SOLI NELLA FRAGILITÀ ANZIANO E CAREGIVER di Martina Mazzoli
Indice
Introduzione p.8
Primo capitolo: L’invecchiamento della popolazione italianapag. p.14
Secondo capitolo: La famiglia e il caregiving p.35
Terzo capitolo: Alzheimer e Montessori, un possibile approccio p.87
Conclusione p.98
Bibliografia p.104
“Quanto più un uomo invecchia, tanto più si riavvicina alla fanciullezza, finché lascia questo mondo in tutto come un bambino al di là del tedio della vita e al di là del senso della morte.”
Erasmo da Rotterdam
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Introduzione
Nella cultura occidentale, nel corso degli anni si è affermato un paradigma economico che identifica l’Altro come rivale e nemico, dal quale ci si deve salvaguardare, portando così ad una sterilizzazione delle relazioni interpersonali. In questo panorama, l’uomo è divenuto un individuo che non è più in grado di riconoscere né se stesso, né gli Altri come persone. “Oggi è ancora abbastanza difficile rendersi conto fino a che punto gli uomini dipendono gli uni dagli altri; uno dei fattori fondamentali di reciproca dipendenza è senz’altro dovuto al fatto che il senso di ogni azione umana risiede in ciò che rappresenta per altri individui, non solo contemporanei, ma anche futuri, e dipende dunque dal progresso della società umana attraverso le generazioni”1. Questo libro nasce da un interrogativo nato durante un’esperienza personale svolta all’interno di un Centro Diurno per Anziani affetti da Alzheimer, che mi ha permesso di soffermarmi su un tema in particolare. Se la società nella quale siamo inseriti, ragiona sempre di più in termini di produttività ed efficienza, come può rispondere ai bisogni dell’anziano? Quali difficoltà incontrano le famiglie che hanno cura dell’anziano, e quali dinamiche si instaurano all’interno dei rapporti familiari?
Simmel definisce la società come un insieme di individui, legato fra loro da forme di reciprocità, forme che necessitano di un processo che richiede tempo per il consolidamento di azioni reciproche, un processo definito sociazione2. La società nella quale siamo inseriti è caratterizzata da ritmi molto serrati, che riducono ine-
1 Elias N., La solitudine del morente, tr. it. M. Keller, il Mulino, Bologna, 2011, p.52.
2 Cfr. Jedlowski P., Introduzione, in Simmel G., Jedlowski p: (a cura di), Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995, pp. 13-14.
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vitabilmente le interazioni sociali. Essa risponde a criteri economici che rendono eterno il “qui ed ora”, privandolo della sua autenticità, il dover essere compresenti in più realtà diverse allo stesso momento, fa si che la persona non abbia il tempo necessario da investire nelle relazioni, non riuscendo a vivere pienamente l’unicità e l’irripetibilità dei momenti. I ritmi lavorativi che caratterizzano il nostro mondo, possono non lasciare quel tempo necessario che serve per consolidare quelle azioni reciproche, che costituiscono le fondamenta della società stessa. Inoltre questi ritmi così serrati rendono la società inadatta e di difficile comprensione, per chi ha bisogno di tempi più dilatati come nel caso di persone non autosufficienti, bambini o anziani. “Mai come oggi i moribondi sono stati trasferiti con tanto zelo igienista dietro le quinte della vita sociale per sottrarli alla vista dei vivi, mai in passato si è agito con tanta discrezione e tempismo per minimizzare il passaggio dal letto di morte alla tomba”3.
Così Norbert Elias descrive, alla soglia dei novant’anni, la condizione di solitudine vissuta dai morenti che si ritrovano a percorrere da soli le ultime tappe della loro vita, una solitudine nella quale vengono lasciati nel momento in cui hanno maggior bisogno di uno sguardo che decida di incontrare il loro e che decida di entrarvi in relazione4. Conseguenza di una società consumista che tende a spersonalizzare l’Altro e conseguenza del fatto che si riconosce il proprio ruolo di attori sociali solo in funzione della propria produttività. Il paradigma scientifico che si è affermato nell’ultimo secolo nella cultura occidentale,
3 Elias N., La solitudine del morente, op. cit., pp. 41-42.
4 Cfr. Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. A.M. Pastore, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2011; comprende: Io e Tu, Sull’Educativo, Dialogo, La domanda rivolta al singolo, Distanza originaria e relazione, Elementi dell’interumano, Postfazione: per la storia del principio dialogico, pp. 59-110.
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sebbene abbia prodotto significativi risultati in ambito tecnologico e in ambito medico, ha altresì richiesto un disciplinarismo e una frammentarietà della persona che hanno causato perdita di identità e complessità del concetto stesso di persona. Il progresso tecnologico ha virtualmente accorciato distanze fisiche, realizzato nuove tipologie di produzione industriale e l’integrazione con la ricerca medica, ha permesso di realizzare strumentazioni fondamentali per intervenire nella terapia e nella cura di determinate patologie. In ambito medico sono stati fatti importanti passi avanti che hanno permesso conquiste notevoli e necessarie nelle diagnosi precoci di determinate malattie, nell’identificazione di fattori di rischio che possano aumentare le possibilità di contrarre o sviluppare determinate patologie, così da poter operare un controllo maggiore sulla salute di se stessi. L’affermarsi del dicisplinarismo, ha condotto alla considerazione frammentaria dell’uomo con la tendenza delle discipline a prevalere le une sulle altre e ad essere indipendenti le une dalle altre, portando così a una mancata visione olistica della persona, gradualmente spersonalizzata e fatta divenire individuo. È necessario lasciare aperto il dialogo interdisciplinare tra tutte le Scienze che trattano l’uomo, per poter ricostruire l’unità dell’identità umana e non lasciare che in ogni disciplina l’uomo sia visto solo in un unico aspetto, in quanto tale particolarismo rende difficile all’uomo ritrovare se stesso5. L’allungamento della vita media e la forte denatalità, che negli ultimi anni caratterizza il nostro Paese, hanno causato un costante invecchiamento della popolazione italiana, la presenza di anziani, persone oltre i sessantacinque anni di età, nel territorio italiano è andata sempre crescendo dal 18,7% nel 2002 al 23,5% nel 2021, mentre 5 Cfr. Valori F., Itinerari della persona, Rocco Carabba, Lanciano, 2009, pp. 9-11.
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la presenza di giovani, persone tra gli 0 e i 14 anni di età, è andata sempre diminuendo a tale proposito si ha il 14,2% nel 2002, contro il 12,9% nel 20216. L’andamento finora registrato è destinato ad aumentare salvo che non avvenga un’inversione, un cambiamento di tendenza, che porti ad incrementare le nuove nascite. L’invecchiamento relazionato alla denatalità, rappresenta un problema a causa dell’inquadramento sociale che ha l’anziano, nella società consumista nella quale siamo inseriti, la propria identità, dipende dal proprio potere di produzione, l’uscita dal mondo del lavoro e il pensionamento rappresentano un momento di smarrimento, nel quale l’anziano ex lavoratore fatica a riconoscersi. Per questa ragione vengono proposte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità delle linee guida, volte a promuovere l’invecchiamento attivo, secondo le quali l’anziano non è un soggetto passivo a carico della società e del Sistema Sanitario, ma attore attivo nella struttura comunitaria del territorio che abita. Per tale motivo l’OMS chiede agli Stati di investire in campagne che promuovano un corretto stile di vita, che vada a contrastare le patologie che tra i fattori di rischio presentano l’età avanzata. Questo perché avere una popolazione che invecchia, ma che invecchia in maniera sana, rappresenta una risorsa per la società e non un peso. Con l’aumento delle persone over sessantacinque anni, aumentano le potenziali persone che rischiano di cadere in condizioni di non autosufficienza, ma è importante sottolineare che aumentano anche gli anziani che usciti dalla loro veste di lavoratori con potere produttivo, si trovano private del loro ruolo sociale e si sentono private della loro utilità comunitaria. Per alleggerire questo senso di solitudine, la società può promuovere Centri aggregativi rivolti alla Terza età 6 Istat, dati aggiornati all’ 1 Gennaio 2021. https://www.istat.it/it/popolazione-e-famiglie.
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che favoriscano la socializzazione, può promuovere associazioni di volontariato nelle quali gli anziani possono investire le energie e il proprio operato alleggerendo i lavori di cura delle famiglie che si trovano ad affrontare la non autosufficienza. Con l’anzianità aumentano le possibilità di sviluppare patologie croniche che possano compromettere la propria autonomia e richiedere cure a lungo termine. A tale proposito si è deciso di riflettere su quali siano le difficoltà che incontra nel suo percorso un anziano, specialmente se ha un’autonomia compromessa o ridotta. Si è detto che il primo problema che si trova ad affrontare una persona che esce dal mondo del lavoro, è proprio come gestire il proprio tempo ora che si trova in pensione, in molti decidono di mettersi a disposizione della famiglia, occupandosi dei nipoti, sbrigando faccende domestiche e quant’altro. È proprio all’interno dell’ambiente familiare che si presenta un ulteriore problema visto da ambo i lati: l’anziano in famiglia. La famiglia nel quale si trova a passare molto tempo l’anziano, è una famiglia che può non riconoscere. Nel corso degli anni l’impostazione socio-culturale dell’istituzione famiglia è cambiata, si è nuclearizzata e distaccata maggiormente dalla famiglia di origine, lo stampo patriarcale fortemente sbilanciato sulla figura maschile come unica breadwinner, non è più una realtà a seguito del sempre più massiccio e necessario ingresso delle donne nel mondo del lavoro e della suddivisione sempre meno sbilanciata dei compiti di cura familiari. Per tanto la famiglia nella quale si ritrova l’anziano di oggi, è una famiglia che segue regole e tradizioni distanti dalla sua visione culturale, specialmente gli uomini che si trovano a dover prestare servizi di cura, non si identificano in questa nuova veste. La stessa famiglia che si trova a dover conciliare lavoro familiare e lavoro extra familiare è sempre più
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in difficoltà, specialmente se l’anziano di cui si ha cura non è autonomo. Il sostegno offerto dalla rete informale, composta da parenti stretti, amici e vicini, spesso risulta essere inadatto, facendo percepire il carico di cura come oppressivo. Da qui la scelta sempre più diffusa di esternalizzare i compiti di cura affidandosi a strutture o terze persone retribuite, le così dette figure di badanti. Questa tipologia di assistente familiare, spesso è assunta irregolarmente, poiché può essere una persona immigrata che non possiede un permesso di soggiorno, o un cittadino italiano che sceglie questa attività come secondo lavoro, e l’assunzione irregolare permette alla famiglia di sostenere meno costi, e al lavoratore irregolare di sostenere minori oneri fiscali. L’esternalizzazione della funzione assistenziale, sembra essere una delle scelte più naturali e più convenienti nella società odierna. Si può istaurare una collaborazione, che preveda una responsabilità condivisa tra familiare e figura professionale che si assume in qualità di caregiver, oppure un totale affidamento della responsabilità e del lavoro di cura a quest’ultima, pur mantenendo rapporti stabili con il genitore o l’anziano che viene assistito. Altro problema rilevante nella gestione dell’anziano in famiglia è rappresentato, infatti, dalle implicazioni emotive, che posso influire nel tipo di relazione che si va ad instaurare tra l’assistito e chi lo assiste.
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Primo capitolo:
L’invecchiamento della popolazione italiana.
Un fatto ormai noto nella società odierna è che la vita media si è allungata: gli uomini vivono mediamente fino a 79,7 anni mentre le donne fino a 84,4 anni7. Se si pensa che l’uomo della preistoria vivesse mediamente fino a circa trenta anni, è evidente che sono stati fatti degli importanti passi avanti nel campo medico e sociale che hanno reso le condizioni di vita, gradualmente più favorevoli all’uomo che quindi oggi ha una prospettiva di vita più lunga. Seppur l’età media dei primi uomini fosse molto più bassa di quella odierna, i segni di un invecchiamento avanzato erano presenti già a cinquanta anni circa, questo perché le condizioni e lo stile di vita influivano ed influiscono tuttora in maniera importante sul deterioramento fisico. Nel tempo l’acquisizione di maggiori competenze, ha permesso all’uomo di progredire da un punto di vista scientifico adattando l’ambiente in cui era inserito alla vita umana e incrementando quelle che sono le sue possibilità di agio, si è arrivato così a vivere di più. Dalle fonti pervenute fino a noi, è possibile risalire all’età media dell’uomo paleolitico, ma non è possibile risalire all’impatto che l’uomo anziano avesse nella società preistorica. Le prime informazioni in tale senso le abbiamo a partire dalla V Dinastia Faraonica in Egitto grazie alle trascrizioni di uno scriba. Da tali trasposizioni si evince che l’anziano nella società orientale antica avesse un ruolo ben definito e chiaro; il ruolo di tramandare il sapere. In una società a trasmissione prevalentemente orale, la saggezza e l’esperienza dei più anziani ricoprivano sicuramente un’imponente risorsa
7 Istat, Rapporto annuale 2021. La situazione del paese, Roma, 2021, p. 78.
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per le nuove generazioni, che avevano grande considerazione degli anziani. Quest’aspetto si fa più forte e radicato nella cultura ebraica, in particolare se si analizza il Vecchio Testamento, come un’opera che testimonia la società di quel tempo si evince che nella tradizione biblica l’anziano è colui che si fa condottiero del popolo poiché investito dallo spirito Divino, colui che condurrà il suo popolo alla salvezza. L’anziano quindi in questa parte vive di grande considerazione e di un importante ruolo fondamentale: in virtù della sua saggezza e della sua esperienza l’anziano diviene fautore del messaggio divino, si fa condottiero del suo popolo alla salvezza e alla liberazione dalla schiavitù. Tralasciando l’aspetto religioso di cui è emblema tale scritto, ma analizzando il testo da un punto di vista sociale, vediamo che l’anziano ha una forte connotazione all’interno della società, di cui diviene perno principale. Sempre rimanendo all’interno del testo biblico, si può avvertire un’inversione di tendenza nel Nuovo Testamento, in questa parte non è più l’anziano che incarna lo Spirito e la parola divina, ma è un giovane, un bambino. Con il passare dei secoli si avverte un cambiamento di pensiero che ha portato ad una perdita d’identità e potere dell’anziano. La stessa inversione di rotta nella reputazione della vecchiaia in relazione alla società, è rintracciabile anche nella cultura greca, si prendano in esame ad esempio i due pilastri della filosofia greca, Platone ed Aristotele. Per Platone, l’anziano, che nelle sue opere è raffigurato da Socrate, è colui che libererà la popolazione dalla condizione di schiavitù e prigionia, è colui che per primo vedrà la luce e porterà il messaggio al resto della popolazione che è ancora chiusa nella grotta in condizione di schiavitù, come riportato nel Mito della Caverna. Nella filosofia aristotelica invece, l’anziano è colui in cui il potere conoscitivo ed
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esperienziale dei sensi è stato annichilito ed assopito, per tale motivo colui non più in possesso delle sue facoltà conoscitive e quindi soggetto ad un inevitabile deterioramento. Nella filosofia aristotelica dove la conoscenza avviene principalmente tramite i sensi, e nella quale prima di fare esperienza di qualsiasi cosa si è una tabula rasa, il non riuscire più ad avere pieno controllo delle proprie sensazioni, rappresenta un limite conoscitivo, l’anziano non è più un vecchio saggio. Nella Grecia di Alessandro Magno si assiste ad un ritorno in auge dell’anzianità, infatti la gestione della polis greca è affidata a persone che in virtù della loro età erano considerate estremamente sagge e adatte a condurre un popolo, sino ad arrivare a parlare di gerontocrazia. La cultura a noi più vicina è sicuramente quella Romana, cultura che riserva notevole rilievo alla condizione di vecchiaia, e cultura che più di tutte ha trattato tale tema. L’organo di governo più noto dell’epoca romana era il Senato dal latino senatus, che significa “assemblea di anziani”, infatti inizialmente per accedere alla carica di senatore era necessario avere sessanta anni di età. Unito a questo era presente anche una forte connotazione e accettazione culturale del Pater familias, che dava inevitabilmente potere politico, sociale e culturale all’uomo anziano. Con il declino della repubblica romana e l’avvento della monarchia, s’inasprisce il conflitto generazionale portando ad una voglia di rivalsa dei giovani, che scherniscono e depotenziano la figura dell’uomo anziano, l’età d’ingresso alla carica senatoria diminuisce e si abbassa a trenta anni di età. Emblema del decadimento della figura del Pater familias è sicuramente la frase attribuita a Giulio Cesare “Tu quoque, Brute, fili mi!”, frase che secondo la tradizione avrebbe pronunciato Giulio Cesare, rivolgendosi al presunto figlio Marco Giunio
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Bruto, che il console romano avrebbe riconosciuto tra i suoi uccisori, questa frase diviene emblema di una società che non riconosce più l’autorità del vecchio padre, che è sopraffatto dal figlio. Questa considerazione della vecchiaia, in continuo altalenarsi, giunge fino all’epoca dell’illuminismo, questa costante perdita e riconquista del ruolo sociale degli anziani condiziona questa classe demografica anche nell’epoca moderna. In maniera particolare questo schema persiste in Italia ancora negli inizi del Novecento, epoca in cui l’Italia ancora faceva della forza agricola e contadina la sua primaria fonte di sostentamento. Pertanto c’era una forte centralizzazione del potere socio-culturale nelle mani del Pater Familia, affrancato da un diffuso analfabetismo, che pone in rilievo sociale l’anziano come detentore del sapere. Tale condizione è successivamente rafforzata dalle Guerre Mondiali, che portano al decadimento di una grande fetta della popolazione giovane, ma è nel periodo storico del dopoguerra che la situazione si ribalta anche in Italia. Il diffuso analfabetismo e l’ingente quantità di popolazione che non sa leggere, scrivere e fare di conto, diviene un enorme problema in un’Italia sempre più industrializzata. La collocazione dei giovani reduci di guerra diviene una piaga importante, questi giovani estrapolati dai loro contesti sociali e familiari per andare a combattere al fronte, si ritrovano ora senza arte né parte a fare i conti con una società che richiede loro delle competenze che non hanno. Nascono per questi motivi le prime forme d’impiego pubblico nell’amministrazione pubblica, una risposta statale a tale problema. La nuova tecnologia che si afferma sempre più segna il punto di rottura del riconoscimento sociale dell’anziano, ormai inadatto a questa nuova realtà che non conosce e alla quale apparentemente non può più offrire nulla. Non è più il saggio oratore
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e governatore delle polis greche e romane, ma è proprio in questo momento storico che inizia ad essere considerato come un peso per la società. Nella letteratura di fine Novecento si opera una classificazione dell’anziano che lo definisce come: “onorato”, “derelitto”, “inutile”, “decaduto”, “ripiegato” e ”sempreverde”. “Gli ‘onorati’, rappresentano la cultura connotata dalla famiglia di tipo patriarcale, dove è riservato loro ancora molto potere decisionale. La loro categoria è in continua diminuzione. Il gruppo dei ‘derelitti’, è legato a valori culturali arcaici e vive in condizione al limite della sussistenza; è il più numeroso fra tutti gli altri. Gli ‘inutili’, in costante aumento, rappresentano gli anziani abbandonati dalla famiglia che, di solito, risiedono in ospizi od in ospedali. I ‘decaduti’ vivono con rassegnazione la loro esclusione dalle attività lavorative, pur non essendo poveri. I ‘ripiegati’ sono quegli anziani che, pur vivendo in buone condizioni economico-assistenziali, non sono in grado di dare un senso alla propria vita. I ‘sempreverdi’ infine, sono coloro che conservano un senso della vita e costituiscono un gruppo molto numeroso, in continuo aumento”8.
L’invecchiamento ricopre sicuramente un tema rilevante per la società di oggi. La popolazione italiana, così come quella mondiale, è suddivisibile in tre grandi fasce d’età: giovani 0-14 anni, adulti 15-64 anni e anziani 65 anni e oltre. Dall’elaborazione di dati Istat raccolti dal 2002 al 20219, si evince che la presenza di anziani, cioè persone che hanno più di 65 anni di età, nel nostro territorio è maggiore rispetto alla presenza di giovani, dove per giovani, si intendono persone tra gli 0 e i 14 anni.
8 Federici M.C., Le pantere grigie in Umbria. Aspetti sociologici e processi culturali, EURoma, Roma, 1992, p. 27.
9 Cfr. Istat, Report: Indicatori demografici 2020, https://www.istat.it/it/ popolazione-e-famiglie.
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Differentemente da quanto succede per le persone che dal momento in cui nascono sono inevitabilmente soggette ad una condizione di irrefrenabile invecchiamento, una popolazione può invecchiare, come ringiovanire. Si parla infatti di invecchiamento per la base, nel momento in cui diminuisce la proporzione di persone giovani e invecchiamento per il vertice, quando aumenta la proporzione di persone anziane. Ma questi due indicatori non sono esaustivi per determinare l’età demografica di una popolazione, in quanto possono essere compresenti. Per questo motivo si fa riferimento all’età media per decretare l’invecchiamento di una popolazione. Più tale valore aumenta più la popolazione invecchia, più tale valore diminuisce più la popolazione è giovane. Nel caso italiano la popolazione sta invecchiando inesorabilmente, questo non solo perché attualmente nel paese sono presenti quasi il doppio delle persone over 65 rispetto alle persone tra gli 0 e i 14 anni, ma principalmente perché grazie al progresso scientifico e medico si è allungata la prospettiva di vita, riuscendo a convivere con patologie che prima erano mortali, questo combinato con la bassa natalità del paese, ha rallentato il ricambio generazionale. Questo significa che andando avanti negli anni, se non ci sarà un’inversione di andamento demografico, ci saranno sempre più anziani che giovani, il che porterebbe ad un’enorme discrepanza tra nuova forza lavoro e persone uscenti dal mondo del lavoro.
Questo andamento in costante crescita, non solo in Italia ma quasi in tutta l’Europa, ha fatto sì che la società iniziasse a cambiare punto di vista riguardo alla questione anziani. L’anziano, dunque, non è più considerato solamente come anziano fragile, che necessita di supporto e di sostegno, e che trae sussistenza dalla forza lavoro attiva, ma da una connotazione passiva inizia ad averne
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una attiva contribuendo allo sviluppo della società, non solo attraverso il lavoro. Si parla di invecchiamento attivo o active ageing.
La definizione di invecchiamento attivo data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è la seguente: “l’invecchiamento attivo è il processo di ottimizzazione delle opportunità per la salute, la partecipazione e la sicurezza in modo da migliorare la qualità della vita con l’invecchiamento”10.
L’OMS, tramite l’invecchiamento attivo, propone programmi di miglioramento dello stile di vita in modo tale da intervenire sulle condizioni di salute della persona, così da permettere l’espressione del proprio massimo potenziale dal punto di vista fisico, sociale e mentale.
Tali programmi hanno la funzione di promuovere la vita sociale e un corretto stile di vita anche in tarda età, divenendo così strumenti di prevenzione primaria che garantiscano un invecchiamento sano. Nel caso in cui l’anziano abbia delle patologie che ne compromettano la salute, l’OMS chiede di stilare programmi di assistenza che garantiscano un’adeguata cura e protezione del malato.
“Per far fronte a tale scenario, l’OMS ha di recente delineato una cornice strategica, indicata con il nome di ‘Active Ageing’, con lo scopo di creare e rafforzare le condizioni per un ‘invecchiamento attivo’, le cui basi sono da costruire ben prima dell’età anziana”11.
Quindi l’invecchiamento non è più un fenomeno e un momento soltanto da proteggere, non è più inteso come un ritiro a vita privata, ma si è mutato ed è diventato un
10 World Health Organization (WHO), Active Ageing: a policy framework, Ginevra 2002, p. 12.
11 Carozzi G., Bertozzi N., Mirri M., Sampaolo L., Bolognesi L., Ferrari A.M., Fabrizio R., Finarelli A.C., I tre pilastri OMS per l’invecchiamento attivo, 2009 in: http://salute.regione.emilia-romagna.it/sanita-pubblica/ sorveglianza/passi-dargento.
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vero e proprio fenomeno sociale. È un momento che va sì tutelato, ma non solo. La persona in tutte le sue fasce d’età deve essere messa in condizione di dare il proprio contributo alla società direttamente e indirettamente, attraverso servizi di volontariato e altre forme di associazione. Deve essere messa in condizione da poter essere la prima responsabile della sua salute, promuovendo sul territorio momenti di prevenzione e di promozione della salute stessa. Tale nuovo modo di pensare è stato necessario, in visione del nuovo andamento demografico, perché se gli anziani sono quasi il doppio dei giovani, il ricambio generazionale nel mondo del lavoro ha tempi più lunghi e/o è reso più tardivo dallo stesso percorso di studi, e con esso si allunga sempre più l’età pensionabile e l’uscita dal mondo del lavoro. L’allungamento dell’età pensionabile in una società in cui la vita media si è allungata e la fine del periodo formativo è sempre più lontana, diviene uno strumento necessario per lo Stato per riuscire ad erogare in maniera adeguata le pensioni. Si pensi ad una lavoratrice che raggiunge il pensionamento a sessanta anni, secondo le statistiche mediamente vivrà per almeno altri venti anni, lo Stato si trova così a dover pagare mediamente vent’anni di pensione, in un panorama però in cui la nuova forza lavoro subentra sempre più tardi e con forme contrattuali non permanenti. In questo senso, da un punto di vista sociale, l’invecchiamento si può definire come processo di “fragilizzazione” della persona, che quindi comprende sia un aspetto biologico che un aspetto antropologico, ed è un processo graduale secondo il quale la persona si protegge da agenti esterni e si organizza in forme di vita sociale, in particolare all’interno della società, l’invecchiamento si identifica con il ritiro della persona dal mondo lavoro. Nella maggioranza dei casi il pensionamento rappresenta, per
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molti anziani, un momento che coincide con la perdita del proprio ruolo sociale. Passando dall’attività lavorativa al pensionamento, si perde, di fatto, il ruolo sociale di persona produttiva e con esso una propria identità. In una società consumistica ed estremamente dinamica come quella di oggi, spesso ci si identifica prima di tutto come lavoratori e poi come persone. Uscire da questo mondo, può rappresentare per i più, una perdita della propria connotazione e un senso di smarrimento. Per un lavoratore il pensionamento diviene un traguardo ambito ed a volte sofferto, ma al tempo stesso rappresenta un fenomeno di perdita. Perdita di se stessi, della propria identità, della propria routine, del proprio ruolo sociale e della sfera amicale. Nel momento in cui l’anziano è estraniato dal mondo del lavoro, soggettivamente viene anche spogliato della sua sfera sociale, sia perché non è ritenuto e non si ritiene più utile alla società, sia perché molto spesso i gruppi amicali e le relazioni interpersonali nascono all’interno del gruppo di lavoro. Non è raro quindi il manifestarsi di casi in cui molte persone, seppur in pensione, continuano a far visita e a tornare quotidianamente nei propri luoghi di lavoro. In particolare si è visto che le donne pensionate si ritirino maggiormente dalla vita sociale, mentre l’uomo tiene vivi i propri hobbies e i rapporti con i propri gruppi amicali, la donna si riversa maggiormente nella cura della casa, delle faccende domestiche, limitando enormemente le interazioni sociali. Anche all’interno della famiglia si sono verificati dei cambiamenti, la famiglia nucleare che si sta affermando non è più la famiglia patriarcale nel quale il padre/nonno anziano era colui che rappresentava l’autorità all’interno di questo microsistema, qual è la famiglia. L’aiuto richiesto a questi da parte della famiglia, è principalmente un aiuto economico, un aiuto nel-
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lo sbrigare faccende domestiche e di custodia dei nipoti. In particolare per un uomo anziano, abituato a lavorare per il più della giornata e a demandare le cure familiari alla propria moglie/compagna, può rappresentare quasi uno svilimento e una regressione della propria figura autoritaria. Inoltre se con il pensionamento, diminuiscono le potenzialità produttive della persona, diminuiscono anche le sue risorse economiche. “Un anziano, andando in pensione, perde importanti ruoli sociali che deve saggiamente sostituire. Il pensionamento non deve essere un entrare in riposo, in una vita passiva, nel disimpegno ma la ricerca di interessi alternativi”12. In questa situazione nell’anziano possono insorgere sensazioni di isolamento, un sentimento che può nascere in risposta ad una cattiva o assente comunicazione con la propria famiglia e con la comunità nella quale è inserito.
L’isolamento sociale, emotivo e psicologico, effettivo o percepito, può comportare una situazione di squilibrio e malessere morale e materiale. Può creare un senso di insoddisfazione così forte e insistente da condurre a comportamenti e stadi depressivi. La percezione della solitudine da parte dell’anziano si fa più forte soprattutto nel momento in cui si perde il proprio partner, in questa circostanza i fattori di stress aumentano ed è più facile entrare in un vortice di solitudine e depressione dalla quale è difficile uscire. Vivere una condizione di inadeguatezza prolungata verso i propri cari e la propria realtà, può creare una reazione di chiusura verso qualsiasi stimolo sociale, causando quindi un cambiamento del proprio comportamento, si inizia a pensare di più a se stessi, poiché si è convinti che non ci sia nessun altro che può farlo se non il diretto interessato e si diviene quindi più aggressivi.
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12 Ivi.
La politica pensionistica è sicuramente una delle prime politiche sociali rivolte alla vecchiaia, e sono differenti per ogni paese. In Italia il sistema pensionistico prevede un pensionamento di vecchiaia per tutti i lavoratori che hanno raggiunto i sessantasette anni di età e i venti anni di contributi versati e altre modalità di pensionamento anticipato che il legislatore ha successivamente determinato ad esempio, su basi contributive e in funzione ad altre condizioni ben individuate. Un tassello di comunanza è rintracciabile però nel bisogno che c’è da parte del welfare state di incrementare queste politiche sociali. Come già detto in precedenza, nella società odierna, ci si identifica nella società principalmente attraverso l’età e in un secondo momento attraverso il lavoro. Se la principale politica sociale rivolta all’anzianità è quella pensionistica, che quindi estromette dal mondo del lavoro, è evidente che non può essere sufficiente per permettere che la considerazione che l’intera società ha dell’anziano, cambi. Questo modo di agire da parte dello stato riporta ad interventi di natura principalmente assistenzialistica e di dipendenza sociale, in carico alla burocrazia, al Sistema Sanitario Nazionale e alla famiglia. Ridanno alla società un’immagine dell’anziano incapace e dipendete da un punto di vista sociale, economico e sanitario. Il recente approccio normativo non è cambiato molto, i paesi chiamati dall’OMS a muoversi verso un invecchiamento attivo, non hanno poi concretizzato le promozioni di tale progetto, lasciando, di fatto, interventi principalmente di carattere assistenzialistico. In particolare andrebbe rivista e ripensata la politica di pensionamento, non solo in funzione dell’età, ma in ottica totalitaria. Innalzare o abbassare l’età di pensionamento non rappresenta una soluzione, se si abbassa troppo l’età per andare in pensione, ma non si ha una forza lavoro sufficiente a sod-
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disfare il fabbisogno di pensioni che lo stato si trova a dover erogare, si va incontro ad elevati costi che divengo insostenibili. Dall’altro lato per innalzare l’età pensionabile, si deve fare un ragionamento dal punto di vista anche biologico e non solo statistico. Se la vita media si è allungata, sicuramente andare in pensione più tardi non aumenta gli anni in cui lo Stato dovrà fruire le pensioni, ma aumentare l’età pensionabile in un panorama in cui gli anziani vanno incontro alla cronicità patologica, può diventare controproducente e improduttivo. Altro punto sul quale si deve riflettere è la modalità secondo la quale si va in pensione, se attraverso l’identificazione lavorativa si ha consapevolezza del proprio ruolo sociale, il passaggio al periodo del pensionamento dovrebbe essere graduale e non immediato, ad esempio negli anni che precedono il momento di uscita dal mondo del lavoro si può ridurre l’orario di lavoro proponendo attività sostitutive, così da favorire l’adattamento psico-sociale ed economico a questa nuova situazione. Se non si agisce tempestivamente per permettere una riqualifica dell’anziano da un punto di vista sociale, l’inevitabile allungamento dell’età pensionabile e i maggiori fattori di rischio dovuti all’età, per determinate patologie di carattere cronico, nel nostro paese porteranno ad avere una forza lavoro composta da lavoratori che invecchiano, lavoratori che vanno incontro a un indebolimento fisico significativo, che quindi possano essere sempre meno producenti e che vivano il momento del pensionamento come una spersonalizzazione. È stato pertanto necessario cambiare prospettiva e iniziare a cercare una soluzione al problema che non agisca solo sugli effetti, ma che intervenga anche prima dell’età anziana. “A livello regionale, politiche e interventi in tale ambito si sono concretizzati in diversi modi (inclusi, ad esempio, docu-
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menti programmatori). Uno studio INRCA (Principi et al., 2016) si è concentrato su una mappatura, analisi e valutazione delle leggi regionali (incluse le proposte di leggi) in materia. Lo studio ha evidenziato che in sole quattro regioni italiane (Abruzzo, Friuli- Venezia Giulia, Liguria e Umbria) è in vigore una legge che regoli l’invecchiamento attivo in maniera trasversale, prevedendo dunque interventi organici a tal fine”13.
L’Unione Europea chiama tutti gli stati unitari a promuovere e diffondere l’invecchiamento attivo entro il 2020. Se nel giugno del 2017, nel territorio italiano le regioni aderenti a tale programma erano solamente quattro, alla fine del 2019 sono presenti Leggi Regionali in gran parte del territorio italiano, principalmente centro e sud Italia, mentre è ancora in via di sperimentazione e in fase di programmazione per la maggior parte delle regioni del nord Italia e nelle isole.
È in questo panorama che si colloca l’anziano autonomo. Che quindi non è visto come un peso per la società, come si tende a pensare, ma si sta cercando di promuovere il suo ruolo sociale come propulsore e figura in grado di contribuire allo sviluppo sociale.
Ma vediamo più da vicino cosa si intende per anziano autonomo. Per studiare questa fetta della popolazione è stato necessario fare una suddivisione basata sul grado di autonomia che dimostra una persona nello svolgere attività di base, più o meno complessa, per condurre la propria vita. In particolare si parlerà di attività funzionali della vita quotidiana (Activities of Daily Living, ADL), in riferimento a quelle attività che si devono necessariamente svolgere da soli per non ricorrere a un bisogno di assistenza continua e di attività strumentali della
13 Lamura G., Principi A., Socci M., Invecchiamento attivo: un percorso da costruire, giugno 2017, in: https://welforum.it/invecchiamento-attivo-un-percorso-costruire/?highlight=invecchiamento%20attivo.
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vita quotidiana (Instrumental Activities of Daily Living, IADL), sono attività più complesse delle precedenti e che si verificano anche al di fuori del tetto domestico, perché la persona sia considerata autonoma, deve poter condurre queste attività in indipendenza. Questi due indici, diffusi a livello internazionali, creano le macro aree determinanti per la costituzione di quattro marcatori più specifici:
- Persone in buona salute e a basso rischio di malattia, persone indipendenti e in grado di svolgere senza aiuti tutte le attività ADL e che necessitano di aiuto per svolgere massimo un’attività IADL.
- Persone in buona salute ma a rischio di malattia e fragilità, persone indipendenti e in grado di svolgere senza aiuti tutte le attività ADL e che necessitano di aiuto per svolgere massimo un’attività IADL, ma presentano almeno due fattori di rischio.
- Persone con segni di fragilità, persone indipendenti e in grado di svolgere senza aiuti tutte le attività ADL e che richiedono aiuto per svolgere minimo due attività IADL.
- Persone con disabilità, persone che hanno bisogno di aiuto per svolgere una o più attività ADL.14
L’anziano autonomo è quindi colui o colei che è in buona salute a basso rischio di malattia o a rischio di malattia e fragilità, è quindi una persona in grado di svolgere da sola le attività funzionali della vita quotidiana e gran parte delle attività strumentali della vita quotidiana. È, quindi, una persona in grado di provvedere a se stessa.
A tale proposito e con il nuovo andamento demografi-
14 Per rendere più chiaro il concetto si è fatto ricorso alla suddivisione operata da “Passi d’Argento” nello studio specifico del caso Emilia Romagna. Carozzi G., Bertozzi N., Mirri M., Sampaolo L., Bolognesi L., Ferrari A.M., Fabrizio R., Finarelli A.C., I tre pilastri OMS per l’invecchiamento attivo, op. cit.
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co l’anziano non può più essere visto come uscente dal mondo del lavoro e in attesa della fine della sua vita, non dovrebbe essere considerato un ostacolo per il formarsi di nuove famiglie che lo hanno in carico o che decidono di averne cura. Oggi in maniera particolare, l’anziano e con esso la società, entra in una nuova fase della sua vita, dove rimane attivo offrendo il proprio contributo come può alla famiglia o alla società stessa. Ad esempio sempre più spesso i nonni si occupano dei nipoti quando i genitori sono a lavoro, offrendo quindi un importante sostegno alla famiglia. Altro enorme aiuto che offrono i nonni è di natura economica, nuovi nuclei familiari si formano sempre più grazie alle pensioni dei nonni. L’aiuto fornito dai nonni in ambito di accudimento e sostentamento economico, è tanto ingente da poter parlare di un welfare dei nonni.
A livello prettamente sociale vediamo molte persone pensionate offrire il proprio aiuto come volontari in strutture diurne o residenziali, fornendo supporto agli Ospiti di tali strutture ma anche al personale. Si noti anche il costituirsi di gruppi associativi di natura ludica o culturale, ad esempio circoli dove sono organizzati tornei di carte, di bocce o altri generi; oppure corsi di cucito, di cucina, gruppi di preghiera. Questi sono tutti momenti associativi che permettono il riscatto sociale di questa classe demografica che per lungo tempo è stata considerata passiva e un peso per la società stessa, e che al contempo permettano all’anziano di rimanere attivo e ancorato alla sua autonomia. Con l’allungarsi della vita è stato necessario cambiare modo di pensare e ottica riguardo a quello che stava diventando un problema, a tale proposito l’OMS, ha delineato delle aree di intervento per il sano invecchiamento quali la prevenzione delle cadute, la promozione dell’attività fisica, dell’assistenza
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domiciliare e dei servizi di self-care, il sostegno di strategie di sviluppo partecipativo tra personale medico e assistenziale in campo geriatrico e l’inserimento nei setting assistenziali di programmi di vaccinazione antinfluenzale e prevenzione delle malattie. Nello stesso documento di strategia OMS15, dal quale sono state riprese le aree di intervento, vengono anche definiti quelli che sono i tre pilastri dell’invecchiamento attivo, quali la salute, la partecipazione e la sicurezza.
“Salute, Partecipazione e Sicurezza delle persone anziane sono i tre pilastri dell’Active Ageing. L’obiettivo è favorire il passaggio da politiche basate sui bisogni delle persone più anziane, considerate come soggetti passivi, a politiche che riconoscono a ogni persona il diritto e la responsabilità di avere un ruolo attivo e partecipare alla vita della comunità in ogni fase della vita, inclusa l’età anziana”16.
Per costruire i tre pilastri dell’invecchiamento sano, si deve partire dalla promozione della Salute operando una prevenzione e riduzione dell’eccesso di disabilità, malattie croniche e mortalità prematura, incrementando tutta la prevenzione primaria sul territorio, come ad esempio i vari livelli di screening. Occorre inoltre ridurre i fattori di rischio associati alle malattie principali e aumentare i fattori protettivi la salute, sensibilizzando la popolazione ad uno stile di vita corretto e fornendo strumenti, conoscenze e possibilità per l’autoprotezione.
Per fare ciò diviene necessario sviluppare in continuo i servizi socio-sanitari accessibili e fruibili le persone che invecchiano, la popolazione deve avere la possibilità di rivolgersi ai servizi in tutte le sue fasce di età e quando ne
15 World Health Organization (WHO), Active Ageing: a policy framework, op cit.
16 Carozzi G., et al., I tre pilastri OMS per l’invecchiamento attivo, op. cit.
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sente il bisogno.
La rete dei servizi deve essere continuamente in comunicazione con il territorio, con i vari servizi e con la popolazione, cercando di evitare di incorrere in assistenzialismo. È necessario inoltre formare ed educare i caregivers, sia nelle modalità di relazione da adottare con le persone di cui decidono di avere cura, sia nei confronti della rete dei servizi presente nel loro territorio. Un altro pilastro importante è la Partecipazione, se come si è detto, si intende proporre strumenti affinché la popolazione anziana rimanga attiva nel territorio e nella società, bisogna rendere possibile la partecipazione ad attività economiche e di volontariato assecondando preferenze e capacità delle persone, incoraggiando e rendendo possibile la partecipazione a tali attività sociali e comunitarie. Per non rischiare, però, di demolire il primo pilastro è altrettanto doveroso creare opportunità di formazione e apprendimento durante tutta la vita. Permettere all’anziano di partecipare alla vita sociale è molto importante anche per quel che riguarda la sua salute, infatti, creare dei luoghi e delle possibilità aggregative gli consente di rimanere attivo da un punto di vista motorio e mentale. Ultimo pilastro che incontriamo è quello della Sicurezza, la condizione di anzianità porta con sé direttamente o indirettamente una, più o meno ampia, componente di fragilità.
A tale proposito gli stati aderenti all’Unione Europea, secondo l’OMS, dovrebbero assicurare la protezione, la sicurezza e la dignità delle persone che invecchiano, affrontando i problemi sociali ed economici, operando quindi una sensibilizzazione verso questi problemi nel territorio. Inoltre si dovrebbero ridurre le disuguaglianze in fatto di sicurezza e di bisogni delle donne che invecchiano. Uno dei problemi legati all’invecchiamento è
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l’invecchiamento femminile, nella nostra società in maniera particolare c’è una forte discriminazione nei confronti del genere e nelle donne anziane è più evidente. Se ad esempio un uomo sopra i sessantacinque anni si accompagna con una donna molto più giovane non si crea scandalo, nella situazione inversa si riserva alle donne un diverso trattamento.
Da quanto detto finora emerge che le raccomandazioni dell’OMS riguardano un tema ben più ampio che il solo invecchiamento. Nelle linee guida dell’active ageing è espresso un concetto di società educante molto ampio, oltre che un importante tema di promozione della salute. Per invecchiare in maniera sana si deve agire tempestivamente migliorando lo stile di vita e aumentando i controlli di prevenzione. L’OMS rivolge la sua attenzione anche all’anziano fragile o con disabilità, cercando di promuovere un sistema aggiornato di assistenza e formazione del caregiver chiedendo di apportare le necessarie modifiche ai servizi già presenti per migliorarne l’efficacia e l’azione.
Nel corso degli anni, come si è visto finora, la vita media si è allungata e questo è stato possibile grazie al progresso scientifico, che ha permesso di trovare cure e terapie per determinate patologie che da mortali si sono trasformate in malattie con le quali si riesce a convivere e sopravvivere.
Negli ultimi anni la vita media si è allungata, gli uomini vivono mediamente fino a 79,7 anni mentre le donne vivono fino a 84,4 anni17.
Tuttavia l’allungarsi dell’età media e lo sviluppo di nuove terapie che permettono di convivere con patologie prima mortali, diventano fattori di rischio per malattie croniche che a lungo andare possono compromettere
17 Istat, Report: Indicatori demografici 2020.
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l’autonomia e l’autosufficienza dell’anziano. La condizione di anzianità porta con sé una serie di decadenze sia dal punto di vista fisico, come la perdita di udito, la riduzione della mobilità, malattie di natura cardiovascolari come ipertensione e problemi correlati all’apparato cardiocircolatorio; ma anche dal punto di vista cognitivo e sociale, si può andare incontro a perdite di memoria, di capacità di giudizio e verso malattie che riguardano l’apparato neurologico. Se queste perdite fisico-cognitive possono non riguardare tutti gli anziani, la perdita sociale, come già visto, rappresenta una delle condizioni più difficili e diffuse.
Grazie al progresso scientifico, alla ricerca e alla sperimentazione, oggi ci è data la possibilità di agire tempestivamente, riuscendo ad intercettare i sintomi di precise malattie, infatti, potendo intervenire farmacologicamente o con altri trattamenti compensativi su di esse si riesce a bloccare o rallentare la malattia. Si parla, quindi, di malattie croniche, malattie che possono avere “origine in età giovanile, ma che richiedono anche decenni prima di manifestarsi clinicamente. Dato il lungo decorso, richiedono un’assistenza a lungo termine, ma al contempo presentano diverse opportunità di prevenzione”18. Intervenire su tali malattie bloccandone o rallentandone il decorso, non significa curarle, per questo le malattie croniche portano ad una condizione di non autosufficienza e in un’inevitabile condizione di assistenza, per questi motivi le malattie croniche attualmente rappresentano un fattore di rischio di morte. Il decorso delle malattie croniche può essere più o meno rapido, o addirittura può essere stazionario, intervenendo sulla sintomatologia o eliminando fattori di rischio che possano comportare l’aggravamento della propria condizione di 18 Epicentro, Malattie croniche, in: https://www.epicentro.iss.it/croniche/.
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salute, si riesce a convivere con malattie che anni prima portavano a morte certa. Tra i tanti fattori di rischio per le patologie croniche troviamo anche uno stile di vita scorretto e l’invecchiamento, i due temi trattati nelle raccomandazioni per l’invecchiamento sano. Prima di tutto perché agire a scopo preventivo, ci permette di intervenire tempestivamente su determinate patologie individuando i sintomi e cercare così di attenuarli il più possibile in maniera tale da non compromettere eccessivamente il naturale corso della vita; al tempo stesso agendo così si rispetta la strategia medica odierna. È proprio qui che si fa spazio il secondo motivo, aumentare i servizi di prevenzione, significa avere una popolazione che invecchia, ma che invecchia in modo sano, e questo rende la situazione demografica meno complessa. Strettamente connesso a questo, c’è il terzo motivo, avere una popolazione sana significa che il sistema sanitario nazionale, che sostiene in parte o interamente i costi per le cure mediche, dovrà farsi carico di costi meno elevati perché i servizi di carattere assistenzialistico saranno in riduzione.
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Il processo di invecchiamento si può definire da diversi punti di vista. Da un punto di vista biologico e clinico si può considerare come progressiva perdita di funzioni biologiche dell’organismo e di assopimento del proprio organismo con annesse funzioni fisiologiche. Tra le malattie croniche più diffuse troviamo: cardiopatie, ictus, tumori, disturbi respiratori cronici, diabete, osteoporosi e malattie neurodegenerative.
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Secondo capitolo:
La famiglia e il caregiving
Nel capitolo precedente si è trattato l’anziano analizzandolo da un punto di vista demografico e presentando l’impatto che ha avuto e che ha nella società. Si è visto che la presenza di anziani nel paese italiano è maggiore rispetto a quella dei giovani, e questa tendenza è in aumento. Si è anche voluto porre l’attenzione sulla qualità di vita delle persone over sessantacinque in relazione alla salute e all’autonomia, mostrando che la comunità europea sta abbracciando una politica rivolta all’invecchiamento attivo e sono stati presentati quali sono i pilastri dell’active ageing e per quale motivo muoversi in questa direzione potrebbe rappresentare una risorsa. In questo capitolo si intende presentare quella che è la figura dell’anziano all’interno delle famiglie, di come l’istituzione stessa di famiglia sia cambiata nel tempo e di come questa istituzione si trovi costretta a riorganizzarsi costantemente qualora all’interno del nucleo si trovi un anziano, autonomo e non autonomo, riflettendo sulle dinamiche familiari che vengono a costituirsi.
Alberto Gasparini analizzando la società di trenta anni fa, che già denunciava una condizione di allarmismo nei confronti del tema dell’invecchiamento, si è posto un’interessante domanda:
“Potrà il sistema socio-economico tollerare questa profonda trasformazione delle risorse umane a disposizione? Cioè, potrà questo sistema funzionare?”19.
Nel parlare dell’invecchiamento non si può prescindere dall’analizzare i cambiamenti che ha subito la società e come la “società anziana” abbia risposto e si sia adatta-
19 Ardigò A., Borgatta E.F., Gasparini A. (a cura di), Mutamento sociale e società anziana, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 24.
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ta a tali mutamenti. Il primo mutamento rilevante che affonda le sue origini nella fine del Novecento, mostrando le conseguenze primarie nella nostra epoca, è sicuramente rappresentato dalla denatalità. Con il calo delle nuove nascite che ha subito l’Europa e in maniera particolare l’Italia, con un tasso di natalità che sfiora i minimi storici, si è rallentato di molto il ricambio generazionale. Sebbene la vita media si sia allungata, causando un innalzamento dell’età media, la diminuzione delle nascite ha fatto sì che l’aumento della prospettiva di vita divenisse un vero e proprio problema, sia dal punto di vista sociale ma anche economico e politico. Come risultato si avrà una situazione, come quella odierna, in cui ci saranno molti anziani e pochi giovani. Questo rappresenta un problema che inizia già durante la seconda metà del novecento, e che oggi diviene motivo di preoccupazione, poiché l’allungamento della vita non è più compensato da una popolazione feconda e giovane, soprattutto nel momento in cui le politiche sociali nei confronti di anziani e giovani, come vedremo nel terzo capitolo, sono piuttosto inadeguate. Le risposte sociali a tale problema hanno portato a una situazione di ipervalorizzazione del nascituro, che deve necessariamente rispondere a determinate caratteristiche, ponendo i genitori e il figlio stesso ad un forte senso di frustrazione qualora tali caratteristiche non siano presenti ed al contempo ha comportato un’emarginazione sociale dell’anziano. La denatalità in un paese fortemente radicato sulla famiglia come l’Italia, ha causato una serie di crisi valoriali, sono sempre più diffusi i figli unici per motivi di scelta o di necessità economiche, causando così un carico emotivo e completo che grava sulle spalle di quel figlio unico. La forte interrelazione che c’è tra denatalità e allungamento della prospettiva di vita ha fatto sì che entrambi i fenomeni di-
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venissero problema sociale, invecchiare oggi rappresenta una criticità maggiormente percepita, questo perché le politiche che hanno come oggetto l’anzianità sono poche e tendenzialmente di carattere assistenzialistico, è un inquadramento politico dell’anziano che si riflette nella società facendo vivere la condizione di anzianità come un “peso” sociale. Altro elemento sul quale è opportuno soffermarsi è la natura di tali politiche, maggiormente rivolte all’anziano che si trova in condizione di non autonomia e che quindi ha bisogno di sostegno, interessano principalmente la famiglia e il caregiver di riferimento che hanno a carico la cura di tale anziano e sono politiche che elargiscono, generalmente, un sostegno più che altro economico. L’estromissione dal mondo del lavoro comporta, come visto, una perdita importante di ruolo e identità per l’anziano stesso, l’esposizione maggiore a determinate malattie che causano cronicità e graduale perdita di autonomia, potrebbe causare una condizione di totale dipendenza dall’altro. Legittimando quindi il conflitto tra qualità della vita e quantità della vita, le normative che abbracciano l’invecchiamento attivo, possono rappresentare una risposta a tale discrepanza socio-politica.
Altro problema denunciato alla fine del novecento è quello dell’introduzione delle tecnologie nelle industrie. Sicuramente già ai tempi dell’industrializzazione italiana, passare da un mondo del lavoro agricolo a uno industrializzato, ha portato gran tumulto sociale, creando malcontento, in particolare, nell’Italia meridionale fortemente latifondista. Con l’entrata in scena delle tecnologie, tale problema si è ampliato nettamente poiché le tecnologie hanno ridotto i tempi di produzione e molti posti di lavoro, riducendo le mansioni e sveltendo le pratiche. Al tempo stesso c’è stato un aumento dell’orario di
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lavoro, in molte industrie e aziende le tecnologie permettevano di coprire le ventiquattrore giornaliere, quindi è emerso un bisogno di predisporre eventuale personale per l’assistenza, anche notturna di tali macchinari, incrementando così il turnover. Preso in sé questo fattore non rappresentare una nota negativa, la tecnologica ha rappresentato, e rappresenta tuttora, una grande risorsa per la società, snellisce molti procedimenti amministrativi e burocratici, permette di accorciare le distanze e di dimezzare i tempi di consegna, si pensi a tutte le piattaforme di commercio on line, alle pratiche burocratiche che si possono aprire senza dover fare interminabili code; sicuramente, però, ha determinato una forte riduzione della manodopera umana, che, in relazione alla crisi economica, ha incrementato i tassi di disoccupazione.
Oggi le tecnologie non sono utilizzate solamente in ambito industriale e lavorativo, ma sono state integrate anche nella vita quotidiana ed in particolare nella vita sociale. Se l’uomo metropolitano di Simmel attraverso l’intellettualismo20 si difendeva dall’interazione, potenzialmente minacciosa, con l’Altro oggi potrebbe essere riscontrabile in una sorta di tecnologicismo, l’uomo non si protegge solo nascondendosi dietro a una razionalità estremizzata, ma dietro a questa tecnologia che isola sempre di più. Questo andamento si riscontra più che altro attraverso i programmi di messaggistica istantanea, attraverso questi si è perso il concetto del “qui ed ora”, si è sempre dappertutto in ogni momento. Si è verificata una costante compresenza virtuale della persona in più posti in più momenti e la completa relativizzazione dello spazio e del tempo, è però, una compresenza assente, una presenza simultanea che richiede la frammentazione della propria attenzione e della propria concentrazione. È sta-
20 Cfr. Simmel G., Jedlowski p: (a cura di), Le metropoli e la vita dello spirito, op. cit.
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ta estremizzata notevolmente la fugacità del momento, ogni attimo deve essere immortalato e divenire eternità, per poterlo ricordare e rivivere in un secondo tempo. Si è inseriti in così tante realtà differenti da non riuscire a vivere ed essere presenti e pronti per l’autentica realtà. I social media in particolare restituiscono un’immagine distorta della realtà, che incrementa quelle che sono le insicurezze e le debolezze delle persone; tali tecnologie, se utilizzate in maniera scorretta o inadatta, rappresentano una vera e propria arma di distruzione psicologica, è necessaria una riscoperta dell’Altro, un Altro che non può solo essere un nemico, si deve riacquisire la capacità di entrare in relazione, serve fermarsi un momento e incontrare quello sguardo che ci rivela un’umanità. Per avere la possibilità di entrare in relazione con l’Altro e accogliere l’incontro positivamente, aprendo così una relazione dialogica con il Tu che vi è davanti, è necessario anzitutto riscoprire se stessi. In questo senso, non si protegge più nessun aspetto della propria vita, lo stesso concetto di intimità viene volontariamente e consapevolmente leso, si decide ormai di condividere e mostrare ogni aspetto della propria vita. La persona spesso si priva della propria dignità sotto tutti i fronti, e quindi le tecnologie create per connettere e collegare le masse, potrebbero finire per distruggere ed isolarle, per essere un effetto placebo e un rimedio alla realtà che diviene sempre più dura. Si è andata diffondendo una società in cui essere mediocri e normali è un demerito, si deve necessariamente divenire popolari, conosciuti e fare grandi cose perché si possa attribuire un valore alla propria vita, qualora questo non avvenga, la frustrazione diviene insostenibile. È in questa società così attenta all’apparenza, che si colloca l’anziano di oggi, una persona divenuta anziana che si trova a fare i conti con una realtà tecno-
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logica nella quale non si riconosce e che diviene difficile da comprendere, correndo così il rischio di essere emarginato o addirittura di emarginarsi. In una società in cui dominano i social media, la figura dell’anziano non trova una collocazione, una volta che la persona prossima alla pensione perde il suo ruolo produttivo, faticosamente riesce a affermarsi e riconoscersi un altro ruolo all’interno di una società di difficile comprensione per essa. È importante educare e formare all’uso delle tecnologie le generazioni anziane o che invecchiano, ma soprattutto, vanno educate al corretto uso di questi strumenti potenzialmente dannosi, le nuove generazioni.
Le tecnologie inserite da prima nel mondo lavorativo e in seguito diffusesi anche in altri aspetti della vita hanno stimolato una riorganizzazione industriale e sociale, di conseguenza il lavoratore al quale è stato ridotto l’orario di lavoro e richiesta la disponibilità a turni di lavoro part time, ha iniziato a fare più lavori insieme, ha reinventato creativamente se stesso e la propria professionalità.
È diffusissimo il lavoro saltuario e occasionale, tipologia di lavoro che ha richiesto una modifica anche nelle forme contrattuali che si sono aggiornate per regolare tali forme di lavoro, normalizzando ad esempio il contratto per prestazione occasionale o contratto a chiamata, incrementando l’instabilità e lo squilibrio economico. Sempre più datori di lavoro preferiscono queste forme di contratto che rappresentano per loro costi minori rispetto ad un impiegato a tempo indeterminato, poiché con queste tipologie di contratto un lavoratore viene retribuito in relazione alle ore effettive di servizio. Queste modalità di assunzione temporanea richiedono da parte del lavoratore un costante senso di adattamento e una competenza elevata in più settori, difficile da raggiungere. Dall’altro lato però può creare persone in grado di ri-
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spondere prontamente incrementando la propria capacità di problem solving, di fronte ad un eventuale periodo di disoccupazione non si troverà spiazzato, ma sarà in grado di riorganizzarsi. L’introduzione di nuove tecnologie nel mondo lavorativo, la conseguente riduzione dell’orario di lavoro, la diffusione di impieghi temporanei e l’instabilità economica, sono tutte concause che hanno portato i giovani a ritardare l’uscita dalla propria casa di origine e a posticipare la formazione di un nuovo nucleo familiare.
Storicamente la famiglia si è costituita come un vero e proprio sistema rispondente a determinate regole interne e avente precise funzioni. All’interno di questo sistema ben organizzato, l’anziano, tradizionalmente saggio, ha rappresentato un cardine centrale dell’istituzione famiglia, ricoprendo un ruolo ben preciso al suo interno. Nel corso degli anni anche l’istituzione familiare ha subito dei cambiamenti significativi, che hanno interessato anche le sue funzioni istituzionali.
Vediamo ora com’è cambiata la famiglia e l’istituzione familiare nel tempo. La famiglia è il sistema sociale nel quale siamo maggiormente immersi. Fin dalla nascita ci troviamo collocati in un contesto familiare già radicato e che agisce secondo proprie leggi interne. È proprio la famiglia che ci fornisce gli elementi con cui si leggeranno, interpreteranno e valuteranno gli altri sistemi con i quali si entrerà in contatto. È nella famiglia che si scoprono le prime emozioni, si vivono le prime ingiustizie e si costituiscono le prime tipologie di relazioni. Come tutti i microsistemi, anche la famiglia, è influenzata dall’ambiente sociale, culturale ed economico, dominante nel macrosistema nel quale è inserita.
“La famiglia viene sinteticamente rappresentata dalla sociologia come la cellula primaria della società, la prima
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agenzia di socializzazione, l’elemento costitutivo della società stessa: ‘in effetti, la famiglia è il gruppo all’interno del quale trascorre la maggior parte della nostra vita, la maggior parte dei nostri pensieri si mescola ai pensieri familiari”21.
La famiglia coinvolge molteplici dimensioni della vita personale, ad esempio la dimensione biologica, psicologica, socio-economica, giuridico-politica e religioso-culturale.
La Costituzione Italiana definisce la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”22, questa definizione e idea di famiglia sono molto lontane da quella che è la realtà odierna. La famiglia nel corso degli anni ha subito una serie di trasformazioni, quella che inizialmente era una vera e propria istituzione avente funzioni primarie quali, “funzione riproduttiva biologica e materiale, di socializzazione primaria e secondaria, di equilibrio emotivo dei suoi membri, di solidarietà reciproca e di incanalamento del desiderio sessuale”23, ne ha perse alcune. Si è detto che la famiglia non è solamente fatto naturale come scritto nella Costituzione Italiana, ma diviene anche fatto sociale ed economico, per tanto si cercherà di presentare da quali cambiamenti principali è stata sottoposta la famiglia e che cosa questo ha comportato. Il micro sistema famiglia ha tradizionalmente rappresentato una concreta istituzione sociale, da cui la Costituzione Italiana ha elaborato la sua definizione come società naturale. La famiglia come istituzione era incentrata sulla figura patriarcale, per lungo tempo il capofamiglia, specialmente in Italia, era l’unico breadwinner e
21 Fornari S., Essere o fare famiglia. La famiglia come istituzione sociale plurale, Utet università, Novara, 2009, p. 110.
22 Art. 29 della Costituzione della Repubblica Italiana.
23 Chiesei A.M., Prefazione, in Ruspini E., Studiare la famiglia che cambia, Carocci, Roma, 2011, p. 12.
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colui avente il diritto di delineare le leggi interne al micro sistema. La famiglia aveva il compito, socialmente riconosciuto, di adempire le sue funzioni educanti, maggiormente attribuite alla figura femminile. La madre, in quanto casalinga, aveva il tempo da dedicare alla cura della prole e della casa.
In quest’ottica il bene individualistico dei singoli viene sacrificato in visione di quello che è il bene della famiglia. Ma questa istituzione, così costituita è una famiglia molto sbilanciata a favore della figura paterna, figura estremamente autoritaria e alla quale spettava l’ultima decisione ed in seguito a tutta la prole maschile. È bene dunque interrogarsi se in quest’ottica, ciò che era considerato bene della famiglia fosse piuttosto un doversi sottomettere alla decisione paterna. Con la modernizzazione si inizia a minare questa autorità, iniziando a riportare una sorta di equilibrio all’interno dei ruoli. In Italia questo processo è arrivato con particolare ritardo: “modernizzazione vuol dire spostamento verso altre istituzioni di importanti funzioni originariamente svolte dalla famiglia, come la socializzazione secondaria, i rapporti di lavoro e l’assistenza agli anziani e agli invalidi. Modernizzazione ha anche significato la messa in discussione dei tradizionali rapporti di autorità, attraverso l’emancipazione femminile e il riconoscimento dei diritti dei figli” 24 .
Con tale processo si inizia ad uscire da un clima autoritario per cercare di andare verso un ruolo genitoriale equamente condiviso tra madre e padre cercando di rifarsi ad uno stile autorevole. Questa conquista, avvenuta grazie all’emancipazione femminile, ha permesso alle donne di poter conquistare anche una propria indipendenza economica potendo accedere al mondo del
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24 Ivi, p. 9.
lavoro, contribuendo ad incrementare il reddito familiare. In tale ottica, grazie anche alla figura di numerosi pedagogisti quali Rousseau, Piaget, Montessori, Frӧbel, è stata riconsiderato il ruolo dell’infanzia, questo ha permesso che all’interno della famiglia ogni voce avesse il suo peso e la sua importanza. Questa inversione di rotta ha spostato nettamente il focus paterno, ridistribuendo il potere decisionale all’intera famiglia. Tradizionalmente una famiglia è un insieme di persone coabitanti sotto lo stesso tetto, legate da vincoli matrimoniali o affettivi, con stile patriarcale. Poi, si è passati alla famiglia nucleare, caratterizzata da una riduzione del numero dei componenti della famiglia e dal maggior distacco dalla famiglia di origine, questa nuova famiglia che si crea attraverso un’unione regolamentata o meno, si nuclearizza appunto, forma una nuova solidità e un nuovo equilibrio familiare, pur rimanendo legata con la famiglia di origine non rimane sotto la sua giurisdizione. “Sono questi, infatti, i tratti tipici della struttura familiare nucleare, il restringimento del numero dei suoi componenti e la conseguente chiusura della famiglia verso l’esterno, nella costruzione di relazioni interne alla stessa, sempre più contraddistinte dal carattere personale ed individuale”25. In questa fase alcune delle funzioni principali della famiglia sono andate perdendosi, e sono state ridistribuite all’interno della società stessa. Si pensi ad esempio alle funzioni non solo educanti e formative che ricopre la scuola, ma anche a quelle di socializzazione primaria e secondaria. La persona passa sempre più tempo a scuola che a casa, andando dal Nido d’Infanzia all’Università, tanto che l’istituzione scolastica ricopre quasi tutta la giovinezza di una persona. Sempre più frequentemente si trova al di fuori del nucleo familiare la solidarietà
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25 Ivi, p. 121.
di cui si ha bisogno, e quel senso di riconoscimento e appartenenza di cui l’essere umano si nutre. Nel processo di socializzazione la famiglia ha sicuramente una posizione centrale, posizione e funzione che sono state modificate dalla società individualista, poiché la socializzazione è sempre più delegata alle istituzioni. Il soggetto moderno è relativamente autonomo e libero di scegliere la propria vita, in questa società in cui volere è potere, diviene problematica la relazione con l’Altro che viene visto come ostacolo e limitazione del proprio universo di possibilità di realizzazione, anche se l’Altro in questione è un componente della famiglia. La crisi istituzionale della famiglia non è rintracciabile solo in modelli religiosi e sociali, ma è anche conseguenza dell’impostazione attuale della cultura occidentale, vale a dire la diffusione di una cultura individualista. L’affermazione dell’individualismo contrasta con la natura comunitaria della famiglia, ponendola in conflitto con la limitazione personale, i rapporti familiari in questa società vengono identificati come invadenze, questo causa una svalutazione di tutti i rapporti e di tutte le relazioni che si instaurano in seguito nella propria vita. Nella relazione interpersonale c’è una componente di costrizione che viene imposta dall’incontro di quello sguardo, da quel Tu che porta con sé un bisogno di scoperta e che ci impone di fermarci un momento. Con la metropolizzazione delle vite si è ridotta anche la quantità di contatti di possibili relazioni, al tempo stesso questa solitudine individuale nella quale ogni persona si chiude in se stessa, ha bisogno della relazione per il riconoscimento di se stessi: la percezione di sé è legata al riconoscimento da parte degli altri. Se la relazione
è già negata all’interno della famiglia, diviene ancora più forte e pulsante il bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Questo fenomeno di deistituzionalizzazione della fami-
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glia ha raggiunto l’apice con la globalizzazione. Durante questa nuova era si è assistito ad un ulteriore cambiamento della famiglia con l’affermarsi di nuove forme familiari. Ad esempio grazie ai matrimoni misti si è assistito ad una fusione di culture diverse, che ha comportato un’altra visione di modi di educare e di nuove dinamiche familiari. Ma altro fenomeno che ha influenzato e caratterizzato particolarmente la famiglia, è stata la crisi economica che il nostro Paese sta attraversando in questi ultimi anni; a causa della quale molte famiglie non possono più permettersi di essere monoreddito e sempre più famiglie hanno entrambi i genitori che hanno orari di lavoro full-time. Il che ha portato ad esternalizzare i lavori di cura, come l’educazione dei propri figli o l’assistenza ad anziani non autosufficienti, a terze persone che vanno dai contesti formali ai contesti informali, si pensi a nonni, baby-sitter e badanti. Nel corso degli anni, la famiglia ha subito cambiamenti per quel che riguarda le sue funzioni, delegandole ad altri situazioni sociali nelle quali i membri sono maggiormente inseriti. Questo ha causato un diverso riconoscimento della famiglia dal punto di vista sociale, essendo considerata sempre meno istituzione. Non ha subito cambiamenti solo per quel che riguarda le sue funzioni, ha subito un mutamento anche la sua costituzione. Nel collettivo quando si parla di famiglia, si pensa alla famiglia tradizionale composta da padre, madre e figli. Una famiglia la cui coppia sia legata da un vincolo matrimoniale e che viva sotto lo stesso tetto. Negli anni questa visione si è modificata, infatti, come detto in precedenza la famiglia è un microsistema soggetto alle mutazioni socio-culturali presenti negli altri sistemi, con i quali interagisce e nel macrosistema di riferimento. Per tali ragioni anche la famiglia nucleare tradizionale sta subendo
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una crisi, sempre meno coppie scelgono di unirsi in matrimonio, che comunque è sempre più un matrimonio celebrato con rito civile piuttosto che religioso e sempre più tardivo. Qualora la scelta di sposarsi rientri nelle opzioni della nuova coppia, questo avviene dopo la soglia dei trenta anni.
Tra le coppie che scelgono di sposarsi, l’età media è di 32 anni circa per la donna e 35 anni circa per l’uomo26, andamento nel quale sicuramente è complice l’allungamento del percorso di studi che necessariamente ritarda l’ingresso nel mondo del lavoro e quindi causa una maggiore instabilità economica nella coppia. Altro elemento sul quale vale la pena soffermarsi, e legato ai matrimoni, è la mancanza di fattori push e pull, per i giovani italiani di uscire dalla loro famiglia di origine e la difficoltà nell’iniziare una nuova vita, attualmente circa il 62,1% dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni vive con almeno un genitore.
“Come tutti i processi che comportano l’uscita da una condizione (da uno status, da un contesto di vita) per entrare in un’altra, la decisione di attuare il passaggio dipende sia dai fattori di spinta (push) ad abbandonare il luogo di partenza, che da quelli di attrazione (pull) del luogo di destinazione” 27 .
La nostra cultura depotenzia fortemente i fattori di spinta, ovvero quei fattori che fanno nascere il desiderio di abbandonare il tetto di origine, la precarietà economica non è l’unico elemento che entra in gioco nel prendere la decisione di permanere a lungo nella casa dei genitori. La cultura italiana è fortemente basata sulla solidarietà familiare, i genitori aiutano i propri figli, anche e non solo economicamente, fin tanto che gli è possibile. Lo
26 Dati raccolti da Istat aggiornati al 12 Febbraio 2020, in: http://dati. istat.it/Index.aspx?QueryId=19558.
27 Ruspini E., Studiare la famiglia che cambia, op. cit., p.43.
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stesso sistema welfare assistenzialistico italiano rivolto a soggetti in condizione di fragilità o disabilità, fonda la maggior parte del suo sostegno sulla rete degli aiuti informali nei quali rientrano i membri del nucleo familiare di appartenenza. L’aiuto offerto dallo stato è nella maggioranza dei casi rivolto alla famiglia che ha cura del malato, piuttosto che ad interventi che riguardino il malato stesso. A questo si aggiunga che i giovani intenzionati a uscire dal proprio nucleo di origine si trovano di fronte a concreti rischi economici che inibiscono i fattori pull. Se nell’Italia del 1900 scegliere di sposarsi rappresentava per la maggior parte dei futuri coniugi un fattore allo stesso tempo push e pull, ad oggi non si può più considerare tale. Molte coppie giovani preferiscono convivere piuttosto che sposarsi. Spesso il periodo di convivenza è visto come un periodo di prova dell’unione di coppia, un’esperienza da fare e condividere prima di sposarsi. Questo fenomeno è in costante crescita, circa il 33% dei matrimoni celebrati tra il 2004 e il 2009 sono stati preceduti da un periodo di convivenza, la percentuale arriva a toccare il 70% per le coppie che si sposano in seguito a un matrimonio precedente. La durata delle convivenze prematrimoniali è mediamente di 2,2 anni circa, ma si allunga sempre più28. Esiste anche un gran numero di convivenze che non sfociano in matrimoni, ma nelle così dette famiglie di fatto: nuclei familiari nei quali i genitori non sono legati da un vincolo matrimoniale. Nella maggior parte dei casi la non unione matrimoniale è una scelta maturata in seguito a precedenti matrimoni andati male, all’esistenza di figli avuti da relazioni precedenti o da una scelta consapevole di non sposarsi. Il fenomeno delle convivenze è talmente diffuso che nel 2019 è stata emanata una leg-
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28 Cfr. Istat report, Come cambiano le forme familiari, Settembre 2011.
ge a tutela delle unioni civili e delle convivenze di fatto, la Legge 20 Maggio 2019, n. 76. Tale legge mostra quali debbano essere i diritti e i doveri dei due conviventi. In conformità a quanto detto finora è evidente che la definizione di famiglia data dalla Costituzione Italiana e che vede la famiglia come una “società naturale fondata sul matrimonio”, è ormai molto lontana dalla realtà che ci circonda ed estremamente restrittiva. A tale proposito è stata regolamentata una nuova definizione di famiglia: “Famiglia anagrafica: 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune. 2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona”29. Pertanto il nucleo familiare non è più costituito solamente dalla coppia tradizionalmente intesa e unita attraverso un contratto matrimoniale, o un insieme di persone unite da un vincolo parentale. Si definisce famiglia anche un insieme di persone unite attraverso un vincolo affettivo, di adozione o tutela, ma che siano coabitanti, se non nella stessa dimora, quanto mento nello stesso Comune. È interessante notare che in Italia, anche se nascono meno figli, si continua a fare famiglia, intendendo il desiderio di un uomo e una donna, o di una coppia unita da un sentimento, di stabilire una relazione e di condividere un progetto di vita che preveda quanto meno l’intenzione di fare figli. Ad oggi questa definizione di famiglia è sicuramente quella che maggiormente riflette la realtà, una realtà nella quale sono presenti molti modelli familiari che tendenzialmente hanno ormai abbandonato il modello patriarcale di famiglia. Seppur la famiglia è stata, o si è, 29 Art. 4, comma 1 e 2 del D.P.R. 30 Maggio 1989, n. 223, Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, in:
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1989/06/08/089G0287/sg.
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deistituzionalizzata non è propriamente corretto affermare che abbia esaurito la sua funzione sociale e culturale, sicuramente le sue funzioni hanno subito e stanno tuttora mutando nel tempo, ma la presenza simultanea di più tipologie di famiglia non rappresenta una distruzione di un’istituzione comunitaria che abbia il suo peso nella società nel quale è inserita. Sebbene le principali funzioni, che originariamente erano in seno alla famiglia, ad oggi siano riscontrabili e fruite da microsistemi diversi come ad esempio la scuola, conserva quello che è il suo ruolo sociale e culturale. Da questa capacità plastica della famiglia di mutare ed adattarsi ai nuovi paradigmi sociali, emerge che proprio questa elasticità e flessibilità rappresentano i suoi punti di forza che permettano a questo microsistema sociale, seppur privato di parte delle sue funzioni istituzionali, di funzionare correttamente e di reinventarsi continuamente senza mai esaurire la sua competenza sociale. Oltre al contesto socio-culturale, un altro importante fenomeno che ha contribuito al cambiamento della famiglia è stato sicuramente l’accesso nel mondo del lavoro da parte delle donne. Dall’inizio degli anni Settanta si assiste ad un fenomeno nel quale le donne fanno la loro comparsa nel mondo del lavoro, anzi ritornano nel mondo del lavoro, poiché durante il periodo bellico e anche nei territori rurali le donne già lavoravano. In particolare si assiste ad un fenomeno secondo il quale le donne sotto i 25 anni di età erano particolarmente attive nel mondo del lavoro, si ritiravano poi dopo il matrimonio e/o la nascita del primo figlio, per poi rientrare attivamente nel mondo del lavoro intorno ai 35-40 anni, quando i figli erano ormai grandi. Questa tendenza è stata registrata in tutta l’Europa eccezione fatta per l’Europa meridionale, che vede poche donne rientrare nel
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mondo del lavoro, una volta ritiratesi. Ad oggi la situazione è completamente cambiata, infatti, la popolazione femminile, che prima lavorava fino ai 25 anni per poi ritirarsi a vita familiare, oggi ha il suo boom di attività30 tra i 35 e i 44 anni, dove circa il 70%31 della popolazione femminile è attiva a livello lavorativo. La ricomparsa nel mondo del lavoro da parte delle donne, inizialmente assume la forma del lavoro part time, un tipo di lavoro che occupa mezza giornata, così da ben conciliarsi con il lavoro familiare, tradizionalmente di competenza femminile. La situazione si è modificata negli ultimi anni, poiché da parte delle famiglie c’è stata una necessità di incrementare il reddito familiare e quindi l’esigenza di aumentare l’orario di lavoro, o addirittura facendo più lavori e non tutti retribuiti regolarmente. Recentemente la richiesta di lavorare full-time da parte di entrambi i componenti della coppia, ha permesso l’esternalizzazione delle funzioni di cura della famiglia, la così detta defamilizzazione delle cure assistenziali familiari. Si è notato che nei Paesi in cui è garantita una buona rete di servizi rivolti all’infanzia e all’assistenza degli anziani, è maggiormente favorita l’occupazione lavorativa femminile32. Nel caso italiano la rete dei servizi è per la maggior parte privatizzata, il carico di cura è lasciato in maniera principale alle famiglie, che eventualmente vengono sostenute con un aiuto economico. In risposta alle esigenze lavorative del mercato stesso però, le famiglie si sono organizzate autonomamente attraverso la rete dei servizi assistenziali privati che possono essere rafforzati da quelli pubblici, là dove presenti. A questa esigenza lavorativa
30 Per Tasso di attività si intende sia la popolazione effettivamente occupata professionalmente, sia la popolazione in cerca di occupazione.
31 Dati raccolti da Istat, aggiornati al 2018, in: http://dati.istat.it/Index. aspx?DataSetCode=DCCV_TAXATVT1# .
32 Cfr. E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro. Il mercato del lavoro tra famiglia e welfare, Il Mulino, Bologna 2005, p. 70.
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del mercato del lavoro è collegata la denatalità, il nucleo familiare si costituisce tardivamente rispetto agli anni precedenti, l’età media di una donna al primo parto è di 32,2 anni33, e nella maggioranza delle famiglie italiane il primo figlio rimane anche l’unico, questo perché risulta difficile la gestione di lavoro familiare ed extra familiare. Nella previsione futura che tale lavoro, quello familiare, aumenterà in visione di una possibile non autosufficienza di un genitore dei componenti del nuovo nucleo, in una previsione di futura difficoltà economica già instabile, fare meno figli rappresenta un compromesso accettabile per la nuova coppia, la media di figli del paese è di 1,24 figli per donna. C’è però da interrogarsi sul motivo scatenante la denatalità e la relazione che c’è, se c’è, tra denatalità e occupazione femminile. Si deve riflettere se le nuove famiglie fanno meno figli perché si lavora di più o se si lavora di più perché ci sono meno figli. Come abbiamo visto all’inizio degli anni Settanta l’attività occupazionale femminile subiva una regressione con la comparsa del primo figlio e/o del matrimonio, oggi invece ad un accesso nel mondo del lavoro combacia l’arrivo del primo figlio e/o del matrimonio, di conseguenza si può affermare che l’occupazione femminile non è causa di denatalità, ma piuttosto l’occupazione di entrambi i membri della coppia favorisce il costituirsi di una nuova famiglia. Per tanto si dovrebbero pensare delle politiche sociali che favoriscano l’occupazione femminile aumentando le agevolazioni per chi si occupa del lavoro familiare. A tale proposito se entrambi i genitori lavorano full time risulta difficile la gestione del lavoro familiare senza esternarlo alla famiglia, incrementando però così le spese alle quali sono soggette le famiglie. La soluzione teoricamente più consona per riequilibrare il tasso di fecondità
33 Cfr. Istat, Report: Indicatori demografici 2020.
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del paese, senza ledere l’occupazione femminile, che non è necessariamente causa della denatalità, potrebbe essere rappresentata da una temporanea riduzione dell’orario di lavoro a impiego part-time da parte di uno dei due membri costituenti il nuovo nucleo familiare. Sebbene le forme familiari si siano estremamente modificate nel corso degli anni, in Italia la famiglia rappresenta ancora un microsistema sociale ed economico molto importante. Lo stesso Stato propone un sistema di welfare basato sul lavoro di cura interno alla famiglia, lavoro di cura che risulta essere ancora suddiviso e sbilanciato nei confronti del genere femminile. Le donne che escono dal mondo del lavoro, nella maggioranza dei casi si trovano a dover prendersi cura del proprio partner, dei nipoti, dei figli e della casa; gli uomini invece si dedicano principalmente ai propri hobbies e interessi. La rete di sostegno alla quale lo stesso Stato fa affidamento, è una rete assistenziale nel quale fanno parte per diritto e/o dovere i parenti stretti conviventi o meno della persona che necessita dell’aiuto, coniugi, partner, nonni, genitori, fratelli, figli e nipoti. La rete poi si va ad allargare in base alle persone sulle quali si può contare, come ad esempio altri parenti, amici e vicini. Se suddividiamo la popolazione in tre gruppi così dipartiti, giovani persone tra i 18 e i 33 anni, adulti persone tra i 34 e i 64 anni e anziani persone oltre i 65 anni, potremmo capire come la rete socio-assistenziale cambia in base all’età. Più si è giovani, più si può contare su almeno un amico oltre che sui propri legami parentali.
Il numero di amici sui quali si può contare si riduce con l’avanzare dell’età, in particolare i giovani possono far affidamento su un gran numero di amici che poi si riduce drasticamente con l’età adulta, arrivando quasi ad essere inesistente nell’età anziana. Per quel che riguarda
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la rete di sostegno parentale, quella dei giovani è composta principalmente da genitori, nonni, fratelli, sorelle e zii. Situazione che si modifica quando si diventa adulti. La rete amicale in questa fascia d’età si restringe, ma a quella parentale si aggiungono partner e figli. La rete di sostegno dell’anziano, invece, è composta da figli, nipoti, partner, fratelli e sorelle; ai quali si aggiunge un esiguo numero di amici 34 .
Diventa quindi chiaro il motivo per il quale in Italia la famiglia, seppur privata delle sue funzioni primarie, rivesta un ruolo centrale e molto importante nella vita di ogni persona e in particolare nella vita dell’anziano. Anziano che molto spesso si ritiene gettato in una condizione di solitudine, nella quale l’unica ancora di salvezza è rappresentata, appunto, dai parenti. Questa solitudine si fa ancora più assordante nell’anziano fragile e non autonomo, che spesso si sente un peso per i membri della famiglia che ne hanno cura, può entrare così in un’aspirale depressiva e autodistruttiva. Gli stessi componenti della famiglia che ruotano intorno all’anziano, spesso possono avvertire difficoltà nel riorganizzare vite e impegni in base alle nuove esigenze e necessità.
Nella senescenza, l’anziano subisce un processo fisiologico di fragilizzazione fisica che ha, però, ripercussione nella sfera mentale e psico-affettiva. Mantenere una buona rete sociale significa per l’anziano, tenersi lontano dalla percezione di perdita degli affetti che, a sua volta, comporta un senso di solitudine alla quale, l’anziano stesso e in maniera particolare il grande anziano, può essere esposto.
Mantenere una buona rete sociale alleggerisce anche la famiglia che ha cura dell’anziano, permette ai membri della famiglia di non entrare in dinamiche stressanti, 34 Istat, Rapporto annuale 2018. La situazione del paese, Roma, 2018, p. 152.
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come potrebbe essere il dover agilmente muoversi tra impegni lavorativi, sociali e familiari. Come detto nel capitolo precedente, non tutti gli anziani vanno incontro ad una perdita di autonomia, ovviamente l’anziano autonomo ha bisogno di un aiuto esterno molto più limitatamente, in molti casi è esso stesso a fornire aiuto. L’anziano parzialmente o completamente non autonomo, invece, ha bisogno di un’assistenza, che può essere continua o discontinua, ma richiede un aiuto diverso. Questo aiuto generalmente è fornito dalla rete parentale, ed è chiaro che può comportare per la famiglia un carico maggiore. Diventa complesso dover organizzare le giornate facendo collimare tutti gli impegni, si cerca come si può di suddividere gli impegni tra tutti i membri della famiglia. Molto spesso possono entrare in gioco e riemergere conflitti familiari che si erano attenuati nel tempo, rendendo così più astiosa la gestione familiare dell’anziano.
Le dinamiche conflittuali che si instaurano nell’assistenza familiare potrebbero essere frutto di uno stress maturato dalla concomitanza di altri fattori, stress che potrebbe portare ad una lotta tra caregivers nella quale l’uno imputa all’altro l’insufficienza del tempo dedicato all’assistito. La Long Term Care, ovvero l’assistenza continuativa e a lungo termine di una persona in condizione di fragilità, altera inevitabilmente gli equilibri dell’assistito tanto quanto quelli della famiglia. Nel caso dell’anziano non autosufficiente, è molto difficile accettare la propria condizione di non autonomia, ma diviene ancora più difficile lasciare che altre persone, come per esempio figli o nipoti, si prendano cura di essi. Potrebbe essere difficile lasciare che coloro di cui si è avuto cura, debbano, per volontà propria o per circostanze di forza maggiore, ricambiare tale cura. Dall’altro canto potreb-
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be incontrare ostacoli l’accettazione di tale situazione da parte dei familiari, che potrebbero sentirsi smarriti e non sapere come ben muoversi in tale situazione. Oltre che potrebbero esserci difficoltà oggettive nel dover assistere coloro che generalmente si occupavano della famiglia, si pensi ad un marito over sessantacinque che si trova ad essere il primo caregiver della propria moglie, in un panorama culturale nel quale i compiti di cura e assistenza sono stati, e sono tuttora, fortemente sbilanciati verso il genere femminile. La stessa legge 328 del 2000, definita legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, attribuisce alla famiglia un ruolo centrale nei compiti di assistenza dei propri familiari affetti da fragilità35.
La figura del caregiver è principalmente di genere femminile, che nella maggioranza dei casi è convivente dell’assistito. Inoltre è emerso dalle indagini fatte a riguardo, che un alto livello di istruzione sembra avere una correlazione con la scelta di assistere l’anziano disabile o fragile all’interno del proprio domicilio. Più sale l’età dell’assistito più aumentano le ore di assistenza che richiede, fino ad arrivare ad una necessità di copertura di ventiquattro ore. Inoltre da quanto detto in precedenza, nel caso in cui la famiglia scelga un’assistenza domiciliare, è più probabile che chi abbia cura dell’anziano in condizione di bisogno siano il partner o i figli, generalmente coabitanti. Più rari sono i casi in cui l’assistenza continua è fruita da un parente lontano o non abitante. A questi ultimi ci si rivolge nel caso in cui il caregiver primario abbia impedimenti o bisogno di momenti di sostituzione nell’assistenza36.
35 Cfr. Legge 8 Novembre 2000, n. 238, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.
36 Cfr. Istat, La relazione tra offerta di servizi di Long Term Care ed i bisogni assistenziali dell’anziano, 2010.
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Può capitare che la frustrazione che si prova nel vedere l’anziano che non riesce ad accettare la sua nuova condizione di salute e la percezione che ha l’anziano riguardo alla non accettazione di tale condizione da parte del caregiver, possa inasprire il rapporto diretto tra la persona non autonoma e lo stesso caregiver. La complessità che porta con sé la situazione di non autosufficienza, temporanea o permanente che sia, non riguarda solo chi ne ha cura, ma anche colui o colei ai quali sono destinate le cure. Riuscire ad ascoltare e comprendere divengono due capacità indispensabili di chi dovrebbe aver cura di altre persone in una condizione di estrema fragilità, nella quale si è maggiormente esposti all’altro. Si dovrebbe imparare sì ad ascoltare e comprendere l’altro, ma ancora di più se stessi. L’autentico ascolto e la comprensione, intesa nell’etimologia latina della parola cioè “cum prendere”, “prendere con sé”, devono partire dall’ascolto di se stessi. È necessario e doveroso capire i propri segnali di stress, quei segnali che permettano di avvertire la necessità di chiedere aiuto, di farsi alleggerire la condizione di assistenza. È importante ascoltare se stessi, per poter ascoltare i bisogni dell’altro senza andare così ad appesantire la sua condizione. Risulta evidente che questa non sia una cosa semplice, è proprio in questo spazio che trova posto la figura emergente del consulente pedagogico.
La consulenza pedagogica in Italia si afferma in ambito familiare, è, infatti, nel sostegno alle famiglie che il counselling affonda le sue radici. Il consulente è una figura professionale che a livello internazionale si è affermata nel periodo intercorso tra le due Guerre Mondiali, in Italia è una figura che si sta affermando con difficoltà ed è apparsa in correlazione ai consultori familiari, sia per una necessità dei giovani di comunicazione e dialogo, sia
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per un sostegno alla genitorialità. Abbiamo visto precedentemente che la concezione di famiglia si è modificata nel tempo, andando incontro a una nuova composizione e costituzione, la perdita di istituzionalizzazione della famiglia ha comportato una difficoltà nel riconoscimento dell’autorità. I genitori hanno difficoltà nel riconoscersi nel loro ruolo di guida e i giovani figli hanno difficoltà ha riconoscere l’autorità dei genitori. La crisi dei valori causata dalla connotazione individualistica della società odierna, ha provocato una crisi dell’educazione. In questo panorama trova spazio il consulente pedagogico, è nei momenti critici delle varie fasi di crescita che emergono i bisogni e la ricerca di aiuto.
“Affrontare il tema della consulenza educativa significa approfondire la questione della relazione interpersonale e della natura dialogica dell’essere umano, vuol dire cioè addentrarsi in uno dei domini fondamentali della riflessione pedagogica”37.
La relazione di consulenza pedagogica si connota come una relazione di aiuto sbilanciata, perché chiaramente c’è una parte che si offre all’altra in una situazione di percepito disagio, ma proprio per la sua caratteristica educativa e di sospensione di giudizio, diviene una relazione reciproca, nella quale entrambe le parti entrano in gioco offrendo all’atro se stesso. Il consulente familiare non propone una soluzione ai problemi che le famiglie o gli assistiti riferiscono loro, ma propongono l’avvio di un percorso di auto aiuto, che non si rifà ad un preciso modello prestabilito e confezionato, ma che sia un percorso costruito insieme tra operatore e cliente. Sebbene chi si rivolga ad un consulente entra in questa relazione in una situazione di difficoltà, l’asimmetria relazionale, viene colmata da una parità valoriale, che permette il reciproco
37 Simeone D., La consulenza educativa. Dimensione pedagogica della relazione d’aiuto, Milano, 2017, p. 20.
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scambio. La relazione d’aiuto diviene così una possibilità di potenziamento delle proprie capacità, così da poter acquisire capacità valutative e decisionali del proprio percorso di vita. L’obiettivo della relazione educativa è quello di promuovere la consapevolezza di se stessi, le capacità, le potenzialità della persona e la sua crescita, attraverso un percorso strutturato consapevolmente e in collaborazione, percorso che deve essere sorretto da un sistema axiologico costruito, fatto proprio e radicato. La consulenza educativa rappresenta una relazione d’aiuto del quale oggi c’è maggior bisogno, è “un sostegno offerto alla persona per la sua piena realizzazione”38, in particolare rappresenta un importante sostegno per le situazioni di difficoltà.
Un momento di difficoltà può sicuramente essere rappresentato da una situazione di fragilità o “fragilizzazione” come quella dell’anziano. In particolare la condizione di non autonomia totale, parziale, temporanea e permanente, fa emergere una situazione di dipendenza, che può essere motoria e/o cognitiva, tale condizione di dipendenza a sua volta fa emergere una serie di bisogni dell’anziano e interpretare tali bisogni può essere un compito arduo, può succedere che il caregiver non li capisca o ne capisca altri differenti da quelli che vuole esprimere l’anziano. È importante perciò considerare che la stessa organizzazione mentale, cognitiva e psichica di un anziano che sta andando verso la fine della sua vita sia diversa da quella di un bambino o di un adulto. Seppur vi sia una lotta per mantenere quei residui di autonomia ancora presenti, i tempi e i ritmi si dilatano e rallentano notevolmente, inoltre stare a contatto con l’anziano morente mette di fronte a una condizione di effettiva limitatezza dell’uomo che mette paura. Vivere
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38 Cfr. Ivi, pp. 18-19.
la sofferenza degli altri e ancor di più dei propri cari rappresenta una situazione complessa da elaborare, tanto da rischiare di far cadere i caregiver ma anche gli stessi anziani in spirali di solitudine e conseguentemente di depressione. Gli anziani, maggiormente i grandi anziani, non parlano più di progetti futuri, piuttosto vivono ravvivando continuamente il ricordo del passato, ricercando quelle figure che nella giovinezza sono state un importante punto di riferimento e che infondano un senso di sicurezza e familiarità, come ad esempio figure genitoriali, sorelle, fratelli e amicizie; un passato che ha bisogno di essere raccontato ed ascoltato. Si colloca qui il counsellor che come prima cosa accoglie questo bisogno di ascolto e accoglienza dell’anziano e del suo passato, e in secondo luogo, proprio attraverso questo ascolto, entra in relazione con esso e costruisce un percorso che possa aiutare l’accettazione della nuova condizione. Affinché questo canale comunicativo che si intende aprire con l’anziano sia funzionale, si deve optare per uno stile comunicativo, che deve essere sempre semplice, ma deve essere calibrato anche in base al grado di scolarità dell’interlocutore, così da permettere l’avvicinamento autentico alla personalità e alla psiche della persona con cui si sta interagendo. Un linguaggio appropriato in tale condizione, che è già molto delicata, può avere dei risvolti terapeutici e può permettere di entrare in sintonia ed empatia con l’anziano e la sua famiglia. Sarebbe altrettanto opportuno non rivolgersi in termini negativi come ad esempio “Non riesci più a fare…” “Non posso più fare…”, per non appesantire involontariamente la situazione di fragilità che sta vivendo; o parlare della persona come se non ci fosse, poiché si ritiene che tanto non possa capire ciò che si sta dicendo. Sarebbe più opportuno parlare direttamente con la persona rivolgen-
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dosi con toni e termini il più possibile propositivo. Altro compito del consulente familiare è quello di favorire un dialogo, là dove possibile, tra i caregivers, l’anziano e la sua famiglia. Nel caso in cui la fragilità sia causata da una condizione di demenza, il dialogo verbale può essere difficile, si deve quindi trovare un’altra chiave per poter entrare in relazione con l’anziano, una relazione nella quale si deve entrare in punta di piedi e chiedendo il permesso. Quando si ha a che fare con le patologie di demenza e patologie neurodegenerative la gentilezza e la dolcezza sono le chiavi che permettono di aprire una forma di dialogo con l’altro. A tale proposito il corpo può rappresentare uno strumento protesico per questi incontri, la vicinanza corporea può offrire un momento di accoglienza autentica, un momento nel quale l’anziano si senta realmente supportato e accettato, e con l’anziano anche la sua nuova condizione di fragilità nella quale si trova gettato. Una carezza, un sorriso, uno sguardo dolce, hanno per un anziano un valore inestimabile, questi gesti gli permettono di capire che non sono soli in questo loro ultimo cammino.
“E poi chissà cosa risuona nel cuore di un anziano che non si ricorda più il presente, che non sa più di essere sposato e di avere dei figli, quando gli occhi di un’operatrice o di un operatore che si posano su di lui gli ripropongono uno sguardo materno sedimentato nell’animo?
Sono momenti magici che gli operatori dovrebbero saper cogliere e mantenere cari dentro sé” 39 .
Il consulente si ritrova spesso a dover muoversi all’interno di un mondo composto da dolore, ma che è anche un dolore passato e che riaffiora e si fa nuovamente vivo e lacerante, deve permettere la nuova rielaborazione di un lutto già vissuto, ma che si ripresenta. Nei confronti 39 Regoliosi L. (a cura di), Il counselling psicopedagogico. Modelli teorici ed esperienze operative, Carocci Faber, Roma, 2013, p. 222.
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dell’anziano il counsellor rappresenta un filtro, che permette di rivivere il proprio passato, rivalutarlo e ripensarlo, permette di rivivere e rielaborare il dolore. È una persona che accetta e accoglie l’anziano con le sue sofferenze, le sue paure e i suoi bisogni. Cerca di rimetterlo in contatto con se stesso e con la propria famiglia. Ma il counsellor lavorando con l’anziano non autonomo o parzialmente autonomo, entra anche in relazione con la sua famiglia. Le attività di counselling, infatti, sono anche e per lo più rivolte alla famiglia e ai caregiver che si occupano dell’anziano e si fanno carico della sua assistenza sia umanamente che economicamente. L’attività principale del counsellor in questo campo è anzitutto da mediatore, prova ad aprire un dialogo all’interno della famiglia, tra i vari componenti e i principali caregiver dell’anziano così da poter cercare di avere una linea coerente nello stile assistenzialistico che si sceglie di adottare, direttamente o indirettamente. Il familiare caregiver con il quale il consulente entra in contatto, è una persona fortemente provata dalla situazione e questo lo manifesta in diversi modi: può essere una persona giovane che porta con sé una stanchezza che non appartiene alla sua età; può essere una persona che ha subito un invecchiamento precoce in seguito all’angoscia e alla preoccupazione che lo attanaglia in questa situazione e che la può aver condotta a prendere una decisione sofferta come quella di inserire l’anziano in strutte residenziali; può essere una persona che non riesce ad accettare tale condizione e quindi cerca di evadere questa realtà per costruirne una tutta sua; può anche essere una persona che ha bisogno di elaborare un lutto per una perdita, non naturale, ma la perdita di una persona che ormai non c’è più, perché consumata da una patologia, oppure una persona irriconoscibile. In questo ambito, il consulente, che si fa consulente fami-
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liare, sperimenta una nuova modalità di relazione, che è sempre una relazione di aiuto, ma propone un intervento per aiutare chi aiuta. Quindi propone un intervento creativo, un supporto che cerca di non colpevolizzare, di non giudicare, ma di favorire la riflessione su se stessi e favorire un’introspezione che sia costruttiva e che possa permettere di riprendere in mano la propria vita così da ritrovare la propria persona e non identificarsi solo come caregiver. Il counsellor aiuta la famiglia anche in questo a conciliare l’essere se stessi con l’esigenza di assistenza che vive l’anziano, per fare questo non sono proposti lavori lunghi e stancanti che graverebbero ancora più sulla condizione che sta vivendo il familiare in questione, ma cerca piuttosto di far cambiare il punto di vista, propone un percorso su se stessi che passi attraverso gli occhi dell’altro e all’immedesimazione nell’altro. Il consulente si fa stampella e supporto, non impone un modello e non offre una soluzione, cerca più che altro di stimolare la famiglia per trovare, se c’è una soluzione, cerca di ricucire dei rapporti lacerati e di rendere competenti i familiari che si occupano di fruire le cure necessarie alla persona in condizione di fragilità. Sempre in ambito di consulenza familiare il counsellor, può anche svolgere un’attività di orientamento che possa informare e rendere partecipi le famiglie di quali siano i servizi territoriali destinati all’assistenza, da quella domiciliare a quella residenziale.
“Il cuore di un servizio di counselling è costituito dall’elemento dell’ascolto: ascoltare i bisogni specifici di una famiglia e aiutarla a trovare una soluzione, senza necessariamente passare dall’attivazione di servizi tradizionali ma più semplicemente ponendosi in posizione aperta e supportando la famiglia nell’elaborazione della soluzione più consona”40.
40 Notarnicola E., Fosti G., Oltre la cura e l’assistenza. L’evoluzione dei bisogni delle famiglie e degli anziani rispetto all’informazione e al
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Finora si è visto come il consulente può rappresentare un sostegno e un concreto aiuto per l’anziano che si trova in condizione di solitudine e fragilità e per la sua famiglia, la figura del consulente può essere d’aiuto anche per l’équipe professionale che ruota intorno all’anziano e alla sua famiglia. Anche gli operatori che ricoprono un ruolo professionale e che quindi nella maggior parte dei casi scelgono di fare della cura il loro lavoro, sono anch’essi soggetti alle stesse fonti stressogene che invado il familiare caregiver per scelta o dovere. Il consulente all’interno del gruppo di lavoro può favorire un clima di scambio e confronto propositivo che funga da una sorta di auto-aiuto, può aprire un dialogo che favorisca il decentramento e il distacco necessario per poter fare questo lavoro. Nel collettivo comune si pensa che avere cura di persone che non siano propri familiari, sia più semplice proprio per questo, perché non vi è un legame familiare. Viene però omesso che, proprio perché non sono persone familiari per l’operatore, assisterle significa entrare maggiormente in empatia con esse e mettere in gioco delle emozioni autentiche. È proprio qua che ha un ruolo fondamentale la professionalità e l’abilità di creare un distacco da tale situazione, senza però essere distaccati nell’avere cura del proprio ospite che può essere l’anziano non autonomo. Il counsellor può, appunto, favorire la nascita di un ambiente di confronto e di condivisione che aiuti ad aiutarsi.
Elisabetta Rizzi41, nel definire l’attività di counselling, identifica tre ambiti che devono caratterizzare tutti gli interventi di consulenza, tali aree sono: l’area del sapere, counselling, 2019, p. 5, in: https://www.luoghicura.it/servizi/2019/03/ oltre-la-cura-e-lassistenza-levoluzione-dei-bisogni-delle-famiglie-e-degli-anziani-rispetto-allinformazione-e-al-counselling/.
41 Cfr., Regoliosi L. (a cura di), Il counselling psicopedagogico. Modelli teorici ed esperienze operative, op. cit., pp. 226-229.
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l’area del sentire e l’area del fare. Per quel che riguarda l’area del sapere, si fa riferimento alla preparazione teorica che un counsellor deve avere, una preparazione teorica che deve essere continuamente approfondita e aggiornata. Deve studiare e scoprire nuove modalità di lavoro, poiché ogni cliente rappresenta una nuova sfida, con un proprio mondo e delle proprie esigenze, deve essere in grado e pronto a trovare risposta alla domanda di aiuto diversificata che viene posta. In particolare nell’ambito delle demenze sono delineati diversi tipi di approcci adottabili:
- Approccio assistenziale, per assicurare condizioni dignitose di vita.
- Approccio riabilitativo, volto al mantenimento e, là dove possibile, al recupero funzionale motorio e neurocognitivo, aprendo o incrementando il dialogo, anche a livello terapeutico.
- Approccio validante, adeguato per aiutare gli operatori e per motivare la loro azione di aiuto nei confronti delle persone in condizione di fragilità.
- Approccio psicosociale, utile per indagare la sfera relazionale affettiva e le eventuali influenze che possano avere tali relazioni nella vita dell’anziano.
- Approccio protesico/gentlecare, che vuole colmare le mancanze individuali con programmi, ambienti e persone che possano aggirare l’ostacolo di alcune funzioni compromesse.
- Approccio capacitante, che cerca di potenziare quelle che sono le capacità delle persone per favorire la costruzione di una nuova realtà adatta all’anziano con ridotta autonomia allestendo un ambiente a lui accessibile.
L’area del sentire, è un’area che in cui ci si apre all’autentico incontro con l’altro e in cui si accoglie e ascolta tutta
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la sua storia. I rischi che si incorrono in questa area sono quelli di un’eccessiva immedesimazione e un eccessivo coinvolgimento che possono compromettere la stabilità del cliente e la stabilità del consulente, è qui che entra in gioco la professionalità di quest’ultimo. Si deve essere in grado di farsi coinvolgere creando però un forte distacco tra vita professionale e vita privata. A tale scopo possono tornare utili gli elementi di documentazione, come ad esempio protocolli osservativi, diario di bordo, e relazioni che possano aiutare a decentrarsi e a creare una sorta di distacco necessario per instaurare una sana relazione di aiuto.
Elisabetta Rizzi è un’educatrice e un consulente presso un Centro Diurno Integrato che accoglie anziani parzialmente o non autonomi. Per questa ragione nel parlare di area del fare non si può parlare solo di un vero e proprio fare, che rischia di esaurirsi brevemente, soprattutto in condizioni in cui ci sono Ospiti affetti da Alzheimer o altre patologie degenerative. È più adatto parlare di uno “stare”, stare accanto ed esserci per l’altro, aiutarlo a sopportare e supportare il dolore nel quale si è gettati. La fragilità che colpisce una persona e che ne compromette la sua autonomia, riguarda anche la famiglia nella quale è inserito. Per tale motivo trovare un aiuto e un sostegno in una figura formata per ascoltare e aiutare a “cum prendere”, a farsi carico della fragilità altrui senza gettarsi in una condizione di insostenibilità, rappresenta una grande risorsa. Il consulente familiare, si può occupare di aiutare l’anziano in condizione di difficoltà, la sua famiglia e le persone che rappresentano un aiuto. Cerca anche di aprire un dialogo nel quale sia incluso anche l’assistito, così da poter capire nel miglior modo possibile le criticità e le esigenze di ogni partecipante. Nell’avere cura di una persona fragile e in particolare
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dell’anziano, è richiesta una nuova organizzazione familiare, personale, ma non solo, richiede anche un rispetto dei tempi e dei ritmi. Conciliare responsabilità familiari e lavoro, è divenuto un nodo centrale delle politiche sociali nel momento in cui l’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne, anche se impegnate nei compiti di cura familiare, è divenuta una necessità culturalmente accettata e diffusa. Successivamente alle conquiste fatte dalle donne nel secondo Dopoguerra, ad esempio l’estensione del diritto al voto anche ad esse, nella fine degli anni Settanta si è iniziato a parlare di pari opportunità aprendo le porte del mondo del lavoro anche al sesso femminile, come detto in precedenza. Questo ha messo in crisi il sistema famiglia-lavoro, poiché le donne con carichi familiari hanno iniziato a lavorare, tradizionalmente i compiti di cura e di lavoro domestico spettavano alle donne della famiglia, mentre l’impiego regolare e standardizzato era prerogativa dell’uomo capofamiglia. Nella società italiana, fortemente incentrata sulla figura del Pater Familia, che pone nelle mani maschili la pienezza del potere socio-economico e politico, trova difficilmente spazio la figura lavorativa femminile. Soprattutto perché all’ingresso del mondo del lavoro da parte delle donne, non ha seguito una redistribuzione dei compiti di cura e familiari, anzi le donne spesso si trovavano a dover far convivere la loro funzione familiare con quella professionale. Nel corso degli anni, maggiormente negli ultimi anni, le necessità economiche sono cambiate, le famiglie hanno bisogno di incrementare il loro reddito e per questo entrambi i componenti del nucleo familiare lavorano assiduamente, facendo sì che i compiti familiari e di cura inizino ad essere condivisi ad esempio tra madre e padre. Per una coppia avere entrambi i partner che lavorano e contribuiscano
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al reddito familiare, significa avere una sicurezza nel momento in cui uno dei due partner rimanga senza occupazione o nel caso in cui la relazione/matrimonio finisca. Ma è necessario che entrambi i partner lavorino anche perché, come detto in precedenza, la situazione lavorativa oggi è composita da numerosi impieghi a tempo determinato o che richiedano prestazioni part time. Se da un lato questo permette di riuscire a conciliare lavoro e cura familiare, dall’altro lo limita poiché per tali forme di lavoro può non essere prevista la presenza di permessi, ferie o malattie retribuite, elementi stanziati e introdotti nei contratti di lavoro standard proprio per favorire il sistema famiglia-lavoro. In concomitanza con la differenziazione dei compiti di lavoro familiare e di lavoro professionale, sono cambiate anche le domande di cura, che non provengono solo e maggiormente da bambini piccoli, ma recentemente provengono anche da persone parzialmente o totalmente non autonome e persone anziane. Inoltre l’instabilità economica e la competenza qualificata richiesta dal mondo del lavoro, hanno comportato che le nuove famiglie si costituiscano più tardivamente, avere figli più tardi limita la compresenza tra nipoti e nonni. La denatalità inoltre ha rovesciato la piramide demografica, si hanno tanti nonni per pochi nipoti. Se da un lato l’invecchiamento della popolazione ha portato ad un aumento dei componenti anziani potenzialmente fragili, dall’altro ha aumentato i potenziali caregiver familiari: “mogli e mariti anziani, ma ancora in buona salute, che possono teoricamente prendersi cura in tutto o in parte del coniuge più fragile, nonne e nonni in salute e attivi che possono teoricamente dare una mano ad accudire nipoti (poco numerosi) non ancora autonomi”42. La famiglia monoreddito è in forte dimi42 M. Naldini, C. Saraceno, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni, Il Mulino, Bologna, 2011, p.28.
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nuzione, all’interno di un nucleo familiare è molto frequente che entrambi i genitori lavorino full time, questo rende difficile la gestione dei compiti familiari che necessariamente vengono sempre più esternalizzati. Sebbene esistano politiche sociali che agevolino i lavoratori che hanno a carico bambini fino a cinque anni di età, queste risultano esigue, in quanto con il compimento dei sei anni e l’ingresso alla scuola Primaria di Primo Grado, i bisogni di cura di bambini non cessano improvvisamente, ma seppur cambino forma sono comunque presenti, motivo per il quale sempre più spesso anche i compiti di cura dei figli minori vengono sempre più defamilizzati. Per quel che riguarda invece l’assistenza ad anziani le politiche a tutela dei diritti degli anziani e dei lavoratori che ne hanno cura, sono pressoché inesistenti. Questo è uno dei motivi per cui nell’assistenza agli anziani si ricorre maggiormente a servizi esterni alla famiglia, sia che siano pubblici, sia che siano privati. Nel momento in cui i figli-adulti si trovano ad aver cura dei propri genitori anziani, si incorre in ostacoli dettati proprio dalla relazione di genitorialità. I genitori anziani possono non riconoscere l’acquisita autorità dei figli su di loro, ponendosi così in una posizione di superiorità generazionale e a volte avversa ai figli, questa relazione può essere caratterizzata dal tipo d’interazione che l’ha connotata nel corso della vita. Inoltre rispetto alla cura di un bambino piccolo, la cura di un anziano è meno istituzionalizzata ed è meno identificabile per tappe. L’assistenza di un anziano non autosufficiente richiede una consapevolezza e un carico emotivo maggiore, poiché si sta accompagnando il proprio familiare verso la conclusione del percorso di vita.
Quando si perdono la propria autosufficienza e autonomia, i tempi si dilatano e diviene tutto più lento. Si pensi
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ad un bambino che fa i suoi primi tentavi ad esempio per allacciarsi le scarpe, o per mangiare da solo, i tempi che richiede sono sicuramente maggiori rispetto a quelli che ha a disposizione l’adulto. Si deve andare a lavoro, si deve andare a scuola, ci si deve sbrigare per non fare tardi, in questo panorama può succedere che l’adulto o il genitore si sostituiscano al bambino, vestendolo, imboccandolo e quant’altro. Ciò accade non perché non si vuole che il bambino sviluppi una propria autonomia, ma perché non si ha tempo per rispettare la naturalità di questo evento.
Nel caso dell’anziano tutto ciò accade, non per una lotta verso la conquista della propria autonomia ma per cercare di non perdere quelle competenze residue rimaste e che gli permettono di non divenire completamente dipendente da un’altra persona. Il caregiver che si occupa dell’anziano, così come l’adulto fa con il bambino, spesso si sostituisce a lui. La dilatazione dei tempi e dei ritmi è difficile da far combaciare con la vita quotidiana, caratterizzata da una dinamicità sempre più serrata.
“Si tratta, in sostanza, di rispettare la sua dignità e i suoi bisogni, senza imporre procedure standardizzate che ricordano le catene di montaggio o le caserme”43.
Da un’indagine svolta sulla popolazione tra i 18 e i 64 anni, emerge che il lavoro di cura è fortemente sbilanciato, se ne fa carico per la maggior parte il genere femminile. Inoltre si evince, anche, che uno dei problemi più importanti e che ostacola maggiormente la conciliazione tra cura e lavoro, è rintracciabile nell’orario di lavoro troppo lungo, o nella turnazione del fine settimana.
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43 Consiglio degli Anziani del Cantone Ticino, Anziani e qualità di vita. La casa per anziani. L’accoglienza, il quotidiano, il ruolo dei familiari e le risorse, Giubiasco, 2010, p. 30.
Fonte: Istituto Statistico Nazionale, 201844
Tra i compromessi ai quali, gli intervistati, sarebbero disposti a scendere troviamo una riduzione dell’orario lavorativo, circa il 24% delle intervistate trova nella riduzione del proprio orario di lavoro una consistente soluzione. Altra importante considerazione in seguito a tale indagine è che le donne sono coloro maggiormente favorevoli a scendere a compromessi, probabilmente perché poi, di fatto, sono le donne che maggiormente fruiscono cure familiari.
Nel territorio italiano circa il 34.6% della popolazione tra i 18 e i 64 anni è impegnata in attività di assistenza e di cure familiari rivolte a figli minori di 15 anni, parenti malati, disabili o anziani.
“Essere impegnati in un’attività lavorativa e allo stesso tempo doversi occupare di figli piccoli o parenti non autosufficienti comporta una modulazione dei tempi da dedicare al lavoro e alla famiglia che può riflettersi sulla
44 Sezione di un’iconografia realizzata dall’ Istat, riferita alla popolazione aventi figli tra gli 0 e i 14 anni, che mette ben in evidenza quali siano le difficoltà emergenti dalla relazione tra lavoro e compiti di cura familiare.
Cfr. Istat, La cura: conciliare lavoro famiglia, 2018, in: https://www.istat. it/it/archivio/235619.
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partecipazione degli individui al mercato del lavoro, soprattutto delle donne, le quali hanno un maggiore carico di tali responsabilità”45.
La cura nel corso degli anni si è sempre più privatizzata, si è detto che la famiglia gradualmente ha vissuto la privazione delle sue funzioni primarie, tra queste rientra anche la funzione della cura che viene sempre più esternalizzata e diviene parallelamente un bene di mercato. Il motivo è rintracciabile anzitutto in un mutamento sociale, partito principalmente dal mondo del lavoro che richiede una disponibilità, spesso completa, e che quindi mal si sposa con la cura di terze persone, e in un secondo momento per la percezione di stress con il quale si arriva a tale situazione. La scelta più semplice e conveniente, in termini di carico di lavoro, è quella di ricorrere a terzi per l’assistenza delle persone non autonome, specialmente se anziane. In questa decisione ovviamente entrano in gioco implicazioni psicologiche ed emotive, la difficoltà di vedere il proprio familiare in una condizione di bisogno e sofferenza, una difficoltà che spesso si traduce in un’avversione. Si è detto in precedenza che l’anziano che vive un momento di percepito isolamento sociale può sviluppare un comportamento aggressivo o ostile a qualsiasi stimolo sociale vengo ad esso proposto, questo può verificarsi anche e maggiormente nei confronti di chi elargisce le cure. Ciò porta ad un ulteriore inasprimento del possibile conflitto familiare già in essere, facendo entrare la relazione in un circolo vizioso nel quale l’anziano ritiene l’altro inadatto a prendersi cura di sé, e il caregiver ritiene l’assistito ingrato riguardo a tutto ciò che fa per lui. Questo può portare spesso a una decisione sofferta come quella di optare per un ricovero temporaneo o permanente presso strutture dedicate, o all’assun-
45 Istat, La cura: conciliare lavoro famiglia, 2018, in: https://www.istat. it/it/archivio/235619.
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zione di personale, più o meno competente, che fornisca la primaria fonte assistenziale. Ma prima di arrivare a questa decisione, che tendenzialmente per le famiglie rappresenta un’ultima spiaggia e una possibile soluzione che si inizia a considerare in seguito ad un aggravamento, la fonte di assistenza principale è la rete informale, che in Italia si allarga anche a parenti non appartenenti allo stretto nucleo familiare e rappresenta uno vero e proprio sistema di welfare assistenzialistico. La funzione di assistenza o care, tradizionalmente affidata alla famiglia, oggi è divenuta un vero e proprio lavoro, tanto che per ricoprire determinati ruoli legalmente parlando è necessaria una qualifica, quale quella di O.S.S., Educatore Professionale e Infermiere. In questo contesto la risposta principale che dà lo Stato Italiano è basata su un’erogazione monetaria, piuttosto che sulla presenza di effettivi servizi assistenziali. La politica familiare principale vigente nel nostro stato è quella di mantenere il più possibile la persona in condizione di fragilità, disabilità o non autosufficienza, all’interno della sua famiglia, per non incrementare la sensazione e percezione di isolamento. Per questo motivo la scelta più veloce e meno costosa che lo Stato potesse fare è quella di stipulare delle Indennità di Accompagnamento, alle quali si accede previa opportuna valutazione, che hanno lo scopo di contribuire parzialmente alle spese sanitarie e/o assistenziali necessarie. Un primo limite identificato da questa strategia è sicuramente il fatto che tale indennità non è calibrata in base all’intensità e gravità della situazione nella quale l’assistito si trova, quindi spesso risulta essere inefficiente per coprire l’intero servizio di cura che la persona in questione richiede. Altro limite è sicuramente il carico di assistenza, che viene interamente affidato alle famiglie, lo Stato così fa pienamente affidamento alla rete
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informale, non prendendo effettivamente in carico l’anziano, piuttosto si può definire un delegare la responsabilità ad altri, offrendo un sostegno economico che spesso è inadeguato alle esigenze manifestate. Un altro aiuto formale offerto all’anziano che rimane nel suo nucleo familiare, sono le assistenze domiciliari, rivolte all’anziano autonomo e non autonomo. In questo settore il limite intercettato è la natura di tale intervento che identifica le cure prettamente come cure di natura igienica o di disbrigo di faccende economiche e un altro limite è la poca assiduità con cui tale servizio è fruito. Si tratta di un massimo di qualche ora a settimana. Aiuto adatto a una persona che ha un buon grado di autonomia e che quindi si avvale di questo servizio per svolgere compiti di natura domestica, ma del tutto inefficiente per una persona in una condizione di medio-grave perdita di autonomia. Nel momento in cui a questo si aggiunge una scarsa disponibilità assistenziale familiare, che può essere causata da un’effettiva assenza di persone che possano fornire assistenza, come nel caso di persone sole o con figli che vivono lontano, o da una difficoltà nel collimare vita familiare e professionale con i compiti di cura, si ricorre all’aiuto di persone esterne al nucleo familiare, le quali prestano servizi di cura alla persona in cambio di compenso. Si è andato costituendo nel tempo un vero e proprio lavoro, la cura è diventata effettivamente un bene di mercato che ha un suo costo e delle sue richieste. L’esternalizzazione della funzione d’assistenza, sembra essere una delle scelte più naturali e più convenienti nella società odierna. Si può istaurare una collaborazione, che preveda una responsabilità condivisa tra familiare e figura professionale che si assume in qualità di caregiver, oppure un totale affidamento della responsabilità e del lavoro di cura a quest’ultima, pur mantenendo rapporti
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stabili con il genitore o l’anziano che è assistito. In questo caso il ruolo assistenziale che la famiglia esercita nei confronti del parente non autonomo è più che altro un ruolo di supervisione e retribuzione nei confronti del professionista. Ovviamente è logico dire che maggiore è il reddito della famiglia maggiore è il ricorso all’assistenza privata, questo perché avere buone disponibilità economiche permette di poter regolarmente elargire uno stipendio ad una terza persona, se le disponibilità economiche di una famiglia sono già scarse per il mantenimento della stessa, risulta più difficile poter pagare una terza persona. Un elemento che è emerso e si sta diffondendo maggiormente è il così detto welfare nascosto46 , composto da persone che prestano servizi di cura retribuiti privatamente presso le famiglie. Questo mercato sommerso è composto da collaboratori domestici o familiari che possono avere rapporti lavorativi regolarizzati secondo le leggi vigenti, da una forma contrattuale stipulata tra datore di lavoro (famiglia) e lavoratore (caregiver), oppure possono essere rapporti lavorativi retribuiti irregolarmente. Si può trattare di lavoratori che condividono l’abitazione con l’assistito, fornendo così un’assistenza che copre le ventiquattro ore giornaliere. Tendenzialmente chi offre questo tipo di servizio sono immigrati con o senza permesso di soggiorno che possono essere assunti regolarmente o irregolarmente, ma che trovano nel loro posto di lavoro anche un’abitazione. Pensare che il lavoro assistenziale irregolare sia prerogativa degli stranieri è, però un luogo comune, infatti, molti italiani prestano servizi di care retribuiti in maniera non conforme alle leggi vigenti, per incrementare il proprio reddito familiare o personale, senza dover pagare ulteriori tasse, ma che non rappresenta la prima46 Gori C. (a cura di), Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci, Roma, 2002.
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ria fonte di sostentamento. È un secondo lavoro, fruito generalmente da donne casalinghe, pensionate o lavoratrici part-time, che permette di arrotondare il proprio stipendio e in questo modo posso dare il proprio contributo economico al reddito familiare, senza dover sancire particolari vincoli con datori di lavoro e aggirare le eventuali trattenute fiscali. Spesso il lavoro irregolare per chi abitualmente fa dell’assistenza familiare il proprio sostentamento, può rappresentare anche un’ancora di salvataggio qualora il rapporto lavorativo assistenziale dell’anziano arrivasse a conclusione per decesso dello stesso. Così facendo i collaboratori possono mantenere rapporti lavorativi con più datori di lavoro contemporaneamente senza trovarsi improvvisamente disoccupati, e riuscendo così a fronteggiare l’improvvisa cessazione lavorativa.
C’è una grande difficoltà nel delineare il confine tra cura formale e informale, perché ad esempio può essere considerata cura informale anche quella prestata dal vicino che è non retribuito adeguatamente ma ricompensato, oppure può rientrare nella cura informale il familiare che assiste l’anziano e che come remunerazione si appropria dell’indennità di accompagnamento, o ancora del familiare che utilizza l’indennità di accompagnamento per retribuire il caregiver professionale. Per tale motivo si intende per rete assistenziale informale, quella rete che presta sostegno e servizio di care, senza alcun tipo di compenso. Lo stato per ostacolare la diffusione di questo mercato sommerso rappresentato dalla prestazione di servizi di cura irregolari, ha intromesso due misure, la più recente è quella del libretto famiglia, l’altra la più longeva, è quella del contratto da collaboratore familiare (colf). Il primo è volto a regolare la prestazione di lavoro occasionale, è limitato, infatti, da un’erogazione totale
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annua di 5000€; mentre il secondo è un vero e proprio contratto che individua quattro tipi di inquadramento professionale retribuiti diversamente ed è rivolto a persone che svolgono mansioni di sostegno alla famiglia (badanti, colf, cuochi, bambinaie, autisti). Questi due strumenti risultano inefficaci contro la lotta dell’evasione fiscale per due motivi fortemente correlati fra loro, per stipulare un contratto la famiglia, che diviene datrice di lavoro, deve avere un determinato reddito tale per cui possa permettersi di stipendiare una terza persona. Legato a questo c’è il secondo motivo, infatti, sia nel libretto famiglia, che nel contratto da collaboratore familiare, è indicata la tariffa oraria minima, sotto la quale non si può scendere per non rischiare di sottopagare il lavoratore. Questo richiede sicuramente uno sforzo economico alla famiglia maggiore rispetto all’accordo non legale che si può fare con il lavoratore e all’eventuale retribuzione irregolare nella quale si può scegliere la tariffa. Può succedere che l’anziano che viene affidato alle cure di una persona esterna al nucleo familiare o ad una struttura, viva questa condizione come un abbandono da parte della famiglia, innescando così degli atteggiamenti aggressivi e astiosi nei confronti del personale predisposto alla sua cura. Questo comportamento, possibilità che rientra come conseguenza dell’isolamento sociale percepito dall’anziano, che può anche essere effettivo, ha degli sviluppi spesso negativi sulla famiglia che non riuscendo a individuare una figura stabile da preporre all’assistenza dell’anziano non autonomo, può percepire il carico di cura come oppressivo. Ma una delle motivazioni probabili per cui questa scelta viene vissuta con senso di solitudine è proprio perché tradizionalmente tali compiti erano affidati alla famiglia e in particolare alle donne. Nella società consumistica di oggi e nella si-
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tuazione di difficoltà economica nella quale è collocato il nostro Paese, è sempre più normale e necessario che entrambi i componenti del nucleo familiare lavorino per raggiungere un reddito familiare che permetta una normale conduzione della vita, questo comporta un necessario bisogno di ricorrere all’aiuto di terze persone per i compiti di cura ed assistenza. La famiglia si rivolge all’aiuto di terze persone anche nell’educazione dei figli, diviene molto diffusa nelle famiglie anche la figura della baby-sitter oppure rivolgersi a Nidi d’Infanzia per coprire una parte della giornata nella quale non si saprebbe a chi lasciare i figli. Se anni fa mandare i propri figli al Nido era ritenuto un non curarsi del loro bene, oggi questa concezione negativa del Nido non c’è più in parte per delle esigenze familiari e sociali che sono inevitabilmente mutate, in parte anche perché è stata dimostrata l’importanza educativa e di sviluppo che ricoprono i Nidi nella crescita del bambino. Questo permette di ipotizzare che i futuri anziani potrebbero essere più favorevoli a ritrovarsi affidati a terze persone o a strutture preposte alla cura, proprio perché sono state abituate fin da piccole ad avere intorno figure professionali che avessero cura di loro. Quello che oggi rappresenta un problema potrebbe risolversi in futuro, ma apre un ampio spazio ad un altro fulcro e problema sociale, il poco tempo che si passa in famiglia. Questa scarsità di relazioni autentiche che si sta vivendo oggi giorno porta ad un sempre più diffuso isolamento personale, ci si chiude nel proprio mondo e si taglia fuori tutto il resto. Come già detto in precedenza la persona passa molto più tempo nei contesti formali e nelle istituzioni scolastiche di quanto non ne passi a casa, diviene quindi ancora più necessaria riscoprire l’autenticità dei rapporti.
Può succedere che la famiglia abbia necessità di ricorrere
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all’aiuto di terzi per l’assistenza familiare; necessità che può nascere da esigenze di natura lavorativa o da un’incapacità di sostenere questo tipo di assistenza. Il primo aiuto che la famiglia può chiedere, è sicuramente rappresentato dalla rete di sostegno informale, quindi da parenti non conviventi, amici, vicini o da associazioni di volontariato estranee alla famiglia.
“L’invecchiamento della popolazione fa aumentare il bacino di persone che hanno bisogno di assistenza, soprattutto i ‘grandi anziani’, dall’altra, fa sì che più persone, i ‘giovani anziani’, siano più di frequente nella condizione di fornire aiuti”47. Di nuovo si torna a porre l’attenzione e a sottolineare l’importanza dell’invecchiamento attivo. In un paese che invecchia e che richiede un bisogno di assistenza sempre più elevato, diviene fondamentale sensibilizzare la popolazione su questo tema. Avere anziani in buona salute, potrebbe significare avere degli anziani che possano fornire aiuto alle famiglie e alle persone in condizione di fragilità e che possano incrementare la rete di sostegno informale.
“Il caregiving informale gioca un ruolo fondamentale nel dare supporto alla gestione della quotidianità sia per le ADL che per le IADL (Centola, 2016). I dati ISTAT (2018 b) più recenti sugli aiuti informale confermano che sono gli anziani soli ad aver ricevuto aiuto e sostegno rispettivamente alle attività domestiche, alla compagnia, all’accompagnamento, all’ospitalità e all’espletamento di pratiche burocratiche, in misura decisamente superiore alle altre tipologie familiari”48.
La rete di sostegno informale rappresenta per le famiglie
47 Istat, Rapporto annuale 2018. La situazione del paese, Roma, 2018, p. 158.
48 Gubert E., Anziani fragili e gestione della quotidianità, in Luoghi di Cura Network Non Autosufficienza NNA, 2019, p. 2, in: https://www. luoghicura.it/dati-e-tendenze/2019/08/anziani-fragili-e-gestione-della-quotidianita/.
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e per tutto il territorio uno degli organi che fruiscono maggior supporto, soprattutto perché rappresenta sicuramente una minor spesa economica che le famiglie si trovano a dover affrontare, ma anche perché l’anziano rimane all’interno del nucleo familiare e quindi la sua percezione di solitudine è sicuramente minore. “Una misurazione sintetica della percezione del sostegno sociale si basa su un indicatore condiviso a livello europeo, Overall perceived social support (Oslo scale), che si articola su una scala a tre modalità (debole, intermedio, forte). Esso è costruito combinando tre quesiti rivolti alle persone di 15 anni e più, con l’obiettivo di rilevare l’estensione della rete di sostegno sociale (Quante persone sente così vicine da poter contare su di loro in caso di gravi problemi personali?), il grado di solitudine e isolamento (Quanto le sembra che gli altri siano attenti a quello che le accade?), la presenza di un sostegno pratico di prossimità, che non sia quello familiare, ma di vicinato (Quanto facile sarebbe avere un aiuto pratico da vicini di casa in caso di bisogno?)”49.
Secondo l’indicatore europeo, che, appunto, misura il grado di sostegno percepito dalle famiglie in situazione di difficoltà, il 55,1% delle persone si colloca in un livello intermedio di sostegno sociale percepito, il 27,7% in un livello forte e il 17,2% in un livello debole. Da questi dati si evince che il sostegno fruito alle famiglie in condizione di fragilità e difficoltà, è ritenuto dalle famiglie stesse adeguato, o quanto meno esistente, nella maggior parte dei casi. Quello su cui si tenta di porre l’attenzione è quale sia la natura di questo aiuto. In particolare va considerato che molto spesso le persone si trovano gettati a dover fare i conti con una condizione di non autosufficienza improvvisa, si pensi a una limita49 Istat, Rapporto annuale 2018. La situazione del paese, Roma, 2018, p. 164.
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zione dell’autonomia della persona in seguito ad una caduta, condizione che può anche essere temporanea, ma che richiede un intervento immediato. In questo caso la famiglia può trovarsi disarmata e ignara di quali siano i passaggi per rivolgersi ad una rete di sostegno formale. Può non essere a conoscenza di quali siano i processi burocratici ai quali sottoporsi, oltre che può non conoscere i canali comunicativi da aprire con gli enti comunali e statali per richiedere aiuto nell’assistenza. Inoltre la rete dei servizi pubblici di cure rivolti a persone non autosufficienti, trova uno scoglio nel fruire i servizi a causa della scarsità di risorse a disposizione. A tal proposito come emerso dai dati raccolti nel 1° Rapporto Osservatorio Long Term Care50, solamente il 31,9% degli anziani trova risposta ai propri bisogni nei servizi pubblici. Inoltre, di questi, solo il 10-12% è realmente preso in carico dall’offerta pubblica. Circa il 70% della popolazione non autosufficiente italiana, riceve come unico aiuto da parte dei servizi italiani, un compenso monetario. Tali aiuti economici negli ultimi anni sono aumentati proporzionalmente con l’aumento demografico della popolazione over 65. Idealmente questo supporto di natura economica, potrebbe rappresentare una valida alternativa pubblica, se non fosse che è un aiuto di valore molto limitato e non è ponderato né in base al redito dell’assistito, valutato secondo il modello Isee, né in base alle sue condizioni e necessità di aiuto, che dovrebbe essere valutato in base alla gravità e all’intensità della non autosufficienza. Le famiglie si sono quindi adoperate diversamente per far fronte ai loro bisogni scaturiti da una condizione di non autosufficienza, rivolgendosi a servizi interamente o parzialmente privatizzati. Si sono delineate così due
50 Fosti G., Notarnicola E. (a cura di), L’innovazione e il cambiamento nel settore delle Long Term Care. 1° Rapporto osservatorio Long Term Care, Egea S.p.a, Milano, 2018, p. 95.
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grandi categorie lavorative nelle cure a lungo termine, cioè rivolte alla non autosufficienza; la prima categoria è rappresentata da un settore lavorativo composto da più di 980.000 collaboratori domestici che si occupano di soddisfare le esigenze familiari, nelle quali rientra l’assistenza ad anziani, che a volte può essere fruita con modalità inadeguate e con scarsa competenza. La seconda categoria è, invece, costituita da strutture sociosanitarie, residenziali, semiresidenziali o diurne, che offrono una temporanea o permanente presa in carico dell’anziano. La condizione di non autosufficienza comporta ad una famiglia, un bisogno estremo di riorganizzazione quotidiana. Si deve far combaciare il proprio orario lavorativo con impegni familiari, sociali e assistenziali del malato. Generalmente questo compito è prerogativa del genere femminile, diventa quindi molto complicato sostenere dei ritmi così incalzanti e serrati. Inoltre molto spesso si deve disporre diversamente l’ambiente familiare nel quale vive l’anziano non autonomo, rendendolo più adeguato alla nuova condizione fisica e mentale della persona che quotidianamente lo abita. Per questo sempre più famiglie preferiscono ricorrere all’aiuto delle così dette “badanti” o al ricovero presso strutture dedicate.
“Si intende per prestazione residenziale e semiresidenziale il complesso integrato di interventi, procedure e attività sanitarie e socio-sanitarie erogate a soggetti non autosufficienti, non assistibili a domicilio all’interno di idonei ‘nuclei’ accreditati per la specifica funzione. La prestazione non si configura come un singolo atto assistenziale, ma come il complesso di prestazioni di carattere sanitario, tutelare, assistenziale e alberghiero erogate nell’arco delle 24 ore”51.
51 Ministero della Salute, Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei Livelli Esistenziali di Assistenza (a cura di), Prestazioni residenziali e semiresidenziali, 2007, p. 3.
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Ricorrere ad un’assistenza domiciliare permette, anzitutto, di continuare a far permanere l’anziano nella propria abitazione, sottoponendolo ad una costante supervisione da parte di un caregiver, che si alterna con i familiari stessi. Questa scelta lascia l’anziano sotto la tutela della famiglia, può quindi sopperire al senso di solitudine e di abbandono che potrebbe pervadere l’anziano lasciato solo. La difficoltà primaria che si incontra in questa fase è sicuramente quella di riuscire a reperire e scegliere una persona consona e adatta a tale mansione, che non invada la tranquillità familiare. La difficoltà più grande che ci si trova a dover affrontare è l’accettazione da parte dell’anziano di una nuova figura, esterna alla famiglia che si trova ad aver cura di lui. Per strutture dedicate, invece si intendono, tre tipi principali di strutture: Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) residenziali, semiresidenziali e i Centri Diurni. Più nel dettaglio le RSA sono “presidi che offrono a soggetti non autosufficienti, anziani e non, con esiti di patologie fisiche, psichiche, sensoriali o miste, non curabili a domicilio, un livello ‘medio’ di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa, accompagnata da un livello ‘alto’ di assistenza tutelare ed alberghiera”52.
La struttura si prende carico dell’ospite proiettandolo in un’altra realtà abitativa in maniera temporanea o permanente, che lo estrapola dal proprio nucleo abitativo e familiare. L’ostilità presentata dall’anziano è sicuramente maggiore rispetto al caso precedente, generalmente l’accesso a queste strutture avviene principalmente per due ragioni, o perché l’anziano è solo, non ha quindi fami-
52 D.P.R. 14 Gennaio 1997, Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private, p. 40.
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liari, parenti o amici che possano prendersi cura di lui, o perché la sua condizione di salute e non autosufficienza è fortemente compromettente per se stesso e per la famiglia. In questo ultimo caso il ricovero in struttura può divenire permanente e può rappresentare una soluzione più conveniente da un punto di vista sia economico sia di carco emotivo che deve mettere in gioco la famiglia. I sistemi tariffari più diffusi nel territorio italiano sono due: la tariffa per giornata di degenza e la tariffa giornaliera per caso trattato. La prima forma di tariffa è uguale per tutti, non è ponderata in base all’intensità dell’assistenza richiesta dall’ospite. È una tariffa che comprende tutto ciò che offre il servizio. Questa tipologia di tariffa subisce delle differenziazioni in base al tipo di servizio offerto, inoltre è composita da due parti quella sanitaria che è a carico del Servizio Sanitario Nazionale e quella puramente alberghiera a carico dell’assistito. La seconda tipologia di tariffa è invece considerata più equa, in quanto tiene conto delle condizioni di salute dell’ospite, considerando le risorse che esso assorbe. È una tipologia di tariffa composta, anche questa, da due parti. La prima parte è la classificazione dell’ospite, che avviene in seguito ad una valutazione dello stesso per determinare le quantità di risorse che richiede. L’altra parte riguarda la metodologia di pagamento che ricollega alla classificazione una diversificata tariffa; più l’ospite richiede attenzioni più la tariffa sarà alta. La parte negativa di questo sistema tariffario è che rischia di creare una sottospecie di autoselezione degli Ospiti accolti, poiché il prezzo potrebbe determinare una rinuncia da parte della famiglia53.
Queste strutture sono per lo più private, ma sono con-
53 Cfr. Pesaresi F., Le tariffe delle Residenze sanitarie assistenziali, Settembre 2019, in: https://www.luoghicura.it/dati-e-tendenze/2019/09/ le-tariffe-delle-residenze-sanitarie-assistenziali/.
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venzionate con l’offerta pubblica. Il Sistema Sanitario Nazionale, infatti, partecipa in maniera parziale alla spesa, così da non lasciarla interamente a carico dell’assistito o della sua famiglia. Nel territorio italiano le Residenze Sanitarie Assistenziali rappresentano una scelta per 382’634 persone, tra le quali il 75.2% hanno almeno 65 anni54.
Da questi ultimi dati emerge che sono il 2.2% della popolazione anziana sceglie un presidio socio-sanitario o socio-assistenziale come soluzione alla non autosufficienza. Questo in parte può essere dovuto all’onerosa spesa che si trova ad affrontare l’anziano e la sua famiglia in seguito a tale scelta, ma un altro motivo potrebbe essere la concezione sociale e culturale che si ha di tali strutture e di chi si appoggia a tali strutture. La cultura italiana, come si è detto nei paragrafi precedenti, la famiglia ricopre un importante ruolo, soprattutto nelle cure che somministra ai familiari. Nel pensare collettivo se la famiglia di un anziano sceglie di avvalersi dei servizi delle strutture residenziali, o semiresidenziali, assume una connotazione negativa, molto vicina all’abbandono. Tale modo di pensare e tale reputazione potrebbero rappresentare un limite nella scelta delle famiglie, senza considerare però che all’interno di tali strutture generalmente si trovi personale competente e formato su tali ambiti, e che non ha con sé il coinvolgimento emotivo che inevitabilmente potrebbe avere un familiare. Negli ultimi anni però il numero delle RSA nel territorio è andato aumentando, sia perché è aumentata la popolazione anziana che comporta un maggiore fattore di rischio per patologie e problemi che ne compromettano l’autonomia, ma anche perché è aumentata la domanda delle famiglie. Questo potrebbe essere inteso 54 Istat, I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, 2018, p.1.
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come un cambiamento di pensiero su tale problema, i ritmi serrati cui sono sottoposte le persone e le famiglie odierne, riescono a rompere quegli schemi culturali stereotipati riguardo le strutture per anziani o per persone con fragilità.
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Terzo capitolo: Alzheimer e Montessori, un possibile approccio.
In precedenza abbiamo visto che tra le malattie che possano compromettere l’autonomia dell’anziano ci sono le malattie neurodegenerative, cioè quelle malattie che con il loro decorso vanno a compromettere le capacità cognitive della persona. In particolare si fa riferimento alla patologia di Alzheimer, una malattia che aggredisce in maniera significativa il funzionamento del cervello arrivando a compromettere l’autonomia della persona. La ricerca medica sul tema non riesce a focalizzare una causa ben precisa che porti a contrarre questa patologia e anche in termini di cura non esiste una vera e propria terapia farmacologica in grado di contrastare l’avanzamento della malattia, piuttosto agisce sui sintomi quali ansia, confusione mentale, irritabilità e aggressività. A tale proposito si propone un’analogia tra l’anziano che gradualmente perde la propria autonomia e il bambino che invece gradualmente la conquista. Seppur i due soggetti, il bambino e l’anziano, sono in due momenti di vita differenti, si ritrovano a condividere un percorso simile che è proprio finalizzato all’acquisizione e al mantenimento dell’autonomia. La pedagogia Montessoriana potrebbe rappresentare, per il bambino tanto quanto per l’anziano, un facilitatore di questo processo, è, infatti, una pedagogia che propone degli esercizi e del materiale di sviluppo che rappresentino un interessante sfida per chi decide di lavorarci. Il grado di difficoltà è posto ad un livello tale che per superarlo serve molta concentrazione. Maria Montessori nasce nel 1870 e muore nel 1952, è la prima donna che riesce a laurearsi in Medicina in Italia, ed è proprio durante il suo percorsi di studi che inizia a
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lavorare in un Istituto per bambini nevrastenici. Durante questa esperienza capisce che nello sviluppare un lavoro rivolto a bambini con deficit, che non erano mai entrati in contatto con ambienti scolastici, ma che dal momento che avevano dimostrato i segni della nevrastenia erano stati chiusi in Istituti dedicati, non poteva proporre un lavoro che seguisse i canoni vigenti in quel periodo storico, lavoro basato fortemente su una capacità mnemonica. Inizia così per Maria Montessori un periodo di studio e approfondimento del bambino, che grazie alle correnti che si stavano delineando in quel periodo la conducono verso una nuova riflessione educativa che pone al centro del focus d’interesse il bambino e la sua infanzia. Montessori riesce così a proporre dei materiali e una pedagogia che parta da ciò che il bambino sa fare e che gradualmente possa svilupparne maggiori competenze. In relazione ai successi ottenuti nella classe di lavoro presso l’Istituto dei bambini nevrastenici e nel quale ha continuato a offrire volontariato anche dopo il conseguimento della Laurea, le viene affidata la gestione della scuola del quartiere di San Lorenzo a Roma, quartiere che rientra in una politica di riqualificazione edilizia. Nel 1907 viene così istituita la prima “Casa dei Bambini”, una scuola che doveva accogliere i figli di lavoratori residenti in cinquantasette palazzine. La prima trasformazione che subisce questa scuola e che permetterà di parlare di Casa dei Bambini, è stata quella di convertire il mobilio, tradizionalmente composto da banchi e cattedre, con sedie e tavolini leggere a misura di bambino e che i bambini stessi potessero facilmente spostare. È stata avvertita questa esigenza, in seguito a un periodo osservativo svolto proprio da Montessori e poiché la classe era eterogenea per età ed era dotata di banchi alti e pesanti che non potevano essere spostati e dopo aver notato che, ad
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esempio, un bambino di tre anni aveva difficoltà a stare seduto in un banco progettato per un bambino di sette/otto anni, è stato reputato opportuno intervenire per creare uno spazio consono a tutti i bambini che frequentavano quella scuola. A questo mutamento hanno fatto seguito una serie di altri cambiamenti che hanno reso quest’ambiente un ambiente realizzato per i bambini, e di cui i bambini avevano cura. L’ambiente nella pedagogia montessoriana è un nodo centrale di tutta l’attività e della stessa pedagogia montessoriana, avere un ambiente che faciliti e allo stesso tempo stimoli la curiosità e la graduale acquisizione dell’autonomia permette di vivere ogni conquista con grande soddisfazione, l’ambiente che viene proposto è un ambiente ordinato, curato nei minimi dettagli, nel quale il bambino può muoversi liberamente e può liberamente fare scoperte.
“Il metodo di osservazione è stabilito su una sola base: cioè che i bambini possano liberamente esprimersi e così rivelarci bisogni e attitudini che rimangano nascosti o repressi quando non esista un ambiente adatto a permettere la loro attività spontanea”55.
Quanto detto per l’ambiente rivolto al bambino è affermabile anche per l’ambiente rivolto all’anziano affetto da Alzheimer, avere un ambiente che fornisca stimoli e che sia adatto alle nuove esigenze, può rappresentare una nota positiva. La pedagogia montessoriana può risultare valida per l’anziano con demenza o con parziale perdita di autonomia, poiché si avvale di un materiale di sviluppo che sfrutta i sensi e lavora sul loro potenziamento, è un materiale che isola gli stimoli e lavora su una sola qualità alla volta, ed è anche un materiale che stimola la concentrazione e rende evidente l’errore a chi lavora con tale materiale, così da permettere l’autocorrezione.
55 Montessori M., La scoperta del bambino, Garzanti, Milano, 1950, p. 52
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Nel
caso dell’anziano potersi autocorreggere permette di vivere un proprio errore non come un’umiliazione che testimonia la sua perdita di autonomia, ma come un errore al quale si può rimediare facilmente. In più tale materiale di sviluppo, isolando una qualità e permettendo di lavorare con uno stimolo alla volta rende più produttivo e semplice lo scopo dell’attività, favorendone la riuscita. Sono inoltre materiali che propongono lavori che possono essere individualizzati e quindi cambiare da persona a persona, in base alle capacità di ognuno così da permettere di creare un progetto personalizzato. “Se si vogliono preparare oggetti che servano per esempio a far distinguere i colori, bisogna costruirli della medesima sostanza, forma e dimensione; e farli differire solo nel colore”56.
Un altro elemento che può giocare a favore dell’applicabilità della pedagogia montessoriana nella terapia alternativa per la patologia di Alzheimer, è che le attività che sono proposte sono fortemente radicate nella vita quotidiana, si troveranno quindi attività nelle quali si propone di lavare e stendere panni, oppure attività che prevedono lo sgranamento di piselli dal proprio baccello, tutte attività che coloro che sono anziani oggi erano abituati a fare e che quindi non vivono come uno svilimento e un mettere in ridicolo la propria condizione, ma come un lavoro necessario per prendersi cura degli spazi che vive. Nella pedagogia Montessori, come già detto, l’ambiente ha un ruolo centrale, a differenza della pedagogia tradizionale che pone al centro educativo l’insegnante, nel pensiero della scienziata al centro c’è il bambino, proprio in relazione a questo viene pensato, testato e organizzato un ambiente adatto a questo bambino. L’uomo, la creatura più potente della natura, crea un ambiente inadatto al
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56 Ivi, p. 115.
bambino, la civiltà ha negato al bambino il suo ambiente sociale. Sebbene i bambini ci siano sempre stati, poiché essere bambini è un fattore biologico, non si può dire lo stesso per l’infanzia, che non è un fattore biologico ma piuttosto un dato storico-culturale, osservando anche le pitture e le testimonianze materiali della storia dell’umanità, si evince che l’infanzia non è sempre esistita. La figura sociale del bambino è strettamente collegata alla figura della donna, si è iniziato a considerare l’importanza di questo momento evolutivo in concomitanza all’emancipazione femminile. Lo stesso lo si può affermare dell’anzianità, sebbene l’essere anziani e l’invecchiare è una condizione biologica dell’uomo, vivere l’anzianità, così come l’infanzia, è un fattore socio-culturale, come ampiamente descritto nel primo capitolo. Come è stato necessario ripensare l’ambiente di vita per il bambino, da cui nasce così la prima Casa dei Bambini, una scuola che nasce all’interno di un complesso abitativo e nella quale i bambini ritrovano una casa dentro alla scuola, è necessario ripensare le strutture di accoglienza per gli anziani o comunque i loro spazi domestici.
La sfida più grande nel proporre attività studiate e ideate per i bambini agli anziani, è il rischio del rifiuto se le attività non sono ben ponderate e rivisitate in visione del nuovo bacino di utenza. Si deve operare quindi un importante momento valutativo e osservativo nel selezionare e riorganizzare le attività da proporre. Negli anni Novanta il dottor Cameron J. Camp, dopo aver conosciuto la pedagogia montessoriana in relazione ai bambini, ideò una Programma Montessori per la Demenza, che diede il via ad una serie di tentativi di applicazione di questa pedagogia nell’ambito di malattia neurodegenerativa e che compromettano l’autonomia personale. Il
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lavoro montessoriano si basa molto sulla manipolazione ed attività che implichino l’utilizzo delle mani, questo rappresenta per il bambino un modo per creare delle mappe concettuali e di costruire una propria autonomia e permette all’anziano di conservare le capacità residue, lavorando e potenziando anche la memoria procedurale. “Nella demenza di Alzheimer la memoria è sicuramente una delle funzioni cognitive più compromesse. Se nel bambino l’esperire il mondo attraverso il fare dà forma alla mente, nell’anziano che ha una storia di vita alle spalle e nel quale la mente è già arrivata a maturazione, questo tipo di lavoro dà la possibilità di riapprendere competenze perdute mediante la memoria che permani più a lungo: la memoria motoria”57. Il bambino e l’anziano non autonomo, sebbene siano in momenti di vita completamente opposti, presentano molte analogie, entrambi necessitano delle cure da parte di terzi sia sul piano fisico, che sul piano psichico ed emotivo, entrambi hanno bisogno di un ambiente calibrato sulle rispettive esigenze e che possa offrire degli stimoli e degli aiuti indiretti. Le stesse attività proposte sono attività di lavori che richiamano alla memoria delle capacità possedute e che permette di focalizzarsi sulle capacità presenti, piuttosto che su quelle capacità che non si hanno più. Permettere agli anziani non autonomi di rapportarsi con lavori di Vita Pratica, che quindi non rappresentano solo un “fare finta”, ma rappresentino un vero e proprio fare restituendo valore sociale alla persona. Favorire che l’anziano non autonomo abbia dei compiti precisi all’interno del Centro o della Struttura nella quale alloggia, può risultare producente per contrastare la passività nella quale molto spesso le persone affette da demenza si gettano. Un Ospite può occuparsi
57 Maruca M., Montessori 0-99, in: momo16, Fondazione Montessori Italia, Dicembre 2018, pp. 33-34.
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di apparecchiare la tavola, un altro di sparecchiarla, un altro ancora può occuparsi del giardino e così via, sono tutti compiti che permettono per prima cosa di occuparsi dell’ambiente in cui si vive o si trascorre parte della giornata, e in secondo luogo permettono di identificarsi ancora attraverso una funzione sociale.
“Si può dire che la suggestionabilità dei bambini sia l’esagerazione di una tra le funzioni psichiche costruttive, cioè di quella caratteristica sensibilità interiore, che abbiamo chiamato ‘l’amore all’ambiente’. Il bambino osserva le cose appassionatamente ed è attratto da esse: ma soprattutto è attratto dalle azioni dell’adulto per conoscerle e riprodurle”58 .
Per l’anziano che si ritrova in una condizione di non autosufficienza e nella quale ha costante bisogno dell’aiuto di un mediatore per rapportarsi con il suo ambiente, può rappresentare una risorsa avere a disposizione un ambiente nel quale può muoversi liberamente senza pericoli, nel quale fare attività in autonomia e senza dover costantemente chiedere aiuto a qualcuno. In virtù di questo le parole che Montessori dedica al bambino, potremmo rivolgerle anche all’anziano “l’opera giusta e caritatevole dell’adulto verso il bambino dovrebbe essere quella di preparargli ‘un ambiente adatto’, diverso da quello ove opera l’uomo forte e già formato nei suoi caratteri”59. Ad esempio il neonato che si trova in culla e ad ogni suo pianto vede arrivare un adulto, capirà che se piange, arriverà una persona e così via. Ma per poter osservare è necessario prendersi del tempo, i bambini testimoniano proprio la vita liberata dal tempo. Mentre gli adulti lo rincorrono, per i bambini c’è perfetta identità tra libertà ed eternità. Il bambino è in continuo dialogo con le cose, in questo modo egli ha il mondo, il proprio
58 Montessori M., Il segreto dell’infanzia, ibidem, p. 124.
59 Montessori M., Il bambino in famiglia, ibidem, p. 12.
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mondo, nello spazio vissuto ed esperito e che può conoscere solo attraverso l’esperienza. Mentre lavorando con il bambino si cerca di proporgli nuove esperienze per arricchire i suoi costrutti mentali, nel lavorare con l’anziano si dovrebbe cercare di fornirgli esperienze e sensazioni che possano risvegliare in lui ricordi e movimenti immagazzinati nella sua memoria procedurale. Di conseguenza la fretta è esclusa, si deve rallentare, il tempo nel quale vive l’infanzia e la vecchiaia sono l’eternità, all’inverso si può affermare che la condizione di adulti ci faccia vivere nel tempo non ancora vissuto, ma che si potrebbe vivere, nel rincorrere continuamente il tempo per non sprecare il futuro, senza accorgersi che così facendo non ci è possibile godere del presente. La pedagogia da mettere in campo con l’anziano è una pedagogia del tempo largo e dilatato, della lentezza e soprattutto del non fare fretta. L’essenza del ritmo è la preparazione di un nuovo evento con la fine di un evento precedente. Il ritmo è una tensione nuova con la risoluzione di una tensione precedente, è quindi una ripetizione e una variazione. Per capire meglio questo passaggio analizziamo l’ambiente montessoriano della Casa dei Bambini. Che cos’è la casa? Un’intimità protetta, il nostro angolo nel mondo, è il luogo dove ci si ritrova e ci si sente al sicuro. Per l’anziano questo senso di protezione assume un significato ancora più profondo, poiché per loro le proprie case rappresentano ricordi, ricordi di momenti felici, tristi e di condivisione familiare. L’ambiente, nella pedagogia montessoriana è centrale, deve contenere le risposte ai bisogni impliciti del bambino e nel nostro caso dell’anziano. Gli stimoli offerti in questo senso non sono stimoli comunemente intesi, ma rappresentano delle vere e proprie opportunità. Rappresentano delle risposte che l’anziano può darsi da solo, viene interessato ed
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attratto da quei materiali che catturano la sua attenzione in funzione delle spinte guida che sono presenti all’interno dell’anziano stesso. Nell’ambiente per l’anziano che si trova nella sua tempesta emotiva e involutiva, si possono delineare delle caratteristiche ben precise, caratteristiche che valgono per qualsiasi ambiente che vuole essere educativo e di supporto protesico. Pertanto l’ambiente:
- deve permettere esperienze, non tutte le azioni dell’anziano possono essere esperienze. Non tutti i fare sono esperienze. “Se ascolto dimentico, se vede ricordo, se faccio capisco”;
- deve essere ricco di grazia e cortesia, l’anziano ha bisogno di sorrisi e gentilezza;
- deve contenere attività e lavori, che devono contenere a loro volta motivi di attività e di azione;
- deve contenere aiuti indiretti, gli oggetti devono essere motivo di azione, ma deve essere l’anziano a scoprire e ad agire, così da non ledere la sua autostima;
- deve poter permettere il silenzio, come momento di concentrazione, riflessione, comunicazione e incontro. Deve essere privato della superficialità e del rumore;
- deve favorire l’indipendenza, si deve aiutare a “fare da solo”. Ci dovrebbe essere un cammino che va dalla dipendenza all’indipendenza;
- deve aiutare ad agire piuttosto che a reagire, l’anziano, come detto in ptecedenza, deve essere attivo e non reattivo;
- deve dare tempo all’anziano di ripetere le attività, la scuola è palestra della vita. È il luogo dove si deve poter sbagliare. “In educazione perdere tempo è guadagnarne”;
- deve permettere di avere successo, cioè di fare una cosa e riuscire a farla. Niente ha successo più del successo. È motivante. Non deve essere, però, un successo
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mascherato o pilotato. Non si deve offrire una cosa scontata, ma deve essere una sfida, che sia nuova e congruente. Nuova perché il nuovo è interessante, e congruente, perché devono essere congrue con ciò che l’anziano sa fare senza metterlo in eccessiva difficoltà;
- deve permettere tentativi ed errori, deve permettere l’autocorrezione, capire di aver sbagliato in autonomia, senza sentirsi dire che ciò che si è fatto è sbagliato e avere la possibilità di correggersi da solo, è motivo di orgoglio;
- deve contenere limiti e dettagli, l’anziano deve poter celebrare i dettagli e i suoi piccoli riti;
- deve essere attraente, la bellezza è affascinante è una lettera di raccomandazione aperta;
- deve contenere regolarità e ordine, tutto deve avere un posto e deve tornare al suo posto. L’ordine conferisce sicurezza, la routine in tale senso è fondamentale;
- deve isolare lo stimolo, tutto il materiale montessoriano è fatto per risolvere una capacità alla volta;
- deve contenere gradazione e valutazione;
- deve permettere relazioni umane significative, deve avere tempo e modo di socializzare. Però l’autonomia precede la collaborazione, se si è autonomi si è anche collaborativi.
La stanza montessoriana dell’anziano affetto dall’Alzheimer è una stanza in cui l’anziano sia libero di testare i propri limiti fisici, dove finisce lui e dove inizia il resto, è una stanza nella quale può liberamente sviluppare la sua mente e costruire la sua indipendenza. L’aula della Casa dei Bambini, è un’aula in cui il bambino affina, raffina e incrementa le capacità cognitivo-motorie che ha già acquisito, così da aprirsi maggiormente alla scoperta del mondo esterno. Nel caso dell’anziano, l’ambiente ha il compito di rafforzare e mantenere le capacità residue
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che ancora possiede, così da rallentarne la perdita e da rafforzarle e renderle più solide. Ancora una volta possiamo prende in prestito le parole di Montessori e conferirle lo stesso significato nei riguardi dell’anziano.
“Quando parliamo di ‘ambiente’ comprendiamo tutto l’insieme di cose che il bambino può liberamente scegliere in esso e usare tanto quanto desidera, cioè corrispondentemente alle sue tendenze e ai suoi bisogni di attività. La maestra non fa altra cosa che aiutarlo in principio a orientarsi tra tante cose diverse e ad apprenderne l’uso preciso, cioè lo inizia alla vita ordinata e attiva nell’ambiente; ma poi lo lascia libero nella scelta e nell’esecuzione del lavoro. In generale i bambini hanno diverso desiderio nello stesso momento, e uno si occupa di una cosa e uno di un’altra senza che avvengano contese”60 .
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60 M. Montessori, La scoperta del bambino, ibidem, p. 71.
Conclusione
Si è parlato dell’anziano, presentando l’impatto che ha da un punto di vista demografico e delle sue ripercussioni nella società. Sono stati presentati i fattori principali che hanno portato all’invecchiamento della popolazione ovvero, la forte denatalità e l’allungamento della prospettiva di vita. Ad oggi, questi due elementi insieme hanno portato ad avere sul territorio italiano una presenza di anziani, persone over 65, maggiore rispetto alla presenza di giovani, bloccando, di fatto, il ricambio generazionale. Un altro punto sul quale ci si è soffermati è stata la condizione di salute nella quale si diviene anziani, poiché l’età elevata è un importante fattore di rischio per molte patologie che sviluppano malattie croniche. La promozione della salute in età adulta è stata indagata per comprendere se, possa limitare le perdite di autonomia che causano tali patologie, si è esposta quindi l’importanza di adottare politiche a favore dell’invecchiamento attivo, su tutto il territorio. In seguito si è parlato di famiglia, poiché tutte le persone sono inserite in contesti familiari, e poiché le principali cure di assistenza vengono erogate proprio dai componenti del nucleo familiare, si è, quindi, trattato l’argomento dell’anziano, autonomo e non autonomo, all’interno della propria famiglia. Sono stati analizzati i cambiamenti della famiglia, che hanno portato a un mutamento sociale e alla comparsa di più forme familiari. Inoltre la famiglia, come istituzione, ha perso parte delle funzioni primarie e secondarie, come ad esempio la funzione di socializzazione e di cura, e le ha sempre più esternalizzate e defamilizzate. Si è voluto parlare di come la rete assistenziale formale non sia sufficiente a sopperire alle difficoltà che insorgono nella famiglia che sceglie di avere cura dell’anziano fragile, do-
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vendo così ricorrere ad una rete informale. Sono, inoltre, state presentate quali sono le difficoltà sia della famiglia che ha cura dell’anziano, sia dell’anziano che si ritrova a dover accettare questa sua nuova condizione nella quale diviene dipendente da terze persone. Infine si è voluto proporre un interessante approccio tra Alzheimer e pedagogia Montessori, paragonando la condizione dell’infanzia con la condizione di vecchiaia, seppur con una fondamentale accezione differente. L’intento di questo elaborato è quello di aprire una riflessione sulla condizione di anzianità e sull’invecchiamento della popolazione, una riflessione che non consideri l’anziano come un soggetto a carico del Sistema Sanitario Nazionale, ma come una risorsa importante del territorio che abita. La fascia della Terza età, nella quale rientrano le persone che escono dal mondo del lavoro e che mantengono una certa autonomia, può fornire importanti aiuti alle famiglie impegnate nella cura familiare, offrendo il proprio sostegno sia nella cura dei nipoti, che nella cura di anziani non più autonomi. Inoltre può fornire il proprio servizio di volontariato in strutture volte all’assistenza degli anziani, organizzando ad esempio gruppi di preghiera, attività di lettura e altri laboratori importanti sia per i volontari che per i destinatari. È anche importante promuovere e pubblicizzare centri aggregativi per anziani autonomi, potendo offrire così dei luoghi nei quali è favorita la socializzazione, che ricopre un ruolo importante nella lotta alla solitudine seguita da depressione, nella quale l’anziano può cadere. Per tale motivo si ritiene opportuno muoversi verso progetti che promuovano l’invecchiamento attivo, vale a dire “il processo di ottimizzazione delle opportunità per la salute, la partecipazione e la sicurezza in modo da migliorare la qualità della vita
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con l’invecchiamento”61. Se la condizione demografica prevede una popolazione che invecchia costantemente, è bene avere una popolazione che invecchi in salute, questo permetterebbe di trovare una soluzione possibile in un problema, poiché avere una classe demografica che vada ad incrementare le reti informali di assistenza, può alleggerire il carico di cura familiare. Ma può anche rappresentare una ridotta spesa sanitaria da parte dello Stato; se l’anziano si mantiene in salute, le spese di assistenza sanitaria e ospedaliera a lunga degenza di cui si fa carico lo Stato, possono essere ridotte. Spostando il focus sulla situazione dell’anziano non autosufficiente, la filosofia che guida le politiche sociali di riferimento agli interventi proposti a riguardo, è quella di cercare di mantenere il più possibile l’anziano all’interno del proprio ambiente familiare. Questa scelta viene fatta per due probabili motivi, il primo è che sicuramente il proprio domicilio, con i propri familiari rappresenta per l’anziano fragile un porto sicuro, nel quale muoversi facilmente e che riconosce come proprio, estrapolarlo da questo contesto potrebbe essere molto controproducente. L’altro motivo potrebbe essere legato al fatto che mantenere residenze pubbliche con una copertura residenziale ventiquattro ore su ventiquattro, richiede allo Stato uno sforzo economico non indifferente, sia che esso debba provvedere a coprire l’intera spesa sia che vi debba compartecipare. A tale proposito si ritiene che la soluzione più efficace, efficiente ed economicamente vantaggiosa, siano i Centri Diurni. Strutture che offrono un servizio di assistenza giornaliero, pensati come welfare comunitario di supporto familiare, poiché alleggeriscono il lavoro di cura familiare e al tempo stesso offrono agli Ospiti attività pensate e strutturate partendo dai bisogni indivi61 World Health Organization (WHO), Active Ageing: a policy framework, Ginevra 2002, p. 12.
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duali di ognuno. Offrono attività volte al mantenimento delle capacità residue, al preservare l’autonomia e che favoriscono momenti di socializzazione. La nota negativa è che nel territorio umbro non sono molto diffusi in relazione al bacino di utenza, questo si evince dalle lunghe liste d’attesa esistenti per poter usufruire di tale servizio. Altro elemento negativo è che molto spesso sono inseriti Ospiti che sono ad un punto della propria patologia particolarmente avanzato, questo perché le famiglie possono essere restie ad inserire i propri familiari in Strutture dedicate a causa delle implicazioni emotive che possono entrare in gioco, o perché si ritiene che fino a che non si verifica un aggravamento si possa gestire facilmente la situazione. Un utile strumento potrebbe essere rappresentato da laboratori pomeridiani o mattutini, che coprano solo qualche ora e non metà giornata come al Centro Diurno, che però possano fornire competenze e attività volte al potenziamento delle capacità residue dell’anziano con ridotta autonomia. Altra tendenza che si è affermata negli ultimi anni è quella del mercato sommerso62, composto da lavoratori pagati irregolarmente che forniscono servizi di cura, a integrazione o sostituzione del lavoro familiare. Quest’opzione è la più favorita da molte famiglie perché rappresenta un costo accettabile da sostenere, assicura un servizio continuativo e permette di mantenere il proprio familiare in casa. Sebbene un servizio di assistenza domiciliare rivolto agli anziani e alle persone non autosufficienti è proposto anche dagli interventi sociali pubblici, esso risulta essere inadatto per rispondere ai bisogni dei cittadini, si tratta di qualche ora a settimana che mal si sposa con le esigenze familiari. A tale proposito e per combattere il mercato nascosto, lo Stato o l’Ente Locale, potrebbero erigere del62 Cfr. Gori C. (a cura di), Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, op. cit.
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le liste composte da persone professionalmente formate al lavoro di cura, la famiglia in caso di necessità potrebbe attingere da tali liste così da avere una persona professionalmente qualificata. La retribuzione del lavoro di cura, totalmente o parzialmente a carico della famiglia, potrebbe essere fatta attraverso il Libretto famiglia, o attraverso l’Ente Locale stesso, ma verrebbe in questo modo aggirato il rapporto lavorativo irregolare. Dall’altro lato, in caso di aggravamento dell’assistito o del suo decesso il caregiver professionale, non si ritroverebbe senza lavoro, poiché potrebbe rientrare a far parte della lista dell’Ente Locale. Ma, si è detto, che la popolazione invecchia, non solo a causa di un’elevata presenza di anziani nel territorio italiano, ma anche e soprattutto a causa di una scarsa natalità registrata negli ultimi anni, la media di figli del paese è di 1,29 figli per donna63. Questo è imputabile al fatto che, come già detto nelle pagine precedenti, il nucleo familiare si costituisce dopo i 30 anni della coppia e in concomitanza con l’ingresso nel mondo del lavoro, perciò potrebbe essere una decisione consapevole e ragionata quella di fare un solo figlio. A sua volta, questo fenomeno è legato all’aumento del tempo richiesto dal percorso degli studi, sempre più il mercato del lavoro richiede titoli di studio universitari, per il cui conseguimento inevitabilmente è richiesto tempo. In quest’ottica, uno strumento per agire sull’invecchiamento della popolazione, potrebbe essere costituito dalle politiche a favore delle nuove generazioni. Negli ultimi anni gli Stati si stanno muovendo in questa direzione proponendo programmi come Garanzia Giovani, e nel caso italiano sponsorizzando il Servizio Civile Nazionale, iniziative che permettono di avvicinarsi al mondo del lavoro, ma che poi risultano essere esperienze fini a se stesse. Si do63 Cfr. Istat, Indicatori demografici 2019, in: https://www.istat.it/it/archivio/238447.
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vrebbe costituire un clima tale per cui, queste esperienze siano finalizzate a un inserimento lavorativo effettivo e non solo come un’esperienza da aggiungere al curriculum personale e professionale. Favorire ed investire sui giovani potrebbe significare offrire quella stabilità minima necessaria per porre le basi e poter pensare di costruire una famiglia. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di iniziare a ridurre gradualmente l’orario di lavoro delle persone prossime alla pensione già da qualche anno prima; così da poter permettere che il futuro pensionato abbia tempo e modalità di prendere atto e consapevolezza della sua nuova situazione, potendo gradualmente decidere di investire il suo tempo libero come meglio crede e avere tempo di adattarsi alla sua nuova situazione reddituale, poiché la pensione che percepirà potrebbe essere economicamente meno cospicua dell’attuale stipendio lavorativo. Al tempo stesso permetterebbe l’inserimento lavorativo di un nuovo elemento, che potrà inizialmente affiancare e poi sostituire il lavoratore uscente.
In sintesi possiamo affermare che è necessario cambiare punto di vista sull’invecchiamento della popolazione, l’anziano non deve essere visto come problema ma è necessario che divenga risorsa del territorio che abita. Adottando il pensiero e la pedagogia Montessori come luce guida anche nelle strutture rivolte agli anziani, è possibile riconferire dignità alla condizione di demenza senile, senza gettare l’anziano in uno sconforto e senza farlo sentire un peso per la sua famiglia. L’Ente Locale e lo Stato devono investire maggiormente sulle nuove generazioni e favorire possibilità d’incontro con possibili posti di lavoro per favorire la costituzione del nuovo nucleo familiare e quindi incrementare la natalità del paese.
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