REGIONE UMBRIA
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C’era l’acca - fuori dal disagio
PREMIO LETTERARIO NAZIONALE
C’era l’acca fuori dal disagio II Edizione 2011
Premio Letterario Nazionale
C’era L’acca Fuori dal disagio
II Edizione 2011
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Con il Patrocinio della Regione Umbria
Edizione: Ottobre 2011 Progetto grafico e videoimpaginazione: Chiara Gagliano Stampa Digital Point (Ponte Felcino)
Tutti i diritti sono riservati Ogni riproduzione, anche parziale è vietata
ISBN:978-88-96649-14-5
Introduzione L’espressione artistica, qualunque essa sia, è da sempre importante per l’essere umano sia come individuo, sia come componente della società. E così è anche per la letteratura: la poesia, la narrativa, il diario sono da sempre buoni supporti per comunicare con gli altri e riconoscersi un po’ più intimamente. Coloro che scrivono, hanno qualcosa da dire su condizioni di vita e stati d’animo positivi o – il più delle volte – negativi. Ne consegue che riempire fogli bianchi, o file di computer, con lettere, frasi, concetti, si rivela un prezioso aiuto a situazioni che causano angosce, dolori, incertezze e paure spesso molto intense. Questo incide ancora di più quando ci si trova in condizioni di particolare disagio – come anzianità, disabilità, malattia e così via – dove la sofferenza è così profonda da mettere la persona di fronte ad un concreto rischio di chiusura in se stessa, di solitudine e di emarginazione. Con questa consapevolezza sia il CE.S.VOL di Perugia sia la A.L.E.A. (Associazione “L’Essere Armonia”) – e le associazioni sostenitrici del progetto – hanno organizzato la seconda edizione del Premio Letterario Nazionale “C’Era L’Acca” (Fuori dal disagio). L’iniziativa vuole in effetti incentivare a proporsi visto il giovamento (dimostrato e provato) mentale e fisico che la scrittura comporta senza contare poi il suo potenziale ruolo di aggregazione sociale. Provenienti da tutta Italia, isole comprese, moltissimi componimenti partecipanti alla presente edizione hanno espresso molto bene varie realtà di disagio, mentre altri erano un po’ fuori dai temi richiesti dal bando. Tuttavia, sono stati accettati proprio perché, come dicevo prima, la scrittura comunica stati d’animo. Le pagine scritte erano anonime e contrassegnate da un numero. Solo dopo le decisioni della giuria sono stati resi noti i nomi degli autori. 4
E neanche i partecipanti sapevano da chi fosse composta la commissione giudicatrice. Ciò può essere certamente un ulteriore punto a favore della validità della manifestazione. D’altronde, i membri della giuria, nelle loro valutazioni, si sono trovati in perfetto accordo sulle scelte degli elaborati da premiare e segnalare. Questo, dal mio punto di vista, è segno di una competenza che va oltre la pagina scritta e coinvolge sia la sfera professionale sia quella del vissuto personale. Posso dire che la decennale battaglia della ALEA contro le barriere mentali e comportamentali per il rispetto di tutti, è oggi sempre più compresa e condivisa per un netto miglioramento della società e della quotidianità. Appare ora più ovvio che trasformando il modo di pensare e di vedere certe situazioni viene automatico l’obiettivo di eliminare le barriere architettoniche. Pertanto, mi auguro che il rapporto tra chi scrive e chi legge queste pagine possa far conoscere realtà diverse, sia da stimolo per chi lavora in settori specifici e soprattutto per chi vive certi disagi direttamente o indirettamente.
Luciano Pellegrini Presidente della giuria
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Vincitori Sezione Poesie
Prima classificata Barbara Cannetti con “La rosa dei venti”
L’architettura lirica de “La rosa dei venti”, si mette in evidenza per l’efficacia di scelte lessicali che ne arricchiscono immagini e sottili metafore. Qui, la Rosa dei venti va al di là del suo mero significato di rappresentazione schematica dei punti cardinali per acquisire quello del perenne movimento del creato, della ciclicità e della caducità delle cose. Tutto sembra ruotare intorno alla figura della madre che assume per Barbara Cannetti un’importanza fondamentale e si rivela come emblema della condizione antropica di fronte alle vicissitudini. La donna, con la sua umanissima fragilità, viene rappresentata immersa in una vita dura. Con la loro forte carica emotiva, nonostante il sapore malinconico condito da soffusa tristezza, i versi sembrano tuttavia inviare messaggi che penetrano efficacemente nelle profondità del cuore e della mente. Anche con la solitudine, lo smarrimento e la rassegnazione i ricordi, che si rinnovano col passare del tempo e delle stagioni diventano quasi un rifugio, sia pure amaro, in cui rinfrancarsi allo scopo di ravvivare speranze. Luciano Pellegrini
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La rosa dei venti Da quando, madre, hai posato lacrime sui quattro punti cardinali alla Rosa dei Venti, lungo i sentieri d’aria non restano che spine d’orizzonte. In te s’involano nuvole, scene di terra, la polvere che s’alza dal fango e si mescola a semi e soffioni per poi aprirsi in nuove, silenti migrazioni. Ma tu, madre, come un geranio radicato ai cocci resti chiusa in questo perimetro di pietra una panchina in ombra, dura di destino e più non sai che dire dell’anima tua; la scruti mentre si veste d’ aria nuova ed allo stesso tempo cuce vecchie corazze al cuore. Nel buio della sera provi a rievocar memoria, nutri la polla del tuo stesso sentire, la immergi in acqua affinché sappia radice nuova e possa così ritrovare lo strappo del tempo. Ti rivedi sull’uscio di casa a rammendar stagioni quelle dei primi baci divenuti ventre ai figli e poi imbastite con la fatica, cucite alle apprensioni Si rinnova or ora lo smarrimento, la rassegnazione nell’ora buia della solitudine in cui l’ombra lunga della sera non ha colore. Da quando anche l’ultimo fiore è caduto nel vento in te non resta che scoramento a scalzar ore mentre dell’ultima preghiera si sgrava la sera amara di quel ritorno che via non trova.
Barbara Cannetti 9
Seconda classificata Catia Rogari con “Cocci d’anima”
Poesia che molto bene riesce a trasfigurare una felice marina nella triste condizione umana e allo stesso tempo giova alla consolazione di un’anima sola.
Angelo Veneziani
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Cocci d’anima Non soffia vento oggi in mare... sdraiata osservo il pacato rigonfiarsi delle vele il cielo azzurro trafitto dal sole gabbiani in lontananza danzare armoniosi. È in questo frastuono di silenzio che si ritrova la pace...la quiete. Barca mi è il letto d’ospedale vele le bianche lenzuola (appena rigonfie dei dimagriti resti) azzurro il camice degli infermieri che gabbiani non sono a danzare. La pace è nell’attesa e ancora una volta ritrovarmi a consolare questi poveri cocci della mia anima sola.
Catia Rogari
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Terza Classificata Oriana Visparelli con “L’Ultima rosa”
Premetto che tutte le poesie e i racconti presentati alla nostra giuria sono bellissimi perché esprimono sentimenti autentici: dolori e sofferenze di persone ferite. La poesia “L’ultima rosa” è stata premiata perchè pur essendo pervasa da una dolce malinconia e tristezza, è ricca di tenera attesa verso la natura e la vita stessa. Il poeta esprime, difronte al mutare della stagione e alle proprie condizioni personali, forza d’animo e speranza nel futuro. Guarda con una certa affettuosa apprensione la rosa che ancora resiste difronte al mutamento dei giorni così come la sua vita che sarà messa forse a più dura prova ma non si lascia travolgere dalla sfiducia né dalle forze misteriose esterne che spesso lavorano “contro” nella vita di tutti.
Maria Clelia Virzì
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L’Ultima rosa L’inverno ha vestito il giardino di nuovi colori, i rami del tiglio riposano e aspettano altra stagione. La siepe spinosa si ostina a mostrare vedognole foglie. Il cielo un po’ grigio stasera promette qualcosa di fresco e di nuovo. È già domani e dalle ali della tua carrozzina t’incanti, muta, a guardare quell’ultima rosa rossa che umilmente si china sotto la prima neve tenera come la brina
Oriana Visparelli 13
Premio Speciale del Presidente della Giuria a Stefania Ronzitti con “Il lago grande della vita”
“Il lago grande della vita” possiede una immagine metaforica significativa. Balza subito all’attenzione il contrasto tra la quasi immobilità dell’attuale realtà quotidiana dell’autrice e l’intenso vorticare dei suoi pensieri. Così, non può far altro che guardare nel “lago grande” della memoria riempito durante gli anni dalle cose da lei fatte e dagli episodi vissuti. Nei ricordi che vi sfilano, come scene di un film intimo ed esclusivamente proprio, vi sono le varie fasi – a volte belle, altre meno – della vita di Stefania Ronzitti: bimba, ragazza, moglie, madre e poi nonna. Il senso di soffusa serenità che circola nei versi semplici e lineari rendono l’idea di una persona che ha saputo vivere senza troppi drammi anche di fronte alle vicissitudini. Un modo di vedere con passione ma anche con pacatezza senz’altro acquisito con l’età avanzata. È una poesia che manifesta la situazione di anziani che hanno vinto il disagio della solitudine e del tempo che passa, un invito a trascorrere con più serenità possibile la cosiddetta “terza età”.
Luciano Pellegrini 15
Il Lago grande della vita Ormai sono vecchia. Seduta in poltrona guardo dai vetri la vita degli altri. Senza freni, il pensiero in alto però vola leggero navigando al di sopra di me e di tutte le cose ed ecco, mi specchio nel lago grande della mia vita. Bello e calmo, con qualche onda ribelle. Come con occhi non miei rivedo il film già noto. Le immagini sfilano al suono di delicate note nate per incanto, ma è una musica solo mia. Scendono giÚ i ricordi come perle tintinnanti nel flipper della mia esistenza. Hanno giocato la loro partita, e hanno vinto oppure hanno perso. Non sono triste. Spio, nascosta, me stessa, bambina, a parlar con la nonna davanti a un camino cullando una bambola e ridendo contenta. Ora mi vedo cresciuta, abbracciata ad un uomo a parlar del futuro. Sensazioni dolci che accarezzano il cuore. Ed ecco i miei bimbi 16
che prendo per mano per condurli sicura alla meta lontana. Sono madre e adesso anche nonna. Soffia via il grigiore delle parentesi scialbe mostrando nitido il succo prezioso: le scintille di vita felice, ed i lampi nel buio degli immensi dolori. Sfoglio le pagine del mio cammino ed osservo ciò che è stato e che mi piacerebbe fosse ancora, ma senza rimpianto.
Stefania Ronzitti 17
Vincitori Sezione Racconti
Prima Classificata Ornella Turrini con “Anima”
Il monologo narrativo “Anima” si distingue per il suo linguaggio semplice, scorrevole e pieno di emotività. Si tratta di un testo che sottolinea la capacità di Ornella Turrini di comunicare attraverso una sostanziale ricchezza raffigurativa. Dalle sensazioni, dagli atteggiamenti e dalla meraviglia tipiche dell’età adolescenziale si arriva inevitabilmente all’età adulta con le relative problematiche ed i differenti modi di affrontare le vicissitudini. Così è stato anche per l’autrice, che si ritrova poi con la scoperta – o meglio riscoperta – di una condizione con la quale opporsi alla quotidianità nella maniera più serena e positiva possibile. Questa nuova realtà, con l’evidente armonia che ne deriva, portano l’autrice a tentare di aiutare ed incoraggiare quanti la frequentano. Cerca in ogni modo di essere utile e di trasmettere uno stato d’animo che sembra difficile da raggiungere ma che invece sarebbe sempre alla portata: basterebbe prestare ascolto alle proprie percezioni interiori vivendo ogni istante con gioia ed amore.
Luciano Pellegrini
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Anima Quando ero piccola correvo a perdifiato, senza fermarmi prima di capitombolare a terra come una palla sgonfia che non ha più forza per girare ancora. E ridevo, ridevo. Mi faceva il solletico la vita, lasciandomi a bocca aperta per la meraviglia ad ogni nuova sorpresa. Così bisognerebbe crescere, con lo stupore stampato dentro, sempre. Poi ho preso il ritmo delle persone adulte, quasi già stanca nell’andirivieni quotidiano. Ho sorriso meno e pianto molto. Fino al giorno della mia resurrezione, quando aprendo la finestra ho guardato il cielo, che era sempre là, con il suo azzurro e il suo sole. Con i suoi uccelli in volo. L’anima si è alzata in canto, rispecchiandosi di nuovo negli occhi dell’esistenza. Alcune persone vengono a trovarmi a casa, facciamo una pausa nella loro vita prendendo un caffè, facendo finta che tutto vada bene. Sono tutte preoccupate e sempre con una fretta nei gesti, come se volessero scappar via o non essere mai venute. Cerco di tirarle su, dando leggere pacche ai loro cuori perché non si lascino andare, ritrovando il coraggio di scendere le scale e ricominciare a camminare. Dico loro “Sentitevi una palla che gioca, tiratevi a canestro, andate in rete”. Loro mi guardano smarrite e abbassano lo sguardo, si vergognano un po’, di me, lo so, del mio essere ostinatamente viva. “Vi aspetto, domani e dopo ancora. Voglio vedervi allegri, amici miei. Vedrete, dai, che ce la farete”. Non parlano molto di loro, i miei ospiti. Mi sento come un confessore di peccatori reticenti che vorrebbero alleggerirsi ma non sanno trovare le parole per perdonarsi davvero. Bene, io vi assolvo per tutto ciò che fate, per i vostri pensieri impuri che vi dicono che non siete degni dell’amore, per le vostri notti insonni cercando di espiare la colpa di esser nati. Vi scorgo, a volte, che vi guardate nello specchio, cercando di rassicurarvi che siete a posto, il vestito che cade coprendo ogni difetto, i capelli senza forfora che cade sulla giacca, la gonna plissettata che non vi dona affatto ma vi fa sentire bene. 21
Lo so, i sogni spesso ci lasciano a terra, mentre loro se ne vanno via lontano. Pensavamo di mettere su casa ed essere felici, con i nostri figli e le nostre domeniche di festa. Non pensavamo di maturare come le mele, con la pelle raggrinzita, nessuno che ci colga più per addentarci, buoni solo per fare marmellate. D’accordo, qualcosa è andato storto, è inutile rimestare nel calderone dei nostri fallimenti. Non voglio più sentirvi ripetere la litania “Se avessi fatto, se fossi andato, se non fosse successo”, che avvelena il vostro sangue. L’ho fatto tante volte anch’io, fino a scordarmi altre parole. Vorrei che tu, signora che dimostri più anni di quel che hai, con le rughe come ragnatele agli angoli degli occhi, vedessi la luce sfolgorare dal fondo dei tuoi occhi. Quando incontri, negli attimi in cui dimentichi di mormorare il tuo mantra amaro, riflessi di altri, scaturiti da abissi come i tuoi, arcobaleni appaiono nel cielo e la terra si colora come una tavolozza di un pittore estroso. Cammini con le spalle un po’ arricciate, sotto il collo increspato come un’onda. Ti guardo e dentro ti esorto: “Corri incontro al tuo destino”. E ripenso alla mia gioventù più bella, a tutti i desideri inseguiti come in una caccia al tesoro di cui non c’era fine. Ma il traguardo si è palesato anche troppo presto e sfogliare l’album dei ricordi può fare solo male. Per questo non tengo più un diario, ma guardo ciò che ogni giorno mi porta, aprendo la porta per trovarvi un sorriso, una lettera, un nuovo amico, anche solo una ventata che sa di primavera, una nostalgia dolce acchiappata al volo. Diventerò vecchia. Coltivo in me un campo di girasoli per non ritrovarmi con i pensieri irrigiditi e l’incapacità di affrontare la discesa senza appigli. Per voi che non vi aspettate niente dietro l’angolo che girerete un giorno, preparo una coperta che sappia darvi conforto nelle fredde sere invernali. Quando la luce, abbassatasi presto dopo un’estate passata a vivere intensamente, lascerà posto al tempo della riflessione non vi fate trovare impreparati. Prendete una tazza di tè caldo nelle mani e sorridete con garbo e gratitudine a ciò che siete stati. 22
Io lo faccio già da ora. Come un pellegrino su un sentiero lungo quanto la sua vita, intento a pregare a ogni tappa del suo viaggio. Ogni passo un assaporare di ciò che lo circonda. E come un esploratore in marcia, con la mia fiasca piena d’acqua e il pane scaldato dal sole del mattino, proseguo senza sosta. Non ho una meta da raggiungere, sarebbe come costruirsi miraggi nel deserto. Lo scopo è essere presente ogni momento. Non conosco il tragitto che mi manca. So che dopo essermi abbattuta in una palude senza uscita, mi sono arrampicata prima a fatica, poi senza più paura. Ho passato anni nelle tenebre, la solitudine è stato un muro senza porte, l’abisso sotto mi chiamava e ho dovuto resistere con tutte le mie forze per non lasciarmi andare, con le braccia serrate contro i fianchi. Chi ti vuole aiutare dopo un po’ si spazientisce, poi si allontana. È difficile capire perché si tengono le finestre chiuse quando ci manca l’aria. Nella palude non arriva neanche un refolo leggero e le notti più clementi sono quelle insonni, quando le immagini distorte non vengono a trovarci. Nel buio rimbomba solo la sua eco. Se non vi siete mai smarriti e non conoscete questo posto non vi darò indicazioni su come arrivarci. Non vale la pena visitare l’inferno, dove non si possono condividere né il dolore né il silenzio. Ascoltate l’anima che vi esorta a cercare mete diverse sulla vostra mappa. E sorridete, correte, amate. Guardate verso il cielo e respirate...
Ornella Turrini 23
Seconda classificata Angelika Fohmann-Ritter con “Lettera alla madre che se ne va”
Immagini molto intense si susseguono in questa ricostruzione che si dipana attraverso il ricordo della madre “persa nelle nebbie della mente”. L’autore lentamente ci inoltra in una realtà dolorosa, come è il dramma della malattia, che ci consente riflessioni profonde sul disagio e nel contempo ci apre un mondo di sentimenti autentici e di legami indissolubili mettendo in primo piano la forza dell’amore materno. Il racconto scritto con un periodare ampio, elegante crea un impianto apprezzabile in cui si sfumano i contorni fisici per lasciare in primo piano contenuti di grande impatto emotivo. Deanna Mannaioli
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Lettera alla madre che se ne va non hai fatto neanche in tempo a dire: “ho problemi con la memoria, ultimamente”, che già ti sei messa ad allontanarti da noi, mamma. Per andare “nell’altro paese”. Con passo ancora svelto ma sempre più insicuro e corto. Saranno i sonniferi assieme alle altre medicine somministrate per togliere l’irrequietezza causata da un cervello che perde sostanza a far barcollare tanto la tua barca. Nonostante ciò navighi irrefrenabile, ma verso sera con fatica estrema da una stanza all’altra, da un piano all’altro fino ad allontanarti da casa. A volte ti troviamo davanti ad un manifesto di un candidato per le elezioni. Il suo nome sta in fondo, per fortuna, e ti consente di rivolgerti direttamente a quel signore tanto simpatico. E la facoltà rimasta di leggere ti salva ancora dall’ammutolire. Gli occhi forniscono alla tua lingua le parole con cui puoi far vibrare le tue corde vocali. Ecco una sensazione che ti rallegra, che ti consente di sfiorare ancora il mondo di cui facevi parte una volta. Anche la facoltà di scrivere rimase per un paio di mesi. Fin quando durò, copiasti lettere di auguri per compleanni passati, lettere di amici, testi di cataloghi di moda che ti attiravano con i loro modelli giovani, sani, radiosi e vestiti con eleganza. Nei libri, elenchi telefonici, persino sullo sgabello di cuoio davanti alla TV si trova la tua scrittura a biro – incancellabile, con nomi di parenti mescolati alla pubblicità dal catalogo Walbusch. Fu difficile toglierti da questo compito anche per brevi passeggiate.Le tracce della tua vita attiva, organizzata, socievole, si riconoscono ancora nei tuoi gesti: se ti capita in mano uno straccio, un asciugamano, ti metti a strofinarlo sulle superfici che ti capitano. Oppure lo pieghi accuratamente e con concentrazione temporanea come per preparare una cucitura. Esegui una ridistribuzione quasi metodica degli oggetti di stoffa dal bagno in cucina, dalla cucina in sala, da lì in camera da letto ecc. Nel giro di poche ore un turnover completo delle piccole cose di arredo. In cucina partecipi a mondare la verdura, ma le bucce di patata si trovano poi in cima all’insalata e dentro la tisana nella brocca un pacchetto intero di zucchero. A Marzo esci ancora piuttosto con due borsette anziché senza. Dopo che ti sei tolta le scarpe, le metti 25
accuratamente appaiate al loro posto. Tre mesi dopo non ti interessa più se cammini scalza o con scarpe diverse ne se esci in camicia da notte o mutande. Strano come la sensibilità dei tuoi sensi sembra amplificata: da lontano leggi qualsiasi scritta, senza occhiali, rumori forti ed improvvisi ti fanno sussultare. “Terribile”, dici – anche senza l’aiuto dello scritto. Quando prendi in mano un bicchiere con un liquido dentro, annusi per controllare se è quel che sembra. Nel caso ci dovesse essere sciolto una medicina, immancabilmente, lo rifiuti. Ecco la bravissima cuoca di una volta che condiva i piatti impegnativi tradizionali che nessuno di noi sapeva fare a puntino prima di presentarli ai famigliari e ospiti che gemevano in attesa dei sapori che sarebbero esplosi sul palato. È da mezz’ora che cerco di infilarti una giacca dopo che hai fatto i tuoi giri mezza nuda accompagnati da colpi di tosse. Dietro a me è appeso uno specchio. Mentre continui a ribellarti contro ciò che sembra uno stupro: “incredibile” seguito da una bestemmia che era solito usare mio padre morto da 20 anni, fai gesti di complicità al tuo alter ego dentro lo specchio. Anche se ha dell’assurdo, questa battaglia per mettere o togliere un indumento fa sperimentare la tua vitalità di una volta, la tua autorevolezza. Il tuo volto che è sempre stato bello e sodo anche con un uso solo sporadico di cosmesi è cambiato molto: a volte ha dell’infantile con i capelli arruffati e l’espressione costernata. Questi tuoi bei capelli ricci, ereditati dal nonno! I parrucchieri sorridevano contenti quando entravi nel salone (fabbrica dei cappelli lo chiamavi qualche mese fa) . Avevano poco da aggiungere e l’effetto era sempre sicuro. E nostro padre non finiva di dichiarare che ti aveva sposato solo per loro. Decorano tuttora questo viso allo stesso tempo senile ed infantile, comunque dignitoso. Quando i tuoi occhi cadono sulla foto della bisnipote o la bambola che usa per giocare, può illuminarsi di un tratto ed irradiare tenerezza. Si ricrea così l’atmosfera consueta intorno a te dell’accoglienza, della gioia di stare insieme caratteristici di molti Bavaresi ed Austriaci. Portavamo a casa volentieri gli amici, sicuri che avrebbero trovato interesse, cordialità, buon cibo e – volendo – anche un posto per dormire. Mamma mia – sono contenta di poter usare una lingua che non ho imparato da te per descrivere e capire l’impossibilità as26
soluta di comunicare con questo strumento: nessun riferimento alla memoria ormai: “ti ricordi?” Ancor meno alla ragione: “ma non capisci che così prendi freddo?”. Invece l’assenza totale dei soliti filtri d’ingresso e uscita. Un disaccordo che percepisci nelle persone intorno ti mette a disagio come il rumore della televisione con il volume regolato a livello dei sordi dal tuo compagno che non sente neanche il campanello. La trasgressione dei limiti consueti fisici nel tentativo di lavarti o farti togliere la protesi dei denti ti fa combattere come una belva e bestemmiare come un asinaio (ma da dove ti arrivano all’improvviso queste espressioni mai usate?). Scusami, mamma, sai di star male e all’inizio del tuo nuovo percorso l’hai anche ammesso con chi ti chiedeva come stavi: non bene. Mai prima ho sentito una risposta simile da te che trovavi sempre una soluzione, un rimedio, il lato positivo delle cose. Purtroppo sono un po’ rigida, attaccata ai tuoi stimoli di una volta che spargevi generosamente sulle letture da fare, le ricette da provare in cucina, i viaggi da intraprendere, le lotte politiche cui associarsi. Invidio mia sorella che – solo toccando i tuoi piedi – ti toglie l’irrequietezza che ti spinge a muoverti – prima per cercare delle cose, poi a fine di se stesso, fino all’esaurimento. Ogni tua capacità rimasta nelle varie tappe della malattia, la sfrutti fino in fondo – finché non c’è più. Ma, abbandonando i tuoi piedi alle mani calde di tua figlia trovi una tregua nella tua battaglia, la pace del cielo, la connessione alla la vita che ti porta all’ingresso ancora sbarrato di altri mondi sconosciuti. Il bolero di Maurice Ravel, dipinto da Anne Adams, biologa canadese affetta da demenza fronto-temporale come lo stesso Ravel e come mamma
Angelika Fohmann-Ritter
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Terza Classificata Mara Pennacchio con “Schiavi di chi”?
Struggente ritratto di un rapporto madre-figlio difficile e faticoso, ma necessario ed intenso. Schiavi di chi? si pone come un’antinomia tra il dovere personale, familiare, sociale dell’accudimento di chi soffre, e l’autodeterminazione individuale; tra il “poteva capitare ad un altro, ma non a noi, non a me” e la voglia di lottare anche per gli altri. Fausto e Francesca si ergono come paradigma di una società che si fa carico di una mancanza politica, di una insufficiente consapevolezza collettiva di quali siano i veri bisogni dell’essere umano. Scritto con penna nervosa (ha il ritmo sincopato della taranta) si apre in spiragli di luce e sorrisi, per chiudersi in un bacio pieno di amore.
Gianluca Iadecola
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Schiavi di chi? Il gorgoglio proveniente dalla trachea di Fausto avverte Francesca che è, di nuovo, ora di spurgare il catarro. Francesca libera la mente dallo stato di dormiveglia, gira la testa e fissa la sveglia: le 3:20: fuori un vento gelido scuote gli infissi,il cielo sereno,si intravede anche la luna,bellissima come sempre,ma non si può restare fermi ad osservarla. Pensa: “tre quarti d’ora dall’ultima volta, forse il raffreddore di Fausto sta migliorando” ; si alza a fatica dal letto, gli anni iniziano a farsi sentire, non si copre neanche con una vestaglia, la casa è surriscaldata per via di Fausto. Va in bagno e si lava le mani, indossa i guanti di lattice, prende la cannula e si avvicina al letto di suo figlio. È sveglio, come sempre quando non riesce a respirare bene per via del catarro. Il suo stato vigile comunica paura, paura che qualcosa possa interrompere il flusso regolare del respiratore o che qualcosa possa ostruire l’aria che gli viene pompata direttamente nella trachea. Francesca gli fa l’occhiolino e stacca la macchina; subito il fischio acuto dell’allarme si inserisce. Francesca stacca il tubo, inserisce la cannula, quella flessibile per non lacerare i tessuti, attiva la pompa e inizia ad aspirare il catarro con g e s t i s i c u r i e p r e c i s i ch e r ive l a n o u n a l u n g a p r a t i c a . Sa di avere a disposizione solo una manciata di secondi prima che Fausto perda conoscenza per mancanza di ossigeno, sa anche che, se dovesse succedergli qualcosa, lei, teoricamente, potrebbe anche essere penalmente imputabile perché per quell’operazione ci vorrebbe del personale specializzato. A domicilio? Ogni mezz’ora? E chi te lo dà? Nessuno se ne cura; dopo trentatre anni di quel calvario, anche la galera sarebbe una soluzione. Ma non lo è! Francesca ama suo figlio, come qualunque mamma; a lui ha dedicato tutta la sua vita, alla sua sopravvivenza ed è fiera di cosa insieme sono riusciti a fare. Francesca pensa che tra quattro ore inizierà la routine quotidiana: 29
pulizie per Fausto, almeno due ore tra i cambi,lavaggi e spugnature; bisogna fare attenzione, perché ormai lui è come i prigionieri dei campi di concentramento, solo pelle e ossa; pelle e ossa immobili. Poi la colazione, almeno un’ora tra prepararla e imboccare Fausto che, come al solito la seguirà, immobile e muto, con i suoi occhioni sbarrati. Poi finalmente lo collegherà al computer e sentirà la familiare voce metallica “ciao mamma. Oggi a pranzo vorrei le lasagne ah ah ah...” lei lo guarderà e sorriderà, sapendo che anche lui sta ridendo anche se non ha più muscoli sul viso per sollevare le guance, sa che, anche se non può sentire i sapori attraverso il sondino nello stomaco in cui viene versato il cibo, preparerà per lui le lasagne. Oggi è sollevata perché nel pomeriggio finalmente potrà andare a farsi visitare dal ginecologo, dopo sei mesi, finalmente è riuscita ad organizzare la sua uscita di casa; due ore, dalle 15:00 alle 17:00; la menopausa non può aspettare oltre. Verrà un volontario, e con il papà per il catarro baderanno a Fausto. Giocheranno ai videogame, viaggeranno in internet, Fausto continuerà la sua battaglia politica attraverso il web e poi stasera si ricomincerà: cena, preparativi per il sonno ... già, quale sonno...; per un attimo Francesca sente la malinconia farsi strada sottilmente nella sua mente, un senso di soffocamento, ... poi urla dentro di sé “NO”, pensa alle altre centinaia di migliaia di donne nella sua condizione, schiave di una brandina, schiave dell’amore per un famigliare, si ripete all’infinito “no... no... no...” costringe il suo volto al sorriso, pensa “devo farlo per lui, devo andare avanti per loro tutti” si volta sorridente verso Fausto, si china verso di lui e gli lascia un tenero bacio sulla guancia.
Mara Pennacchio 30
Premio Speciale del Presidente della Giuria a Greca Firinu con “Di che colore sono le ali degli angeli?”
Il racconto “Di che colore sono le ali degli angeli?” si caratterizza per i particolari che evidenziano il netto contrasto tra la serenità di un paesaggio tipicamente isolano e le reazioni di un giovane autistico: Cosimo. Descritte alcune caratteristiche tipiche di questa disabilità, Greca Firinu si destreggia con le emozioni proprie, i momenti di agio o disagio del giovane e le reazioni, più o meno disturbate, delle persone conosciute o sconosciute con cui egli viene a contatto. Tra sensazioni e discorsi, echeggia la domanda che fa da titolo alla narrazione. Un interrogativo che appare senza significato, quasi fosse uno dei tanti che Cosimo fa in genere, ma che sembra riferirsi a qualcosa di più profondo e misterioso. Così, la sensibilità dell’autrice pare cogliere nella fragilità del ragazzo quella di ogni essere umano misto a quel desiderio di pace e di sicurezza che a cui tutti aneliamo. E da una parte, discreta, c’è la la madre del ragazzo che pare controllare tutto con pacatezza d’animo: emblema d’amore e di spirito di sacrificio. Luciano Pellegrini
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“Di che colore sono le ali degli angeli”? Cosimo è un ragazzo splendido che vive in un mondo tutto suo. Un mondo grande o piccolo, bianco o nero, pieno di pace o di nemici invisibili. Un mondo ricco di irrazionalità, fino a straripare come un fiume in piena. Banali fissazioni le sue per la gente comune, ma per lui sono problemi, grandi come il mare; il suo mondo, ricco di fantasie assurde, per i benpensanti è quasi un fenomeno da baraccone. Incomprensibile quando si chiude in sé e scappa perché la paura lo intimidisce. Paura della gente normale o forse il contrario. (È’ la gente normale che ha paura di lui?) E intanto lui scappa, scappa dalle sue insicurezze, scappa dalla realtà che lo disturba, scappa dalle cose nuove che vede come grossi macigni che gli vengono incontro e cercano di schiacciarlo, scappa senza sapere nemmeno dove andare e si chiude nel suo limbo. Poi ritorna, gioioso. Il suo saluto è come un arcobaleno dopo la tempesta, ti coinvolge, e porta allegria, vorrebbe trasmetterla a tutti, alle persone che gli vivono accanto, ai passanti che non conosce. Il suo mondo è pieno di amici potenziali che incontra in ogni angolo della strada, il suo saluto lo rivolge anche a chi non conosce, equivale al desiderio continuo di sentire l’amore di chi lo circonda, di cercare nell’interesse, che le persone possono manifestare nei suoi confronti, quelle certezze che sa di non avere. Fin dai primi anni della sua vita era evidente che in lui c’era qualcosa di insolito, le insicurezze, lo sguardo fisso, le assenze continue, le curiosità esasperanti e le domande interminabili, ripetitive e talvolta irrazionali, la sua risata incontenibile prima di scappare ancora impaurito. Il suo affannarsi, in spiaggia, alla ricerca di un porto sicuro, il suo svolazzare tra un ombrellone e l’altro in cerca di risposte alle sue assurde - ma lecite - domande, come un’ape che va di fiore in fiore alla ricerca del suo nettare vitale. I commenti non più razionali delle sue domande fatti dalle signore disturbate per un attimo dal 32
loro frivolo parlare di cronaca rosa, della temperatura dell’acqua, o delle salsine di stagione. Ma chi sono i diversi? Troppo facile additare chi nasce non privilegiato. Ho sempre allungato la mia mano verso Cosimo. Lui questo lo sa e mi rende felice. Anche quando non conoscevo il motivo del suo disagio, il mio istinto mi guidava e non gli è mai mancato il mio amore nei suoi 25 anni di vita. Così l’ho liberato, tante volte, dall’imbarazzo di un commento gratuito e assurdo. Rispondo sempre alle sue infinite e ripetute domande, fatte, forse, per mettermi alla prova, per vedere, se e quanto può contare su di me. E io, di volta in volta, cerco di non irritare la sua fragile sensibilità rispondendo o meno alla sua curiosità. E quando non rispondo, so che devo essere decisa, forte, ferma, sia pure senza provocargli paure o incertezze che sarebbero per lui motivo di ulteriore frustrazione. Cosimo ama la natura, i paesaggi sconfinati della sua isola e l’infinità del mondo. Ho condiviso con lui tante volte la bellezza del paesaggio tra le macchie di Mirto e Lentisco, dove i cenerini Elicrisi si colorano di giallo all’inizio dell’estate, tra le Palme nane, le distese di Cisto bianco e di quello rosa e il profumo prorompente dei Rosmarini ai bordi della scogliera, a strapiombo sul mare sconfinato. Tante volte siamo stati sotto un sole tiepido, una brezza leggera o un vento forte tra i capelli, il silenzio rotto solo dalle sue ripetute domande. Lui è forte in geografia: “ma la faranno tale via in tale località?”... “ ma secondo te sono più intelligenti i cittadini di quella o di quell’altra città? ”. Io lo guardo stralunata, le sue domande sono davvero tante e sempre le stesse, ripetitive come un disco rotto, e mi ubriacano per un po’, allora ridimensiona tutto e mi fa: “Ora stò zitto, così ti riposi la mente!” Ma dura poco. E ancora richiama la mia attenzione, mi vuole tutta per sé e mi dice: “Sai a cosa penso? Penso all’universo, alla bellezza del creato, alla mano che ha fatto tutto ciò!” 33
Poi riflessivo chiede: “Ma, secondo te, di che colore sono le ali degli angeli?” “Luminose...” Gli rispondo senza esitazione, brillano dando tanta luce, come una grande lampadina sul mondo. “Bianche...” Replica lui “... Come le piume dei gabbiani che volano sulle nostre teste infastiditi, forse, dalle nostre voci che rompono la quiete della natura. Che siano davvero degli angeli che si sono materializzati e che proteggono il nostro cammino?” Mi piace pensarlo, mi piace sapere che Cosimo ne sia convinto che quei grossi uccelli siano davvero là per proteggerlo, che siano gli amici che tanto vorrebbe avere e che invece puntualmente gli sfuggono. Mi sono avvicinata a lui e l’ho preso sottobraccio cercando la sua complicità e di dargli fiducia. Ci trasmettiamo sicurezza reciproca. In quel momento non sapevo chi fosse il più forte di noi due. I gabbiani volavano ancora, a bassa quota, con le loro voci stridule, forse danzano per noi. Sua madre, poco lontano ci osserva, compiaciuta.
Greca Firinu
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Poesie Segnalate
Agonia di un padre Di fronte ai miei occhi sul tuo letto disteso, pronto, per l’ultimo viaggio atteso, biglietto in tasca e valigia in mano, fiato che stenta a traversar la gola, provato, sfinito, sazio del patire umano, e la fierezza di chi, da padre di famiglia previdente, l’ultimo esame affronta sorridente. La malattia, dai più scongiurata, scostata, maledetta, evitata, come fosse la gogna d’una ingiusta sentenza, giunta a te come l’amante attesa con impazienza, desiderata, agognata per dar forza e vigore alla vela già sciolta, d’una nave in viaggio e verso la meta rivolta. Ecco che allora che questa un senso trova, nella frenesia, nei ritmi della vita e nella prova, ti concede un tempo per pensare, per pregare e sull’esistenza ragionare, dopo aver per una vita navigato, provar la gioia d’essere al porto, dai propri figli, accompagnato. E quel che ogn’uomo fugge per te altro non era, che l’ultimo passaggio d’un testimone ai frutti della tua vita fiera, al tuo fianco in quel che del trapasso è il momento, ancor bramanti di un altro insegnamento, padre grande, padre amato, padre forte, maestro nella vita, maestro nel dolore, maestro nella morte. Giovanni Moroni
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Nel giardino incantato (Dedicata agli anziani negli ospizi) Nel giardino incantato, là dove il bianco impolvera la chioma mentre il vento dirada le fronde nello strappo di caduche foglie. Rami rinsecchiti e spogli non conosceranno il crepitio di legna arsa dalla calda fiamma di un focolare. Volti segnati a ricordare dei muri crepe e della terra arate zolle mostreranno il calpestio del tempo. Attoniti ed assopiti, con lo sguardo fisso ed il respiro a metà, tra sogno e realtà nella nebbia di ricordi e farfugli di lingue scoloriranno come fiori bruciati dal gelo. Mentre lo specchio s’appannerà con l’ultimo fiato di un freddo inverno che nel marmo soffocherà la carne asciutta dall’aggrumato sangue.
Loretta Stefoni
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Pazza Solitudine. È come la sete che riarde in gola. Forse non sono bella, anche se ho i capelli lunghi e neri e gli occhi come di favola, spalancati sulla gente. Forse è per come li guardo che mi lasciano seduta nell’angolo deserto. Dicono che sia per non disturbarmi, per non spaventarmi, come se sussultassi ad ogni alito di vento. Non ricordo di aver detto parole amare o agitato le mani come schiaffi in volo. Ho voglia di ridere e toccare ma delicatamente mi abbassano le braccia. Allora piango dentro di me per far scorrere acqua alle mie piante, il mio giardino segreto, la vita nel mio cuore. Non sono riuscita ad essere normale come le mamme che sgridano i bambini e portano la spesa per fare da mangiare. Non sono con le scarpe lucide al lavoro, parlando del più e del meno con del caffè industriale nel bicchiere. Sono riuscita male, un poco difettosa, in fabbrica a riparare, la garanzia scaduta. Potrei mettere un sorriso finto sul mio viso ma solo la gentilezza può farlo germogliare. 40
Quella delicata che ti accarezza e ti fa scendere dal letto canticchiando piano e ti porta al confine di ciò che è conosciuto per scoprire albe nuove e lietamente andare. Ma qui finisce il prato su cui camminare. Non ricordo di aver detto parole amare, o agitato le mani come schiaffi in volo, le ho alzate per sentire l’aria libera tra le mie dita ma, triste sorpresa, ho incontrato un muro.
Ornella Turrini
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Racconti Segnalati
Ricordi d’amore A volte succede che la mente si metta a frugare nei ricordi, fruga in quel caos fatto di emozioni e sensazioni che costituiscono il nostro vissuto. Mentre spossata subisco la calura estiva ricordo come da piccola l’estate rappresentasse l’unica nota di colore nel grigio della mia esistenza. L’estate era la gioia del mare, la spensieratezza delle serate passate ad ascoltare i racconti dei grandi, il chiasso dei parenti che venivano in vacanza...era bello non sentire quella rabbia e quel rancore che invece mi accompagnavano durante il resto dell’anno. Pochi possono capire cosa passa nella testa di una bambina che rientrando da scuola trova la nonna adorata in lacrime che comunica “la mamma ha una brutta malattia”.Cerchi altri sguardi, osservi i tuoi fratelli, tua sorella, consapevole che tu,sorella maggiore, dovrai cercare di proteggere gli altri, soprattutto il fratellino appena nato. Ancora oggi ricordo la sensazione di soffocamento e di impotenza davanti a quel dolore che reputavo ingiusto e incomprensibile. Mia madre nella mia mente era come una farfalla, bellissima e fragile, stava spesso male ma era un fiume in piena che adorava cantare, ballare e vivere. Spesso mi sentivo più vecchia e più saggia di lei che viveva il presente in maniera assoluta e per me talvolta stancante. Ricordo il mio dolore e la sensazione quando ci lasciò per il primo ricovero. Il trasferimento in un altro paese segnò la fine dell’infanzia e l’inizio di un periodo fatto di assenze, di domande e purtroppo di rancore. Venivamo guardati, osservati come cavie, eravamo i figli di quella “con quella malattia”, la compassione si univa alla curiosità e questo connubio mi irritava oltremodo. La mattina prima di andare a scuola dovevo fare il bagnetto a mio fratellino che aveva appena sei mesi e anziché ricordare lui, ricordo lo sguardo spento e le lacrime silenziose di mia nonna che ci osservava in silenzio. 44
Era come vivere imprigionati in un incubo perché la vita senza gioia è un incubo. Vedevamo mia madre raramente perché non si poteva spostare, le terapie a cui era sottoposta erano sperimentali; quando tornava osservavo i cambiamenti che “la bestia” apportava sul suo corpo. Provavo tanta rabbia perché egoisticamente io volevo mia madre, volevo una vita normale, volevo di nuovo un po’ di felicità.. Dopo un po’ iniziarono i rientri del fine settimana, la mamma rientrava il sabato e partiva il lunedì mattina molto presto e io rivedo ancora mia sorella che aveva nove anni che si metteva a fianco di mio fratellino nello spazio lasciato vuoto da mia madre, cercavamo tutti di ricreare una sorta di famiglia nonostante tutto. Intanto iniziavamo a familiarizzare con termini come “morbo di Hodking”, chemioterapia, radioterapia e via dicendo. L’oncologico era un luogo che associavo alla prigione e mia madre era la reclusa sottoposta a torture di cui io con dolore vedevo gli effetti. Le uscite erano ridotte alle visite a Cagliari e mi sembrava ingiusto che la mia infanzia fosse così mutilata, ricordo il pianto irrefrenabile quando per Carnevale mi fu impedito di uscire perché “non stava bene”. Avevo undici anni e non trovavo alcuna giustizia nelle imposte chiuse che tenevano lontane la gioia e l’allegria. Era incomprensibile che ci fosse così tanto dolore e soprattutto non ne afferravo il senso. Ho visto mia madre affrontare la malattia con grande dignità, la sua vitalità era enorme e quando rientrava era come se le giostre dei luna park si mettessero a girare in una moltitudine di suoni e di colori! La sua forza è stata talmente grande da riuscire a sconfiggere la bestia. È riuscita a far crescere i suoi ragazzi, a renderli consapevoli che la malattia fa parte della vita come ne fanno parte i fiori, gli animali e le piante. Ci ha insegnato l’importanza della fede, il suo rapporto con Dio è stato struggente e unico, non si è mai chiesta. “perché a me?”, anzi quando io le ponevo il quesito, mi fissava con i suoi occhi stanchi e rispondeva: “Perché a me no?”. 45
L’ho amata moltissimo, forse male, senza smancerie e quelle cose melense che a molti vengono facili, ma so di averla amata infinitamente, come quando il giorno della mia laurea con gli occhi ho cercato soprattutto lei che colpita da un carcinoma dopo vent’anni era venuta a vedermi dopo una seduta di radioterapia, era stanca, pallida ma era lÏ. Il suo affrontare la malattia ha segnato le nostre esistenze facendomi attribuire importanza ai singoli momenti, al trascorrere del tempo e spesso quando il rimpianto si trasforma in dolore avverto che nonostante la mutevolezza degli eventi e il rapido trascorrere dei giorni, noi siamo oltre questo corpo, oltre questa vita. Siamo foglie danzanti che dopo essersi posate, appassiscono si trasformano ma non muoiono mai... .
Franca Elisa Cuccu
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Verdetto Finale Interminabili. Finalmente sono trascorsi questi maledetti, lunghissimi quindici giorni, in cui mi sono svegliata con il desiderio che fosse già sera, per potermi addormentare di nuovo e non avere nella testa quell’unica ingombrante realtà: AMNIOCENTESI. Al lavoro...i minuti non passano, figuriamoci le ore...ma quando mi telefoneranno? Per fortuna ho il lavoro, altrimenti chissà quante volte in più i pensieri avrebbero continuato ad aggrovigliarsi attorno allo stesso punto come una serpe velenosa intorno ad uno stecco che cerca di diventare albero. La mattinata è stata infruttuosa, sempre a pensare le stesse cose: sarà andato tutto bene? Ci saranno dei problemi? Oh, mio Dio, speriamo di no, non saprei come...IL TELEFONO! “Pronto, signora Virginia”? “Sono io, mi dica”. “È lo studio ginecologico, abbiamo i risultati”. E mentre in una frazione di secondo penso cosa aspetta l’infermiera a comunicarmeli, lei ribatte:“Dovrebbe venire da noi quando può, c’è una piccola incongruenza, a volte capita”. Perché le parole “quando può”, “piccola” e “capita” sono così in contrasto con INCONGRUENZA? E perché, guarda caso, è proprio quest’ultima che sovrasta le altre? Non mi sono mai piaciute le mezze verità, specialmente quando si tratta di scomode notizie: meglio ingoiare la pillola in una sola volta piuttosto che rimandare a più puntate e ritrovarsi con l’amaro in bocca per giorni e giorni. Cerco di trovare la calma giusta per rispondere: “ Devo preoccuparmi oppure no?” “Mi spiace, non posso dirle altro al telefono, dovrebbe parlare con il dottore”. Io: “Di grazia, dov’è?” 47
“Non è in ambulatorio stamattina, ma se vuol passare nel pomeriggio lo troverà senz’altro”. SE VOGLIO PASSARE? E me lo chiede anche? “Ed io senz’altro passerò” rispondo seccata...non le ho neanche chiesto se è un maschietto o una femminuccia... Sono davanti allo studio medico. Spingo la porta, si apre; per fortuna non devo attendere che arrivi qualcuno.Il ginecologo mi riceve subito. Ci sediamo. “Buona sera, signora, come le ha accennato Annalisa, l’amniocentesi ha evidenziato un’anomalia nel feto”. “Il feto” penso tra me “È un bambino, IL MIO BAMBINO”!...”O una bambina”? “C’è un cromosoma in più, sa cosa significa”? “Sindrome di Down, dottore, so che significa”. Cerco di ritrovare il mio proverbiale sangue freddo, ma l’emozione mi sovrasta, mi attanaglia, mi morde dentro come se mi stessero strizzando lo stomaco. Se solo Luca fosse qui...con me, come sempre...non ho voluto disturbarlo proprio oggi che ha quell’importante colloquio, non dovevo e non l’ho fatto...ma mi manca da morire ora che sono io, a sentirmi morire. “Cosa vuol fare, signora”? Forza, Virginia, lo sanno tutti che nei momenti difficili dai il meglio di te stessa, che sai trovare risorse impensate e insperate e che alla fine sai superare i problemi meglio di chiunque altro (certo, magari non sanno quanto costa superare la mia emotività e le mie paure, e quante risorse chiedo a me stessa e quanti pianti che faccio da sola, e...). “Devo rispondere ora”? “Certo che no, a meno che non abbia un’idea già chiara”. “Ne parlerò con mio marito, arrivederci” taglio corto. Voglio tornare a casa, voglio sedermi sul divano su cui ho sognato di cullare il mio bambino, voglio vedere la stanza che avrebbe dovuto 48
essere la sua cameretta, voglio fare il bagno dove avrebbe fatto il bagno anche lui. Chissà come sarebbe stato tornare a casa in tre? Che devo fare, che devo fare, CHE DEVO FARE? Ho visto battere il suo cuore, è qui con me, come potrei allontanarlo per sempre? Ma come trovare la forza di crescere un bambino con quelle che saranno, a dir poco, esigenze e difficoltà così inaspettate? Forse, con un altro tentativo, potrebbe andare meglio…o no? Arriva Luca. Mi conosce troppo bene per non capire che è accaduto qualcosa di grave. Gli racconto tutto. Ho paura che mi dica quello che non vorrei. Di solito sono io a rincuoralo quando si sente giù di morale, ma questa volta è lui a prendermi le mani e, inaspettatamente, a farmi un sorriso. Sorrido anche io, il mio cuore è all’improvviso soffice e leggero come una nuvola. Mi chiede ridendo: “ Ma insomma, sarò il papà di un maschietto o di una femminuccia”?
Alessia Palazzoli 49
Il mio Mago C’era una volta una me che viveva in una casa molto buia. L’esterno della casa era stuccato di bianco, ma l’interno aveva corridoi bui. Un vento gelido li attraversava. Non era sempre stato così. Tanto tempo prima i corridoi erano caldi ed illuminati, le finestre erano sempre spalancate e tirava una buona aria. Un giorno, però, le persiane sbatterono bruscamente e le finestre si chiusero per sempre. Tutto rimase al buio per secoli. In quel silenzio oscuro, sentivo piangere la mia anima. Le lacrime erano il suo richiamo, ma sembrava che volesse troppo e che mi indicasse una via sbagliata. Io volevo essere come gli altri e non me stessa. La mia anima mi chiamava ed io non mi facevo trovare. Se mi diceva “siediti e stai con me”, io scappavo, andavo nella direzione opposta. “Coccolami, prenditi cura di me” ed io mi prendevo cura della me stessa costruita. “Avvicinati, stai con me”, ed io stavo con gli altri. Sono stati anni bui per me, perché sostanzialmente sono stati anni infelici. Non potevo essere felice perché chiedevo ad una scimmia di comportarsi come una giraffa. Volevo cambiare, volevo essere me stessa, superarmi, arrivare a toccarmi, ma non ci riuscivo, non ci riuscivo proprio. Nulla scalfiva il blocco di marmo che ero diventata. Un blocco rigido, indistruttibile, apparentemente indistruttibile. Quel blocco qualsiasi vento tirasse, stava lì. Era impermeabile. Ed ovviamente io non cambiavo. Nonostante la mia bravura a leggere e capire, non cambiavo. Questo fatto aveva per me del mistero. Volevo cambiare, mi documentavo su come fare, ci provavo, ma non accadeva. Non era un fatto misterioso? Lowen scrive “Non si può mai uscire dalla trappola lottando, perché ci si lega più strettamente. Bisogna smettere la lotta, il tentare, il fare.” Io, invece, non avevo capito niente e tentavo e facevo e stavo lì a soffrire. Un giorno in questa frenetica corsa a non esserci, bussa alla porta un tizio. Bussa più volte nella stessa giornata, io vado allo spioncino, guardo il tizio e mi dico che è un parto della mia fantasia: lì fuori non c’è nessuno. Il signore bussa 50
diverse volte in un mese, poi inizia a bussare più volte durante la settimana e poi ancora più volte durante i giorni. Ricordo la prima volta che bussò. Ero ad Ischia, per vacanza. Stavo facendo la doccia, quando bussò in quel pomeriggio afosissimo. Ma io non gli aprii, mi dissi che era stato il caldo a farmi immaginare il suono delle nocche sulla porta. Aprii la porta precisamente un anno più tardi. Non potevo più far finta che non avessero bussato. Ormai battevano alla porta e dovevo aprire per forza, altrimenti sarei morta. Quando ho aperto la porta ho visto chi era a bussare. Non era un invito a nozze. Non aveva niente di piacevole nell’aspetto. Proveniva da lontano, forse era anche nato prima di me. Aveva attraversato fiumi, vissuto nelle vallate e poi aveva agito all’interno di profondissime caverne. Non aveva avuto spazio. Ma aveva trovato la strada per ritornare in superficie e suonare alla porta. Era un cavaliere, un cavaliere polveroso, aveva faticato troppo in più di 30 anni, era rimasto troppo in silenzio e non sapeva più parlare, sapeva solo urlare. Era arrabbiato con me perché non gli avevo mai aperto, non l’avevo fatto uscire, si era liberato da solo, squarciandomi l’anima e il corpo. Il nome di questo cavaliere era: cancro al seno. Il cavaliere nero si pose lì, imperturbabile. Di tornare indietro non se ne parlava proprio: o lo facevo uscire o moriva con me. Era un aut aut. Non potevo venire a patti. Questa volta comandava lui. Iniziava il cambiamento, dal corpo. Incontrai per aprire il varco un gran mago. Uno di quei maghi che un tempo proliferavano, ma che ora sono in via di estinzione. Un mago con fulgidi occhi e con pochi capelli. Il mago sentenziò che a breve avrebbe dovuto aprire il varco, perché il guerriero nero stava distruggendo tutta la roccaforte. Il mago, che non fu vago, aggiunse che avrebbe dovuto distruggerla per poi costruirne un’altra più bella e più forte. Tutto avvenne in poco tempo: apertura del varco, distruzione della roccaforte, costruzione della nuova. Fui seguita dal mago anche durante le cure, che durarono quasi un anno. Ormai, si era assunto la responsabilità di guarirmi completamente. 51
Ma fece qualcosa in più il mio mago, attuò il cambiamento che avevo disperatamente cercato negli anni precedenti. Gli incontri di prima avevano fallito. Avevo amato altre persone, avevo cercato di farmi amare, ma nessuno mi aveva amato. Avevo dovuto trovare uno più grande di me, un mago con un cuore grande grande, dove anch’io ero potuta entrare. Gli altri non erano maghi e il loro cuore era piccolo, troppo piccolo affinché vi fosse spazio pure per me. Solo oggi scrivendo, mi rendo conto che forse quei cuori erano già affollati, erano cuori senza posti e correvano. Erano cuori che hanno solo preso e non hanno voluto dare. Ma io sono stata brava e non ho fermato le mie ricerche. La vita mi ha portato al mio mago. Ed ora da lui riesco a ripartire. È come un molo. Le acque ogni tanto si agitano, ma so che niente mi distruggerà: sono attraccata bene. Resterò in questo porto ancora per un po’, ma intanto faccio delle escursioni, ogni giorno mi allontano sempre di più dall’attracco. Poi, la sera, ritorno perché il lavoro non è finito, ci vuole ancora un po’ affinché io possa navigare in mare aperto. Ma il cambiamento è avvenuto!
Lucia Russo
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Finalisti Poesie
Parole le parole sono nel mio cuore appuntite come frecce e levigate dal fiume della vita sorgano inconsapevoli dal buco nero dalla pozza cupa di fango e rotolano verso la distesa infinita ed azzurra le guardo fermarsi dentro di me radicarsi come erba matta coperta lavata cullata dal moto perenne di un oceano calmo o in tempesta le guardo sciogliersi e ritrovarsi ed andare
Giuliana Apollonio
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Per essere felice Per essere felice abbandona i castelli della mente. La felicità sboccia spontanea nei cuori di coloro che si accontentano di una vita semplice e volontariamente rinunciano al frastuono delle necessità superflue. La felicità è uno stato d’animo. I ricchi hanno tutto ciò che non desiderano ed i poveri non possiedono nulla ma apprezzano ciò che hanno. Se guardi i ricchi ti senti povero. Allora guarda i poveri e sarai ricco. E non sarai schiavo dei bisogno.
Luciano Bacoccola
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Il cerchio della vita o, meglio,
i bilanci del vecchio All’improvviso è qui arrivato dei bilanci il gran momento... Come è vivo lo sgomento! Quale lastra di cristallo, della vita l’esperienza mi rimanda ogni sequenza! Vi riflette ciò che è stato: tutto il bene e tutto il male, la realtà e l’ideale! Vi riflette ciò che ho avuto: tutto il bello e tutto il brutto, quel che ho fatto e che ho distrutto! Vi riflette, stranamente, quel che ho più desiderato, ma non s’è realizzato! Vi riflette, largamente, ogni rimpianto ed ogni gioia, gli entusiasmi e pur la noia! Chiuso è il cerchio della vita? Non sono ancora allo sbaraglio... È ancora aperto uno spiraglio! Non è finita la partita. Sono vive ancor le attese... La Vita è piena di sorprese Maria Antonietta Benni Tazzi 56
Mattino al mare Sono in manicomio a trovare mia madre, mi sento una spettatrice un soffio di vita tra nubi dense. Ho paura di perderti in un mondo troppo “altro”, sprofondi in un progressivo isolamento scivolando via irraggiungibile, non riesco più a tenerti. Questa mattina è un via vai di vita: è giugno si esce si va al mare. Gocce di sole e odorose ginestre, il mare prorompe nella sua magnificenza di vita, tu fai un bel respiro è una sinfonia che fa danzare ogni cellula. Vorrei fermarlo quest’attimo pieno di senso, di luce, di suono le nubi sono solo un vano tentativo di nascondere il cielo. Tu indossi il cappello del Milan il mondo è riapparso intorno a te nella sua variopinta umanità almeno per un attimo, un brevissimo eterno. Di quel mattino al mare conservo un lumicino speciale, che mi fa leggere dentro la sofferenza la ricchezza nascosta dell’umiltà.
Sara Bianchi
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L’infinito spazio Non mi interessa sapere quali pianeti quadrano con la lune, mi interessa sapere cosa quadra con la felicità. C’è un vuoto che nel contempo rattrista e rallegra, così il nostro spazio interiore, alla ricerca di quella linea di confine che oltrepassata apre al sorriso. Non mi interessa sapere quale pianeta quadra ora con la mia luna, mi interessa sapere come fermare questo folle tempo di egoismo e indifferenza.
Stefano Caranti
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Come ogni sorta di vita può a Marta, malata terminale “[...] Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo. Ascolta come mi batte forte il tuo cuore.” Wisława Szymborska: ”Ogni caso”
Con sorte decisa, predetta da rune e carte magiche, comunque imperfetta la vita ci vorrebbe sottratti al male, al dubbio, a paure e derisioni. “Ma intanto” Intorno risvegli e risate soffocavano l’aria, mandavano con le ceneri di marzo, nel cielo presagi di raccolti fortunati e fatiche sicure. Questo sarà il mio giudizio per l’occasione, sicuramente la mia preghiera, il mio merito, la speranza cui tendevo ed ero tenuto mantenere. Si sfiorerebbero allora, come strusciando l’aria, pagine d’un libro, petali di fiori, punte di stelle. “Poi però” C’è stato silenzio, dopo una gran corsa, la disastrosa caduta, un mugolio ormai logoro, il riso che si doveva ad ogni battito. E tutto questo perché si voleva sapere. Si cercava capire, per farsene ragione, patteggiare e mettere d’accordo pelle, ossa, tenebre, freddo e maschera che stringe. Bruno Centomo
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Il sorriso di un novantenne Lo vedo spesso, curvo sul bastone un novantenne che torna lentamente, ma sereno con la piccola busta della spesa. Cammina sicuro, fedele al suo impegno quotidiano: da qualche tempo lo saluto sempre e lui risponde sorridendo a me, alla sua vita preziosa e umile, al suo andare lento come se ogni passo fosse una conquista. E questo l’ho capito dal trepido sorriso dietro gli occhiali: sembra quasi che sia lui a sostenere il bastone, tanto è leggera la sua mano.
Aminah De Angelis Corsini
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Profumo d’estate Il profumo dell’estate della mia infanzia mi assale aleggia nel mio cuore sospinto dall’ alito lieve di un tiepido vento di maestrale, fili d’argento incorniciano il volto di quella bambina che fu. L’onda dei ricordi mi trasporta lontano tra le verdi rive del fiume che ci vide bambini intenti a lanciare ciottoli piatti sfiorando l’acqua per farli rimbalzare. Mi rivedo piccola ed esile bambina, con enormi fiocchi colorati tra i capelli come allegre farfalle che danzano leggere, correre alla sorgente per attingere acqua cristallina. Le vacanze trascorse nel giardino delle suore a ricamare fiori di rete su bianche lenzuola di lino, le corse fatte in bici fino al parco dell’Uccellina mi riempiono il cuore di nostalgia. La ballerina più non danza sul piccolo carillon la musica è finita, nella stanza è calata la sera un altro giorno ha scritto fine sulle pagine della vita. Richiudo lo scrigno dei ricordi lontani e vado serena incontro al domani.
Ester Fabbri
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La vita Ho assaggiato la vita, non aveva il sale, l’ho condita con le lacrime ed ha acquistato un sapore nuovo, ma forte, ho aggiunto l’amore e l’affidamento al PADRE; ha gratificato il mio palato... Mi è piaciuta. Ho aggiustato la dose e confezionato la ricetta... Una ricetta vincente, che fa digerire i dolori, ma soprattutto fa sentire sazi di Pace, di Gioia e Fratellanza; fa stare bene anche nei piccoli gesti... Provare per credere.
Fabrizia Felici
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L’Anziano Lui ti parla con tutto il fiato che ha. Si nasconde dietro una scatola di dolori. Ma non dice nulla. Poi si arrabbia se non lo ascolti. Quanto amore ti vorrei donare, tenderti la mano, risponderti piano. A Natale regalarti il pacco più grande. A pasqua ricordarti che Gesù è morto per noi. Poi, stringerti ed accarezzarti i capelli.
Alain Guadenzi
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Rinascita Azzurro pavone Contro un cielo Incandescente, sei tornata ad esistere dalla schiera degli esuli, sei tornata attraverso una nuova nascita. Diversa Arricchita, detentrice di un senso di vivere concesso a pochi. La sofferenza apre cieli pi첫 ampi dietro cui puoi scorgere un Dio oggi silente Perugia, 08/08/2011
Daniela Gramignani
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Non solo acca, ma... A - come Amore. B - come Bisogno. C - come Coraggio. D - come Dignità. E - come Esempio. F- come Falsità. G - come Gioa. H - come Diversamente abile. I - come Indifferenza. L -come Libertà. M-come Motivazioni. N- come Necessità. O - come Ostinazione. P- come Potenziale. Q- come Qualità. R - come Rispetto. S - come Sofferenza. T- come Totalità. U - come Umiltà. V- come Volontariato. Z- come Zavorra. ...TUTTO L’ALFABETO per mostrarti davvero l’importanza or che sono nel silenzio più quieto voglio esprimerti la mia vicinanza. A te ora, Diversamente Abile oppur malato e sofferente il mio pensier inevitabile ti giunga,ovunque sei presente. Tutto intorno a te si muove sfortunato compagno di viaggio con la speranza di scoperte nuove affronti la vita con coraggio. In umiltà, vivi nel tuo mondo a volte in disparte ed indifferenza da chi deve aver il tornaconto e mettersi poi in bell’evidenza. Tu intanto in silenzio soffri senza che del mal,ad alcuno pesi 65
le sofferenze al tuo Dio offri pregandolo, d’esser tutti più coesi. L’indifferenza o la speculazione è quello che ti crea più dolore tu vorresti rispetto e comprensione per ridare sorriso con amore. Io ti prego non ti far sconfiggere non dalla tua presunta diversità ma un muro grande devi erigere da chi ti ruota intorno con la falsità. Sappi che c’è, chi a te ci tiene non dimenticarlo per un’istante chi per te s’adopera e ti vuol bene e sarà sempre, il tuo garante.
Italo Landrini
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A Paolo Venezia (Ragazzo investito da un’auto pirata; ha subito l’amputazione di una gamba da parte del padre, medico)
Dal letto di quell’ospedale spedisci saggezza a un otre, dalla pelle assassina e irricevente, che soffia rovi di male infierente. Con la tua mano benedicente, che culli come un prezioso aspersorio, rivolti il perno del destinatario del male custodendo un sorriso che è stilla disarmante. Ritorni a quell’istante di falce all’abbandono: gesto corrivo, sputo alla vita, oltraggio corrosivo, odio, inneggiamento al barbarismo suppletivo. Rifulgente è il tuo viso, gondola nelle placide acque paterne balsamo nei fedeli battenti degli amici presenti: cineprese abbigliate con finali gaudenti. Avrai nuvola vuota come radice presente e domani con cicatrice, perderai le rincorse e le giovani scosse chiedendoti perchè esistono macchine ossesse. Sarai colonna con quel padre accanto che si commuove e sciaborda l’inferno che ti rapisce la mano e ne fa leva di treno che ti ama imbastendo sul tuo ponte una tana di lana.
Giuseppe Mandia
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Un’intensità di follia A nonna Elda
È arida la notte, in questo tempo.. Hai vissuto tra le spoglie del tuo sorriso, accasciata piuma di un’infermità, tra il fremito destino e la vacuità di una pena.. Ti sono stata accanto con impotenza, e quanti ricordi e azzurri mancati mi hanno ispirato.. Ora sei ancora qui a darmi forza, tu che sei del cielo il colore, sei la tempra dell’amore che vuol vivere, e stenta e piange, ma vuol vivere e giace silenziosa. Non disturbi, è l’intensità della mia follia che vorrebbe accecarti per vederti nuova, ma respiri ancora, esisti eterea con la tua grazia, col peso fermo dei tuoi anni, nell’empio letto. Pazzia è in questo verso, gioco sommesso di un libro amaro, cruda arma del poeta e dell’infermo coatta pagina di sbiadite mani, le tue mani dipinte dentro
Sarah Minciotti 68
Un uomo con la ruota (Mollichella -Ventanni-Rumori) Io...forse io Tu..forse un’altra Ma che importa, non lo sapremo Mai, mai, mai, mai, mai... Noi, guardiamo su nel cielo E non è del tutto vero Il fatto, che non và Èche tu sei, fiore ma, fiore ma Fiore... Ma, lo vedo tu ci sei Oh! Ragazza speciale Però sai…non può andare Io non posso amare, né posso odiare (come mai?) Ma stasera baby, baby, andiamo al mare (siii!) La paura...è dentro me Se mi sfiori...è come se Sento un brivido, gelato Che mi lascia, senza fiato Per favore, non andar via Vorrei che fossi mia poesia Ma la storia è troppo nota Sono un uomo con la ruota... Si, lo vedo che ci sei Oh! Ragazza speciale Adesso sai...tutto può andare Io non posso amare, né posso odiare E stasera baby,baby, vorrei ballare (yeeh!) (2 v.) Vorrei ballare...portami a ballare... sii, ragazza speciale... sul mare...con te! Marco Mollichella 69
Passi È la pietà, serva dell’ignoranza, che lacera i suoi ultimi passi ... ...ora è il tempo della pura vita! Il confronto acerbo tra il tutto ed il nulla, si dissolve nel vento di una forte risata. La lezione da cattedra di un maestro di vita, rilega pensieri ed utopie, trovandolo scolaretto da poco ... ... inerme all’ignoto. E la domanda “disabilità”, trova risposta in “vita”. Nel cuore dei gesti quotidiani, nell’unione di due grandi occhi di luce, dove fede, sorrisi, speranza, forza delineano i leggeri sentieri del domani, ci si dipinge l’anima di pace. È la pietà, serva dell’ignoranza, che lacera i suoi ultimi passi... ...Lì, accanto ed insieme, è il tempo della pura vita!
Federico Morlupi
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Solo Solo da dedicarti ho pochi attimi: solo pochi, sordidi attimi. Non voglio che l’inutile mio tempo stringa te e di te pure sappia l’esistenza. Tu che vivi altrove, al di là del giorno, nella luce vasta dell’immenso, all’incrociarsi di vento e silenzio apri le ali tue e di me più non crucciarti.
Alessio Ortica
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Il senso di ogni età Su quattro ruote immobile ti risvegli a ricordare scorribande lungo il fiume, biciclette sotto i pioppi. Era allora primavera di stagioni e di colori e la vita era futuro di progetti e di respiri. Ora fisso dietro un vetro sembra resti solo il vuoto, il non senso di un anziano, carta straccia da gettare. Ma la parola è la speranza, gli occhi grandi di un bambino, lo stupore nel silenzio di sentirti raccontare. E capisci che il futuro è una gemma sorridente a cui devi dar radici attraverso le tue fiabe, quell’arbusto così vero che non cerca movimenti, ma il tuo viso e i tuoi capelli per poterli accarezzare. Alessia Palazzoli
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Ero tutto immobile Amore oltre il mio viso ho fretta di bagliore vedere, tuo viso voglio io felice, un giorno non molto lontano bacerò le tue labbra, per ricordarmi il tuo viso oltre la umile mia mente io mi prendo i tuoi occhi, lo spirito risorto nel tuo pensiero.
Marco Pimpinicchi
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Il mio piccolo bambino africano L’ho visto solo in quella fotografia Un viso dolce, due occhi brillanti, Che nascondono una velata tristezza, Un corpicino magro Coperto da indumenti colorati E una mano protesa in avanti Che saluta il suo amico italiano. Un sorriso poi una lacrima, Bagna quella foto, il mio saluto. Accarezzo quell’immagine Per sentirlo più vicino Ma l’Africa è lontana. Non nascondo la mia commozione Mentre ai miei figli mostro la foto Del loro piccolo fratello adottivo, Non sapevano fin’ora Della mia adozione a distanza M’hanno detto, bravo, è cosa giusta, Quando gli scrivi digli Che anche noi gli vogliamo bene.
Alessandro Puletti
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Il filo dell’esistenza Nella girandola dell’esistenza dove ogni filo si intreccia, si slaccia e si riannoda nella mano del Signore così come calamita le nostre fulgide pupille si rapirono nell’incanto celeste La fredda stagione che da culla ci fece infiammò i nostri cuori che palpitanti vibrarono all’unisono nell’azzurro fatato Quello etereo filo che nell’infinito ci legò è ora come corda d’acciaio che trionfa sui sentieri impervi del tempo Marito, padre ed amico vivi ogni giorno di me e per me libando l’ambrosia della passione come il fiore che si schiude al crepuscolo in un incantesimo di danze floreali Totalmente consacrato alla tua sposa come la suora alla sua fede venerazione per te io sono e ragione dell’essere Immoto rifugio tu sei dove io riparo dal mondo come niveo cucciolo e con forza mi aggrappo 75
come le radici alla terra indissolubilmente e non esisto senza quella linfa che ogni giorno mi sostenta Un solo respiro noi siamo come un battito d’ali che solca l’orizzonte e baleni nella giostra dei sensi che scuotono lo spirito e che durano una vita
Elena Quadri
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Fuori vedo colori Fuori vedo colori, ho mille occhi che piangono lacrime umide e salate. Fuori vedo colori, le genti ubriache di vita feriscono chi dentro ha solo intima tristezza. Fuori vedo colori, gioco con gioia pensando forse un nuovo destino. Fuori vedo colori.
Roberto Rossi
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I colori della vita Davanti agli occhi talmente tanti tasti S’intrecciano tra fitti pensieri fuori assalti violenti accesi di fuochi che bruciando squarciano il viola della follia sembra salire un alto cielo azzurro e andare oltre dove salti nel buio alzando... ecco il nero. Alzandosi oltre la mia paura nera scopro altre infinite sfumature cha candeggiano la mia anima e allontanano certi spettri che banalmente rallentano ragioni accese di giallo simili a raggianti anelli di sole. Rapito da allucinanti bagliori salgo ancora come spinto da rossi ardori srepitanti di pazzi amanti vinti da arancioni silenzi che serrano nel blu dei miei sogni.
Pietro Sanella
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Racconti Finalisti
Il disagio...tra sogno e realtà Non era più giovane; anzi, a dirla tutta, Luisa era vecchia, poiché sfiorava gli 80 anni. Era stata riconosciuta invalida al 100% (L’invalidità non le dava diritto ad una pensione, perché grazie a Dio le sue condizioni economiche non erano del tutto disagiate, avendo già una pensione da ex impiegata statale!); era invalida perché cardiopatica (le sue coronarie avevano avuto urgente bisogno dell’angioplastica), perché un intervento chirurgico, in un lontano 18 maggio, con molta professionalità (o fortuna?) le aveva estirpato un rene, un surrene e la decima costa insieme ad un carcinoma maligno; perché aveva una colonna vertebrale assai disastrata da ben sei ernie al disco non operabili; perché obesa e perché le sue gambe erano rovinate da edemi dolorosi ed antiestetici, che la obbligavano ad adoperare il bastone. Un disagio più disagio di così ci sarebbe stato soltanto se fosse stata costretta a stare seduta su una sedia a rotelle, ridotta un vegetale, incapace di ricordare, di capite, di parlare... e senza un euro! «Io sono fortunata - diceva Luisa - ho ancora intatte la testa per pensare e la bocca per ordinare...» e ci rideva su. Voi direte che una persona mal ridotta come lei non avrebbe fatto altro che rinchiudersi in se stessa, a piangersi addosso; macché! Luisa aveva una “tenacia” e “una forza d’animo” che non si possono descrivere con le sole parole. Servono i fatti per farlo capire. Lei diceva: «La vecchiaia arriva quando non si hanno più interessi, progetti e sogni... Io ne ho ancora tanti nel cassetto e, all’occorrenza, li tiro fuori!» Un sogno grande lo aveva davvero: quello di andare da Paolo, suo unico figlio, il quale per scelta di vita - lavoro ed amore - si trovava negli Stati Uniti, a Miami; ma contrariamente a quanto affermava, credeva che quel suo sogno fosse irrealizzabile proprio a causa del suo stato di salute e, soprattutto, perché aveva un marito più anziano di lei, bravissimo uomo ma abitudinario incallito, il quale, pur essendo ancora in gambissima, non si sarebbe spostato da casa nemmeno se trascinato con la forza. Questo sogno veniva sollecitato ogni giorno, da suo figlio con il quale 80
parlava tramite il computer, via Skype, il quale insisteva: «Mamma, devi venire assolutamente a vedere come ci siamo sistemati io e Svetlana. Qui è bellissimo, ti piacerà.» «Che mi piacerà, non ho dubbi rispondeva Luisa amareggiata - Ma come faccio, così ridotta come sono?» «Qui, ci sono tanti nelle tue stesse condizioni e viaggiano. Di cosa hai paura? » «Ho paura di sentirmi male...» «Non ti sentirai male... anzi, starai meglio. Se poi non dovessi star bene, - ribatteva Paolo con un po’ di ironia - sta sicura che, oltre me e mia moglie, qui in America ci sono medici ed ospedali.» «Come faccio a lasciare solo tuo padre? Tu lo sai che ha il terrore dell’aereo e che non salirebbe mai su uno di essi!» «Non lo lascerai solo; sai che puoi contare su qualche generosa nipote disposta a stare con lo zio per qualche giorno!» Luisa, ogni giorno che passava, era sempre più invogliata a partire e sempre più titubante sulla opportunità di affrontare un tale viaggio da sola... Che fare? Come fare? Intanto, con molto tatto, cominciò con il chiedere a Maria, la figlia di un fratello di suo marito, con la quale era in buonissimi rapporti, se... nella lontana... lontanissima possibilità di un suo viaggio a Miami, poteva venire a far compagnia allo zio. Primo miracolo! Maria, non solo poteva, ma ne era anche felicissima! Una visita medica di controllo prima di questo eventuale improbabile viaggio, comunque, s’imponeva. Ci andò accompagnata da suo marito, il 18 maggio di quest’anno, giorno che lei considerava il felice anniversario della sua vittoria sul cancro, dopo aver fatto tutti gli esami possibili (analisi del sangue, elettrocardiogramma, raggi X alla spina dorsale, eco doppler alle gambe...). Da tali esami risultava che non c’erano segni d’aggravamento e che, tutto sommato, il disagio di Luisa era quello di sempre, “al quale - diceva a chi la trattava con palese compatimento - ormai s’era abituata e non ci faceva più tanto caso”. Doveva servirsi del bastone per camminare con più sicurezza? Poco male; anzi - affermava - “quel bastone, che tra l’altro era anche un bel bastone, le dava un tocco di eleganza e signorilità”! Vista la diagnosi emersa dai referti medici, Luisa chiese ridendo al suo medico di famiglia: «In queste condizioni, 81
potrei fare un salto a Miami, in Florida?» Secondo miracolo! Il medico rispose, anche lui ridendo: «Se lo chiama salto... Lei può andare tranquillamente. Non le può che far bene, sia dal punto di vista fisico che psichico. Lei ha proprio bisogno di cambiare aria e di aria di mare!» “Altro che mare... - pensò Luisa - Là c’è l’Oceano Atlantico che m’aspetta!” Tornata a casa, appena entrata in comunicazione via Skype con suo figlio, gli ricordò che quel giorno (18 maggio) era proprio un giorno fortunato e gli raccontò qual era stata la buona diagnosi del medico; beh, volete sapere quale fu la reazione di Paolo? Questa: «Allora puoi venire!» «Ehi, non correre! - gli rispose Luisa Devo pensarci; magari devo trovare il momento opportuno... Tanto per dirne una, Maria non sarebbe disponibile a venire da noi prima della seconda metà di giugno!» «A te, giugno e luglio andrebbero bene?» «Mi andrebbero bene, ma non posso decidere così, su due piedi. Devo sentire anche tuo padre.» «Papà non può dire di no, dopo che il medico ti ha detto che ti farebbe bene l’aria di mare!» Luisa rise e buttò là una battuta stupida: «Là c’è il mare?» La risposta di Paolo, accompagnata da una grande risata, fu uguale al pensiero che lei aveva avuto nello studio medico: «A ma’, altro che mare! Qua c’è l’Oceano Atlantico che t’aspetta!» Poi, fingendo una gran fretta, le disse: «Aspetta un attimo, devo fare una cosa... Ti richiamerò tra una trentina di minuti!». La richiamò anche prima. Sullo schermo apparve il bel viso di suo figlio, felice come una Pasqua, che rideva, rideva e che le dette una notizia veramente inaspettata e stra...bi...lian..te. Terzo miracolo! «Tutto a posto, ma’! T’ho comprato un biglietto aereo di andata e ritorno, dal 24 giugno al 21 luglio. Te l’ho spedito via mail. Nessuna paura. Ho tutto organizzato. In quanto disabile ti metteranno a disposizione una sedia a rotelle, così non dovrai fare nemmeno un passo in aeroporto e sarai assistita da personale competente durante l’espletamento di tutte le formalità di rito e per l’intero viaggio!» Luisa era rimasta senza fiato. Nell’ansia e nel desiderio immenso di averla con lui, Paolo aveva messo lei e suo marito di fronte ad un fatto compiuto! Come si dice? “Il dado è tratto!” Co82
minciò il tempo dei preparativi per la partenza: la notizia intanto s’era sparsa tra i parenti, gli amici, i vicini di casa. Le voci, al pari della “calunnia è un venticello” di rossiniana memoria, s’inseguivano: “È vero che la Luisa va da sola in America?” - “Sola? Ma è matta, nelle sue condizioni?” - “Ma chi ha messo in circolazione questa notizia? Non è possibile!” Molti (sono tante le persone che non si fanno gli affari propri!), per soddisfare la propria curiosità quelle domande le rivolsero direttamente a lei, ed alla risposta affermativa: «Si, andrò in America. - Sì. Ci andrò sola!» la bombardarono con altre domande, con mille preoccupazioni, con altrettante esortazioni: “Ma non hai paura dell’aereo?” - “Non hai paura di sentirti male durante il viaggio?” - “Hai riflettuto che non sei più una ragazzina?” - “Ti rendi conto che è un grande azzardo quello che vuoi fare? Che sei sconsiderata e temeraria?” - “Hai messo nel conto i pericoli cui vai incontro di questi tempi?” - “Hai pensato che se ti succede qualcosa metti tuo marito in un mare di guai?” - A questo punto, Luisa faceva il classico gesto dello scongiuro e rispondeva, un po’ seccata: «Se avessi paura di salire su un aereo e di viaggiare da sola, non lo farei, vi pare? Quindi la vostra domanda è inutile. È vero, non sono una ragazzina... magari lo fossi! Ma proprio perché sono abbondantemente maggiorenne posso decidere cosa posso o non posso fare. E poi, non sono del tutto vecchia se sento dentro di me la forza per viaggiare. Perché dovrei sentirmi male durante il viaggio? Sono disabile... ma crepo di salute. Pericoli ce ne sono dappertutto, anche in casa. Se è destinato che io debba morire per disgrazia, potrei cadere dalle scale e rimanerci secca!» Una sola amica le disse: “T’invidio per il coraggio che hai alla tua età; ti ammiro per la tua tenacia e caparbietà... Vorrei essere come te...” E venne il giorno della partenza. Non aspettò che suonasse la sveglia. Alle quattro della mattina era già in piedi, pronta in attesa del taxi che doveva portarla a Fiumicino. Sulla porta di casa salutò con un commosso abbraccio marito e nipote... e via. Tuta grigia da ginnastica, sandali comodi, borsa con dentro gli indispensabili passaporto, medicinali, soldi e occhiali di ricambio, libro da leggere 83
per ingannare il tempo, e bastone sembrava un’anziana signora pronta per una gita di piacere. Non era una gita. Era un viaggio a lungo sognato, verso un Paese amato ed odiato: l’America, dove avrebbe rivisto suo figlio in carne ed ossa, dove l’avrebbe abbracciato, dove avrebbe avuto la conferma che era felice con la sua Svetlana. All’aeroporto tutto andò liscio come l’olio; Luisa non incontrò problemi; persone gentili e professionali le spianarono ogni difficoltà. Lì si rese conto che non era la sola sconsiderata e temeraria ad affrontare un così lungo viaggio; altri disabili come lei, in sedia a rotelle, venivano spinti fino all’imbarco. Non ebbe problemi di salute durante il volo; anzi, le sembrò di star fisicamente bene, come non le succedeva da tanto tempo. L’arrivo, le braccia di Paolo che la strinsero in un abbraccio convulso e commosso le dettero la sensazione che egli, vedendola arrivare felicissima e serena, si liberasse da una grave preoccupazione. Sicuramente era stato in apprensione per lei nel timore di aver forzato troppo la mano per farla partire. Il soggiorno a Miami con Paolo e Svetlana era stato favoloso: il giro turistico della città e dintorni, i bagni nell’oceano tenuta per mano da figlio e nuora, tra grandi risate, i bagni nella piscina del grattacielo in cui loro abitavano, un’escursione nella Florida, fino alla sua ultima isola, la famosa Key West, secondo Paolo non potevano bastare. «Ma’ - le disse un giorno - Visto che stai bene, vogliamo andare a New York?» Era vero. Luisa non s’era mai sentita così bene di anima e di corpo. «Andiamo pure a New York!» E partirono tutti e tre e stettero nella grande città circa una settimana. Paolo e Svetlana regalarono a Luisa momenti indimenticabili accompagnandola a vedere i posti più belli ed interessanti, che qui sarebbe troppo lungo elencare. Un solo momento, un solo posto riempì di dolore il cuore di Luisa, al punto che non poté trattenere le lacrime: la visita, là dove sorgevano le Torri Gemelle, abbattute dieci anni fa dalla perfidia umana (tragico avvenimento che lei aveva seguito in diretta dalla televisione); là dove stavano e stanno costruendo una Torre ancora più alta: una torre che non le piacque, perché le pareva che, con la sua enorme mole, schiac84
ciasse ancora le tante vittime di quel funesto 11 settembre. Lì, Luisa, dopo una preghiera intensa, fece una interessante riflessione: “Dov’è finito il mio disagio? Sono vecchia, sono parecchio “acciaccata”, ma sono viva; posso ancora godere della vicinanza dei miei figli (Svetlana, ormai, la considerava come una figlia), ho un marito ancora innamorato che mi aspetta a casa; posso viaggiare e vedere il mondo, finché il Signore me ne darà la forza. Ho una vita piena di interessi. Qui, invece, è rimasto un gran vuoto. Lo stesso che starà nel cuore e nelle case delle vittime di questa tragedia. Un vuoto che questa brutta torre non riuscirà mai a colmare!”. E venne il giorno del ritorno a casa. Un forte, prolungato, commosso abbraccio ai figli, una promessa: «Tornerò ancora, se Dio vorrà!»
Maria Antonietta Benni Tazzi 85
Cade a pennello Nel silenzio Micky trovava le sue risposte. Micky trovava nel silenzio le risposte in quanto era non udente dall’età di sette anni, in conseguenza di un trauma emotivo in cui aveva perso la vita il suo piccolo fratellino. Checco infatti stava giocando sulla vasca da bagno quando a un certo punto scivolò davanti agli occhi di Micky. Micky rimase immobile e impassibile, incapace di muoversi, bloccato. Sentiva le urla del fratellino che gli entravano in testa e nei muscoli, fino a perdere conoscenza. Micky crebbe e iniziò a vedere il mondo con un pennello. Imprimeva la tela di colori dell’anima avvertendone la vibrazione al di là del sonoro. Costruiva barche, e affrontava le onde. Si diresse all’isola Polvese dove trovò rifugio in un ex monastero dei Cappuccini, e si addormentò. Nel sogno ritrovò la voce di suo fratello che lo rassicurava e lo perdonava. Micky era non udente e si ritrovò a sognare suo fratello che lo perdonava. Non capiva se fosse reale, per quello che ormai contava. Micky non contava più, espiava la sua pena. Si sentiva castigato e punito per quel suo immobilismo, tentando di scrollarsi il senso di impotenza imbrattando tele di onde e barche che poi solcava per attraversare laghi, mari e oceani perché poi si addormentava e ritrovava suo fratello. Il fratello ritrovato poteva rivivere grazie alle tele rappresentate da Micky, tanto che la sua mano sembrava guidata da Checco. Il pennello si mosse fino al centro della tela per poi bloccarsi in orizzontale. Allora Micky chiamò i suoi amici a raduno per tentare di riprendere il pennello. A turno ogni amico provò a staccare il pennello, persino a sciogliere con una candela i peli. Sconfitti, convinsero Micky a esporre il suo lavoro, a dargli un titolo, e catalogarlo come una installazione artistica. Il quadro venne recensito ed esposto ma mai messo in vendita. Micky conobbe la notorietà locale e poi nazionale. Il giorno del 21 Dicembre 2012 il pennello si staccò dal quadro, cadendo. Micky era presente e sentì un tonfo. Era guarito. Nicola Castellini 86
Fosca e la figlia Cristina Durante l’estate mi capita di dover sostituire un’amica che partorisce un bimbo, nel lavoro di musicoterapia in una struttura per anziani. Per la prima volta dopo tanti anni, mi trovo a lavorare con anziani allettati. L’esperienza di per sé non è traumatica, ma faccio i conti con qualcosa di nuovo, mai prima sperimentato. Cambia la percezione del dolore e della sofferenza con anziani allettati, soprattutto con Fosca, un’anziana donna tracheotomizzata. Mi sento soffocare quando entro nell’angusta stanza dove è stata confinata. La finestra in alto sembra togliere il respiro anche alle persone che si trovano a passare in quella stanza. In alcuni momenti vivo un disagio fisico, specialmente quando la donna espettora il catarro attraverso una fistola aperta sul collo. Faccio fatica a lavorare con la musica e a contattare la sofferenza. In alcuni momenti vorrei fuggire! Alcune volte l’ho trovata addormentata; ho messo alcuni brani musicali, ma non mi sono curato di svegliarla, ben contento di non dovermi misurare con la difficoltà della comunicazione e con il peso della sofferenza. Con Fosca vivo un senso di pesantezza e ho difficoltà a portare leggerezza nel lavoro musicoterapico. Non riesco a stabilire un contatto con la donna. Semplicemente non voglio. Non voglio contattare il suo dolore. Richiama il mio, di persona appena uscita da un tumore. In questo momento mi pesa fare musicoterapia con questo tipo di anziani. Avrei dovuto passare un’estate libera da impegni di questo genere. Ma non ho saputo dire di no. Quasi alla fine di questa esperienza durata l’arco di venti incontri per cinque mesi, mi rendo conto di avere sperimentato un senso di fallimento come musicoterapeuta, di aver mancato professionalmente: non ho voluto accettare la sfida, difficile questa, sì, di cercare di raggiungere Fosca nella solitudine in cui l’ha confinata la sua malattia. La donna, infatti, è sola nella sua difficoltà di comunicare, e avrebbe bisogno che qualcuno la raggiungesse e le dicesse: “Sto qui con te, non ti abbandonerò!”. 87
La figlia di Fosca si chiama Cristina. Mi ha incontrato per caso accanto al letto di sua madre e mi ha chiesto di poter essere presente quando facevo musicoterapia. Me l’ha chiesto in un modo insistente e ho sentito che desiderava proprio esserci. Al contrario, io non avrei voluto alcuna persona assieme a me. Però, superando la paura di essere giudicato non all’altezza e vincendo il mio senso di malessere nella stanza di Fosca, le ho concesso di venire. Cristina mi ha aiutato a recuperare il rapporto con la madre tracheotomizzata. Con lei presente, le ho spiegato alcune cose. Perché anche il familiare può fare qualcosa. E finalmente venne l’ultimo incontro. Lavoro con Fosca assieme a sua figlia Cristina. Prendo la scusa che sono un po’ raffreddato per lasciarle spazio. La guido a fare un massaggio sonoro alla mamma. Su una musica di sottofondo di Bach le faccio accarezzare la fronte e il viso. Non con il dorso, ma con la palma della mano: così c’è un contatto più diretto, più intimo. Siccome Fosca è quasi sempre orientata col volto verso sinistra, verso il muro, consiglio Cristina di accarezzarle la parte sinistra della faccia. Spontaneamente, senza essere forzata, Fosca raddrizza il viso e da sinistra lo porta verso il centro. Mentre la figlia le carezza il volto, io massaggio il braccio destro e contemporaneamente le stringo la mano destra. Fosca a sua volta mi dà una stretta forte; se anche volessi togliere il contatto, farei difficoltà. Me la sta stringendo intenzionalmente? Credo di sì. E cosa significa questa pressione? Cosa mi sta dicendo? Cosa mi sta chiedendo? Nel frattempo la donna non apre gli occhi, e non dà segni di stabilire una comunicazione. Ma la stretta di mano è già comunicazione e l’orientamento del volto e della testa verso il centro sono un altro segnale relazionale. Vorrei che ci rispondesse, che ci desse segnali evidenti rispetto al nostro agire. Ma cosa le sta passando nella testa? Quali emozioni sta vivendo? Ha voglia di vivere? O desidera morire? Per questa sera basta. Ma è già stato sufficiente. Sono grato a Cristina: il suo desiderio di volere essere presente quando c’ero io, negli ultimi 88
incontri mi ha aiutato a uscire dal senso di impotenza, dal desiderio di “fuggire”, dal dire a me stesso: “Non c’è niente da fare!”. E soprattutto mi ha aiutato a guardare in faccia, di nuovo, la paura della malattia e della sofferenza. La mia soprattutto. Ripresi tutti i miei strumenti di lavoro e messili nella sacca, mi sto avviando verso la porta della camera, dopo aver salutato Cristina. Ma non ho salutato Fosca. Quasi pensando che tanto era inutile? Torno sui miei passi verso il letto. Le prendo la mano e l’accarezzo: “Fosca, la saluto; oggi era l’ultima volta. Tornerà Michela a fare musicoterapia con lei. Sappia che non la dimenticherò mai”. Mi si strozza la voce in gola… Mi affretto a uscire. Incrocio lo sguardo di Cristina: anche lei è commossa. È ora di andare. Saluto anche Patrizia, l’animatrice che per tutto il tempo del lavoro di musicoterapia mi ha accompagnato nelle stanze degli anziani e mi dato un grande aiuto. Vorrei abbracciarla, per dirle grazie, ma riesco solo a censurare le mie emozioni: riesco solo a darle la mano. Con formalità. Quando finalmente esco dal portone della casa di riposo, tiro un lungo respiro, quasi mi sentissi a corto di fiato. Dopo aver espirato a lungo, mi siedo sulla panchina con la visione dei monti in lontananza. Credo che con persone come Fosca l’importante sia esserci, starci insieme e aspettare. Respirare insieme a lei. E ascoltare. Restare aperti e attenti ai suoi bisogni. E dire a lei con il nostro starle accanto: “Sto con te. Non ti abbandono”.
Francesco Delicati 89
La mia storietta alla “luce” Mi chiamo Gyorgyike (in Italia detta Giorgina) Drinòczi sono nata a Kecskemèt, nell’Ungheria centro meridionale nel bel mezzo della grande pianura ungherese, a metà strada tra Budapest e Szeged nella zona compresa tra i fiumi Danubio e Tibisco. Sono l’unica figlia di Bajtai Terèzia e Drinòczi Kàlmàn. Pochi giorni dopo la mia nascita vengo ricoverata per tre settimane con una emorragia cerebrale, che cambierà la vita mia e della mia famiglia. Quando avevo sei mesi, i miei genitori, si sono accorti che non sentivo i rumori. Preoccupati di garantirmi un futuro normale, hanno speso molti soldi in visite specialistiche, viaggi, e alberghi in cui abbiamo alloggiato in attesa delle visite . Ho vissuto la mia infanzia a Csobànka, piccolo paese montuoso dell’Ungheria settentrionale nella provincia di Pest, in un casa modesta ma circondata da tanto amore. La prima volta i miei genitori hanno chiamato un professore dalla Svizzera: egli disse che ero dotata di una salute di ferro, ma che ero sorda profonda; non occorreva nessuna intervento di chirurgia, anzi bisognava evitarla in quanto accanto ai nervi dell’udito sono presenti altri nervi che, se toccati inavvertitamente nel corso di un operazione, avrebbero potuto causare gravi menomazioni. Secondo il professore io ero intelligente, potevo imparare, apprendere. Nei due anni successivi mia madre mi accompagnava dal logopedista cinque giorni a settimana questo la costrinse a lasciare il suo lavoro. A tre anni, mi volevano iscrivere all’asilo, ma non c’era posto, era tutto pieno: la direttrice Gabriella voleva prendere solo me perché ero una bambina “difficile”, incapace di relazionarsi con esterno: furono fatte riunioni con i genitori degli altri bambini, che protestarono molto per la scelta della direttrice che escludeva i loro figli. Allora i miei genitori scrissero al Ministero della Sanità: il risultato fu che mi hanno accolta all’asilo perché non dovevo essere isolata ma stare insieme agli latri bambini. 90
Non fu facile inserirmi, cercavo di parlare con gli altri bambini, ma le mie parole per loro erano senza significato e io mi chiedevo da dove prendessero le loro parole Un giorno sono addirittura fuggita dall’asilo, volevo tornare dalla mamma, l’unica persona che riusciva a capire “le mie parole” Non ero consapevole di avere qualcosa di diverso rispetto agli altri. Quando mia madre mi accompagnava dal logopedista io pensavo che era normale, che era quello il luogo dove si imparavano le parole. Fino all’età di 6 anni, tre volte alla settimana andavamo all’università di Budapest dove il prof. Kanizsai Dezso, specialista nella riabilitazione del linguaggio, mi faceva pronunciare le lettere, non ancora le parole. In questo periodo ho visto persone parlare. Io non sapevo ancora parlare, ma quando vedevo un oggetto inventavo per quell’oggetto una parola che, per il linguaggio comune, era priva di significato. Ricordo bene, spesso osservavo le persone mentre parlavano e mi chiedevo “da dove vengono parole”. Avevo tanta voglia di parlare con loro di comunicare le mie emozioni, le mie curiosità, ma non ci riuscivo e tutto ciò mi riempiva di frustrazione! Tutto ciò mi faceva sentire “ignorante”. Mia madre mi racconta che per me le forbici erano “PAFF2 e l’acqua “AVA” ...avevo tanta volontà di imparare a parlare, e ciò riempiva di speranza i miei genitori Un giorno mia madre mi lasciò da mia zia Etelka perché doveva essere ricoverata. Infatti piangevo strillavo a zia “ava-ava-ava!”. Zia Etelka no capiva che cosa significava. Allora in questo tempo non c’era telefono. Così mia zia correva alla posta con telegramma ha chiesto che cosa è “AVA” e mio papà subito ha risposto. Quando ho messo per la prima volta l’apparecchio acustico, ascoltando i suoni, capii di essere diversa dagli altri. La logopedista è stata l’unica persona che mi ha insegnato a “sentire” i suoni delle lettere...ABC...toccando la gola e il petto con la mano 91
davanti allo specchio per poter vedere anche la forma delle lingua e della bocca infatti della massima importanza l’educazione linguistica. A sette anni percorrevo tutti i giorni tranne la domenica molti chilometri per recarmi a Budapest in via Dohàny, alla scuola per minorati dell’udito, che ospitava non i sordi profondi ma le persone con una riduzione dell’udito. Sono sorda profonda, e il direttore della scuola non mi voleva accettare quando ha visto il risultato dell’ esame audiometrico . Fu la maestra - logopedista Yvonne Csànyi, che avevo incontrato prima della mia iscrizione, ha capire che per me non sarebbe stato difficile integrarmi. A scuola ci esercitavamo a parlare, leggere, scrivere con il supporto dell’apparecchio acustico e anche a conoscere suoni diversi ( pronunci lettere-parole, tamburo, flauto, ecc.); ma non sempre, purtroppo, riuscivo a capire. Non c’era bisogno dell’insegnante di sostegno,avevamo una maestra super! Non la dimenticherò mai. Negli inverni freddi del Nord Europa, tanta mattine ho dovuto aspettare i veicoli pubblici per recarmi a scuola. In questo periodo i bus, treni e i tram allora non avevano termosifoni. Spesso le finestre erano coperte di ghiaccio e non si riusciva a vedere nulla. Mi ricordo,che spesso piangevo per i miei piedi congelati quando tornavo a casa…allora la mamma mi toglieva le scarpe e con le sue mani cercava di riscaldarmi. Man mano cominciavo a riconoscere le parole. In questa scuola era proibito utilizzare il linguaggio dei segni, perché non avrebbe favorito un diverso apprendimento. Dopo qualche anno a Budapest, in quartiere Zuglò, via Ràkospatak, hanno costruito un scuola speciale-istituto: ora ero un’alunna interna, dormivo li senza dover fare la pendolare ogni giorno. Fu per me grande comodità. Niente più sofferenza per inverni freddi. Davanti all’istituto c’era scuola dove tutti i giorni c’era lezione, non mi sentivo 92
assolutamente isolata, diversa, dagli altri, niente timidezza. Non ho affatto sofferto ... . C’era tanta allegria, gioia, amicizia. Imparavo di tante parole. Finite le lezione, nel pomeriggio qualche volta avevo il permesso di restare in aula per terminare i miei compiti aiutando alcuni compagni quando erano in difficoltà. L’orario delle lezioni era rispettato, si stava a scuola sei ore al giorno, c’era quindi molta continuità nelle attività. A diciassette anni mi sono iscritta alla scuola superiore, che frequentavo con altri ragazzi normali: studiavo per diventare operaia specializzata. Dopo scuola speciale alla scuola comunale mi sono caduta dalla “scala”, sono stati per me i tre anni peggiori. In classe ero unica con disabilità, non sapevo adattarmi, e spesso frequentavo la scuola con grande tensione. Era così grande la tensione per me che sono stata tentata di lasciare la scuola, non avevo più voglia di partecipare alle lezioni. A scuola spesso non capivo cosa spiegavano i professori. Parlavano troppo velocemente, a volte di spalle rivolti verso la lavagna. Qualche volta chiedevo di ripetere, ma poi non più mi vergognavo... mi pesavano gli sguardi di tutti gli altri ragazzi che mi facevano sentire come l’unica “diversa”. Invidiavo i miei compagni che dopo le lezioni, spensierati, andavano in giro. Loro, dotati di buon udito, avevano bisogno di poca applicazione per apprendere le lezione. E io? Dopo la scuola correvo a casa, aprivo i libri e sfogliavo le pagine. La mia volontà non veniva meno, lottavo contro l’handicap, non volevo essere sottovalutata né deludere i miei genitori. Avevo pochissimi amici. Senza divertimento e possibilità di svago, presto mi sono stancata. Alla fine la mia testardaggine mi ha permesso comunque di diplomarmi, mi è stata veramente dura! La mia pagella non era molto buona, ma che importa? Avevo terminato gli esami di diploma e mi ero liberata dal guscio di sofferenza. Fuori dalla scuola la situazione era diversa, non avevo problemi a fare amicizia. Un giorno, a Budapest, passavo davanti all’Accademia 93
degli Attori: mi sono fermata, stavo pensando ad entrare per chiedere se mi avrebbero accettato, poi pensai non sento sicuramente “non mi prendono”. Ero tanto triste, sapendo che per me era impossibile diventare attrice, vi sembrerà strano ma era da sempre il mio sogno. Dopo la scuola cominciai a frequentare l’Associazione Nazionale dei Sordi di Budapest dove c’erano due gruppi, uno costituito da sordi e l’altro da persone con riduzione di udito. Ho scelto i sordi anche perché ho pensato che era il momento giusto per imparare il linguaggio dei segni. Mi hanno invitato a iscrivermi al Teatro dei sordi. Non mi sembrava vero che felicità anche io, potevo recitare! Con il gruppo, molte volte abbiamo ricevuto dei riconoscimenti ed io ho avuto premi come migliore attrice. Avevo una buona mimica sul palco, per questo una regista, udente, Torday Ildikò dal Accademia dei Attori, un giorno espresse il desiderio di portarmi all’Accademia per recitare con suoi allievi perché no era soddisfatti dai loro che studiavano da attore. In un primo momento mi spaventai, poi accettai. Ma all’improvviso, come accade, mi sono innamorata di un uomo italiano sordo. La regista, Torday Ildikò, era delusa, non voleva che io andassi lontano. Mi sono sposata. Dal 1976 vivo a Perugia. Dopo la nascita del primo figlio, Simone, sono entrata all’IGI-SHEARLING come operaia. Li ho cominciato a conoscere parole italiane. Poi è venuto il secondo figlio, Mauro. La fabbrica ha fallito ed io sono entrata a lavorare in Comune. Poco ho festeggiato 35 anni di matrimonio.
Gyorgyike Drinòczi 94
Per non farsi sommergere I mesi erano passati in fretta. Quasi quattro erano, e ancora stavo nell’istituto di riabilitazione e cominciavo appena a camminare. Le mie sofferenze non erano finite, anche se stavo un po’ meglio. Osservavo gli operatori, gli infermieri, i dottori, le fisioterapiste e molte cose non mi piacevano per niente. Ma non potevo discutere. Solo comandi in quel letto con le sbarre. E risate nella sedia a rotelle: gli operatori facevano la gara con le carrozzine. E minacce, se non avessi fatto quello che dicevano. Solo la notte avevo un po’ di respiro: parlavo con il telefonino ai miei figli e a mia sorella. Questi miei ragazzi non mi hanno mai lasciata sola. A turno venivano a trovarmi tutti, non saltando un giorno. Ma specialmente mia figlia Piera, che lavora ad Agrigento ed ogni sera era da me, pioggia, nebbia o temporale. Grande amore mio, come avrei fatto senza di te? Ma una notte, mentre parlavo, un operatore venne in camera e cominciò a gridare: “Che fa? parla di notte? Io il telefonino me lo prendo! Lei non deve disturbare le persone che stanno in questa stanza e hanno i loro diritti. Ha capito?”. Aveva sbagliato; i loro diritti li avevano, ma non potevano svegliarsi neanche a cannonate, li avevano imbottiti a tranquillanti. Si sarebbero svegliati la mattina dopo, intontiti. Il peggio di questo posto è che gli operatori hanno poca competenza, gli ammalati arrivano con la testa sulle spalle, ma dopo tre giorni non ragionano più. La ragione si perde. Arrivare in questi posti è traumatizzante e ci sono quelli che vogliono tornare a casa. Allora vengono legati, forse per proteggerli ed evitare il peggio. Ho visto un signore attaccato al muro: gridava che voleva la libertà. Il figlio che arrivò in visita, quando vide il padre in quello stato lo sciolse e se lo portò via, senza chiedere il permesso a nessuno. Un lato positivo in questo posto c’è: molto importante: le fisioterapiste sono bravissime. Grazie a loro, nonostante i fastidi e i dolori al ginocchio che ho avuto, comincio a camminare. 95
Ma riprendo il discorso: io, quando ho visto che non potevo più telefonare a nessuno perché mi tenevano d’occhio, ho preso una decisione. Mi sono fatto portare da mia figlia una penna e un quaderno, me ne sono andata in sala televisione e ho cominciato a scrivere. La mia mano destra era leggera e perfino veloce, le pagine si riempivano in fretta. “Che scrive la Genovese?”. Cominciarono le domande. “Non è che scrive su di noi?”. “Proprio su di voi risposi. Scriverò per ciascuno di voi un biglietto con la mia opinione personale, con il vostro nome. E cercherò di descrivervi nel bene e nel male, per come vi vedo io”. L’atteggiamento di tanti cambiò. In realtà la mia mente, mentre pensavo e scrivevo, non si fermava lì, alla mia stanza, alle sale, a quel posto. Anzi il luogo dove mi trovavo non mi interessava più. Io ero altrove e cominciavo a sentirmi bene, finalmente.
Liliana Genovese
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Fiaba di Primavera (Dedicata a tutti i bambini soli e tristi) C’era una volta una principessina, elegante e piena di tanti giochi. All’apparenza, non gli mancava niente di materiale. Era contornata da oggetti costosi e di lusso. Suo papà era un re e abitavano dentro uno splendido castello costruito sulla riva di un ruscello. Avevano la servitù per esaudire qualsiasi capriccio volevano. Proprio per questo, era molto invidiata da tutte le sue compagne di scuola. La principessina si chiamava Stellina. La sua mamma, volata in cielo poco dopo il suo ingresso in vita, gli aveva messo questo nome per il luccichìo dei suoi occhi appena nata. Ma quell’intenso bagliore prese a spegnersi lentamente ogni volta che suo papà la ricopriva di regali per vederla felice. Stellina non aveva amiche perché, gli dicevano, avrebbero sottratto con gli inganni tutti i suoi averi. Gli impedivano di avventurarsi in giardino a rincorrere liberamente le farfalline, trovare con meraviglia le coccinelle, cercare con entusiasmo i fortunati quadrifogli, perché c’era il pericolo di essere punta da api e calabroni. Niente contatto con la natura. Niente corse a perdifiato con gli altri bambini. Una sera, la fanciulla si ammalò di una brutta, odiosa sindrome che colpisce umani e animali non compresi e lasciati soli a se stessi. A turno provarono, giorno dopo giorno, a miscelare infusi e decotti per farla star meglio. Ma, niente da fare. Allora, si passò bollire tisane, sciroppi e pozioni magiche. Ma, l’incantesimo, non si ruppe. Solo in un miracolo si poteva sperare. Stellina non mangiava più niente. Il suo sguardo si posava, sempre più spesso, immobile sul soffitto. Una mattina d’inverno, il quattordici febbraio, passò lì per caso una trovatella. Una cucciola bastardina dal pelo tutto bianco con una macchiolina nera sul musetto. Era stremata dal freddo e indebolita dalla fame. I suoi padroni la avevano abbandonata perché camminava con una zampina storta. Non aveva più forze per lottare e così, mentre si trovava a passare a fianco al castello, la cucciola emise un latrato 97
disperato. Stella si sveglio di colpo e decise di andarne alla ricerca, incuriosita da quello strano richiamo. Non era un caso, ma un chiaro segno del destino. Il loro fù un incontro magico. Stella le volle subito bene e, anche se aveva sette anni, era forte e consapevole che non l’avrebbe mai più lasciata piangere in quel modo. Sapeva, per esperienza, quanto era brutto il mondo della solitudine. Se ne prese cura per sempre, guarendo e crescendoci affettuosamente insieme. Stella ritrovo da quel dì il caldo sorriso e la voglia di vivere. Questa volta una vita meravigliosa con la sua amata e inseparabile amichetta a quattro zampe, che decise poi di chiamare Luna come il misterioso pianeta che ammirava tutte le sere, e al quale chiedeva, ripetutamente, di realizzare il suo più gran desiderio. Quel desiderio poi divenuto realtà. Tornata a frequentare la scuola espresse, pubblicamente a tutti i suoi compagni di classe che la avevano sino a quel giorno invidiata, questo pensiero: “Penso a tutti quei cani, come il mio, che sono stati fortunati a trovare le cure amorevoli di un padrone. Un amore sincero, disinteressato, gratuito ma penso anche, e soprattutto, a quelli rimasti in qualche modo orfani. Vorrei tanto che i canili non esistessero più, e vorrei che gli umani capissero che sono stati creati come angeli custodi con la coda per renderci più buoni e migliori’ Per questo vi dico: non sognate di diventare ricchi e famosi e di avere giocattoli costosi ma desiderate fare il bene e trasmettete, con la volontà, l’amore a tutte le creature che vi passano accanto. Con questa virtù, soltanto, capirete cosa è la vera felicità!”. Edito da ‘IL FAVOLOSO MONDO DI BIBÌ
Rosita Giulianelli
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Anima e dintorni Anima e Dintorni, Dintorni e Anima, dammi certezza per voltare pagina, questa certezza dalla anche a me, non sono diverso tanto da te; La nebbia, le catene, i camici bianchi che attanagliano nel male più oscuro i nostri sogni di essere, in un non essere. I camici bianchi, i camici bianchi che chiudono la porta della nostra libertà, solo per il gusto di dire qualcosa, di fare qualcosa che non va ; Anima e Dintorni, Dintorni e Anima, dammi certezza per voltare pagina, questa certezza dalla anche a me, non sono diverso tanto da te ; Loro la nube nera, loro la cattiveria che ci incatena, per togliere di torno chi di sogno spera, loro lo stato delle viltà, per darci una medicina che non ci va, loro lo stato di eresia per togliere di mezzo chi sogna una via ; Anima e Dintorni, Dintorni e Anima, dammi certezza per voltare pagina, questa certezza dalla anche a me, non sono diverso tanto da te ; Chi sogna la via della libertà, la libertà di essere qualcuno, privato di un sogno da un medico ottuso, privato di un sogno da chi non pensa , chi non pensa che in fondo c'è, un'anima persa dentro me, ma persa, persa nel golfo delle ottusità di solo uno stato che nulla ci dà, se non solo ricoveri a volontà, se non solo ricoveri senza pietà ; Anima e Dintorni, Dintorni e Anima, dammi certezza per voltare pagina, questa certezza dalla anche a me, non sono diverso tanto da te ; Questo è lo stato, lo stato padrone, che vuole di noi un sol mozzicone. Ma in fondo, in fondo, cos'è che non va se non reagiamo a queste viltà ? l n fondo, in fondo, cos'è che non va se reagiamo per la libertà ? 99
Sarà mica per caso una sola cosa, perché parliamo su ogni cosa? Sarà mica per caso la realtà, perché diciamo ciò che ci va ? Se questo e il male di una persona, ciò che vi dico su adesso, segnalo ora! W i diritti della persona, W i diritti di trasparenza, di chi parla sempre, senza peli senza. Anima e Dintorni, Dintorni e Anima , eccomi ci sono lo trovata magnanima, un'altra persona che così mi Anima. Magnanima si, con la stessa certezza, la stessa certezza che è data anche a te, si, si, adesso ci siamo, son come te! Caro amico, hai visto chi siamo ? Non serve più un cappio, serve solo un’amo!
Emilio Manaò
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Quattro ombre Quattro ombre avanzano per la strada. Ombre normali, scarne. Giusto quattro ombre vuote. Sennonché avanzano e lo fanno, per di più, senza che i loro guardiani ne accompagnino l’incedere. Insomma, ombre svincolate, pur sempre incenerite e vacue, leggere e ritrose, ma autonome. In quel preciso istante Leonardo si offre al davanzale della finestra dalla quale penetra lieve la sera estiva, come un fascio di rami in faccia alla verde luna. Prende a mirare le candide ombre che incedono nella notte. Leonardo sa che non c’è il burattinaio a muoverle, che i loro passi sono gatti morti nel sonno. E il cuore gli si stringe, solo per un attimo, lo provoca, danneggia l’immota sua esistenza. Perché quattro ombre stanno percorrendo, ora avanti, ora indietro, quel breve tratto di strada sul quale si affaccia solo una delle sue poche finestre? Che stiano aspettandolo o forse sono lì per comunicargli un tremendo segreto? Ma che ridere, Leonardo ha occhi che bruciano, e il giorno è di là da venire, con i suoi rituali, le sue pezze, le sue parole e le miserie dalle quali malvolentieri ci si svincolerebbe. Leonardo ha il muro che lo aspetta, quella fascia di mattoni che vanno sostituiti, ha il suo orto che qui inizia e lì finisce, e che non lascia spazio al pensiero informe di ciò che v’è di là. Leonardo ha cavalli e pesanti utensili, ha rombi nelle orecchie, ha scarpe dure, e le ore segnano il giorno quando c’è luce e la notte quando il buio lo divora. (Ma le ombre avanzano, avanti e indietro, con un non so che d’automatico, senza parlare, perché le ombre non parlano se non vogliamo che parlino. E Leonardo non vuole che lo facciano, non ha orecchie per sentire, ma mani sporche e acqua pura, fino all’inizio di un nuovo giorno.) L’inquietudine non riuscirebbe a prenderlo – perché l’inquietudine è di chi si ferma a pensare, l’anima insabbiandosi in vane e remote speranze – eppure quelle ombre continuano a divorare la strada lì sotto. 101
Non una parola, non uno sguardo – in piedi chi ha mai visto gli occhi di un’ombra, a calci nel didietro mi lascerei prendere se solo uno di voi mi mostrasse gli occhi delle ombre – ma Leonardo sa che sono lì per lui. Avanti timido Leonardo, avanti uomo senza sogni, prendi anche tu il cavallino e lanciati con gli occhi aperti nel vento nero che assedia le nostre vite. Avanti Leo, su, le belle donne, i lunghi viaggi, le ore così amiche all’amore, le parole sussurrate, le bevute, i brividi lungo la schiena, su Leo, un po’ anche di questo. Un po’ anche di questo, dacci retta – sembrano sussurrargli le ombre nel loro vano e costante eterno camminare, come nuvole che lo invitino a gettarsi – non siamo che ombre, spesso malinconiche, sole a volte, in certi giorni anche la morte nel cuore non è un peso così difficile da sopportare se c’è fuoco nell’anima, un po’ anche di questo contendersi la vita con rabbia, un po’ anche di questo, te lo chiediamo per favore. Eppure Leonardo resta lì, a guardarsi le pupille nel riflesso degli occhiali da un’eternità appoggiati su quel naso, e non vuole accettare che quelle presenze siano per lui. Immagina (e in cuor suo spera) che possano essere per il gatto addormentato nel vigneto, per le timide ragazze con il vestito nuovo, per l’irresistibile ragazzo pronto a scommettere su una notte in un letto non suo, per il promosso, per l’autoritario, per tutti coloro che vincono, giorno dopo giorno. Ma loro, quelle ombre, sono solo per lui. E intanto, a motivo del vento che in certe sere innalza la sua tremenda voce fino a rendere un tappeto impercettibile il resto dei suoni, le ombre si fanno progressivamente più flebili, e Leo non sente più che segnali indefiniti. Gli occhi appesantendosi, la vita si fa via via più breve – i giorni ci stritolano con le loro aguzze gambe di bambine, e non ci lasciano guardare dietro – e Leo non ode, e Leo non vuole ascoltare. Alessio Ortica
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Il cane Salvatore Mi chiamo, mi chiamo, boh! E che ne so, non mi ricordo o non mi voglio ricordare o lo voglio cancellare. Di certo è che sono un piccolo cane randagio, anzi no abbandonato. Vivevo, anzi campicchiavo male con una famiglia di signori ma si sono stancati di vedermi ed il padrone, un uomo solo per le fattezze ma più bestia di me, rivolto alla figlia Susy, ragazza isterica e cattiva, le ha detto: – Susy, finiamola con questo cagnaccio è bene farlo fuori – Fuori? bofonchiavo tra me, cercando di non voler capire ma poi quando ho visto l’uomo con un bastone in mano ho capito di dover fare una brutta fine. La Susy però l’ha fermato: – No, papi, non ammazzarlo, lo carichiamo in auto e lo abbandoneremo lungo la strada e poi vedrai che qualche macchina ci penserà a schiacciarlo, ah! ah! ah !–. E rideva la scema. Capito? E così hanno fatto ed eccomi scaraventato in mezzo ad una strada con una zampa ferita. Zoppicando corro verso il campo vicino. Sono solo, non so dove andare, questa sera salterò i pasti, anche se finora non è che mangiavo un gran che e devo trovare un riparo per la notte. Vedo un grande albero, mi avvicino, sono fortunato ha un grosso foro alla base che può farmi da cuccia. Caro albero, ti ringrazio in anticipo per la tua ospitalità, scusa per la mia intromissione, so che tu non parli, oddio anch’io non son parlante, abbaio e per esser capito mi aiuto con il linguaggio del corpo, sì certi movimenti della testa, della coda, delle zampe. Mi sei simpatico albero, ti chiamerò Geremia, vedo che sei una quercia, toh! Se ero un maialino potevo mangiare le tue ghiande e dormire a pancia piena, mah! Forse meglio così anche loro poveretti non è che fanno una bella fine. La notte mi porterà consiglio, oh! Mi scappa una pisciatina e sai a noi cani piace farla nei tronchi degli alberi, aaah! Ecco fatto! Scusa Geremia ma è poca cosa si asciuga subito, buonanotte e grazie. Chicchirichì! Chicchirichì! Che baccano, sono le sei del mattino, ci sono senz’altro dei galli che 103
soffrono d’insonnia. Galli? Gallo-galline, galline-pollaio, pollaio-casa di contadini e magari rimedio qualcosa da mettere sotto i denti....canini, è una battuta Geremia ma tu purtroppo non ridi. Eccola là, la casetta, il pollaio, le galline e una vecchietta che sta dando da mangiare a due gatti, un maschio e una femmina. Come ho fatto a saperlo? Semplice la vecchietta li chiamava Tobia e Dolly. I gatti già mi hanno visto e non so quanto siano contenti, la vecchietta sorride mi fa cenno di avvicinarmi e poi mi dice: - aspetta qui cagnolino che ti porto qualcosa da mangiare –. Caspita che fortuna, questa sì che è una persona buona. Dò un’occhiata ai gatti e con una scodinzolatina mi faccio capire: ragazzi siate buoni, anch’io devo campà. Ecco arriva la nonna, di bambini o di galline tutte le vecchiette sono nonne, ha una ciotola in mano, mi cura la ferita e mi fa una carezza a cui contraccambio con un’altra scodinzolata e una leccatina. Ragazzi, si mangia, ci sono ossi e carne, di chi? boh! Coniglio, pollo? Poco importa, quello che è va bene. C’è anche un po’ di pane, è una nonna, sa come si allevano i bambini e i cagnolini, non si mangia senza pane!. Ecco ora la nonnina mi parla: – caro cagnolino, i miei familiari purtroppo non vogliono cani ma tu fatti vedere di tanto in tanto e il cibo non ti mancherà –. Che cara nonnina, se fossi un bimbo l’adotterei! Sono contento, finalmente qualcuno che mi vuole bene oltre a Geremia che tace ma acconsente. Eccomi Geremia ora ritorno da te e faremo due chiacchiere, beh! Tu ascolta. Ma c’è un ragazzo vicino a Geremia è seduto, ha in mano qualcosa, una siringa, oddio che impressione si è bucato un braccio, chissà sarà una medicina, un vaccino, boh! Ma che fa? Barcolla, si lamenta, mamma mia è caduto steso a terra senza manco togliere la siringa dal braccio, adesso non si muove più, sta male, forse sta morendo, Geremia tu sei un albero e non puoi far niente, io sono un cane che posso fare? Un momento se voglio so abbaiare anche forte e con qualche movimento studiato potrei farmi capire, vado verso la strada a vedere se incontro qualche buon’anima, ecco una signora con una ragazzina, mi avvicino, abbaio, scodinzolo 104
velocemente e muovo la testa all’indietro per indicare in qualche modo il posto dove c’è il ragazzo che sta male. Dapprima hanno un po’ paura ma poi vista la mia piccola stazza e il mio atteggiamento che non dimostra certo aggressività, la ragazzina esclama: - Mamma, quel canino sembra voler dirci qualcosa, guarda, vuole che lo seguiamo –. Intelligente la ragazzina, anche la mamma capisce e tutte e due mi vengono dietro e come vedono il ragazzo un grido di terrore le blocca ma poi si avvicinano assieme a me che cerco di fare qualcosa ma non so proprio che, la signora tira fuori un aggeggio, credo si chiami telefonino e chiama qualcuno: – 118? Pronto intervento? Aiuto, aiuto c’è un ragazzo che sta male, forse un’overdose – 112? Carabinieri? C’è mio marito il maresciallo Sartori? C’è bisogno del vostro intervento –. Caspita quanta gente chiama, overdose, droga! Mamma mia che cosa brutta! Quel ragazzo è in un brutto guaio, forse è stato abbandonato anche lui e non ha trovato nessun Geremia, nessuna nonnina che abbiano potuto aiutarlo. Una sirena, che rumore! Peggio dei galli! Ecco sulla strada si ferma un furgone bianco con una croce rossa, deve essere il veterinario degli uomini. Tre persone con una barella corrono verso il ragazzo, uno di loro lo sta toccando forse controlla se è ancora vivo, lo caricano nel furgone, di nuovo la sirena e poi via, dove lo porteranno? Un’altra sirena, una macchina si avvicina, si ferma, scende un uomo in divisa che saluta la signora, saranno quelli che ha chiamato dopo: i carabinieri. L’uomo fa alcune domande alla signora e alla ragazzina, mi da un’occhiata e poi risale e via dietro al furgone. E io? Che faccio? La ragazzina mi accarezza:- bravo cagnolino forse grazie a te quel ragazzo si salverà! –. Non so che fare, scodinzolo, una leccatina, un saltino, un leggero abbaiare come per dire: ho fatto il mio dovere, anche i cani hanno un cuore. Mi sa che ha capito. – Mamma, questo canino deve essere stato abbandonato, ha un collare ma senz’altro un cattivo padrone.105
Geremia tace ma con un ramo mosso dal vento sembra approvare quello che ho fatto e continua a muoverlo a mo’ di saluto quasi a farmi capire che non ritornerò da lui. Gli alberi non parlano e non si muovono ma capiscono. La ragazzina abbraccia la sua mamma: mamma perché non lo prendiamo noi, guarda quanto è carino e poi deve essere molto intelligente e io gli voglio già bene per quello che ha fatto.- Ma sì Simona sono d’accordo e lo sarà anche il tuo babbo. Mi sa che il babbo di Simona era il carabiniere, ragazzi che emozione! I due gatti mi guardano da lontano con un po’ d’invidia, la vecchietta mi saluta. La ragazzina mi prende in braccio: – poverino ha anche una ferita in una zampa – .Già la ferita e chi se la ricorda più, non sento nemmeno più dolore, sono troppo contento, avrò una casa, una cuccia, una famiglia che mi vorrà bene. Ciao Geremia, ciao Nonna, ciao Tobia, ciao Dolly è stato un piacere conoscervi e non vi dimenticherò. Sta arrivando della gente, è curiosa, parlano con le due donne, mi guardano, mi sorridono, mi fanno delle carezze: – piano, piano ho il pelo delicato – . Arriva un signore, dicono che sia un giornalista, fa delle domande a Simona e sua madre a me no il canese non lo capisce, ma che fa? Mi si avvicina con una macchinetta in mano, un bagliore e: – ecco fatto una bella foto per il giornale tutti e tre assieme – . Pian piano le persone si allontanano, seguo le due donne fino alla loro casa dove ci aspetta il carabiniere, il marito di Caterina la madre di Simona e dice loro che il ragazzo è salvo e presto sarà dimesso dall’ospedale. Questo ragazzo di nome Torquato ha chiesto di me e delle due donne per ringraziarci, ha detto che d’ora in poi metterà la testa a posto e la droga sarà solo un brutto incubo da dimenticare. La vicina di casa di Caterina ha una cagnolina, Lola, una barboncina di razza, di colore marrone e con degli occhi da favola, mi si avvicina, cerco di presentarmi con lo sguardo e un leggero latrato: - ciao, io sono un bastardino, bianco e nero ma sono buono e intelligente, piacere di fare la tua conoscenza, sei, sei...meravigliosa, sono un po’ impacciato, vorrei imitare il gatto per farti le fusa e dimostrarti il mio 106
amore, beh! Andiamoci piano, la mia attenzione. Lola mi gira intorno e mi da una leccatina nel muso: oddio, ragazzi, il mio primo bacio, è un vero “colpo di fulmine”, la freccia di Cupido mi ha colpito!. Simona mi sta preparando una bella cuccia, saluto con la coda Lola, la rivedrò presto e se son ossi, no pardon rose, roseranno o fioriranno, boh! Che giornata movimentata! Credo proprio che mi farò una bella dormita. È già mattina, Simona mi sveglia con del buon cibo, ha un giornale in mano: - guarda, guarda c’è la tua foto, il giornalista ti fa un sacco di elogi e ti ha chiamato “il buon cane, salvatore di una vita”, ecco come ti chiamerò “Salvatore”. – mi sembra più un nome da uomini che da cani ma pensandoci bene mi sta a pennello. Il maresciallo per festeggiare mi porta nella sua caserma e mi presenta: – Questo è Salvatore e sarà la nostra mascotte – . Bau, bau, saluto i carabinieri e il maresciallo mi porta in un palazzo con molte stanze, l’ospedale, dove ci sono tanti veterinari per gli uomini, i dottori. Un uomo con una fascia colorata addosso, il sindaco, mi fa una carezza e mi dice di seguirlo fino ad una stanza dove c’è fuori il giornalista birichino, sempre con la macchinetta in mano. Scatta delle altre foto, ecco perché Simona mi ha tutto lucidato, pettinato e profumato. Entriamo nella stanza, no! C’è Torquato, è a letto ma sta bene, ma che fa piange? Mi abbraccia, mi accarezza e bagnandomi di lacrime mi dice: – grazie, ti voglio tanto bene –. Ragazzi, mi sto commuovendo anch’io, non so se i cani piangono, ho gli occhi tutti bagnati ma sono tanto contento. Il Sindaco, mi lega attorno al collo una fascia colorata come la sua e mi stringe la zampa. Il giornalista fa la foto al sindaco e a me, il suo nuovo vice, è solo una battuta ma credo che Geremia se mi vedesse ne sarebbe orgoglioso. Poi un’altra foto con Torquato e i tanti veterinari-dottori battono le mani. Sono felice e di più quando sento che il sindaco ha promesso a Torquato un lavoro, volete sapere quale?: Guardiano al canile municipale! Io, sono un piccolo cane che ha fatto del bene ad un uomo, lui d’ora in poi dovrà essere un grande uomo a cui spetterà fare del bene a tanti cani. 107
Tornati a casa, c’è una sorpresa, ad aspettare il maresciallo ci sono due persone molto antipatiche, l’uomo cattivo con la figlia Susy che con tono autoritario: – Signor Maresciallo, questo cane è nostro, l’avevamo abbandonato ma ora lo rivogliamo – . Credo dal colore del viso del Maresciallo che sia un po’, anzi parecchio arrabbiato: – Cosa? Avete fatto del male a questo povero cane e ora solo perché è famoso, per darvi delle arie, lo rivorreste? Ringraziate il Signore se non vi denuncio e andate subito fuori da questa casa che qui siamo fra gente per bene –. Ragazzi, sono fuggiti con la coda fra le gambe, anche se non ce l’hanno. Bravo maresciallo, ti darei un bacio, ancora non so bene come si fa ma dovrò imparare presto e bene perché alla Lola gliene voglio dare tanti. Ah! La Lola, ci vediamo spesso, siamo ai primi approcci ma molto romantici, alla sera quando è buio stiamo seduti vicini e guardiamo verso il cielo emettendo dei lievi latrati, la preghiera di ringraziamento al Signore per questa nostra felicità. La Lola, ha una voce dolce ma possente che in una corale di cani sarebbe senz’altro una soprano coi fiocchi. Il tempo passa in fretta e bene, Torquato mi viene spesso a trovare e non manca mai di farmi un regalino. Qualche volta mi portano a visitare il suo canile, come arrivo tutti i cani se ne stanno zitti a guardarmi come se mi rispettassero, mi sa che Torquato ha detto loro qualcosa. Torquato è bravo, i cani stanno bene e magari presto anche lui conoscerà la sua Lola che gli vorrà bene e lo aiuterà nel suo lavoro. Il tempo passa ancora, io e la Lola ci siamo sposati, sì abbiamo messo su famiglia, due bei cuccioli maschi, sono così belli e simpatici che Simona ha voluto chiamarli Tom e Jerry e non credo che ne Simona ne la padroncina di Lola abbiano intenzione di darli a qualcuno. Siamo una grande famiglia e ci vogliamo bene.
Alessandro Puletti 108
La giostra dei sogni Le giostre giravano al suono di mille canzoni allegre e spensierate; Lodovico le guardava dalla sua finestra. Il nasino schiacciato contro il vetro, si sentiva triste, le sue gambe non potevano muoversi, si erano addormentate poco dopo la sua nascita e proprio non ne volevano sapere di risvegliarsi nemmeno con tutti gli esercizi che quotidianamente la sua infermiera Rita gli faceva fare. Lodovico soffriva di questa immobilità forzata ma non voleva arrendersi e anche se non poteva correre con i piedi correva veloce sulle ali della sua fantasia. Le sue mani riempivano fogli su fogli di disegni pieni d’ aquiloni, farfalle, gabbiani così veri nei loro voli che riuscivano a portarlo in alto, farlo sentire leggero e libero in quei cieli azzurri. Oggi avrebbe disegnato un clown: pantaloni larghi larghi, scarpe lunghissime, una giacchetta che a malapena gli copriva le spalle e un cappello a quadroni, era soddisfatto. Quella notte si addormentò tranquillo, aveva appoggiato il disegno vicino a lui sopra il cuscino, si sentiva così meno solo; ma ecco che nel sogno il disegno si animò: il clown uscì dal foglio, prese Lodovico per mano e insieme camminarono per campagne assolate. – vedi Lodovico, a volte i desideri possono diventare realtà: ieri non credevi possibile questa passeggiata, oggi invece la stiamo facendo insieme; il segreto sta nel credere in quello che facciamo e nell’applicarci con diligenza e costanza. Tu sei così bravo a fare gli esercizi con Rita che continuando così vedrai che presto verrà un giorno in cui anche tu riuscirai a camminare e correre come tutti i bambini.Si svegliò felice, si girò subito verso il suo clown ma meraviglia, nel disegno non c’era più quel naso rosso a patatina che era invece scivolato vicino a lui nel lettino. Quella mattina si impegnò negli esercizi di riabilitazione con una forza e una volontà mai avuta prima, ricordando in cuor suo le parole che il clown gli aveva sussurrato in sogno e così sognando ad occhi 109
aperti si ritrovò a viaggiare con la fantasia: correva felice dietro ad un pallone rideva e scherzava con i suoi amici e...non desiderava di più. Era passato qualche anno da quella notte che il clown si era materializzato nei suoi pensieri, regalandogli una forza davvero straordinaria, la sua costanza e i suoi esercizi lo avevano portato a muovere qualche passo in piena autonomia, ora si era iscritto anche ad un corso di nuoto e il suo istruttore lo aveva convinto anche ad iscriversi ad una gara per ragazzi diversamente abili. Il tempo era passato in fretta, tante cose erano cambiate nella vita di Lodovico ma, soprattutto era cambiato il suo modo d’affrontare la vita in compagnia della sua disabilità. Affrontò la gara con una grande agitazione, come succede ad ogni atleta che si rispetti, percepiva la sfida, ma l’affrontò con coraggio, perché non poteva deludersi e soprattutto non poteva deludere il suo amico clown che gli era stato vicino in tutti questi anni. Lodovico non riusciva a crederci lui, che qualche anno prima era immobile seduto sulla sua sedia a rotelle, ora era in piedi sopra un podio: era arrivato primo! Prese la coppa con trepidazione pensando che si, i sogni possono davvero diventare realtà, basta crederci e impegnarsi senza mai perdere la fiducia!
Catia Rogari 110
Al Soldato prigioniero a Magdeburg La prima, più importante tappa del viaggio si avvicina e la Holsteiner Strasse è qui, davanti a noi. È stampato nel cuore lo sguardo attonito di quei due nipotini seduti sulle ginocchia del nonno che ascoltavano quasi senza respirare. E lui che, come spesso accadeva, raccontava le vicende che hanno segnato la sua vita. Un tuffo al cuore e in un momento va la mente indietro di oltre sessant'anni. Eccoci, stiamo realizzando la promessa fatta al soldato Marino, quella di cercare i luoghi dove ha passato due lunghi anni della sua giovane vita durante la seconda guerra mondiale. Siamo in Germania, non lontani da Berlino. Siamo davanti a quel muro che delimita la vecchia ferrovia, nasconde mozziconi di binari. Immobili e immortali costruzioni a fianco, viste ogni mattina da quei ragazzi prigionieri a Magdeburg. La buona sorte ci mette sulla strada un loquace anziano che sbianca alla vista del tesserino con La sbiadita foto, ricorda perfettamente i volti di quei ragazzi spauriti che ogni mattina venivano condotti a lavorare nella fabbrica chimica che ci indica in lontananza. Ed è proprio là, fatiscente ma in piedi; più avanti, a destra oltre il ponte, un nuovissimo impianto sportivo sostituisce il campo delle baracche che accoglievano quei giovani. Una parte delle mura di cinta, te colonne che sorreggevano il cancello, un palo di ferro ricurvo monumento alla ruggine sorge ai limiti del bosco, strumento di testimonianza a fili spinati impossibili da scavalcare. A nord della scarpata circostante, venti altissimi alberi, soldati sempreverdi che custodiscono, perennemente sull’attenti, i segreti di quel campo. Il silenzio è rotto soltanto dai battiti dei nostri cuori e dal click della macchina fotografica che ruba questi irripetibili momenti. La torretta di guardia delle S.S. sembra nascondersi quasi dietro i moderni spogliatoi, ma parla l'inferriata della sua scala d'accesso. Racconta di 111
paura vera. Paura di non rivedere più i propri cari, paura di non vedere l’alba di domani, paura di quello schifo di guerra cosiddetta mondiale. Giovani braccati come animali, 52 entrati in quel campo meno 20 mai più usciti: è solo una sottrazione in fondo, ma di uomini. E quelli che rubando qualche sigaretta ai compagni, potevano avere in cambio, sulle finestre delle latrine, un po’ di pane nero e delle bucce di patate lasciate da un vecchietto, tornano a raccontare come lui, il soldato Marino. È per la sua memoria e quella dei meno fortunati che siamo qui, e se chiudiamo gli occhi ci sembra che siano con noi, adesso. A un passo un parco curato da silenziosi giardinieri, fiori colorati, aiuole, alberi ombrosi, prati pettinati e spazzolati come tappeti preziosi. È il cimitero, anzi il Camposanto. La pace è sovrana, ora, là dove riposano le spoglie dei soldati russi, rumeni, polacchi. Ritagli di marmo con inciso, e già liso, uno o tanti nomi, famiglie intere a cui qualcuno, con quel briciolo di cuore rimasto, ha voluto dare degna sepoltura. Più il tà, in un angolo tanti “unkonnen”, gli sconosciuti ma pur sempre figli, padri o mariti che hanno concluso la loro breve storia in quello sperduto angolo di prato. Anche per noi. In direzione dell'altra ambita, ma temuta tappa del viaggio, vediamo srotolarsi davanti a noi le lingue di asfalto che ridiscendono verso Dachau. “Arbeit macht frei”. La più grande provocazione mai scritta, e mai rimossa, sulle inferriate del cancello che permette ancora oggi di accedere al Lager. E come entrare nella macchina del tempo che in un lampo ci catapulta indietro di oltre una manciata di decenni. Il crepitio della ghiaia del selciato calpestata dai tanti è l’unico suono, furtivamente lascio scivolare un sassolino nella mia tasca come un amuleto. La mia reliquia. Trafigge il cuore e la mente tale luogo, tanta è la mestizia che qui si respira varcando la soglia della immensa baracca piena di impossibili giacigli di legno a castello. Una sola scaletta 112
per tutti i ripiani. E soffoca il caldo come il freddo e come il ricordo tra quelle rigide assi che trasudano silenzi più eloquenti di ogni racconto. Tra le pieghe più nascoste della mente vorrei riporre e custodire queste immagini per porgerle un giorno a chiunque possa sollevare dubbi su tutto questo. Il soffio del vento rimuove la pigrizia delle fronde degli alberi davanti a noi tanto da anticipare la visione dei forni crematori già dal fondo del viale. Non è necessario ricorrere troppo alla fantasia per immaginare questa prima stanza piena di scheletrici, ammutoliti esseri umani che si spogliano con la speranza di lavare via il sudore o il gelo dei lunghi giorni. Forse solo per pochi attimi questa speranza illumina gli occhi di quei grappoli umani. Non possono sapere, loro, che quelle finte- docce li libereranno invece dell'anima. Fino al punto di farla votare in alto, su, attraverso i camini, oltre quelle fronde tra un miliardo di stelle. Ma non basta stringere i denti e chiudere gli occhi per non sentire il dolore del cuore. Stridente è il cigolio delle carriole che ne traghettano prima le misere carni, e poi le ceneri. Difatti sono spalancate ancora le fauci dei forni, quasi a mostrare eterno stupore davanti a ciò che nemmeno il peggiore degli animali farebbe ad un suo simile. Solo una domanda martella la mente di tutti quelli che passano in questi luoghi: “Perché”? E non sono sufficienti le risposte messe in bella mostra nelle stanze che seguono, anzi, tutti se ne vanno con una sola, chiara, sintetica affermazione: MAI PIÙ! Passare a Dachau è come immergere un fiore in acqua bollente. Appassisce subito e non desidera altro che acqua fresca ed aria pura. Così, noi “fiori” della spedizione ci lasciamo alle spalle solo l'involucro degli orrori. Ma il suo contenuto ci segue. Come un’ombra. E quei due bimbi che erano seduti sulle ginocchia del nonno adesso respirano, anzi sospirano comprendendo che anche questo è uno dei tasselli che ci ha permesso di avere un’Italia Unita. 113
Insieme allo sguardo del nonno, fisso nel vuoto, quei due bimbi hanno chiuso certamente anche tutto questo nel cassetto della loro memoria. Per mai dimenticare.
Oriana Visparelli 114
La proposta progettuale è nata dal confronto di un gruppo di associazioni di volontariato che si riuniscono periodicamente nell’ambito di una iniziativa promossa dal Ce.S.Vol di Perugia che supporta le associazioni interessate ad approfondire problematiche emergenti nell’ambito di aree specifiche, quali quella della disabilità, ed a sviluppare proposte ed interventi. Le associazioni che promuovono il progetto sono Ass. LiberaMente Atena Onlus, Ass. madre Coraggio, Ass. ALEA, Ass. AUSRU, Ass. AIPD e concordano sull’idea che l’informazione rappresenta un elemento fondamentale per favorire l’inserimento sociale delle persone disabili. Le associazioni hanno maturato una lunga esperienza sul territorio realizzando progetti ed iniziative che hanno coinvolto varie tipologie di disabilità (sensoriali, fisiche e psichiche) e sensibilizzando la cittadinanza. La validità degli interventi proposti è stata riconosciuta anche dagli enti e dalle istituzioni locali che nel corso del tempo hanno aderito e compartecipato alla realizzazione di svariate iniziative (Comune di Perugia, Provincia di Perugia, ASL2, Università di Perugia) e che sostengono attivamente e promuovono anche la realizzazione di questo Progetto. Di seguito riportiamo una breve descrizione delle associazioni coinvolte nel progetto L’Associazione LiberaMente Atena Onlus nasce dall’esigenza di dare un significativo contributo per sradicare i pregiudizi che tuttora circondano il modo della disabilità, ma allo stesso tempo vuole veicolare concetti (comprensione, rispetto, solidarietà e condivisione) che, in larga parte, sono facilmente estendibili ad altre situazioni di disagio”. Promuove una serie di iniziative e progetti specifici sulla pet teraphy. L’ASSOCIAZIONE ITALIANA PERSONE DOWN, A.I.P.D. se116
zione di Perugia ONLUS è una delle numerose sezioni presenti in Italia dell’associazione nazionale che ha sede a Roma ed è ufficialmente riconosciuta come ente morale, aderisce alla F.I.S.H. Umbria Onlus. L’associazione Madre Coraggio si è costituita nel 1993 con l’obiettivo di dare voce e sostegno alle istanze e ai problemi che vivono quotidianamente le persone affette da problemi di salute mentale e i propri familiari. ALEA (Ass. L’Essere Armonia); scopo dell’associazione è quello di divulgare l’ideale “L’Essere Armonia”, cioè di vivere senza barriere mentali, architettoniche e comportamentali che ledono il benessere individuale e collettivo. AUSRU (Associazioni Unite dei Sordi della Regione Umbria); gli scopi dell’Associazione sono quelli di promuovere incontri e raduni, attività culturali, sportive, competitive, ricreative e del tempo libero, giochi, corsi e seminari, studi e ricerche, per sordi e sordomuti. Scopo del progetto è favorire l’accesso alle informazioni delle persone disabili e delle loro famiglie sui diritti e le opportunità offerte dalla legislazione, dalla rete dei servizi pubblici e privati, dalla realtà culturale e sociale del territorio attraverso la promozione di un servizio a carattere informativo e documentario attivo sul territorio della Regione Umbria. La conoscenza della normativa vigente, l’informazione sulle risorse presenti sul territorio e l’indicazione dei percorsi amministrativi da seguire sono strumenti essenziali per le persone in difficoltà o per i familiari che sono delegati ad espletare le pratiche amministrative necessarie. Il progetto, in questo senso, si propone da un lato di garantire il diritto dei cittadini disabili ad avere una corretta informazione, dall’altro di consentire loro una effettiva fruibilità dei servizi. Si vuole così contribuire a migliorare la qualità della vita delle persone disabili in particolare rispetto all’istruzione, al lavoro, alla mobilità e al tempo libero. 117
Nello specifico ci proponiamo di: • dare informazioni, fornire consulenza, orientare i cittadini sui servizi, i diritti, le agevolazioni e le opportunità di cui possono usufruire le persone con disabilità; • ricomporre la frammentazione delle informazioni sui servizi e sulle risorse destinate alle persone disabili e alle loro famiglie; • raccogliere materiale legislativo, informativo e documentario allo scopo di consentire l’approfondimento di argomenti di carattere sociale e sanitario a utenti, familiari, operatori del settore e chiunque sia interessato alle specifiche tematiche; • formare operatori qualificati in grado di informare e orientare i cittadini sui temi della disabilità; • contribuire alla costruzione e al potenziamento di una rete territoriale tra le associazioni e gli enti che si occupano a vario titolo delle problematiche legate alla disabilità; • favorire il rafforzamento del tessuto associativo nella capacità di rispondere alle esigenze delle persone con disabilità, di rappresentarne le richieste e promuoverne i diritti. Azioni 1) servizio informativo attivo presso le sedi dello Sportello del Cittadino della Provincia di Perugia e del Ce.S.Vol. di Perugia. Il servizio è supportato da un sito web accessibile che contiene un database di tutte le risorse e agevolazioni disponibili per un cittadino disabile; 2) centro di documentazione (attivo presso la sede di AIPD Umbria) dove reperire documentazione a carattere sociale e sanitario; 3) percorsi formativi con la collaborazione degli enti, organismi e servizi che sul territorio si occupano di disabilità, rivolti alla qualificazione degli operatori del servizio; 4) iniziative di analisi e approfondimento delle problematiche legate alla disabilità (tavoli tematici, gruppi di lavoro, seminari e convegni) e finalizzata alla creazione di una rete di soggetti che a vario titolo si occupano di disabilità; 118
5) materiali informativi e promozionali (pagine web,guide, opuscoli, dèpliants).
Contatti: www.ceralaccainforma.it Emanuele Costantini E-mail info@ceralaccainforma.it Cell 347 86 37 638
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COMMISSIONE GIUDICATRICE LUCIANO PELLEGRINI (Alea) Presidente della Giuria MARIA CLELIA VIRZÌ (Aipd) Giurata DEANNA MANNAIOLI (Associazione culturale Pegaso) Giurata ANGELO VENEZIANI (Associazione culturale il “Corimbo”) Giurato GIANLUCA IADECOLA (Associazione “Il Rinoceronte”) Giurato
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INDICE
Introduzione Luciano Pellegrini Presidente della giuria
4
Vincitori Sezione Poesie Prima classificata “La rosa dei venti”, Barbara Cannetti
8
Seconda classificata “Cocci d’anima”, Catia Rogari
10
Terza classificata “L’Ultima rosa”, Oriana Visparelli
12
Premio Speciale del presidente della Giuria “Il lago grande della vita”, Stefania Ronzitti
15
Vincitori Sezione Racconti Prima classificata “Anima”, Ornella Turrini
20
Seconda classificata “Lettera alla madre che se ne va”, Angelika Fohmann-Ritter
24
Terza classificata “Schiavi di chi?”, Mara Pennacchio
28
Premio Speciale del presidente della Giuria “Di che colore sono le ali degli angeli?”, Greca Firinu
31
121
Poesie Segnalate “Agonia di un padre”, Giovanni Moroni
38
“Nel giardino incantato”, Loretta Stefoni
39
“Pazza”, Ornella Turrini
40
Racconti Segnalati “Ricordi d’amore”, Franca Elisa Cuccu
44
“Verdetto finale”, Alessia Palazzoli
47
“Il mio Mago”, Lucia Russo
50
Finalisti Poesie “Parole”, Luciana Apollonio
54
“Per essere felice”, Luciano Bacoccola
55
“Il cerchio della vita o, meglio i bilanci del vecchio”, Maria Antonietta Benni Tazzi
56
“Mattino al mare”, Sara Bianchi
58
“L’infinito spazio”, Stefano Caranti
58
“Come ogni sorta di vita può”, Bruno Centomo
59
“Il sorriso di un novantenne”, Aminah De Angelis Corsini
60
122
“Profumo d’estate”, Ester Fabbri
61
“La vita”, Fabrizia Felici
62
“L’anziano”, Alain Gaudenzi
63
“Rinascita”, Daniela Gramignani
64
“Non solo acca, ma...”, Italo Landrini
65
“A Paolo Venezia”, Giuseppe Mandia
67
“Un’intensità di follia”, Sarah Minciotti
68
“Un uomo con la ruota”, Marco Mollichella
69
“Passi”, Federico Morlupi
70
“Solo”, Alessio Ortica
71
“Il senso di ogni età”, Alessia Palazzoli
72
“Ero tutto immobile”, Marco Pimpinicchi
73
“Il mio piccolo bambino africano”, Alessandro Puletti
74
“Il filo dell’esistenza”, Elena Quadri
75
“Fuori vedo colori”, Roberto Rossi
77
“I colori della vita”, Pietro Sanella
78
123
Finalisti Racconti “Il disagio tra sogno e realtà”, Maria Antonietta Benni Tazzi
80
“Cade a pennello”, Nicola Castellini
86
“Fosca e la figlia Cristina”, Francesco Delicati
87
“La mia storietta alla ‘luce’”, Gyorgyike Drinòczi
90
“Per non farsi sommergere”, Liliana Genovese
95
“Fiaba di Primavera”, Rosita Giulianelli
97
“ Anima e dintorni”, Emilio Manaò
99
“Quattro ombre”, Alessio Ortica
101
“Il cane Salvatore”, Alessandro Puletti
103
“La giostra dei sogni”, Catia Rogari
109
“Al soldato prigioniero a Magdeburg”, Oriana Visparelli
111
Progetto C’era L’Acca/Cesvol
116
Commissione Giudicatrice
120
124