamente incapace di prendere decisioni e di fare scelte. Poiché la libertà di poter decidere degli aspetti della propria vita è uno degli elementi centrali che definisce la qualità di vita di ogni individuo, andrebbero rispettate le sue residue abilità di decisione. Anche se con la progressione della malattia le decisioni dovranno sempre più coinvolgere altre persone (familiari, sostituti legali), nelle fasi iniziali il paziente può possedere ancora una sufficiente capacità decisionale in alcuni campi (ad esempio, le decisioni terapeutiche o la partecipazione a sperimentazioni e ricerche). L’autonomia decisionale nel malato di Alzheimer va considerata perciò un concetto dinamico e valutata nelle varie fasi della malattia ed in relazione al tipo di decisione da assumere. È necessario sottolineare (vedi pag. 54 comunicazione) che il malato utilizza varie strategie per comunicare la propria preferenza: talora è il comportamento, l’espressione facciale, la reazione emotiva che fanno capire quale è la decisione preferita. Il malato va aiutato (ridurre il numero di opzioni, utilizzare concetti semplici) e guidato (quasi “per mano”) nel processo di scelta. Ci possono essere casi in cui i desideri del paziente e quelli dei familiari differiscono, ed anche questi ultimi talora sono in disaccordo fra di loro. Occorre quindi che tutte le persone coinvolte, ma soprattutto lo specialista ed il medico di famiglia si adoperino a che si arrivi ad una decisione condivisa, attraverso una serena ed approfondita discussione dei rischi e dei benefici per il paziente. Se questa non viene raggiunta, potrà essere necessario l’intervento di un terzo esterno, attraverso un processo di tutela. Tale percorso però può richiedere del tempo ed anche un impegno economico.
La ricerca scientifica nei pazienti con demenza La necessità di approfondire le conoscenze sulla demenza impone che la ricerca continui con sempre maggiore impegno. Si pone così il problema del consenso da parte del paziente che, per
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essere tale, deve necessariamente prevedere la sua piena consapevolezza di ciò che gli viene richiesto, di fatto impossibile se la malattia si trova in una fase avanzata. Da qui la possibilità di condurre ricerche solo quando il malato si trova nella fase lieve o moderata di malattia. Analoghe considerazioni valgono quando la ricerca si proponga di valutare l’efficacia di nuovi farmaci. Essendo oggi disponibili molecole attive anche se di efficacia limitata, esistono grossi dubbi di eticità sulla possibilità di confrontare il “nuovo farmaco” con un “non farmaco” (il cosiddetto placebo) ed in effetti i nuovi protocolli di studio prevedono il confronto del farmaco in sperimentazione con uno di quelli già in commercio.
Le decisioni di fine vita Numerosi ed angosciosi i dilemmi etici quando il paziente si trovi nelle fasi finali della malattia: è giusto curarlo con gli antibiotici se compare una polmonite (in molti Paesi la risposta è no)? È giusto sottoporlo a cure intensive? Quanto e come sostenerne le funzioni vitali come applicazione di sondino nasogastrico o di una sonda gastrica per via per cutanea (PEG), o inserirlo in un programma di ventilazione assistita? Come stabilire quando è arrivato il momento dell’ “ultima flebo”, quando cioè ogni atto medico diventa accanimento terapeutico, destinato unicamente a protrarre una inutile sofferenza? L’atteggiamento dovrebbe essere quello di privilegiare la qualità della vita del paziente, più che non ostinarsi a prolungarne l’esistenza a tutti i costi, facendo ricorso alle sole “cure palliative” (vedi box a fondo pagina) ed evitando interventi “straordinari”, cioè quegli interventi che sono sproporzionati tra le sofferenze anche psicologiche da essi causate e risultati attesi; tra disagi provocati ed esigenze di autonomia e dignità nei momenti terminali; tra costi economici e risultati raggiunti. Secondo la Legislazione italiana ed il Codice Deontologico dei medici, in assenza di una specifica volontà del paziente da lui stesso
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dichiarata, le scelte terapeutiche dipendono dalla responsabilità e dalla competenza del medico, indipendentemente dalle decisioni o dai suggerimenti dei familiari, che devono tuttavia essere il più possibile coinvolti ed informati. Altro è il caso dei pazienti di cui è stata sancita legalmente l’incompetenza, in quanto sono assistiti da un tutore o da un amministratore di sostegno che ha il potere di prendere decisioni. Solo negli ultimi anni in Italia si è cominciato a parlare del cosiddetto testamento biologico (living will), espressione utilizzata per indicare le volontà espresse da una persona in pieno possesso delle capacità mentali, in merito ai trattamenti terapeutici che desidererebbe o meno ricevere nel caso in cui, per una malattia o un trauma improvvisi, non fosse più in grado di manifestare la propria volontà. Ma la critica che più frequentemente viene rivolta al testamento biologico è che le decisioni del paziente non sono espresse nel momento in cui sono necessarie. Esistono diverse modalità di esprimere il testamento biologico, alcune delle quali hanno ottenuto un riconoscimento giuridico, specie nel mondo anglosassone. Attualmente è in corso un ampio dibattito su questo argomento anche in ambito politico e legislativo, ma a tutt’oggi ci sono solo disegni di legge in discussione. Con il termine “cure palliative” l’European Association for Palliative Care intende riferirsi alle cure attive e globali prestate al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie specifiche. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria. Lo scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma di preservare fino alla fine la migliore qualità della vita possibile.
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Capitolo Settimo
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spetti legali
Capitolo Settimo “Non è vero che questi malati non capiscono, fa comodo a noi pensarlo. Non sappiamo come e quando, certo loro capiscono e soffrono...vedono se stessi naufragare...è terribile. Ed è terribile stare loro vicino”. In Smarrirsi: la mente nel labirinto di Maria Sandias
Lo stato di incapacità del malato di Alzheimer Durante il corso della vita di una persona la legge presume che persista la piena e legale capacità di compiere contratti ed atti giuridici, di valutarne cioè la portata e le conseguenze economiche e personali. Ciò implica che non possono essere considerati validi e produttivi degli effetti giuridici previsti dalla legge, quei comportamenti realizzati quando il soggetto non è in grado di rendersi conto, anche per una causa transitoria (tipo l’ubriachezza), del valore etico-sociale ed economico dell’atto che pone in essere. Questa incapacità, di intendere e di volere, può divenire abituale e costante a causa di un’infermità o di una disabilità come è per i malati di Alzheimer. Il lento ma inesorabile declino delle facoltà mentali del soggetto progressivamente lo rende incapace di provvedere ai propri interessi economici, di compiere atti giuridici efficaci, sia complessi come la vendita di una casa, sia semplici come riscuotere la pensione, in quanto il malato dapprima non sa valutare la portata ed il significato della firma apposta e, nelle fasi più gravi, diventa del tutto incapace di firmare. In questo caso, essendo giuridicamente paragonato ad un minore di età degno di protezione, la legge gli consente di far tutelare da altri i propri interessi, così come un bambino è tutelato dai propri genitori. Importante è pertanto che la famiglia, tra tutte le emergenze che deve affrontare, non trascuri questo aspetto e si preoccupi di salvaguardare gli interessi patrimoniali, economici e giuridici del malato,
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adottando le opportune misure, magari facendo ricorso ad un consulente (avvocato, notaio). Attualmente i sistemi di tutela previsti dalla normativa italiana sono i seguenti: • Interdizione • Amministrazione di sostegno • Procura. Interdizione Nelle fasi iniziali della malattia, quando il malato conserva ancora molte delle sue facoltà cognitive, la legge può intervenire per tutelarlo ed evitare che altri compiano atti per lui dannosi, con un sistema che consente di far annullare un singolo atto giuridico, se realizzato in modo da pregiudicarne gli interessi. Nello stadio più avanzato della malattia si rende invece necessaria la tutela più sistematica e generalizzata data dal procedimento di interdizione, al termine del quale il giudice nomina un soggetto (tutore) che si sostituisce in tutto al malato e ne cura gli interessi come se fossero i propri. Tale procedimento è di grande rilevanza giuridica, in quanto la persona interdetta non potrà più compiere da solo alcun atto, anche banale, inerente alla propria sfera patrimoniale o personale (come sposarsi), né potrà votare. L’istanza per la interdizione può essere proposta dal coniuge, dai parenti entro il quarto grado o dagli affini entro il secondo grado; essa viene presentata tramite un avvocato al Tribunale del luogo di residenza del malato e così inizia un procedimento, piuttosto lungo, durante il quale il giudice adotta una serie di verifiche, tra cui l’esame della persona da interdire, necessario per dimostrare che la interdizione sia inevitabile. Se la persona da interdire è gravemente malata e non può recarsi in Tribunale, sarà il giudice a muoversi perché non si può prescindere dall’esame diretto delle condizioni del malato, non essendo considerate sufficienti le testimonianze o i certificati medici.
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Se il procedimento sarà accolto e quindi il malato dichiarato interdetto, si rende pubblica la sentenza con la annotazione sul Registro degli atti dello stato civile e su altri Registri di pubblica consultazione. L’atto successivo da compiere è quello della nomina del tutore, cioè di colui che, scelto dal giudice di solito tra i parenti più vicini, potrà operare in nome e per conto del malato. Il tutore compirà tutti gli atti fornendone al giudice un rendiconto annuale. Inoltre, per porre in essere gli atti più rilevanti, come la vendita di un immobile, si richiede una preventiva autorizzazione del giudice. Insieme al tutore viene nominato un protutore che si sostituirà al tutore nel caso in cui questi abbia un interesse personale in un certo rapporto giuridico o non possa più assolvere l’incarico. Nelle intenzioni del legislatore l’interdizione è concepita come “estrema ratio” perché: • impedisce all’interdetto di compiere qualsiasi atto di rilevanza giuridica, come sposarsi, riconoscere un figlio naturale, ottenere un lavoro, fare testamento o donazioni, stipulare qualsiasi contratto, anche banale; • è un procedimento costoso e può essere lungo; • comporta un eccesso di pubblicità della misura adottata. Si tratta dunque di una misura “totalizzante” che può risultare eccessiva e per questo, dopo un lungo e difficile iter parlamentare, nel 2004 è stata istituita la figura dell’amministratore di sostegno. L’amministrazione di sostegno La Legge 9 gennaio 2004 n. 6 ha istituito il cosiddetto amministratore di sostegno, figura, da tempo auspicata, destinata a tutelare coloro che hanno, anche temporaneamente, una ridotta autonomia e versino in condizione di impossibilità di provvedere ai propri interessi a causa di una menomazione fisica o psichica.
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In presenza di tali presupposti la legge ritiene utile supportare la limitatezza di capacità del malato con il sostegno di colui che il giudice ritiene idoneo a tale compito, cioè a sostituirsi in tutto o in parte al malato nella attuazione di alcuni atti aventi validità giuridica. La procedura che si deve seguire per la nomina dell’amministratore di sostegno è più semplice di quella prevista per l’interdizione: si presenta l’istanza al giudice tutelare del luogo di residenza del malato, ufficio cioè che ha più sedi sul territorio rispetto al tribunale ed è composto da un solo giudice e non da un collegio di tre magistrati; non necessita il patrocinio di un avvocato per la presentazione dell’istanza; richiede solo un minimo di attività istruttoria e la verifica da parte del giudice, anche con accertamenti medici, delle condizioni fisiche del malato. La pronuncia del giudice deve intervenire entro 60 giorni dalla presentazione dell’istanza ed in essa dovrà indicare tutte le modalità con cui l’amministratore deve agire, la cautele da seguire nel porre in essere atti in nome e per conto dell’incapace, la periodicità con cui deve rendere conto al giudice sull’attività svolta. Rispetto al soggetto che viene interdetto, colui che si avvale di un amministratore di sostegno ha: - una capacità esclusa o ridotta solo per gli atti che il giudice specifica; - un procedimento che non richiede la presenza di un legale, i cui tempi sono ridotti ed i costi praticamente inesistenti; - una pubblicità del provvedimento che è limitata agli atti per cui il giudice ritiene essenziale la presenza dall’amministratore. La tutela offerta con l’amministratore di sostegno, proprio perché parziale e non generalizzata, può risultare uno strumento efficace e facilmente adattabile a quelle realtà in cui il malato mantenga delle
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facoltà cognitive ancora vive. Quando si giunge alle fasi più avanzate della malattia, la tutela presentata con l’istituto di recente introduzione non risulta però più utile poiché il malato necessita di una sostituzione completa e totale nella sua sfera giuridica e personale. A quel punto l’interdizione, pur concepita come estrema ratio, costituirà una scelta inevitabile. La procura come sistema alternativo non giudiziale La procura è un altro meccanismo del nostro ordinamento in base al quale un soggetto può sostituirsi in attività giuridicamente rilevanti ad un altro che è il titolare delle azioni da compiere. Si tratta di un atto giuridico particolarmente significativo con cui un soggetto conferisce ad un altro tale potere con un atto pubblico compiuto davanti ad un notaio, quando ovviamente si rende conto del valore giuridico dell’atto che sta ponendo in essere. In pratica un malato di Alzheimer potrebbe porre in essere questo atto solo quando la sua malattia è in fase iniziale, quando cioè è ancora in grado di esprimere chiaramente la sua precisa volontà. La procura può essere di due tipi: speciale, se è relativa alla sostituzione del malato in un singolo affare, tipo una vendita; generale, se è relativa ad ogni tipo di attività futura che si potrà realizzare. Nei confronti di una malattia, quale l’Alzheimer, che per definizione è progressiva, è opportuno il rilascio di una procura generale.
Per realizzare questa operazione deve sussistere estrema fiducia da parte del malato nei confronti del procuratore ed una buona armonia familiare al fine di evitare contrasti futuri nella gestione del suo patrimonio, visto che il procuratore non è sottoposto ad alcun controllo in tale attività, a differenza di quanto accade per il tutore o l’amministratore di sostegno.
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È bene inoltre precisare che, mentre con l’interdizione il soggetto perde anche di fronte ai terzi la sua capacità e quindi se il malato dovesse da solo stipulare un atto, questo può considerarsi non produttivo di effetti, con la procura il malato resta di fronte alla legge e ai terzi giuridicamente capace e, pertanto, se dovesse compiere un atto giuridico da solo, questo conserva la sua validità, a meno che non si dimostri, con apposita causa, lo stato di incapacità al momento in cui ha contratto l’atto stesso.
La responsabilità a carico di chi esercita l’assistenza Coloro che assistono un malato incapace hanno una responsabilità di tipo civile, per cui nel caso in cui il malato stesso provochi un danno a terzi , possono essere chiamati al risarcimento per non aver usato la massima diligenza nell’ottemperare all’obbligo di vigilanza. Ben più delicato è il caso in cui colui che attua un’assistenza realizzi comportamenti che possono recare danni o lesioni al malato, anche inconsapevolmente, poiché, in tal caso, la responsabilità che consegue è di tipo penale, cioè comporta una denuncia che può implicare una condanna ad una sanzione pecuniaria e detentiva inflitta al termine di un processo. Possono verificarsi infatti eventi durante la cura di un malato che implicano la infrazione della legge penale e la commissione di reati, che possono essere così raggruppati: •
Il reato di abbandono del malato poiché si viola il dovere di assistenza o l’obbligo di custodia. Si realizza se la persona che si ha l’obbligo di curare viene lasciata in balia di se stessa o di terzi che non siano in grado di provvedere adeguatamente, da ciò derivando un pericolo per la sua vita o la sua incolumità.
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•
Il reato di eccesso nell’uso dei mezzi di correzione o disciplina (che vale anche per i mezzi di contenzione), se si fa un abuso di mezzi che sono considerati di per sé leciti. In pratica la legge penale risulta violata se si usa un mezzo di contenzione sapendo che si tratta di un abuso e che ne può derivare una malattia, una lesione, un danno in chi lo subisce (Figura 3).
•
Il reato di uso di violenza fisica o percosse tale da offendere la integrità fisica e personale della vittima. Un comportamento penalmente rilevante può risultare anche nel caso in cui si realizzi una coazione della volontà con l’uso di minaccia o violenze non fisiche ma di ordine morale, o con l’uso di sostanze che abbassano la razionalità e la volontà di chi subisce, tipo farmaci, droghe o alcol. Figura 3. La morte del paziente è avvenuta per intrappolamento del corpo tra materasso e spondine
(da un disegno originale di Nello Palloni)
Tutte queste ipotesi sommariamente descritte non esauriscono i casi che di fatto si potrebbero comunque verificare.
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Il già ricordato (vedi pag. 81) “Documento di consenso sulla Malattia di Alzheimer” così si esprime in merito all’uso dei mezzi di ontenzione nel paziente affetto da demenza: “Purtroppo nel corso della malattia si può rendere necessario l’uso di mezzi di contenzione meccanici o farmacologici. Il loro utilizzo può essere consentito solo a determinate condizioni, in particolare quando questi mezzi contribuiscono alla sicurezza del paziente e delle persone che hanno a che fare con lui e non sono una semplice convenienza per lo staff coinvolto nella sua assistenza. I mezzi di contenzione meccanica devono essere applicati in modo da limitare il minimo necessario la libertà del paziente. Analogamente i mezzi farmacologici devono essere usati con il più basso dosaggio possibile. Infine, l’uso di mezzi di contenzione deve essere rivalutato periodicamente in modo tale che il loro uso venga limitato al più breve tempo possibile”.
La normativa a tutela del malato Negli ultimi tempi sono intervenute delle leggi che hanno introdotto particolari benefici a favore delle persone malate o handicappate. •
Legge 11/2/1980 n. 18: essa riconosce a coloro che si trovino in situazione di invalidità, per minorazioni fisiche o psichiche tali di richiedere un’assistenza continua, un contributo economico di carattere forfettario per il rimborso delle spese conseguenti a tale stato. Tale contributo mensile, detto indennità di accompagnamento, è esente da imposte ed è indipendente dal reddito del beneficiario e della sua famiglia. Lo stato di invalidità, accertato da una particolare commissione medica istituita presso la ASL, è variamente graduato e attribuisce benefici diversi in relazione a tale percentuale: nei malati di Alzheimer la percentuale è solitamente quella massima, a cui
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consegue anche la corresponsione della indennità di accompagnamento. L’invalido che abbia ottenuto il riconoscimento di una percentuale pari come minimo al 67% ha comunque diritto ad una serie di prestazioni, come l’esenzione dai ticket sanitari, ausili relativi alla propria patologia, preferenza nell’assegnazione di case popolari. •
Legge 5/2/1992 n. 104: essa prevede una serie di misure ed agevolazioni per chi versi in una situazione di handicap ed a vantaggio di chi presta assistenza a tale malato. L’agevolazione più significativa è data dalla possibilità per l’handicappato lavoratore o il familiare che lo assiste in via continua ed esclusiva, di fruire di tre giorni di permesso retribuiti al mese dal lavoro. Per colui che presta l’assistenza sussiste poi il diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona disabile, compatibilmente con l’organizzazione del datore di lavoro e a non essere trasferito senza il proprio consenso. La stessa legge 104/92 prevede, inoltre, delle agevolazioni fiscali per spese mediche e di assistenza specifica necessaria, per gli oneri contributivi previdenziali ed assistenziali versati per il personale assunto per l’assistenza personale o familiare e per le spese sostenute per l’eliminazione di barriere architettoniche all’interno della abitazione o in spazi condominiali comuni. Sono inoltre riconosciute delle agevolazioni per l’acquisto di mezzi di trasporto destinati alle persone con indennità di accompagnamento ed alla conseguente esenzione dal pagamento del bollo auto. Le persone invalide con capacità di deambulare sensibilmente ridotta possono ottenere il “contrassegno invalidi” che permette il parcheggio negli spazi riservati, a prescindere dalla titolarità della patente o dalla proprietà dell’auto.
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Esenzione ticket sanitari: si ha diritto all’esenzione dal pagamento dei ticket non solo se già invalido civile in percentuale eguale o superiore al 67%, ma anche perché affetto, ai sensi del DM 28 maggio 1999, n. 329, da un malattia cronica ed
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invalidante. Tra le prestazioni esenti per le demenze e la malattia di Alzheimer sono previste la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica nucleare (RMN) per il solo caso di sospetto diagnostico specifico, clinicamente motivato, esplicitamente documentato e limitatamente ad una prestazione l’anno. Il diritto all’esenzione non è automatico ma è collegato al rilascio di un attestato da parte dell’ASL di residenza, che richiede una certificazione da parte di strutture specialistiche pubbliche o di Istituti di Ricerca a carattere pubblico. •
Assegno di cura: si tratta di un sostegno economico per i familiari o altri soggetti che con l’anziano intrattengono consolidati e verificabili rapporti di “cura”, anche se non legati da vincoli familiari, che assicura ad anziani non autosufficienti l’assistenza continuativa nell’ambito del piano individuale di assistenza predisposto dall’Unità di Valutazione Geriatrica. In Umbria viene periodicamente indetto un bando e solo in tal caso è possibile presentare al Centro di Salute la relativa domanda, corredata da tutti i documenti e le certificazioni richieste.
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Capitolo Ottavo
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a rete di servizi
Capitolo Ottavo “Non bisogna lasciarsi affondare. Né lasciarsi contaminare dalla sventura. Ciò di cui l’uomo ha bisogno in certi momenti di sconforto non è di un altro grido di dolore, ma di una voce più forte della sua che gli restituisca il coraggio”. In In nome dei miei di Martin Gray
Come già ricordato, nel nostro Paese è sulla famiglia che di fatto viene a ricadere la quasi totalità dell’impegno assistenziale al malato di Alzheimer, con conseguenze spesso devastanti sull’equilibrio psicofisico dei suoi componenti. Da qui l’attivazione in alcune regioni italiane di un “Piano Alzheimer” che prevede presenza di servizi e strutture in grado di garantire un’assistenza continuativa, capace di dare risposte adeguate e tempestive alle molteplici, complesse e variabili esigenze dei malati ed aiuto alle loro famiglie. Nella sua realizzazione il “piano Alzheimer” ha previsto servizi, centri clinici, strutture residenziali le cui caratteristiche sono quelle di seguito brevemente riportate.
L’assistenza domiciliare È un servizio che garantisce al paziente che vive nel proprio domicilio interventi sia di tipo sociale (a carico del Comune) che sanitario (a carico dell’ASL). Essa è attivata, dietro presentazione di richiesta del medico di medicina generale, da un apposito nucleo di valutazione che individua gli interventi necessari e predispone per la loro realizzazione. Si parla di assistenza domiciliare integrata quando vengono a coesistere bisogni di tipo sanitario e sociale.
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Il centro diurno Si tratta di un servizio territoriale di tipo semiresidenziale che si propone di garantire supporto al malato attraverso l’offerta di prestazioni a valenza socializzante e riabilitativa. Quelli attivati in Umbria accolgono per 8-9 ore al giorno, per almeno 5 giorni a settimana pazienti con malattia di grado moderato-grave purché non affetti contemporaneamente da patologie organiche scompensate. Il personale è costituito da un medico (in genere un geriatra) e da assistenti sociali, caposala, operatori di base, animatori, musicoterapeuti e personale amministrativo. L’ammissione al servizio avviene dopo presentazione di una domanda su apposito modello da consegnare presso il Centro di Salute di riferimento e successiva verifica effettuata dall’Unità valutativa specifica.
Il centro clinico esperto Si identificano con le già ricordate Unità Valutative Alzheimer (UVA) , individuate dalla Regioni a seguito dell’attivazione del Progetto Cronos (vedi pag. 16). Situate in ambito ospedaliero o territoriale esse hanno il compito di fare diagnosi di malattia, valutare il paziente, elaborare e prescrivere il piano di trattamento, controllare l’efficacia e la tollerabilità dei farmaci prescritti, in questo ruolo essendo anche importante punto di riferimento per i medici di medicina generale, per gli specialisti, nonché per le famiglie.
L’ospedale Rappresenta la sede alla quale il malato deve ricorrere in presenza di eventi acuti (polmoniti, fratture, infezioni generalizzate, emergenze chirurgiche, scompenso cardiaco, ecc.). È invece opinione diffusa che non è l’ospedale il luogo di cura di questo paziente, ma il domicilio, le istituzioni residenziali, qualsiasi altro posto, ma non l’ospedale, non considerando invece che una quota non irrilevante di
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dementi, pari a circa il 16% nel nostro Paese, muore in ospedale e che, negli USA, circa il 25% di tutti gli anziani ospedalizzati soffre di una demenza di Alzheimer o di altre forme di demenza. Si tratta fra l’altro di cifre destinate a salire – lo afferma chiaramente il rapporto 2007 dell’Associazione Americana Malattia di Alzheimer –, in ragione del fatto che aumenteranno sempre più i pazienti con coesistenti malattie, per il trattamento delle quali l’ospedale resta e resterà sempre l’unico luogo di cura. Eppure non c’è nulla di più esemplificativo che avere davanti agli occhi l’immagine della nudità di una anziano demente, che lo vede costretto ad affidare a mani estranee le parti più intime del suo corpo, senza alcuna possibilità di difesa anche dagli sguardi, per rendersi conto di quanto l’ospedale di oggi sia lontano per strutturazione degli spazi, organizzazione del lavoro, metodologia assistenziale, formazione del personale, in ultima analisi per cultura e “mission”, dall’essere luogo di cura anche per la persona affetta da demenza. Per rendercene conto basta accostare a quell’immagine di nudità fragile ed indifesa, le abituali procedure gestionali ed assistenziali dei nostri ospedali, che vedono nella standardizzazione, scandita dalla rapidità delle risposte ai problemi clinici che lo hanno condizionato al ricovero, trascurando i bisogni più profondi della persona in un sistema che ha come obiettivo primario quello della razionalizzazione della spesa.
Day Hospital e Day Service Si tratta di servizi che consentono di realizzare interventi diagnostici e/o terapeutici di livello ospedaliero per caratteristiche e complessità, evitando da un lato l’ospedalizzazione e dall’altro il grave disagio per il paziente e i familiari qualora le stesse prestazioni dovessero essere effettuate in regime ambulatoriale o di degenza continuativa.
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Il nucleo Alzheimer Si tratta di moduli organizzativi da 15/20 posti letto situati all’interno di strutture residenziali per anziani, progettati per accogliere temporaneamente (come per esempio è il cosiddetto “ricovero di sollievo”) o definitivamente, malati di Alzheimer o di altre forme di demenza non gestibili nel proprio domicilio. Un modello paradigmatico di come dovrebbe essere concepita una struttura residenziale destinata ad accogliere questi pazienti è quello elaborato e sperimentato da Moyra Jones, terapista occupazionale canadese: il cosiddetto “Gentlecare”, la cui traduzione letteraria nella nostra lingua può essere “l’ assistenza rispettosa della persona malata”, con ciò a sottolineare che si tratta di un modello organizzativo che privilegia le esigenze del malato su quelle della struttura. Ricordati che sei tu che lavori dove io vivo e non che io vivo dove tu lavori! La metodologia del Gentlecare si basa sul principio secondo cui una funzione persa può essere recuperata o neutralizzata ricorrendo ad una protesi: esempi paradigmatici sono l’applicazione di un arto artificiale in un amputato; di una dentiera in un edentulo; di un amplificatore di suoni in un ipoacusico. E in che cosa consiste la protesi per un paziente demente? Nel caso del paziente affetto da demenza, la cui funzione persa è la capacità di interagire con l’ambiente in cui vive per problemi di memoria, orientamento, riconoscimento di luoghi e cose, etc, l’intervento protesico consiste nel costruirgli intorno un ambiente di vita in grado di sopperire alle sue incapacità. Nella sua applicazione il metodo è stato in grado di ridurre i disturbi del comportamento del paziente, diminuire lo stress delle famiglie, aumentare il numero di malati in grado di ritornare al proprio domicilio.
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La metodologia del Gentlecare interviene a tre diversi livelli: • lo spazio fisico, che deve avere le caratteristiche dell’ambiente familiare, quindi non troppo tecnologico né tanto meno troppo ospedaliero; che sia in grado di garantire comfort, sicurezza e facilità di identificazione e accesso dei diversi ambienti (camera da letto, bagno, ecc.) • il personale di assistenza, che deve essere formato ad hoc e costantemente allenato a sviluppare in modo appropriato l’atteggiamento, il linguaggio, la professionalità, il rispetto, l’esperienza, la capacità di comunicare, osservare, analizzare e risolvere i problemi, anche quelli più impegnativi (come ad es. gli stati di intensa agitazione psicomotoria); • le attività della vita quotidiana, il cui principio non deve essere quello di inventare cose nuove, ma di impegnare il paziente in quelle attività che scandiscono i ritmi di una giornata normale: “primarie” (mangiare, lavarsi, vestirsi), “necessarie” (riposare, dormire, avere momenti di privacy), “essenziali” (muoversi, comunicare) e “significative” (dal lavoro al gioco).
Il giardino Alzheimer Si tratta di uno spazio all’aperto, realizzato in continuità con strutture residenziali o diurne, progettato in modo tale che al suo interno i malati possano muoversi liberamente (anche e soprattutto da soli), in sicurezza per l’assenza di ostacoli fisici e psicologici (come ad esempio le improvvise zone d’ombra). Il giardino è caratterizzato da un percorso principale chiuso ad anello, lungo il quale si trovano punti di sosta attrezzati. Una ricca dotazione arborea di piante, erbe aromatiche e fiori (attenzione che non siano velenose perché il malato potrebbe mangiarle!) favorisce il rilassamento, nonché il benessere fisico e mentale. Percorsi appositamente studiati per l’esercizio
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motorio e le attività di gruppo possono contribuire al rafforzamento muscolare, alla conservazione dell’equilibrio e ad un migliore riposo notturno. In conclusione, su quale però sia la realtà attuale dei servizi per il malato di Alzheimer o di altre forme di demenza nel nostro Paese, non ci può essere miglior commento di quello che si legge nel rapporto Censis su “I costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer: cosa è cambiato?” presentato a Roma il 20 marzo 2007. “Dal 1999, anno della prima indagine, sono migliorati servizi come i Centri diurni e l’Assistenza Domiciliare, e ne sono stati introdotti di nuovi come le Unità di Valutazione Alzheimer e l’accesso gratuito a farmaci specifici; nonostante questi positivi cambiamenti, l’assistenza rimane ancora limitata e permangono forti differenziazioni territoriali. Uno dei cambiamenti più significativi riguarda il ricorso ad una badante straniera, nella maggior parte dei casi convivente; il sostegno apportato da queste figure è però circoscritto ad un aiuto per i lavori domestici e ad un affiancamento, non ad una sostituzione, dell’assistente principale: il vero passo in avanti consisterebbe nella diffusione di una rete di servizi che rendesse più tollerabile e più efficace il compito alla famiglia, senza sostituirla. Nelle aspettative di chi assiste, un sistema in grado di rispondere alle esigenze dei pazienti dovrebbe prevedere: un aiuto economico e sgravi fiscali, il sistema della domiciliarità, la disponibilità di un punto di riferimento unico per la diagnosi, la terapia e il supporto assistenziale dell’Unità di Valutazione Alzheimer”.
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Capitolo Nono
L
e Associazioni dei familiari
Capitolo Nono “...Un gesto d’amore, anche il più piccolo, aiuta l’amore. E pensai alle mie amiche che credono di fare così poco per me e invece fanno tanto. Perché è con il loro amore che io riesco ancora a dare a lui un po’ d’amore, riesco ad assisterlo e sostenerlo. L’amore è proprio un fluire che non si ferma, una corrente fortissima che si moltiplica e si arricchisce. Un gesto d’amore è culla e motore di un altro gesto, di un altro sguardo”. In Smarrirsi: la mente nel labirinto di Maria Sandias
I problemi che sconvolgono la famiglia del malato di Alzheimer sono molteplici e mutevoli nel tempo, coinvolgendo sia la salute psichica, che quella fisica, sia l’attività relazionale e sociale che l’aspetto economico dei suoi componenti. Per questo sono nate, nel tempo, diverse Associazioni di familiari con l’obiettivo di: • rappresentare gli associati presso Autorità, Enti, altre Associazioni, in sede legislativa ed amministrativa; • essere interlocutore privilegiato per Enti pubblici e privati; • coordinare l’azione degli associati nella promozione di iniziative socio-culturali, di corsi di formazione, della divulgazione delle esperienze e di aggiornamento sullo stato di avanzamento delle conoscenze biomediche; • organizzare gruppi di mutuo aiuto e sostegno ai familiari; • organizzare attività a favore dei malati e delle famiglie (es. telefono Alzheimer, attività diurne per i malati, assistenza a domicilio, ecc.); • avvalersi della collaborazione delle diverse professionalità;
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• contribuire alla costruzione di banche dati (vedi ad esempio rapporto Censis 2007); • promuovere la discussione su temi bioetici (consenso informato, ricerche sull’uomo, decisioni di fine vita, ecc.); • assegnare borse di studio e contributi di ricerca a singoli studiosi o ad Istituzioni impegnate nello studio e nella ricerca sulla malattia di Alzheimer. Quale conseguenza dell’impossibilità finora dimostrata dai vari sistemi assistenziali istituzionali di dare risposte esaustive ai bisogni assistenziali di questo paziente, il cui impatto su chi è chiamato a farsene carico è spesso devastante, nel 1984 quattro grandi Paesi del mondo occidentale di lingua e cultura anglosassone Usa, Canada, Australia e Regno Unito costituiscono Alzheimer’s Disease International (ADI), a cui fa seguito, nel 1991, la nascita di Alzheimer Europe. Per quanto riguarda il nostro Paese, nel 1985 si costituisce l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (A.I.M.A) e nel 1993 la Federazione Alzheimer Italia (F.A.I.), che si federa con Alzheimer Europe. Nel 1997 viene fondata a Perugia, in affiliazione con la Federazione Alzheimer Italia, l’Associazione Malati Alzheimer e Telefono Alzheimer dell’Umbria (A.M.A.T.A. Umbria - vedi scheda tecnica), che ha come Centro Clinico di riferimento l’Istituto di Gerontologia e Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia (vedi scheda tecnica). Attualmente A.M.A.T.A. Umbria, che oltre a Perugia ha sede anche a Narni e Terni, fa parte di Alzheimer Uniti Onlus, una Associazione di volontariato fondata a Roma nel 2006, alla quale aderiscono numerosissime associazioni a carattere regionale o locale del centro sud e delle isole.
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Capitolo Decimo
A.
M.A.T.A. Umbria (scheda tecnica)
Capitolo Decimo Associazione Malati Alzheimer e Telefono Alzheimer Umbria Sede Legale: Via Cortonese, 111 06124 Perugia;075/5011256 Affiliata a: Federazione Azheimer Italia e Alzheimer Uniti ONLUS
È una Associazione di familiari, operatori sanitari e sociali, volontari e persone comunque sensibili al problema, costituitasi il 5 settembre 1997. Perché è nata Gli operatori dell’Istituto di Gerontologia e Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia, essendo sempre più coinvolti dal dramma e dalla disperazione dei familiari dei pazienti con Alzheimer, perché lasciati spesso soli ad assistere un malato così impegnativo, hanno dato il via alla nascita dell’Associazione Malati Alzheimer e Telefono Alzheimer dell’Umbria (A.M.A.T.A. Umbria) insieme ad alcuni familiari e a persone sensibili al problema. Finalità Difendere i diritti dei malati Alzheimer e delle loro famiglie. Linee principali di intervento - Formazione del personale di assistenza e cura. - Sensibilizzazione di tutta la comunità civile e stimolo alle istituzioni. - Sostegno ai familiari.
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Iniziative ed attività
• Telefono Alzheimer (informazioni su malattia, trattamenti, servizi; sostegno psicologico; consulenze mediche, legali e sociali).
• Corsi di formazione per operatori pubblici e privati (badanti) e volontari.
• Incontri periodici con i familiari. • Amata Umbria Informa: bollettino quadrimestrale. • Attività periodiche di musicoterapia, animazione, ginnastica dolce e riabilitazione cognitiva per i malati.
• Progetto pilota di assistenza domiciliare. • Attività di musicoterapia per familiari.
Contatti Telefono Alzheimer: - Perugia 075 5011256 - Terni 0744 304799 - Narni 0744 717017 Sito Web: www.amataumbria.it E-mail: annalisazlongo@libero.it
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Capitolo Undicesimo
I
l centro clinico di riferimento di A.M.A.T.A. Umbria (scheda tecnica)
Capitolo Undicesimo È il “Centro per lo studio dell’invecchiamento cerebrale e demenze nell’anziano”, attivo dall’ottobre del 1984 presso l’Istituto di Gerontologia e Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia, a cui fa riferimento la S.C. Geriatra dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria della Misericordia. Dal 16 settembre 2000 il Centro è sede dell’Unità Valutativa Alzheimer geriatrica (UVA) della stessa Azienda Ospedaliera. Dal 2001 è anche il Centro di coordinamento nazionale delle UVA geriatriche consorziate nel Progetto Rete Geriatrica Alzheimer (Re.G.Al.) della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria. Attualmente il Centro dispone di una banca dati relativa ad oltre 5000 pazienti delle varie regioni italiane. Dall’inizio della sua attività ad oggi presso il Centro sono stati valutati oltre 9000 soggetti, nel 35% dei quali è stata formulata la diagnosi di malattia di Alzheimer ed oltre 350 sono i pazienti alzheimeriani (non considerando quelli con altre forme di demenza) ad essere seguiti periodicamente per valutare l’andamento della malattia, verificare l’efficacia delle cure e fare opera di sostegno alle famiglie. Intensa è l’attività di ricerca, sia di base che clinica, svolta in collaborazione non solo con numerosi Centri nazionali ma anche esteri, sia europei (Dusseldorf, Parigi, Stoccolma) che statunitensi (Boston, Philadelphia). Di questa attività internazionale sono testimonianza le numerose pubblicazioni edite a stampa sulle più prestigiose riviste del settore, così come l’intensa attività pubblicistica sotto forma di libri, monografie ed editoriali (vedi elenco), nonché la partecipazione ai gruppi multidisciplinari di esperti che ha prodotto il “Documento di consenso sulla Malattia di Alzheimer” promosso dalla Società Italiana di Neuroscienze edito nel 1999 e le “Linee guida sulla terapia della Malattia di Alzheimer”, elaborato dalla Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP) pubblicato sulla rivista scientifica internazionale “Drugs and Aging” nel 2005. Il Professore Umberto Senin, che fin dall’inizio ha avuto il compito di sovrintendere il Centro, è stato chiamato a far parte come esperto del gruppo di lavoro che ha elaborato, per conto della Commissione Unica del Farmaco (CUF) dell’allora Ministero della Sanità, il Progetto Cronos.
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Il Centro ha partecipato nel corso degli anni alla sperimentazione di quasi tutti i farmaci proposti per il trattamento della malattia di Alzheimer fin dall’era antecedente l’avvento degli anticolinesterasici. Attualmente il Centro sta portando avanti in collaborazione con altri Centri di eccellenza italiani, europei ed extraeuropei, studi sperimentali di efficacia di sostanze antiamiloide. Il Centro, oltre che promotore ed organizzatore di eventi scientifici a carattere internazionale, nazionale e regionale, è costantemente impegnato a sostenere tutti i programmi di formazione promossi da A.M.A.T.A. Umbria.
Principali pubblicazioni U. Senin, Paziente Anziano e Paziente Geriatrico. Fondamenti di Gerontologia e Geriatria, Edises, Napoli, 1999. U. Senin and Expert Panel Società Italiana di Neuroscienze. Documento di consenso sulla Malattia di Alzheimer, Il Pensiero Scientifico Editore, 1999. A. Cherubini, P. Mecocci , U. Senin, Ipertensione arteriosa e funzioni cognitive nell’anziano, Edises, Napoli, 2000. P. Mecocci, A. Cherubini, U. Senin, Invecchiamento cerebrale, declino cognitivo, demenza: un continuum?, Critical Medicine Publishing, Roma, 2002. C. Caltagirone, A. Bianchetti, M. Di Luca, P. Mecocci, A. Padovani, E. Pirfo, P.L. Scapicchio, U. Senin, M. Trabucchi, M. Musico, Guidelines for the treatment of Alzheimer’s disease from the Italian Association of Psychogeriatrics. Drugs Aging 22 (Suppl. 1): 1-26, 2005. U. Senin, A. Cherubini, D. Maggio, P. Mecocci, Paziente Anziano, Paziente Geriatrico e Medicina della Complessità. Fondamenti di Gerontologia e Geriatria, II Ed., Edises, Napoli, 2006.
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Letture consigliate Alzheimer Europe, Alzheimer Italia: Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer, Grafiche Moretti, Milano, 1999. G. Bigatello, La sottoveste sopra la gonna, Editrice Marna, Berzago, Lecco, 2000. Caritas Italiana-Fondazione Emanuela Zancan, Gli ultimi della fila. Rapporto 1997 sui bisogni dimenticati, Feltrinelli Editore, Milano, 1998. CENSIS: La mente rubata – Bisogni e costi sociali della Malattia di Alzheimer, Edizione Franco Angeli, Milano, 1999. CENSIS: I costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer: cosa è cambiato?, Roma, 20 marzo 2007. www: censis.it
M. Dogliotti, E. Ferrario, F. Santanera, I malati di Alzheimer: esigenze e diritti, UTET Libreria, Torino, 1994. Fondazione Emanuela Zancan, Padova, Carta dei diritti degli anziani non autosufficienti”. C.S. Henderson, N. Andrews, Visione parziale. Un diario dell’Alzheimer, Edizione Italiana a cura di Associazione Goffredo De Banfield e Federazione Alzheimer Italia, Editoriale Lloyd, Trieste, 2002. S. Lavallè, A. Thielen, Cara nonna, Edizione Italiana a cura di Federazione Alzheimer Italia, Grafiche Moretti, Milano, 2003. A. Longo, P. Mecocci, U. Senin, Alzheimer: un aiuto per chi aiuta. Una guida per familiari ed operatori, Edizioni La Voce, Perugia, 1997. N.L. Mace, P.V. Rabins, Un giorno di 36 ore. Un libro per tutti coloro che dedicano 36 ore al giorno all’assistenza di persone con sindrome dementigena, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1987.
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N.L. Mace, P.V. Rabins, Demenza e malattia di Alzheimer, Centro Studi, Erikson, Trento, 1996. P. Mariotti, G. Masaraki, R. Rizzi, I diritti del malato, Edizioni Giuffrè, Milano, 1993. P. Mecocci, U. Senin, Malattia di Alzheimer. Dalla parte del caregiver, Edifarm, Milano, 1999. M.G. Mezzadri Cifano, Uno stato di grazia. L’Alzheimer con i tuoi occhi, Idea Studio, Milano, 2003. M. Sandias, Smarrirsi. La mente nel labirinto, Armando Editore, Roma, 2005. L. Scopelliti, M. Ghersetti, Alzheimer. La mente rubata, Libreria Al Segno Editrice, Pordenone, 1999. S. Tamaro, Ascolta la mia voce, Rizzoli Editore, Milano, 2006.
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L
e attivitĂ per immagini
Attività di A.M.A.T.A. Umbria Attività di formazione
Attività di sensibilizzazione
Musicoterapia
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Attività di A.M.A.T.A. Umbria Attività motoria
Attività di animazione
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AttivitĂ del Centro Clinico
La Scuola Geriatrica perugina
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AttivitĂ del Centro Clinico Laboratorio di ricerca
Laboratorio per la valutazione della disabilitĂ Laboratorio di psicometria
Laboratorio per la valutazione del rischio cadute e riabilitazione motoria
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Annalisa Longo Nata a Perugia il 15 luglio 1960, è dirigente medico presso la S.C. di Geriatria, Azienda Ospedaliera di Perugia e docente presso la Scuola di Specializzazione in Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia. Fin dalla laurea si dedica all’assistenza del malato anziano ed in particolare di quello affetto da demenza. Dal 1999 è presidente di A.M.A.T.A. Umbria.
Umberto Senin Nato a Zara (Dalmazia) il 21 ottobre 1937, è professore ordinario di Gerontologia e Geriatria; direttore dell’Istituto di Gerontologia e Geriatria e della Scuola di Specializzazione in Geriatria dell’Università degli Studi di Perugia. Già presidente della Società Italiana di Neurogeriatria e della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, è attualmente presidente della Associazione Italiana di Psicogeriatria.
Questo libro-guida è dedicato ai malati, alle famiglie e a tutti coloro che supportano con generosità ed impegno A.M.A.T.A. Umbria
settembre 2007