Quaderni del volontariato
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L’Africa dimenticata
a cura di
Luigino Ciotti
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Sandro Penna, 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel. 075/5271976 fax: 075/5287998 www.pgcesvol.net cesvol@mclink.it pubblicazioni@pgcesvol.net
Coordinamento editoriale Chiara Gagliano Pubblicazione a cura di
Con il Patrocinio della Regione Umbria
Progetto grafico e videoimpaginazione Studio Fabbri, Perugia Stampa Graphic Masters, Perugia Š 2007 CESVOL 2007 EFFE Fabrizio Fabbri Editore srl ISBN: 978-88-89298-44-2
I quaderni del volontariato: un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale
Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.
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Indice 7
Premessa
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Parte Prima Incontro con Padre Giulio Albanese
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Capitolo Primo
Parte Seconda Incontro con Padre Renato “Kizito� Sesana Capitolo Primo
Parte Terza Incontro con Jean Leonard Touadi Capitolo Primo
Premessa Il grande evento del Forum Sociale Mondiale di Nairobi svoltosi dal 20 al 25 gennaio 2007, di cui si è parlato pochissimo nel Nord del mondo, conferma la tesi del titolo di questa pubblicazione “L’Africa dimenticata” e le logiche e gli interessi dei grandi media mondiali. Per questo, con questo libro che in realtà è la trascrizione della registrazione di alcune serate del circolo culturale “primomaggio”, al di là dei mesi trascorsi dalle iniziative, rimanendo inalterato il valore delle cose dette, le riproponiamo all’attenzione dei lettori perché il contributo di giornalisti come Padre Giulio Albanese e Padre Renato Kizito Sesana, entrambi comboniani, e Jean Leonard Touadì, tutti profondi conoscitori ed esperti di questo meraviglioso continente che è l’Africa, è utilissimo a farci capire qualcosa in più che ci è indispensabile per un approccio serio e che non si fermi agli stereotipi. L’Africa ricca, ma impoverita perché derubata; l’Africa che muore, ma che è più viva che mai e giovanissima; l’Africa che vive in migliaia di baraccopoli, ma che ha l’energia, la vitalità, la gioia di vivere dei ragazzi di Korogocho che abbiamo portato in Umbria il 7 e 8 maggio; l’Africa dei villaggi turistici e dei safari, ma anche quella dei villaggi senza pozzi d’acqua e senza ambulatori; l’Africa delle guerre su commissione, del cancro della corruzione, ma anche degli splendidi parchi e dei grandi animali, di riti e costumi antichissimi; il continente dove siamo tutti vittime del mal d’Africa. Noi stiamo da alcuni anni provando a capirlo con gli incontri che organizziamo ed i libri che presentiamo perché non vogliamo usarlo, calpestarlo, offenderlo, ferirlo; non vogliamo prendergli il petrolio ed inquinarlo come fa l’Eni in Nigeria, vendergli armi che mietono vittime come in Somalia, parlargli di diritti umani ma dimenticare il popolo Saharawi e commerciare tranquillamente (senza porci domande) con il Marocco, parlare di giustizia e firmare gli EPA, dire di aiutarli e distruggere la loro agricoltura e fare cioccolato senza cacao. Insomma anche l’Africa è un bene comune e per questo va salvaguardato e non può essere solo fonte di ricchezza per le tanti multinazionali che vi operano, ma deve esserlo innanzitutto per i suoi abitanti. Questo libro vuole essere un piccolo strumento per provare a capire un po’ di cose, un antidoto alla scarsa informazione quando non è vera e propria disinformazione dei media, un tentativo dal basso di costruire “un altro mondo possibile”.
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Vorrei chiudere con una parte di una poesia “Africanità” di un poeta Nuba (popolo del Sudan a noi caro), Yousif Kuwa Mekki: Fratelli Perdonatemi La mia franchezza e il mio coraggio Malgrado l’umiliazione dei miei nonni, Malgrado la schiavitù di mia nonna Malgrado la mia ignoranza La mia arretratezza La mia ingenuità… Il mio domani verrà. Coronerò La mia dignità con la conoscenza Accenderò la mia fiaccola E alla sua luce Costruirò la mia civiltà. E allora Tenderò la mano Perdonerò quelli che tentarono Di distruggere la mia identità Perché le mie aspirazioni Sono amore e pace! Luigino Ciotti Presidente circolo culturale “primomaggio”
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Parte Prima
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ncontro con Padre Giulio Albanese
Giulio Albanese, giornalista, missionario comboniano, è nato a Roma il 12 marzo 1959.Ha diretto il New people media centre di Nairobi e fondato la Missionari service news agency (Misna) che ha diretto fino al 2004. È stato corrispondente dall’Africa di Radio Vaticana e ha collaborato con varie testate giornalistiche tra cui Giornale Radio Rai, Avvenire e Vita. È autore di alcuni libri tra cui Ibrahim, amico mio (Emi, Bologna 1997), Il mondo capovolto (Einaudi, Torino 2003), Soldatini di piombo (Feltrinelli, Milano 2005), Hic sunt leones,africa in nero e in bianco (Paoline editoriale libri 2006).
Capitolo Primo Bastia Umbra 11/05/2006 Padre Giulio Albanese è venuto a presentare il suo ultimo libro a Bastia Umbra giovedì 11 maggio, ospite del Circolo culturale primomaggio. Il libro Soldatini di piombo, edito da Feltrinelli racconta una serie di storie incentrate sul dramma dei bambini soldato, principalmente in Uganda e Sierra Leone. Giulio Albanese è un missionario comboniano e un giornalista, ha vissuto a lungo in Africa e nel 1997 ha fondato MISNA (Missionari Service News Agency), l’agenzia di stampa internazionale delle congregazioni missionarie cattoliche. Impegnato da anni a fare informazione dal Sud del mondo è al suo terzo libro, dopo Ibrahim amico mio e Il mondo capovolto. Luigino Ciotti Padre Giulio, che ringraziamo per essere qui, è venuto a presentare il suo ultimo libro, uscito circa un anno fa, ma per noi è un’occasione per parlare di Africa, degli effetti della globalizzazione e di una serie di questioni che vanno dalla distribuzione delle risorse alla questione dei diritti umani. Ovviamente il libro offre uno spunto molto interessante per parlare di questo, ma richiama l’attenzione su un problema di cui nessuno parla, del fatto che ci sono circa 300 mila bambini soldato nel mondo, di cui 120 mila in Africa e i restanti 180 mila negli altri continenti, in particolare in Asia e in America del Sud. È una cifra assolutamente non nota e negli ultimi anni, dal 2001 ad oggi, i bambini soldato sono stati utilizzati in almeno 21 conflitti nel mondo e, naturalmente, muoiono a migliaia. Di tutto ciò non si parla, eppure noi spesso ci vantiamo, nella nostra società occidentale, di difendere i diritti dei bambini. In realtà, anche nei Paesi occidentali, i protocolli sui diritti dei bambini, come quello ratificato nel 2000 da oltre 190 Paesi, tra cui l’Italia, vengono spesso disattesi, abbassando la soglia di età a partire dalla quale i giovani possono intraprendere la carriera militare ed essere mandati in guerra. Sono morti oltre due milioni di bambini nel corso di questi anni per le guerre, che è una cifra enorme, ma è un problema di cui nessuno parla, è una pratica di assoluto sfruttamento minorile che ha una serie di conseguenze e ricadute gravi anche dopo l’essere andati in guerra. Basti pensare al trauma psicologico che bambini e bambine si portano dietro per tutta la vita, derivante da episodi di violenza, di sfruttamento, di assunzione di droghe, aggravato dal fatto che l’età dei bambini soldato si sta abbassando notevolmente. Il libro inizia con una di dedica “a tutti coloro, credenti e non credenti, che si battono per un mondo migliore, contro ogni forma di violenza”. È quello che anche noi, come circolo culturale, cerchiamo di fare con l’insieme di iniziative
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messe in piedi nel corso degli anni. E subito dopo cita una frase di Desmond Tuto, Premio Nobel per la Pace: “È immorale che gli adulti vogliano fare combattere i bambini al loro posto, non ci sono scuse né motivi accettabili per armare i bambini”. Do ora la parola a Padre Giulio Albanese. Padre Giulio Albanese Vi ringrazio perché mi offrite la possibilità di parlare di temi che mi stanno veramente tanto a cuore. Mi viene in mente quella pellicola di Stanley Kramer “viviamo davvero in un pazzo pazzo pazzo mondo”, basta accendere la televisione, ascoltare la radio, sfogliare i giornali e ti viene voglia di gettare la spugna perché purtroppo ci sono davvero ingiustizie, sopraffazioni, da mattina a sera e non solo sotto il cielo africano ma anche a casa nostra, nella vecchia Europa. È importante coltivare questa voglia istintiva di conoscere, perché credo che sia il primo modo per vivere la dimensione della solidarietà, io dico sempre che l’informazione è la prima forma di solidarietà. Non possiamo semplicemente versare lacrime di coccodrillo di fronte all’infanzia abbandonata e se non abbiamo il coraggio di coniugare la solidarietà con l’informazione non facciamo altro che legittimare questo sistema iniquo, di cui siamo noi stessi parte, in quanto tutti impegnati si in associazioni e nella società civile, ma pur sempre consumatori. Non dobbiamo fare come gli struzzi che mettono la testa sotto la sabbia, qualcuno vorrebbe che rinunciassimo al pensiero, alla riflessione, viviamo sotto un bombardamento mediatico da mattina a sera, ci costringono a vedere i reality show, una delle cose più aberranti di questo mondo, fatti apposta per azzerare il cervello della gente e poi uno va a votare ... ma non ci rendiamo conto che c’è qualcuno che vorrebbe che non riflettessimo, che non pensassimo, che non uscissimo almeno idealmente fuori le mura del Belpaese. Noi viviamo in un mondo dove le informazioni schizzano via alla velocità della luce, ma poi non sappiamo niente di quello che succede non solo nel sud del mondo, ma neanche a casa nostra, perché, lo dico come missionario e come giornalista, oggi l’informazione è in crisi, siamo al capezzale di un malato che è in sala di rianimazione e la prognosi non è stata sciolta. Sappiamo poco o niente e proprio per questo sono importanti questo tipo di iniziative che organizzate come circolo primomaggio. Il tema dei bambini soldato è una delle tante tragedie dimenticate e lasciate volutamente nel cassetto. In questi anni ho girato l’Africa in lungo e in largo, da meridione a settentrione, e di teatri di guerra ne ho visti davvero tanti.
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Ultimamente, soprattutto nell’Africa Sub Sahariana, abbiamo registrato una diminuzione dei conflitti e questa è una buona notizia. Secondo la “Freedom House”, un’organizzazione non governativa che ogni anno stila la classifica delle democrazie, nel 2005 ci sono state tre nuove democrazie nel mondo e tutte africane, Liberia, Repubblica Centrafricana e Burundi. L’anno scorso è stato siglato l’accordo in Sudan, che ha messo fine ad una delle più lunghe guerre africane, con oltre due milioni di morti. La lista delle guerre dimenticate è davvero lunga, ma nei piani editoriali queste non rappresentano una priorità. In Africa ci sono ancora scenari aperti, in nord Uganda, nel Darfur, in Somalia, dove solo a Mogadiscio sono morte nei giorni scorsi 150 persone. Vi sono alcuni Paesi dove la tensione è alta, come la Costa d’Avorio e altri dove invece il processo di pacificazione si sta consolidando. Ora in questi Paesi africani ho incontrato tanti bambini soldato. I Paesi dove ho toccato con mano questa tragedia sono Sierra Leone e Uganda. Premetto che in Sierra Leone la guerra è finita 5 anni fa, ma in Uganda la guerra continua dalla fine degli anni ’80. Il bilancio di vittime per l’Uganda è alto, si parla di circa 150 mila morti in un fazzoletto di terra che ha le dimensioni di Piemonte e Lombardia messe insieme, dal 1994 nel nord Uganda sono stati sequestrati circa 25 mila bambini. Che cosa hanno in comune queste due guerre? In questi due Paesi ho incontrato formazioni di ribelli composte prevalentemente da bambini, circa il 98% delle reclute erano minori. In Sierra Leone i bambini erano all’interno di un gruppo ribelle denominato RUF (fronte unito rivoluzionario), ma anche all’interno di formazioni minori, anche di tipo filogovernativo. In Uganda il gruppo che più si è nutrito di bambini è l’Esercito di resistenza del Signore. Le tecniche di reclutamento sono le stesse: i bambini vengono sequestrati nei villaggi, assistono all’uccisione dei loro genitori e dei loro parenti e vengono catturati e sottoposti ad un vero e proprio indottrinamento. I bambini vengono anche drogati, con jamba, una droga locale, e con cocaina; gli viene fatto bere latte e polvere da sparo, per innescare meccanismi di suggestione e diventano delle feroci macchine belliche. Nel caso dell’Esercito di resistenza del Signore i bambini combattono sotto l’effetto di un’ipnosi collettiva, cosa che ho visto personalmente essendo anche stato sequestrato con alcuni miei colleghi. Quando parli con loro ti sembrano degli automi e ti fanno davvero paura perché ti rendi conto che sono imprevedibili, che potrebbero tirare fuori la loro pistola, spesso Beretta e spararti. Quante armi italiane finiscono da quelle parti! Ricordo che la prima volta che incontrai i ribelli del RUF, il 12 marzo del ’99, lo
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feci insieme ad un bravissimo vescovo, missionario Mons. Giorgio Biguzzi, e un collega giornalista della Rai, Silvestro Montanaro. Riprendemmo delle immagini davvero ad effetto che qualche mese dopo andarono in onda nella trasmissione di Rai Tre “C’era una volta”, uno di quei documentari che inizialmente andava in onda in prima serata e poi adesso è finito in quarta! Quando incontrammo i ribelli del RUF ricordo che uscirono fuori dall’erba improvvisamente e ci ritrovammo circondati in un batter d’occhio da centinaia di bambini armati. Eravamo spaventati, ci accompagnava un generale indiano delle Nazioni Unite, il quale ci tranquillizzò e ci disse di provare a dialogare con loro. Alla fine vennero fuori quattro o cinque capi, tra cui uno dei leader storici del movimento, un certo Mosquito. Ricordo che mi si avvicinò un ragazzo con i capelli alla Bob Marley, mi puntò il fucile in pancia e mi chiese dei soldi, era ricoperto di bombe a mano, di granate che sembrava un albero di Natale. Gli chiesi come si chiamava, mi rispose con un nome che nella lingua locale significava “io ammazzo senza spargere sangue”, gli risposi: piacere Padre Giulio! Non sapevo che dirgli. Poi mi accorsi che aveva appeso al collo una grande croce d’oro, di quelle che portano i Vescovi e infatti l’aveva fregata all’arcivescovo di Freetown Mons. Ganda. Gli chiesi di restituirla al vescovo ma lui mi rispose che non poteva perché era un amuleto che lo difendeva dalle pallottole. Nel momento di salutarmi mi disse: “senti, te lo posso chiedere un regalo? Potrei venire con te? Mi piacerebbe tanto tornare a scuola!” Una battuta che mi fece capire che per quanto gli adulti fossero scellerati, questa umanità e questa voglia di vivere era rimasta come una fiammella che continuava ad ardere e per me fu un messaggio di speranza. I bambini vengono arruolati essenzialmente per tre motivi. La prima ragione è perché sono ubbidienti, puoi manipolarli, sottoporli al lavaggio del cervello. La seconda ragione è che non costano niente, basta dar loro una manciata di riso e si accontentano, ma la terza ragione è che gli adulti la guerra non la vogliono fare. La stragrande maggioranza delle popolazioni che abitano in quelle che noi solitamente consideriamo zone di conflitto non condividono assolutamente i progetti politici violenti, demenziali dei cosiddetti war lords, dei signori della guerra. Non è solo la società civile ma proprio la gente semplice a non volerne sapere di soluzioni violente. Una delle ragioni di questa mia inchiesta è proprio qui, mi sono chiesto tante volte come mai i bambini vengono utilizzati, che cosa c’è dietro, quali logiche perverse? Una delle ragioni risiede nelle immense risorse minerarie, ci sono dei Paesi, come l’Uganda, che sono miniere a cielo aperto. In Congo, in circa 5 anni, sono
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morte almeno tre milioni e mezzo di persone. Avete mai sentito niente sui nostri telegiornali? Lì si combatte perché ci sono oro, diamanti, rutilio, il materiale che serve per i nostri telefonini. Per non parlare del niobio, il miglior super conduttore al mondo, un grammo costa 17 $, cioè al chilo 17 mila $, più del platino, serve anche per assemblare i satelliti. Di giacimenti di niobio ce ne sono due, uno in Perù e l’altro nel Congo. I signori della guerra fanno nascere questi movimenti ribelli e con l’aiuto dei mercenari si mettono in contatto con le principali compagnie di sfruttamento di queste risorse. Tra i mercenari troviamo anche molti italiani, ex componenti dell’esercito, che reclutano i bambini. Il business condiziona la realtà di questo continente. Non si tratta, come qualcuno mi dice, di essere afro-pessimista, ma io credo che dobbiamo essere afro-realisti, perché è importante che venga infranta quella cortina di omertà che ci impedisce un confronto con quelle che sono le reali problematiche di questo continente. Come fa l’Africa a sbarcare il lunario? C’è l’economia informale, vi sono molti studi fatti da autorevoli economisti, penso soprattutto ad Albert Tevoedjiré, uno dei più grandi intellettuali dell’Africa post coloniale, che ha scritto un libro molto bello negli anni ’70 La povertà ricchezza dei popoli, un libro pubblicato in Italia dall’EMI, l’editrice missionaria italiana, che vi inviterei a rileggere. Se fossimo stati alle previsioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale l’Africa sarebbe dovuta sparire, completamente, invece l’Africa c’è ancora ed ha grandi ricchezze, soprattutto i popoli che la abitano, persone che hanno tradizioni molto forti e culture distanti dalle nostre, che noi occidentali facciamo fatica a decifrare. D’altro canto il nostro approccio è ancora infarcito di colonialismo; noi continuiamo a parlare delle lingue africane come di dialetti, ma il luganda è parlato da 7 milioni di ugandesi, è un dialetto? Quando ho provato a studiarlo mi sono accorto che c’erano cinque coniugazioni e sette declinazioni .. ma di esempi potremmo portarne altri. Pensate alla terminologia che noi solitamente utilizziamo quando parliamo dei gruppi etnici africani, sono tribù .. perché i Baganda che sono 7 milioni sono una tribù e gli svizzeri che sono 3 milioni e mezzo sono un popolo, una nazione. Ma ci rendiamo conto? Dopotutto il Congresso di Berlino è una nostra invenzione, siamo stati noi a tagliare a fette l’Africa, allora una sana autocritica non credo che guasti! Dobbiamo proporre un approccio un po’ diverso .. c’è un altro libro che ho scritto alcuni anni fa Il mondo capovolto, ecco io credo dovremmo avere questo tipo di approccio, perché che se ne dica le nostre categorie di riferimento sono quelle che abbiamo imparato sui banchi di scuola! Prima di entrare nella mia congregazione ero ufficiale di marina, sono stato in
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accademia, poi uno dei personaggi che è venuto qui a trovarvi qualche tempo fa .. un certo Alex (si riferisce a Padre Alex Zanotelli) mi ha incastrato nel nome del Buon Dio, a me e alla mia compagna che è finita nelle suore di Madre Teresa di Calcutta! Il mondo capovolto significa davvero tentare di stravolgere il nostro approccio paternalista! Io porto sempre l’esempio della cartina di Peters, uno storico che ci ha permesso di andare al di là della mappa tradizionale che noi continuiamo ad utilizzare nelle nostre scuole appesa al muro che è la proiezione di Mercatore. La carta di Peters è ortomorfica, cioè deforma i continenti ma mantiene il rapporto di superficie tra i continenti e ci aiuta a capire il vero rapporto che c’è tra la superficie dell’Africa e quella dell’Europa! E ci accorgiamo di quanto l’Africa sia enorme! Prendendo l’aereo a Lisbona per Maputo, la capitale del Mozambico, il pilota, che era anche mio amico, mi disse che avevamo più di 11 ore di volo … se guardiamo la cartina di Mercatore non ci possiamo rendere conto che la distanza tra Lisbona e Maputo è uguale alla distanza che c’è tra Lisbona e Tokio! Tutto questo significa che il nostro approccio è etno-centrico, le nostre coordinate sono etno-centriche, non solo per l’Africa … spesso parliamo di estremo oriente, ma voi andate da un giapponese a dirgli: tu sei dell’estremo oriente … ma quello ti guarda e ti dice: sarai tu in estremo occidente!! Questo modo di ragionare fa si che noi siamo sempre al centro! Quando poi vai in Africa, nel Sud del mondo, ti rendi conto che noi non siamo al centro, e lo dico senza voler sminuire i nostri valori, quelli di un Paese che ha dato molto all’umanità, ma in cui non c’è sufficiente conoscenza delle diverse realtà. Quando parliamo di una guerra in Africa, spesso si dice che c’è una guerra a sfondo etnico, ma la guerra tra hutu e tutsi, il genocidio del Ruanda, non la possiamo definire in questo modo perché parliamo di popoli che hanno la stessa lingua da tanti secoli … allora si capisce che c’è stata una manipolazione da parte delle potenze coloniali, prima tedeschi e poi belgi e che le cose non stanno proprio così come ce le raccontano! Purtroppo oggi l’approccio tende sempre alla banalizzazione e questo certamente non giova. Allora voi direte: che cosa dobbiamo fare? Due cose importanti: l’informazione, con l’impegno di documentarci di più, dato che oggi abbiamo anche molti strumenti a disposizione. Ci sono delle riviste come Internazionale che è una bella rassegna su ciò che la stampa straniera dice del mondo e anche dell’Italia, una finestra aperta sul mondo, e poi c’è Limes e testate come Liberazione, Il Manifesto, Avvenire, l’Osservatore Romano che considerano ancora la pagina esteri rilevante! Quella dell’Osservatore Romano è una delle pagine estere fatte meglio, in cui trovate notizie che assolutamente non trovate su nessun altro quotidiano. Quindi se uno cerca, se ha voglia di conoscere, i
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mezzi ci sono. L’importante che ci sia questo desiderio, dico questo perché in Italia si legge poco o niente, è inutile che parliamo dei bambini-soldato, dell’AIDS, della lotta alla povertà … sapete in Italia qual’è il giornale più letto? La Gazzetta dello Sport edizione del lunedì e il settimanale più letto è TV Sorrisi e Canzoni. Ora io dico non è peccato mortale leggere questa roba, ma se uno legge solo questo ... ecco questi sono i peccati che andrebbero confessati ad alta voce, che per me sono più orribili di tanti altri peccatucci che snoccioliamo … per chi si confessa naturalmente! L’informazione accanto ad un discorso di educazione alla mondialità, per capire e comprendere che il mondo è più grande del nostro piccolo paese e della nostra stessa vecchia Europa, capire che viviamo in un villaggio globale e che dobbiamo fare i conti anche con la contaminazione. Spesso ci poniamo in un atteggiamento difensivo di fronte a tante altre culture, ma è inevitabile che ci sia contaminazione e l’incontro può diventare scontro, certo, ma uno deve accettare la sfida! Ecco perché è importante promuovere incontri, dibattiti, conoscenze, perché questo ci aiuta a capire e comprendere il comune denominatore di tante questioni di cui avremmo potuto parlare, la desertificazione, l’urbanizzazione in Africa, la lotta all’AIDS, ecc., che è l’ingiustizia, e nessuno di noi può dire io non c’entro! Nell’ipotesi che in questo momento avessi una bacchetta magica e con una sorta di incantesimo sollevassi il tenore di vita delle popolazioni dell’Africa SubSahariana portandolo ai nostri stessi livelli europei, sapete che cosa succederebbe nel mondo? Non ci sarebbe più ossigeno, non ci sarebbe più acqua, non ci sarebbero più foreste … la verità è che noi consumiamo troppo, bruciamo troppo senza rendercene conto. Allora io credo che sia importante anche mettere in discussione il nostro modus vivendi, i propri stili di vita. Luigino Ciotti Ci diceva il nostro comune amico Touadì che abbiamo fatto venire qui a parlare dell’Africa dimenticata a gennaio dello scorso anno, che domani è a Udine a presentare la rivista Limes che è tutta dedicata all’Africa e che vi invito a comperare per approfondire questo discorso e vi ricordo che il prossimo anno, a gennaio 2007, ci sarà il prossimo Forum Sociale Mondiale a Nairobi in Kenia dal 20 al 25 gennaio e che il Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace e la Tavola della Pace stanno cercando di organizzare la delegazione italiana. Credo che sia un’esperienza utile per conoscere di più l’Africa sia per parlare dei problemi più complessivi che la riguardano. Padre Giulio non ha parlato solo dei bambini soldato, è andato ben oltre … per questo vi invito a fare delle domande.
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Robert De Graaf Nel 1989/90, non mi ricordo esattamente, sono andato in Africa per la prima volta, in Sierra Leone. Andai a fare un’indagine per Amnesty International sullo stato dei diritti umani e mi ricordo che erano i giorni in cui fu liberato Mandela, c’era una grande festa e tutti parlavano di diritti umani proprio per il fatto che era stato liberato il grande Nelson Mandela e niente faceva presagire che lì a poco tutto sarebbe cambiato. Io mi sono chiesto tante volte che cosa è successo in un Paese che stava imboccando la strada dell’abolizione della tortura, della pena di morte, che aveva commissioni parlamentari per indagare sulla corruzione, che sembrava la Svizzera dell’Africa, che era un paese ricco ... cinque anni dopo era tutto finito! Io mi sono chiesto ma come è potuto succedere? Non era possibile capire che sotto queste belle notizie c’era qualcosa che covava? Padre Giulio Albanese Purtroppo guardando soprattutto all’Africa tante volte noi sottovalutiamo quello che ha rappresentato per questo continente il crollo del muro di Berlino. È un aspetto che viene solitamente sottaciuto. L’Africa ha sofferto sotto la guerra fredda, era divisa ... ma con il crollo del muro questo continente è diventato davvero terra di conquista! La cosa incredibile è che sono saltate le alleanze, se prima il governo di Maputo era sotto l’influenza di quella che chiamiamo l’ex Unione Sovietica e il Kenia sotto quella statunitense, saltando tutti questi meccanismi oggi succede che un paese come l’Angola, dove vi era una tradizione marxistaleninista, oggi sono i più grandi alleati degli Stati Uniti! Purtroppo gli appetiti con la fine della guerra fredda in Africa sono cresciuti. Basta pensare al business dei diamanti e del rutilio! La Sierra Leone è stata, come altri Paesi dell’Africa occidentale, soprattutto vittima della massoneria. C’è un tema di cui non si parla mai per il Sud del mondo, quello della massoneria! Voi non potete immaginare i drammi e le tragedie che ha fatto la massoneria in Africa, noi parliamo della P2, ma in Africa altro che P2! In Sierra Leone ci sono tre massonerie: la prima è quella degli ex schiavi, quelli che erano stati portati in catena negli Stati Uniti e poi ritornati in Africa, nella “terra dei liberi”, Freetown, che in America avevano conosciuto tante cose tra cui la massoneria (che è uno degli elementi fondanti degli Stati Uniti, c’è scritto pure sul dollaro, c’è la piramide … Franklin era massone, Jefferson era massone, Bush? Potrei raccontarvi molto su Bush, voi sapete chi è stato il più grosso finanziatore di Adolf Hitler durante la seconda guerra mondiale? Il papà di John Kennedy e il nonno di J.W. Bush, è tutta roba che è stata pubblicata! Ma chiudiamo qui!). La tragedia è che i massoni, i crio, rientrati in patria hanno creato i templi massonici, se andate a Freetown, a Monrovia, trovate i templi massonici. Poi c’è la massoneria autoctona, le società segrete che però sono entrate in siner-
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gia con la massoneria crio, e poi c’è la massoneria occidentale, quella inglese, quella italiana, quella francese, che naturalmente era legata al traffico di armi e di diamanti. Tutte queste triangolazioni hanno fatto si che si determinasse una lobby trasversale, da una parte c’erano i governativi e dall’altra i ribelli, ma la massoneria era trasversale a tutte e due queste componenti. Io nel libro lo accenno, perché c’è la testimonianza di un signore che ho intervistato, una bravissima persona che ha sofferto molto nei campi profughi e che è stato il primo a rivelarmi questi retroscena, questi sono argomenti che andrebbero approfonditi e invece non se n’è mai parlato. La responsabilità del Regno Unito, dei francesi, degli americani e della comunità internazionale in Sierra Leone, ma anche in Liberia, sono indicibili. Noi abbiamo parlato di diamanti, per la Liberia dovremmo parlare delle traversine. Avete mai sentito parlare delle traversine? Voi sapete che in Italia c’è tanto legname della Liberia? I nostri treni passano su quelle traversine di legno, legno proveniente dalla Liberia, che viene importato, se non vado errato, ancora oggi dal Console liberiano che credo sia italiano che sta a Genova, c’è tutto un business, ci sono tanti intrecci, perché c’è tanto da rubare, da rapinare! E dico davvero l’Africa è sottoposta ad una grande rapina, le materie prime sono pagate quattro soldi. Prima vi accennavo la questione del niobio, ma voi sapete quanto danno a quel poveraccio che sta lì nella miniera a cielo aperto a scavare? Nella migliore delle ipotesi sono tre euro a settimana, quindi meno di un euro al giorno! Poi noi parliamo di derrate alimentari, aiuti, campagne! La disinformazione regna suprema, ci sono tante questioni che dovremmo affrontare quando si parla di Africa. C’è la questione della cancellazione del debito estero, che è una spada di Damocle sulla testa di questi paesi. Ci sono paesi africani, come il Mozambico, la Nigeria, che il debito l’hanno già restituito tre, quattro, cinque volte! Ma siccome il meccanismo è iniquo, questi devono continuare sempre e comunque a pagare. Anche qui la disinformazione regna suprema. Ricorderete che l’anno scorso sui giornali era uscita la notizia a titoloni “cancellato il debito dell’Africa”. Questa era la decisione presa dai grandi della Terra in Scozia: una balla macroscopica perché questi hanno cancellato a una quota di 16 paesi, di cui 12 africani, il debito contratto con alcune istituzioni multilaterali che sono Fondo Monetario Internazionale, Banca mondiale e Banca Africana dello Sviluppo, che è quello più insignificante! Il vero debito che pesa come una spada di Damocle su tutta l’economia africana è quello con gli istituti finanziari privati, con le banche, gente che andrebbe giudicata da un tribunale penale internazionale. Io mi chiedo con che faccia andiamo a parlare di esportare la democrazia se poi permettiamo che vi sia questo scempio? E qui non si tratta di essere cattocomunista o cattoamericani, ma di avere buonsenso. Parlavo recentemente con un mio caro amico algerino, che lavora al Ministero degli Esteri di
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Algeri il quale mi diceva che in questi tre o quattro anni hanno fatto una politica di austerity, decidendo di accelerare le procedure di restituzione del debito. Da Washington hanno subito risposto “slow down”, riduci la velocità, dovete rispettare la tabella di marcia! Altrimenti non aumentano gli interessi! E poi parliamo di democrazia! Ma ci rendiamo conto di quanto siamo dementi! Ora è chiaro che la questione del debito estero è solo uno dei problemi che assillano l’Africa. Un altro è la mancanza delle regole, non è la globalizzazione, ma la deregulation! Questo è un mondo senza regole, o meglio le regole ci sono, ma come diceva Giolitti “le leggi si applicano con i nemici, si interpretano con gli amici”. È quello che fa Bush, la legge la imponi con i nemici e poi con gli amici la interpreti, stranamente il Pakistan che ha la bomba atomica non crea problemi! Una deregulation anche di tipo economico: il protezionismo fa disastri in Africa, i contadini africani non riescono a vendere i loro prodotti sui nostri mercati … anche se non possiamo mettere tutti i Paesi sullo stesso piano. La Francia, per quanto riguarda il protezionismo è la prima della classe! Ma questo discorso ci porterebbe molto molto lontano! L’Africa per essere aiutata ha bisogno di regole, di un ordinamento che sia rispettoso dell’economie dei singoli stati. Un bambino dal pubblico chiede a Padre Albanese perché non aveva portato via con lui quel bambino soldato che aveva incontrato … Grazie per questa domanda! L’ho incontrato nuovamente a Freetown un anno e mezzo fa. Io non l’ho portato con me perché quando l’ho incontrato c’era ancora la guerra e figurati se il suo comandante me l’avrebbe regalato! Nessuno dei combattenti poteva in quel momento lasciare il movimento del RUF. Ma il destinato ha voluto che a Freetown ricontrassi sia “kimansinobla”, che adesso fa l’autista e si è salvato anche se non è riuscito a tornare a scuola perché la sua era una famiglia veramente povera, il padre fu ucciso, la madre era sola ecc..., ma anche “Caporal aiwei”, che ha una storia davvero toccante. Questo bamboccetto era riuscito a scappare dai ribelli e si era consegnato alle truppe dell’ECOMOG, della forza di interposizione dei paesi dell’Africa Occidentale, composta prevalentemente da soldati nigeriani. Io cominciai a intervistarlo e aveva tutte le braccia coperte di tatuaggi, erano tante crocette … gli chiesi che cosa significavano e lui mi disse che erano tutti i soldati che aveva ucciso! L’ho rivisto a Freetown in un centro gestito dai salesiani, ha iniziato l’università, non ha un computer ma a Freetown ha trovato un internet caffè ed ha un indirizzo di posta elettronica tramite il quale ci sentiamo ogni settimana ed è interessante il fatto che sia riuscito a superare positivamente le sue precedenti
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esperienze ma è anche stato molto fortunato perché ha avuto la possibilità di tornare a scuola. Il grande problema è che la maggior parte dei ragazzi, terminata la guerra, vorrebbe tornare a scuola, ma il fatto che siano stati firmati accordi di pace non significa che sia scoppiata la pace. La Sierra Leone fino all’anno scorso era il fanalino di coda nella classifica dei Paesi UNDP da punto di vista dello sviluppo e quindi capite che i ragazzi fanno fatica a sbarcare il lunario e se non trovano un lavoro vengono risucchiati dalla malavita organizzata e le ragazze sono costrette a prostituirsi … perché è l’unico modo per mangiare un boccone! Il fatto che sia finita la guerra non significa che sia scoppiata la pace. Lo stesso vale per l’Angola, un paese meraviglioso, che ha sofferto pene indicibili con la guerra civile combattuta prima per i diamanti e poi quando ci si è resi conto che il business dei diamanti non rendeva più allora si è fatta la pace. L’Angola è stato uno dei primi paesi africani in cui si è combattuto volutamente per il controllo dei giacimenti di diamanti, poi quando ci si è resi conto che c’era un altro business molto più conveniente che era quello del petrolio, allora si è fatta la pace, perché politicamente in quel momento serviva la pace, per poter avviare i lavori di sfruttamento di questo immenso bacino petrolifero. Nel 2002 si sono resi conto che il bacino petrolifero dell’Angola è tre-quattro volte quello che era stato stimato nell’1989. Tra l’altro il petrolio che c’è in Angola è tutto di qualità light, a basso tenore di zolfo, cioè adatto alla produzione della nostra benzina ecologica. In Angola sembra che sia scoppiata la pace perché ormai da quattro/cinque anni non c’è più questa guerra tra il governo di Luanda e l’UNITA di Savimbi, però la guerra continua perché la gente continua a saltare sulle mine ... è il paese in Africa con il più alto numero di mine antiuomo seminate sottoterra, 14 milioni di mine antiuomo su una popolazione di 10 milioni e mezzo di persone. Ogni giorno saltano come birilli un centinaio di persone e nessuno dice niente. Noi avevamo il primato con la Valsella di Castenedolo, lo dico perché me le portavano in missione queste ciambelle! Per fortuna devo dire che non le facciamo più, la FIAT aveva tentato di trasferire questo business a Singapore, ma visto che anche Singapore ha aderito al Trattato di Ottawa, non si fanno più. Però ce ne sono ancora molte in circolazione in Africa! Donna Lei ha individuato nella mancanza di informazione una grave carenza e non pensa che la Chiesa debba fare questa informazione, debba modificare la scala dei peccati e uscire fuori dalla cosiddetta “carità pelosa”? Padre Giulio Albanese Sicuramente la carità pelosa è presente anche nelle Chiese cristiane. Da un
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punto di vista evangelico le dico che dobbiamo convertirci tutti al nostro Signore Gesù Cristo. La verità qual è? È che all’interno della Chiesa vi sono varie componenti, sto parlando in particolare dell’Africa Subsahariana, anzi vi sono sostanzialmente due filoni: uno molto tradizionale che ha un approccio paternalistico, ed è quello più diffuso, ma ce n’è uno più impegnato sulla formazione della società civile, parliamo di piccoli gruppi, che svolgono un ruolo innovativo ma che non è stato ancora sufficientemente recepito. Purtroppo succede che quando ti presenti alla gente come benefattore, nel momento in cui tu inneschi questo meccanismo culturale, tentare di cambiare approccio diventa molto difficile, non so se riesco a spiegarmi, noi abbiamo una grande responsabilità che è quella di aver fomentato la dipendenza innescando questi meccanismi psicologici che genera una vera e propria schiavitù culturale a tutti gli effetti. Per quanto riguarda la nostra Chiesa, italiana ed europea, io ho la sensazione che siamo molto distanti ancora, ci manca una vera coscienza di cooperazione missionaria, noi intendiamo il rapporto con le Chiese sorelle sempre secondo la logica del ricco epulone, mandare missionari, mandare offerte, non siamo sufficientemente liberi per porci in un atteggiamento diverso. L’Africa ci può anche dare molto, la missione non è solo dare, ma anche ricevere! Siamo ancora in alto mare da questo punto di vista! Ci manca, lo ripeto, l’educazione alla mondialità. Qui non si tratta solo di fare la denuncia, non si tratta semplicemente di essere picconatori, ma anche di essere propositivi, un approccio diverso, perché non ci si può limitare alla denuncia. Cioè io vedo anche nel mondo missionario una grande ingenuità. Quando tu presenti la questione della globalizzazione e poi dici che l’antidoto è il commercio equo e solidale, facciamo ridere i polli!. Anche io credo nel commercio equo, anche per finalità educative, ma io non posso pensare che l’economia mondiale si regga sul commercio equo e solidale, altrimenti sono davvero un imbecille! A mio avviso sarebbe necessaria a livello di società civile, di Chiese, una riflessione non solo sociale, economica, ma anche teologica sull’economia, e da questo punto di vista siamo ancora in alto mare. Vi erano stati dei momenti, negli anni ’80, in cui sembrava che questo tipo di riflessione si stesse avviando, subito dopo la pubblicazione di un’enciclica che a me piacque tanto, di Giovanni Paolo II “Sollicitudo Rei Socialis” che devo dire, prima ancora che crollasse il muro, aveva prefigurato il rapporto nord-sud, però poi siamo stati risucchiati dal sistema.
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Parte Seconda
I
ncontro con Padre Renato “Kizito� Sesana
Renato “Kizito” Sesana, missionario comboniano, da oltre vent’anni è in Africa – tra Sudan, Zambia e Kenya, dove attualmente vive – portando avanti una serie di progetti di cooperazione e sviluppo attraverso le due comunità (ora anche ONG) di “Koinonia” e di “Amani” di cui è fondatore e animatore. È anche prolifico pubblicista, collaborando con varie testate italiane e internazionali. È stato direttore di “Nigrizia”, fondatore di “New People” e di “Radio Waumini”, emittente cattolica promossa dalla Conferenza Episcopale kenyana. È stato l’ispiratore della prima agenzia giornalistica in Africa gestita completamente da africani, “News from Africa”.
Capitolo Primo Bastia Umbra 6/05/2005 Nota: In queste pagine è riportata la trascrizione dell’incontro con Padre Kizito Sesana e Gianmarco Elia. Il testo scritto ha subito leggere modificazioni rispetto a quello che è stato effettivamente detto solo da un punto di vista della sintassi e dell’ortografia delle frasi, ma non dal punto di vista contenutistico. Purtroppo dalla sbobinatura che è stata fatta, non è stato possibile estrarre l’introduzione iniziale di Luigino Ciotti e parte della risposta di Padre Kizito Sesana relativamente alla sua esperienza da Cristiano, nella parte finale del testo. Padre Kizito Sesana Buonasera, grazie per avermi invitato qui con voi. Cercherò di fare un intervento abbastanza breve così da dare spazio alle vostre domande e poi rispondere in modo da essere sicuro da toccare le cose che a voi interessano. Direi che l’esperienza che si racconta in questo libro nasce, come tutte le altre mie esperienze in Africa, dal fatto di essermi lasciato condurre un po’ dagli Africani. Io ho cominciato a viaggiare in Africa nel ’71, quando ho cominciato a lavorare a Nigrizia, e poi mi ci sono stabilito, sostanzialmente dal ’77, prima in Zambia e poi dall’88 a Nairobi. Per mia attitudine personale e anche perché mi sembrava l’atteggiamento giusto da tenere, fin dall’inizio ho cercato di fare silenzio, osservare molto, ascoltare moltissimo, lasciare che fossero gli Africani a dirmi cosa si aspettavano da me piuttosto che prendere l’iniziativa. Questo mi ha portato a fare riflessione e a scoprire diverse cose, per esempio che gli Africani si aspettavano da me informazione e formazione, si aspettavano che li aiutassi a crescere come persone umane, che li aiutassi a guardare aldilà del loro mondo; gli Africani si aspettavano da me quindi un’introduzione a saper leggere la realtà del mondo di oggi, il mondo in cui vivevamo in quel momento e riflettere insieme lasciando spazio anche alla loro libertà e alla loro creatività. Da allora mi sono sempre lasciato un po’ condurre da loro, nel senso che le iniziative che facciamo qui, sono tutte nate o direttamente dagli Africani o come risposta a richieste che venivano da loro. Non abbiamo mai fatto progetti pensati qui e portati giù, ma neanche io ho pensato progetti per la gente in mezzo alla quale vivevo. Ho lasciato che fossero loro a interpellarmi e poi insieme abbiamo reagito di fronte alla realtà che avevamo intorno. Così sono nati i progetti per i bambini di strada, sono nate le comunità che cercano di fare un servizio alla gente che hanno intorno. Così sono nate anche le cose più banali e più semplici, le attività sportive per i giovani che cerchiamo di organizzare nel nostro quartiere. Così è nata la scuola di computer, le diverse attività di impegno; così sono nate per esempio anche le attività di microcredito perché sono state richieste che ci sono venute dalla gente. In questo modo ci siamo trovati coin-
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volti in centri per bambini di strada, adesso ne abbiamo uno a Lusaka e tre a Nairobi dove facciamo accoglienza per i bambini che sono nelle situazioni più disperate e tutto un lavoro di crescita umana a quelli che ai bambini sono collegati; perché i bambini hanno delle mamme, hanno una qualche forma di famiglia che sopravvive alle spalle, hanno dei fratelli maggiori, delle sorelle maggiori e adagio adagio, attraverso i bambini, cerchiamo di raggiungere tutte le persone che in qualche modo ci pongono delle richieste, ci interpellano per fare degli interventi. Ma sempre insieme agli Africani, sempre con loro, sempre con la loro comunità. Nella realtà in cui vivo io, abitualmente sono l’unico non Africano. Così è stato anche con i Nuba. Quando sono arrivato in Kenya nell’88, il movimento di liberazione di allora faceva prigionieri missionari (ho avuto alcuni dei miei confratelli che sono stati prigionieri, anche se nessuno è stato in nessun modo né ferito né ucciso). Era una situazione di grande difficoltà, quindi sono stato portato ad interessarmi e poi mi è stato richiesto ad un certo punto di fare da intermediario in alcune situazioni difficili: mi sono allora prestato ad andare in Sudan dove non era ancora rientrato nessuno dei missionari dopo l’espulsione nel 1964 e poi le difficoltà del 1983. Allora un giorno, come racconto nel libro, viene nella casa della mia comunità a Nairobi, bussa alla porta un signore di poco più di 40 anni e mi dice: «Io sono Yusuf Kuwa, sono il leader dei Nuba e sono venuto a chiederti se vieni a visitarci perché ho sentito che tu vai in posti difficili, in posti dove magari gli altri missionari non intervengono e se tu vuoi io ti invito a venire in mezzo a noi. Ci sono delle comunità cristiane, ci sono dei Cattolici che hanno bisogno di aiuto». E lì è incominciato il mio coinvolgimento con i Nuba ed è cominciato qua anche il coinvolgimento di Gian Marco e di Amani. Da notare Yusuf Kuwa (purtroppo è morto nel 2001 di cancro) era mussulmano ed è venuto a chiedere il mio intervento, a chiedermi di andare ad aiutare i Cristiani che vivevano nelle aree controllate dal movimento di liberazione. Non è stato facile perché le montagne in cui vivono i Nuba (in realtà sono delle colline più che delle montagne che arrivano fino ai 15001800 metri d’altezza partendo da una pianura che è a circa, mediamente, a 400 m a livello del mare) sono posti isolati, con due grandissimi ostacoli naturali: a sud ci sono le paludi e il Nilo da attraversare, a nord c’è il deserto. I Nuba sembra che siano arrivati lì venendo da diverse parti dell’Africa, questo spiega perché ci siano tante lingue: la popolazione è di circa 2 milioni di abitanti e parlano tante lingue diverse perché sembra che abbiano tante origini diverse. Questo è rimasto per secoli un pezzo incontaminato d’Africa, dove gli Inglesi avevano proibito ai missionari di operare, avevano tenuto questa zona anche avvalendosi delle difficoltà geografiche di accedervi come una specie di zoo
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umano, cui non si poteva entrare. I Nuba furono fatti conoscere al mondo da due grandi fotografi. Rogers, un inglese che alla fine degli anni ’40 aveva riportato da una visita sui monti Nuba delle splendide fotografie; e poi dalla famosa fotografa tedesca, che è morta l’anno scorso e che aveva oltre 100 anni, Leni Riefenstahl e che negli anni ’70 ne aveva fatto delle splendide fotografie a colori. Quando a me è venuto questo invito, non è parso vero di poter andare a vedere questa gente di cui avevo letto, avevo studiato. Allora ci siamo organizzati, come dicevo non è stato facile. La prima volta dovevamo entrare io, Gianmarco e altri due o tre amici e ci hanno informato che non si poteva andare perché c’era in corso una battaglia nel posto in cui avremmo dovuto atterrare. Un particolare da notare: stiamo parlando del Sudan che è un paese di 2 milione e mezzo di km2, quindi è più grande dei 15 paesi della Comunità Europea, nove volte l’Italia. Quando parliamo dei Nuba parliamo di una zona che è grande come l’Austria con 2 milioni di persone. Andarci da Nairobi significa fare 1000 km per raggiungere il confine con il Sudan e poi fare 1200 km per arrivare nel centro del paese. Quindi ci sono difficoltà notevoli da superare, in un paese in guerra, in un posto che il governo aveva dichiarato off-limits, non si poteva accedere, era proibito agli stranieri accedere, non volevano che nessuno vedesse quello che stava succedendo. Quindi si era lì illegalmente. La seconda volta che abbiamo tentato di entrare, l’ho fatto con un dottore italiano, il dottor Meo di una piccola ONG di Torino, il CCM, era il maggio del ’95: il dottor Meo è andato dentro prima, in una zona più sicura, è stato lì per una settimana. Io dovevo raggiungerlo con un aereo e dovevamo procedere insieme per i Monti Nuba. Invece quando sono arrivato dove lui era, ho scoperto che era stato fatto prigioniero dai governativi mezz’ora prima e poi era stato portato a Karthoum (forse qualcuno di voi se la ricorda la storia) ed è stato per cinquanta giorni prigioniero del governo mentre il nostro ministero degli esteri tentava di intervenire per ottenere il rilascio: poi è stato rilasciato per l’intervento del ministero. Finalmente siamo entrati nell’agosto del ’95 e abbiamo trovato questa realtà dal punto di vista umano e cristiano veramente straordinaria: prima di tutto la maggioranza dei Nuba, Mussulmani, che conviveva con una minoranza di Cristiani e di Cattolici senza nessun problema di convivenza tra di loro. Anche se il governo cercava di imporre la sharia, la legge islamica, la religione islamica, la lingua araba su tutti, però non ci sono riusciti perché tutti si sono rifiutati all’idea che Dio fosse di parte. Un grande rispetto per tutti, un grande rispetto per tutte le religione, veramente una grande lezione di civiltà. In un posto dove un governo stava cercando di usare la religione per dividere, questa gente poteva
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convivere tranquillamente avendo per esempio nella stessa famiglia i genitori mussulmani, due figli cristiani, due figli delle religioni tradizionali, altri due o tre figli che seguivano l’Islam. Questo senza che costituisse un problema per nessuno. Una grande lezione veramente, in un mondo dove si cerca di fare diventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più che per unire. E poi come comunità cattolica abbiamo trovato i pochi Cattolici rimasti, dopo dieci anni che non vedevano un prete, in una situazione di persecuzione da parte del governo, che avevano fatto miracoli, avevano creato altre comunità, avevano continuato ad espandersi e avevano fatto un lavoro in profondità anche di crescita per le persone umane in genere. In questa realtà, così come poi è descritta nel libro, con l’evoluzione che c’è stata in questi dieci anni, dal ’95 a oggi, abbiamo visto, all’inizio, un vero e proprio tentativo di genocidio, da parte del governo di Karthoum, di eliminare il popolo Nuba. Ad un certo punto il governo, quando ha visto che anche i Mussulmani Nuba non accettavano le imposizioni governative, ha decretato la jihad, la guerra santa, contro tutti i Nuba, anche contro i Nuba Mussulmani, perché il sillogismo era “siccome si ribellano ad un governo che è un governo mussulmano, non sono Mussulmani veri, sono eretici e devono essere eliminati”. Questo era la posizione del governo di Karthoum. Quindi abbiamo visto per qualche anno un tentativo sistematico di annientare i Nuba, impedendo che la gente ricevesse aiuti medici, favorendo la diffusione delle malattie, cercando di far morire i Nuba per la guerra, facendoli schiavi, favorendo la violenza sulle donne per creare una generazioni di bambini che non fossero più Nuba autentici geneticamente. Quindi tutto un sistema metodico per eliminare i Nuba. Quando sembrava che il governo si fosse ormai rassegnato al fatto di non riuscire ad eliminarli, c’è stata la morte di Yusuf Kuwa, nel marzo del 2001, e si è scatenata una grossissima offensiva militare per cercare veramente di dare l’ultimo colpo alla resistenza Nuba, con 8 colonne militari che si sono mosse contemporaneamente per accerchiarli e distruggerli. A questo loro hanno resistito, con gravi perdite, finché il governo si è ritirato e finché poi finalmente si è incominciato a parlare di pace. C’è stato prima un cessate il fuoco nel gennaio del 2002, poi, nel gennaio di quest’anno è stata firmata una pace comprensiva di tutto il Sudan. Quindi in questo momento c’è pace, non siamo sicuri che sia una pace che durerà a lungo perché il trattato è estremamente complicato, ha clausole difficili, complicate, minuziose, prevede nei dettagli come si svilupperà il cammino che dovrà essere fatto per andare verso un referendum tra sei anni: e sei anni sono lunghissimi e può succedere ancora di tutto. Il modo per aiutare i Nuba in questo momento e aiutare tutti i Sudanesi perché restino in pace è di tenere gli occhi puntati su di loro, far percepire al governo che c’è un’attenzione interna-
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zionale e che quindi devono stare attenti prima di fare dei passi indietro. Però purtroppo c’è il gravissimo problema del Darfur, che non è problema nato a caso: lì c’è il petrolio e poi la cosa ancora più grave è che questo problema è nato poche settimane dopo che le due parti si sono sedute al tavolo della pace, che i ribelli del sud e il governo di Karthoum si sono seduti al tavolo della pace. Tutto fa pensare che ci siano delle forze che non vogliono la pace in Sudan. Per ragioni diverse la guerra fa comodo, l’instabilità fa comodo e quindi il Darfur è usato come pretesto, come impedimento ad una pace duratura. A differenza di quello che succedeva nelle altre parti del Sudan, per esempio sui monti Nuba (dove c’era una guerra di cui tutti erano consapevoli, cioè i Nuba sapevano benissimo perché erano in una posizione di resistenza contro il governo di Karthoum, erano consapevoli che la loro era una lotta per non essere arabizzati, per non diventare fondamentalisti mussulmani), in Darfur l’impressione è che la povera gente che è morta fino ad ora, forse 200.000-300.000 persone in questi ultimi due anni, si è trovata in mezzo a due gruppi che si fanno la guerra ma senza sapere il perché. Poche settimane fa, ho trovato un piccolo mercante arabo del Darfur, Arabo culturalmente, dal punto di vista etnico molto nero, una persona senz’altro con tantissimo sangue nero delle genti del sud: era un piccolo mercante in un villaggio del Darfur e lui mi diceva, mi raccontava la sua storia, che il suo villaggio è stato attaccato e distrutto all’inizio del conflitto e nessuno aveva capito perché. E non lo sapranno mai perché sono morti prima di poterci pensare. Raccontava come sono venute delle milizie che hanno chiamato Janjawid, che vuol dire diavoli a cavallo. Questi Janjawid sono arrivati e hanno messo il villaggio a ferro e fuoco, hanno incendiato le capanne, hanno ammazzato tutti quelli che vedevano in giro. Lui si è salvato con una ferita alla gola, che hanno tentato di tagliargli (è stato fortunatissimo, si vede che gli è uscito il sangue ma la ferita non era sufficientemente profonda. E gli hanno dato una pugnalato al cuore, ma non l’hanno preso al cuore. Ha una ferita ancora molto visibile, molto grossa appena sopra il cuore e l’hanno lasciato per morto). Sarebbe morto se non fosse stato che una sua vicina di casa, che per caso era una donna Nuba e chi si era sporcata involontariamente del sangue dei suoi familiari e a quel punto i Janjawid pensavano che fosse morta perché era tutta coperta di sangue. Questa donna, quando tutti sono andati via, si è alzata, è andata in giro a vedere se ci fosse qualche sopravvissuto, ha trovato questo signore che si chiama Mohamed Ali Mohamed (più mussulmano di così!): e questa signora ha caricato Mohamed su un asinello e l’ha portato ad Al Junaynah che è la capitale della regione in cui si trovava il loro villaggio. Ma senza sapere perché. E moltissima gente in Darfur è morta così, senza sapere perché questa guerra si è scatenata su di loro.
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Noi, come Amani, come Koinonia, il gruppo di Nairobi, il gruppo degli Africani di Nairobi, cerchiamo di fare qualcosa per reagire in queste situazioni e per tirar fuori le risorse più belle, più genuine, più autenticamente africane. Sono loro che reagiscono, che si inventano cosa fare in queste situazioni. Da queste cose sono nate le scuole, sui monti Nuba, sono nate le case per i bambini di strada, sono nate tutte le attività che vi dicevo. Direi che mi fermo qui, lascio parlare un po’ Gianmarco che spieghi un più in dettaglio i progetti, le cose che facciamo. Gianmarco Elia Io in realtà sono un fotografo, da ormai 12 anni. Prima ho avuto un’esperienza a Milano, per 6 anni ho lavorato con i ragazzi del carcere minorile e mi sono avvicinato alle storie dei bambini di strada. Conoscevo Kizito da molti anni perché nel ’87 e nell’88 ho passato due estati dove lui lavorava in quel periodo in Zambia: e così la nostra amicizia è iniziata in questo modo con un viaggio, che consiglio a tutti voi, di venire verso l’Africa e di cominciare così un rapporto (prima ancora di dare del denaro, prima ancora di aiutare, prima ancora di pensare a come fare per sostenere queste iniziative). Credo che, così, un rapporto umano, fatto da un incontro, faccia una bella differenza. La nostra vicenda è iniziata così, alla fine del ’94, quando ci siamo ritrovati dopo 6 anni in cui ero rimasto immerso nel mondo della cosiddetta criminalità giovanile o dei cuori violenti giovani di Milano del carcere Beccaria: e abbiamo cominciato a pensare a come intervenire insieme con un gruppo di persone di Nairobi, che provenivano da tutto il Kenya, con qualche buon progetto educativo per i bambini di strada. Poi sono venuti i Nuba, come ha raccontato Kizito, ma soprattutto è venuta un’avventura, per persone come me. In quel periodo ho poi cominciato con la fotografia in modo professionale, oggi lavoro soprattutto per Repubblica, per la parte esteri, quindi ho ancora fortunatamente l’opportunità di viaggiare in molte parti dell’Africa e non solo. E trovo moltissima positività, energia straordinaria in ogni paese africano, dove se ci si mette insieme, se ci si allea, in qualche modo si può fare, senza importare dei modelli dall’esterno: si cerca di capire qual è il modello locale e di partire con loro, si possono fare delle cose che respirano a lunga scadenza e soprattutto si vanno a radicare sul territorio. E quindi ormai lavoro a metà tempo e mi sono lasciato coinvolgere in questa vicenda che è cresciuta con gli anni di Amani, di Koinonia, in questi progetti di cui vi abbiamo parlato o possiamo parlarvi; che in realtà non è stato tanto aiutare dei progetti africani a crescere, ma siamo cresciuti noi come persone umane e forse abbiamo capito qualcosa di più. L’Africa, nel mio caso, è stato un valore aggiunto nella mia vita più che aiutare qualcun altro, ha
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soprattutto aiutato me nel mio modo di quadrare le cose, di cercare di capirle e ha aiutato un po’ anche la mia umanità, credo. Indubbiamente mi ha aiutato come fotografo perché mi ha dato l’opportunità di raccontare i Nuba su tantissimi periodici, italiani e non solo, ma poi mi ha permesso molte volte di viaggiare tra di loro e questo è stato un bene straordinario, un dono straordinario. Noi tentiamo di fare cooperazione in modo un po’ impopolare perché non veniamo qui con dei manifesti con dei bambini che stanno morendo dicendo che se voi non intervenite e non ci date dei soldi moriranno domani, cosa probabilmente vera: però secondo noi non si fa così, innanzitutto per una questione di dignità umana. Le persone in quanto tale vanno rispettate sempre e comunque, ovunque esse siano. Poi perché il tema dei soldi è un tema molto delicato che va trattato in maniera chiara soprattutto per raccogliere denaro che non è proprio ma che è altrui e quindi bisogna essere molto chiari, molto trasparenti. Il tema dei costi non è mai scontato ma per noi è un tema quotidiano perché appunto non è un fatto mai scontato e bisogna starci molto attenti. Non bisogna mai parlare male degli altri, mi insegnava mia nonna e mia madre dopo di lei, però io direi che una buona metà (me lo chiedevano oggi anche a Spoleto) di organizzazioni, anche italiane, se chiudessero domani, nessuno se ne accorgerebbe in Africa. Noi ci occupiamo più dell’Africa e parliamo di quello. Sono un po’ autoreferenziali, un po’ nate per se stesse e alla fine se fate un analisi dei costi vi rendete conto che ad esempio le grandissime Nazioni Unite, con tutta la potenza d’intervento che hanno, sono regolarmente (ormai direi dal ’90 in poi perlomeno, ma anche prima) inefficaci: nel caso delle grandi emergenze, se vogliamo guardare a quelle, arrivano sempre tardi, non intervengono mai in maniera tempestiva e, soprattutto nel caso dei conflitti armati, non riescono a porsi come forza reale di interposizione. Fra l’altro in questi giorni c’è sugli schermi italiani Hotel Rwanda che anche da questo punto di vista ci ricorda questo evento. Kofi Annan fu peraltro il principale responsabile del disastro rwandese, oggi è segretario delle Nazioni Unite, cioè come dire che in una struttura che sbaglia e continua a sbagliare e che costa l’80% dei fondi che ha disposizione, nessun funzionario viene rimosso, nessun funzionario che ha sbagliato gravemente viene spostato, anzi fa un bel avanzamento di carriera. Detto questo, ci sono strutture pesanti e secondo me abbastanza inutili e bisogna proprio ripartire a pensare la cooperazione proprio come un rapporto umano tra persone, partendo da piccole realtà. E noi stiamo tentando, non senza problemi, con tantissime imperfezioni, perché non siamo così bravi, proprio di partire da questa idea e da un rapporto umano. È chiaramente una vicenda molto più lenta, possiamo incidere nella vita forse di qualche decina di persone, creando
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per loro delle occasioni: però ci sembra che sia una strada interessante da percorrere. Sicuramente lo è per noi e ci sentiamo un po’ meglio noi nel lavorare in questo modo, anche perché appunto ognuno di noi continua a mantenere (con fatica devo dire, perché l’associazione cresce, dopo tanti anni; oggi abbiamo una decina di gruppi, sparsi per l’Italia, che fanno un lavoro continuo, coordinati, non è semplice) il proprio lavoro e la propria professione, quindi dedicando tempo, energie, un po’ di denaro a questi progetti. Un incontro tra una società civile keniana, zambiana e sudanese e una società civile italiana e pensare insieme un modello, ripeto, un po’ impopolare. Però meglio fare un incontro con trenta persone che fare delle campagne che magari rendono un milione di euro, perché poi oggi purtroppo le organizzazioni ragionano in termini di resa, di fund-raising, così come viene definito. Oggi nascono delle scuole per le organizzazioni non governative del terzo settore (che è una realtà importante in Italia) per capire come raccogliere i fondi e come fare i soldi: cosa anche importante però, ripeto, che va trattata con delicatezza, perché il tema della raccolta fondi è diventato predominante, quasi una religione per le organizzazioni, mentre invece i temi portanti, quelli che dovrebbero essere discussi quotidianamente in un’organizzazione come la nostra, penso proprio che siano altri. Il denaro rimane certamente importante, perché senza denaro non si fa nulla: noi le case le abbiamo costruite, abbiamo strutture importanti, i bambini dormono in letti, con coperte, hanno persone che si occupano di loro in modo professionale, etc. etc. e questo costa. Però c’è modo e modo. E poi ci sono di mezzo le persone. Niente, io non aggiungo molto, mi chiamo Gianmarco Elia, non l’ho detto, perché poi una delle cose che mi hanno insegnato in Africa è che innanzitutto ci si presenta. Vengo dal Gianbellino che è un quartiere di Milano e ho vissuto a Riruta, che è un quartiere di Nairobi, metà di questi dodici anni, circa sei mesi all’anno ormai. Vi ho portato in regalo la cosa più bella dei Nuba che sono delle bellissime immagini: i Nuba sono diventati famosi per questo, come diceva padre Kizito poc’anzi. Quest’anno noi abbiamo festeggiato, dire celebrato è quasi troppo importante, i nostri 10 anni di rapporto con i nostri amici Nuba, appunto 10 anni dal primo volo e lo abbiamo fatto con le foto straordinarie di un amico inglese, un fotografo molto noto nel suo paese, che è Davis Stewart Smith. Ogni anno noi realizziamo un calendario di autore, abbiamo ospitato fortunatamente nomi di fotografi di fama internazionale: Stewart Smith quest’anno ci ha donato le sue immagini, sono rimaste ancora alcune copie, non bastano per tutti ma io ve le regalo volentieri. Così vedete i Nuba, belli come sono! E grazie per essere venuti a passare una serata con noi e ascoltare temi non tanto popolari. Gli ospiti rispondono alle domande e agli interventi del pubblico
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Primo intervento Volevo sapere qualcosa di più sul tipo di adozione che avete prima descritto e che adottate in Africa. Secondo intervento Una domanda sul Darfur. Diceva prima che la popolazione del Darfur non sapeva bene le cause che hanno portato alla guerra. Qui c’è un’altra persona che queste cause non le sa certo molto bene, quindi se è possibile avere un pochino più di spiegazioni. Terzo intervento Una domanda più generale e una più specifica. Vorrei sapere se la vostra associazione si limita ad un’opera di volontariato e assistenzialismo oppure cerca di influire in qualche modo e cambiare anche la situazione politica e sociale all’interno del paese, creando magari delle correnti di opinioni critiche ad esempio contro il governo (perché, come sappiamo, questi paesi non sono poveri paesi in sé, ma poveri anche perché sono sfruttati da un governo corrotto che detiene tutta la ricchezza, da multinazionali e affini, altrimenti questi paesi starebbero bene e anche la popolazione). E poi una domanda più specifica. Vorrei sapere che influenza ha avuto la religione e l’educazione cattolica, sulla cultura e sulle tradizione del popolo Nuba. E inoltre a padre Renato, lei da Cattolico, cosa ne pensa della posizione ufficiale della Chiesa che vieta l’uso dei contraccettivi e quindi divieto che come sappiamo in Africa è causa di milioni di morti anche per l’Aids. Grazie. Gianmarco Elia L’adozione l’abbiamo pensata collettiva perché ci siamo resi conto che c’è una visione dell’adozione a distanza pensata in molti casi (chiaramente non si può generalizzare) come un rapporto sbagliato. Spesso riceviamo telefonate di persone che, per il fatto che davano, a distanza, una mano a crescere un bambino, volevano sapere tutta una serie di cose personali su di lui, sulla mamma (che magari era ridotta in prostituzione), con anche tutta una serie di dettagli che non ci pare il caso di raccontare. Le storie personali, soprattutto quelle dolorose, vanno rispettate, sono patrimonio di una persona e non è giusto divulgarle in nessun modo. Inoltre era diventato un po’ anche un meccanismo faticoso, cioè il fatto che io ti do del denaro mi dà il diritto di sapere, di controllare la persona, di sapere il perché, l’origine, e allora perché la madre non fa questo, etc. Ancora una volta quella visione tutta personale che noi abbiamo, delle soluzioni a distanza, senza mai nemmeno aver conosciuto quei luoghi e quelle persone ed il come bisognerebbe fare. Quindi è un po’ faticoso di fondo.
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In generale poi perché siamo abituati ad avere dei posti molto grandi, molto accoglienti, dove ad esempio la casa per i bambini di strada (che nasce come una casa per i bambini di strada) oggi è un centro dove al lunedì alla domenica entrano ed escono duemila persone: c’è un dispensario, c’è un gruppo di donne che fa una produzione di abiti, ci sono i gruppi che fanno microcredito, che è una banca di accesso per le persone che hanno un livello bassissimo di reddito; c’è un gruppo di produzione di artigianato con produzione diversa, con vari soggetti e varie capacità, c’è una scuola di meccanica, il dispensario, non so se l’ho detto, con un medico tra l’altro che ha fatto l’università a Perugia e parla perfettamente l’italiano. C’è una scuola di computer, c’è un mondo molto vasto dove c’è soprattutto una massa di persone, qualcuno ha nominato l’AIDS, che si presenta al cancello e che chiede ogni giorno un aiuto. E noi siamo una presenza nel quartiere direi quasi unica e il quartiere ha ottantamila abitanti. Sono città in realtà: noi pensiamo alle baraccopoli come dei quartieri forse sulla dimensioni dei nostri. Sono in realtà delle città, spesso molto più grandi della media delle città italiane: Kibera ha ottocentomila abitanti in pochi ettari, Mathare ne ha duecentomila. Tutta la cintura della città di Nairobi è fatta di città, di baracche dove vive la maggiorparte della popolazione. Per queste persone siamo un riferimento e, sulla base di un budget che viene richiesto ad Amani dal gruppo che lavora in Kenya, cerchiamo di rispondere. E quindi le adozioni a distanza, le donazioni libere per quel progetto, vanno a rispondere alle varie esigenze, alle varie iniziative di quel progetto e di quella porta, di quel cancello a cui un sacco di gente bussa ogni giorno e ogni settimana. Una volta la gente veniva a chiederti, fino a pochi anni fa, magari un aiuto per mangiare perché non si mangiava in casa per una settimana. Oggi magari ti chiedono aiuto perché hanno un parente da seppellire in casa da sei o sette giorni e non sanno come fare per una bara o per un trasporto, per portare il corpo al villaggio d’origine e cose di questo genere. È cambiata un po’ anche la dimensione dell’aiuto e anche della richiesta. Ci sembra che questo vada giocato, se si può usare questo termine, con grandissima delicatezza e attenzione e quindi adottare un luogo, un progetto è forse meglio che voler avere un rapporto che poi non c’è, con un bambino che è lontano e con la pretesa della letterina. Un bambino a dieci anni deve giocare nel tempo libero che ha e studiare quando è a scuola e stare più sereno possibile, recuperare un rapporto affettivo con chi si sta occupando di lui, con dei genitori e dei parenti che andiamo a cercare, con cui cerchiamo di riallacciare dei rapporti; e non deve scrivere delle lettere finte che spesso poi sono costrette le suore a scrivere, o chi si occupa dei bambini pur di non perdere l’aiuto e il contatto con quella persona. Ma cosa ne sa del contesto che c’è qui e delle risposte che noi ci aspettiamo? E
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poi perché scrivere in maniera così forzata a qualcuno che gli sta pagando una scuola? Si crea un rapporto sbagliato e un meccanismo un po’ finto. Quindi andiamo forse in una dimensione più reale. Lasciamo che i bambini siano bambini finché possono e noi facciamo quello che possiamo per mantenere la realtà così com’è. Padre Regnato Kizito Un esempio. Io ho avuto, sembra assurdo, una persona di Milano che un giorno mi ha chiamato tre volte al telefono, chiedendo di parlare con il bambino che aveva adottato. Quando finalmente alla terza volta il bambino, Moses, era presente e ha parlato con lui, io naturalmente gliel’ho passato. Il ragazzino, Moses, dopo mi dice: «Questo parla italiano, io non capisco mica!» E io allora: «Scusi, deve parlare inglese con il nostro ragazzino» «Ma come, non insegnate l’italiano?». Non è la nostra prima preoccupazione insegnare l’italiano ai bambini di Nairobi! A volte si innescano meccanismi veramente che poi diventano pesanti e difficili da controllare. (risposta al secondo intervento) Allora, volevi saperi le cause del Darfour o del Sudan in genere? Ne parliamo in sintesi, perché è veramente complicato entrare nei dettagli. In Sudan, paese di grandi dimensioni geografiche, gli abitanti in totale sono solo circa tre milioni. Però in questo paese, e questa è una cosa che è un indice incredibile della diversità che c’è, si parlano almeno (normalmente si dice) 652 lingue diverse, e sono lingue diverse, non sono dialetti. E ad una lingua corrisponde una cultura, una mentalità, un modo diverso di vedere la vita, etc.etc. Questo ti da una prima risposta. C’è un pluralismo di culture, di religioni, di situazioni, che tutti i governi che si sono succeduti a Karthoum hanno visto come un ostacolo contro l’unità del paese e hanno visto come un incubo piuttosto che vederlo come una ricchezza, piuttosto che vederlo come una grande risorsa. E quindi ha fatto continuamente una politica di unificazione e di imposizione. Tutti devono parlare l’arabo, tutti devono essere Mussulmani, tutti devono vestirsi alla mussulmana possibilmente. Questa imposizione ha causato tanto malcontento e tante reazioni. Ci sono ragioni di origine storica, le genti del nord sono state per secoli gli schiavisti di quelle del sud. E la cosa è radicatissima. Per esempio per molta gente del nord, dire Nuba e dire schiavo è la stessa cosa, sono sinonimi. I Nuba erano gli schiavi per antonomasia. E questo è ancora profondamente radicato, è una ragione profonda di divisioni. Quindi alla base c’è una diversità culturale e delle ragioni storiche che fanno sì che sia stato un errore clamoroso mettere questi due gruppi di popoli in quello stesso contenitore che il colonialismo inglese ha chiamato Sudan. Una cosa forzata dall’esterno (come
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tutti gli stati africani), uno stato inventato dai colonialisti, seguendo delle logiche che non hanno niente a che fare con le logiche locali. Tantissimi dei problemi che ci sono in Africa derivano ancora da questi confini insensati. Una cosa che cito sempre ma che veramente da la misura delle ragioni per cui si facevano i confini: il confine tra il Kenya e la Tanzania, se guardate la cartina geografica, era una linea retta dal lago Vittoria al mare. Era una linea retta. Adesso è una linea retta che ad un certo punto fa una curva e poi torna a fare una linea retta perché gira intorno al monte Kilimangiaro, perché il Kilimangiaro era in Kenya (in quello che poi gli inglesi hanno chiamato Kenya). Quando la regina Vittoria ha avuto un nipotino che era il Kaiser della Germania, gli ha regalato il Kilimangiaro: allora hanno modificato il confine e sono andati attorno al Kilimangiaro perché la Tanzania era sotto i tedeschi. Cioè i confini venivano fatti con questi criteri. Questi sono le ragioni di tanti conflitti africani oggi. Diciamo che la ragione fondamentale in Sudan è, secondo me, una questione di diritti umani. Tra i diritti umani c’è anche il diritto alla libertà religiosa. Però fondamentalmente è proprio una questione di essere riconosciuti come persone che hanno diritti umani. I Sudanesi del sud, da quando c’è la dipendenza dal 1956, non hanno mai veramente votato, non hanno mai avuto veramente la possibilità di esprimere che cosa vogliono fare di se stessi. È quindi una questione fondamentalmente di diritti umani. A rendere più complicato questo discorso si sono poi aggiunti gli interessi economici e soprattutto gli interessi esterni. Si è aggiunto per esempio la scoperta del petrolio nel sud nell’82-’83, che ha portato alla corsa al petrolio sudanese, e adesso anche alla corsa del petrolio del Darfur. Il governo ha annunciato 15 giorni fa che c’è il petrolio. Si è aggiunto il problema degli interessi di tutti i paesi vicini per la questione delle acque del Nilo. Voi sapete, si dice che le guerre di questo secolo, se ci saranno, si combatteranno per l’acqua. Per esempio c’è una convenzione, sconosciuta alla maggioranza della gente anche dei paesi che sono interessati, firmata nel 1959 (quando quasi tutti questi paesi erano ancora sotto i diversi poteri coloniali) che dice che le acque del Nilo sono riserva esclusiva dell’Egitto. Quindi il Kenya, che è un paese rivierasco del Nilo (perché il Nilo nasce dal lago Vittoria), tutti i paesi rivieraschi del lago Vittoria, più il Sudan e l’Etiopia (dove nasce il Nilo Blu) sono soggetti a questa convenzione che non permette loro di usare le acque del Nilo. Il Kenya che ha ragioni aride molto vaste vicino al lago Vittoria (e lo stesso vale per la Tanzania), non può usare le acque del lago Vittoria per irrigazione perché le acque del lago Vittoria appartengono all’Egitto. L’Egitto ha causato altre complicazioni opponendosi, per esempio, alla divisione del Sudan in due paesi, perché preferisce trattare con un paese a monte piuttosto che con due. Ci sono
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entrati tanti elementi di geopolitica e di economia internazionale che hanno contribuito a dividere piuttosto che unire, a creare una corsa alle ricchezze del Sudan. Per gli interessi occidentali, se entriamo nei dettagli, negli ultimi dieci anni, la Francia è sempre stata al supporto del governo di Karthoum. Le compagnie francesi hanno scoperto il petrolio nel sud del Sudan alla fine degli anni ’70 e hanno sempre mirato a controllare le stazioni del petrolio. Poi sono subentrati i Cinesi. Le alleanze in queste cose cambiano. Quando c’era Numeiri, che era un regime a Karthoum estremamente repressivo, gli Americani erano alleati con lui. Negli ultimi dieci anni sono stati invece alleati con il movimento di liberazione. La storia del Sudan in questo senso è estremamente complicata perché le alleanze sono cambiate mille volte. Ad un certo punto, 3-4 anni fa, prima che si firmasse il trattato di pace, il petrolio era estratto da un insieme di compagnie: i Canadesi fornivano le tecnologie e hanno fatto gran parte dell’oleodotto, i Cinesi, i Malesi. Sono entrate all’ultimo momento e poi sono uscite quasi subito le compagnie statali dell’Austria e della Svezia. Cioè tutto il mondo! Il problema non era un problema politico, il problema era riuscire a mettere le mani su questo petrolio. Gli Americani, perché sono intervenuti pesantemente perché si facesse la pace? Meno male per la pace, no! Ma perché con la guerra, loro si erano trovati alleati al movimento di liberazione ed erano esclusi dal petrolio, perché il petrolio era nelle zone controllate dal governo. Allora hanno forzato a tutti i costi la pace e adesso arriveranno anche le compagnie americane. Quindi c’è tutto un intreccio di problemi. Lo stesso per il Darfur: la guerra del Darfur, secondo me, è stata voluta da chi non voleva la pace, come certe forze al governo di Karthoum, come probabilmente i Cinesi, perché la pace vuol dire che arriveranno anche gli Americani e inevitabilmente si prenderanno anche loro una grossa fetta. A questi erano alleati alcuni signori della guerra del sud, perché la fine della guerra vuol dire la fine dei loro introiti, hanno semplicemente voglia che la guerra continui per continuare a vivere sulla guerra. Questa è gente che ormai ha fatto la guerra per venti anni e se questa finisce perdono tutto il potere. Quindi c’è una serie di interessi tutti molto molto complicati che stanno giocando in Sudan.
(risposta al terzo intervento) Non so se ho capito bene la domanda sull’influenza del Cristianesimo sui monti Nuba. Direi che l’influenza è molto piccola al momento, nel senso che i Cristiani restano una minoranza e quindi non hanno una voce determinante in nessun campo per quanto riguarda i Nuba. Restano una minoranza, significativa, impegnata. C’è, probabilmente tra i Cristiani, una percentuale più alta di giovani istruiti, perché valorizzano e tengono di più alla scuola, però comunque
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non è una minoranza che ha una voce forte. Per quello che riguarda la posizione della Chiesa, direi che ci sono un po’ di miti da sfatare. Prima cosa mi sembra un po’ esagerato dire, come pure si legge normalmente sulla stampa italiana, che migliaia o milioni di Africani muoiono perché la Chiesa è opposta all’uso dei preservativi. Prima di tutto, la Chiesa chiede la fedeltà coniugale e chiede l’astinenza a chi non è sposato. Quindi chi dovesse seguire l’insegnamento della Chiesa, non si mette a rischio di Aids. Questo è quello che insegna la Chiesa. In secondo luogo, probabilmente la Chiesa non ha questa influenza e questa capacità di determinare le scelte degli Africani che stranamente le si attribuisce quando si parla di questo argomento. Non credo che ce l’abbia. Ci sono anche lì tante cause concorrenti, molto più complicate di quello che abitualmente si dice. Per esempio, ne nomino qualcuna che mi viene a mente a caso, le avevo un po’ elencate nel libro “La perla nera”. Per esempio, in Kenya la tribù più devastata (il popolo, diciamo, perché poi è un popolo di almeno 4 milioni, forse 6 milioni di persone) dall’Aids sono i Luo. Addirittura i Luo erano il secondo popolo numericamente del Kenya ma il crollo è stato così grande che oggi sono il terzo. Hanno veramente ricevuto una batosta tremenda dall’Aids. Per quale ragione? Perché abitualmente, anche quelli Cattolici (e questo dimostra che per esempio che l’insegnamento della Chiesa non è poi così determinante come si presume) i Luo applicano il levirato, come nell’antico testamento: se un uomo muore, la moglie o le mogli vengono ereditate da uno dei fratelli, con leggi, regolamenti, etc. Ora cosa succede se un uomo muore di Aids? È molto probabile, se ha una moglie o due, che esse siano infette, siano seriopositive e passano al fratello minore. Il fratello minore diventa seriopositivo e così via. Interi villaggi sono scomparsi nel giro di pochissimi anni per questa logica e non ha niente a che vedere con l’insegnamento della Chiesa. Un altro fattore culturale che ha giocato è che gli Africani, ancora adesso, nei villaggi, fanno una grande fatica a credere che un’azione che tu fai oggi possa avere come conseguenza una malattia che ti colpisce tra cinque anni o dieci anni. La mentalità africana, la cultura africana è una cultura che è molto sofisticata nelle relazioni con il passato ma è rispetto a noi molto più schematica nelle relazioni con il futuro. Questo lo vedi dalle lingue, se tu prendi le lingue africane vedi che per esempio spesso hai 10, 12, 15 modi per parlare del passato: nella lingua kikuio addirittura mi dicono che ci sono quasi 80 modi per parlare del passato, cioè c’è una modalità verbale che se tu la usi fai capire al tuo interlocutore per esempio che adesso mentre sto parlando è mattina e il fatto a cui mi riferisco è dell’altra sera. C’è una precisione incredibile quando si parla del passato. Quando si parla del futuro ce n’è uno solo, e il futuro fini-
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sce per quasi tutti i popoli alla prossima stagione delle piogge, non va più in là. Quindi culturalmente per esempio è molto difficile che gli Africani, quelli che vivono nella cultura tradizionale, piantino alberi. L’albero da frutto che dà frutto tra cinque, dieci anni. È un’eternità, non puoi controllarlo, sarai morto, non si va aldilà della prossima stagione delle piogge. Questo ha creato un’enorme difficoltà a far capire gli effetti dell’infezione, del diventare serio positivi che può provocare la morte dopo qualche anno di una persona. Non è visto come credibile, ancora oggi, da moltissime persone. Ci sono tutta una serie di barriere che hanno giocato contro questo, purtroppo, e che veramente sono state devastanti nella diffusione dell’Aids. Tra l’altro queste barriere dimostrano tutto sommato, che dire che l’insegnamento della Chiesa sia così drastico contro l’uso del preservativo è tutto da discutere: la Chiesa è molto più sfumata su questo, perché alla fin fine si dà la priorità alla coscienza della persona. Quindi il confessore, il padre, può tranquillamente insegnare ad una coppia che tu, in coscienza, se credi che questo sia giusto, fai questo perché è giusto per te. Nel tuo va bene così, come è stato detto anche pubblicamente da diversi vescovi in Africa. Dunque la situazione è molto complessa e io starei molto attento ad attribuire all’insegnamento della Chiesa la responsabilità dei morti di Aids. In realtà ci sono delle cose di interpretazione controversa. C’è una recente polemica sull’interpretazione di alcune recenti statistiche che sono state fatte in Uganda dove sembra, secondo alcuni, che il crollo della percentuale di infezioni che c’è stato in alcune zone dell’Uganda negli ultimi anni, sia dovuto ad uno sforzo delle chiese (non solo della Chiesa Cattolica) di formazione dei giovani ad una più attenta gestione della loro sessualità in una chiave di valori cristiani. E lì c’è stato un crollo di infezioni. Alcune statistiche non sono del tutto d’accordo, c’è una polemica su questo. Hai per esempio chi non vuole interpretare a favore dell’insegnamento della Chiesa questo crollo di infezioni in Uganda, vale a dire le grosse compagnie che vendono i preservativi e che ti fanno venire qualche dubbio che siano loro che abbiano qualche interesse a vendere i preservativi e a promuovere una forma di mancanza di educazione sessuale vera: la soluzione proposta usa più preservativi possibile, così facciamo gli interessi di chi li produce. Sono cose molto sfumate, molto delicate. Intervento pubblico Volevo aggiungere qualcosa su questo tema. Io sono Shanti, studio adesso a Perugia però sono cresciuta in Africa, vi ho passato 13 anni e 6 e mezzo di questi anni sono stati in Swatziland, che per quelli che non lo dovessero sapere è un microscopico paese tra il Mozambico e il Sudafrica. Allora, i dati ufficiali,
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che ho letto proprio l’altro giorno, sull’Aids e sulla seriopositività in Swatziland, ufficialmente davano il 38% della popolazione infetta, più probabilmente si parla di circa il 43%. Metà della popolazione morirà nei prossimi anni. In Swatziland c’è un regno, una monarchia assoluta, c’è Mswati III e sono pochissimi anni che Mswati III ha finalmente detto, ragazzi questa malattia esiste. Quando eravamo noi lì, all’inizio degli anni ’90, mia madre faceva educazione sessuale con le donne e lì c’erano molte difficoltà anche a causa delle tradizioni: in Swatziland si pratica ed è molto diffusa la poligamia, il re ogni anno sposa una nuova moglie (è una cosa molto folkloristica, piace tanto ai turisti!). E le donne dicevano: «Tu stai dicendo bugie perché sei gelosa, il nostro re ci ha detto che questa cosa non esiste». C’era una grandissima epidemia di tubercolosi nel paese, i più morivano per tubercolosi. E poi un giorno, una donna è andata da lei e le ha detto: «Senti, se quello che tu ci dici è vero, noi qui moriremo tutte. Perché noi non possiamo dire di no ad un uomo, non è nella nostra tradizione, non è nella nostra cultura dire di no». Ora in Swatziland direi che circa il 60% della popolazione appartiene a chiese cristiane, protestanti, metodiste, battiste. E poi c’è una minoranza cattolica. Questo dimostra proprio che andare a dire che la Chiesa Cattolica centra in questo genere di diffusione, almeno questi livelli, è forse una cosa non esatta. Padre Renato Kizito Interessante il caso dello Swatziland e anche il Lesotho, che addirittura, ho sentito recentemente un dibattito a Nairobi, si teme che scompaiano. Ci sono famiglie ormai che sono composte dal fratello maggiore di 14-15 anni e due-tre fratelli più piccoli. Si teme la loro scomparsa e con loro scomparirà la cultura tradizionale, perché non c’è più la trasmissione da una generazione all’altra. Gianmarco Elia C’era una domanda su come ci poniamo noi con le autorità politiche, a quali livelli si propone la nostra azione. Sicuramente uno, lo ripeto, è il livello di redazione, con chi lì sta lavorando e ha pensato i progetti e chi lì viene accolto e chiede un aiuto. Questo è la priorità per noi. Poi dobbiamo stare un po’ attenti, perché se così tanto parliamo dei mal governi africani che per l’amor di Dio ci sono, ci sono stati dei casi in cui probabilmente i leader africani si sono qualificati tra i peggiori al mondo: però io avrei come cittadino italiano una lista di 25 o 30 politici degli ultimi 30 anni, potrei snocciolare i nomi senza difficoltà, di cui vergognarmi assolutamente. Detto questo, dovremo ricordarci anche di figure di assoluta grandezza, come per esempio Nelson Mandela, che aldilà forse di qualche aspetto che qualcuno ha posto in maniera così tanto ideologica, è stata veramente una figura di primissimo piano: uno che, dopo una vita
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quasi, o metà della sua vita passata in prigione, non ha mai alimentato nessun segno di rivalsa, si è fatto da parte dopo un mandato, ha incoraggiato il successore, cioè ha fatto tutto quello che credo il 95% degli uomini politici del mondo abitualmente non fanno. Lui è arrivato al potere, ha detto le cose che aveva da dire, ha tentato di mettere in pratica quello che voleva mettere in pratica dopo una vita in prigionia, in cooperazione in qualche caso con chi lo aveva imprigionato e alla fine del suo mandato è andato a casa. Quando è stato ricevuto in Inghilterra (qui da noi non è stato trattato in questi termini), la stampa britannica diceva che l’unica figura reale presente in quel momento nella nazione nel Regno Unito era quella di Nelson Mandela, senza attribuire nessuna regalità alla regina. Quindi probabilmente io direi l’uomo politico, in assoluto, più grande del ’900, su questo io non ho dubbi, almeno personalmente. Oltre lui, ci sono stati anche molti altri leader positivi. Comunque non neghiamo i problemi, ma ricordiamo anche le figure che il continente ha avuto. Detto questo, c’è stata per esempio, organizzata da Koinonia, con alcune persone, la marcia della pace a Nairobi, che è un tema che voi conoscete bene qui dalle vostre parti, e che lo scorso anno, nel settembre del 2004, è arrivata alla quinta edizione e ha visto la partecipazione del vice-presidente. Cioè si tenta di respirare, dove si può, con la società civile e di coalizzarla, di metterla insieme, e là dove è possibile, di coinvolgere anche le autorità locali: non è facile, perché poi la dimensione dei problemi, nei paesi africani, lo abbiamo visto, aldilà dell’Aids, è effettivamente su larga scala e largamente legato alla povertà materiale. Quindi i problemi sono molteplici. Però a me pare che il gruppo di Koinonia sia un gruppo molto interessante proprio perché tenta di agire a livelli molto diversi. Non abbiamo detto niente stasera del livello della comunicazione, c’è un gruppo, direi eccellente, di giornalisti che lavora in un progetto che si chiama “News from Africa”, che aggiorna le pagine in internet da Nairobi, che sta aprendo un portale che coalizza e coalizzerà decine di organizzazioni che lavorano per i diritti umani e che dall’Africa proporrà una voce autenticamente africana di soluzioni, di proposte, ma soprattutto di analisi e di riflessione, fatte da chi quei paesi li conosce e non da noi qui. Voglio dire, mi pare che i Koinonia agisca davvero a molti livelli. Comunque la priorità rimane un livello di intervento, di progettualità e di risposta ai bisogni della gente, non certo l’intervento politico. Padre Renato Kizito Poi bisogna sottolineare che c’è tanta società civile in Africa, dappertutto, che qui non viene raccontata (sarebbe troppo lungo ora andare a parlare di questo) che però esiste ed è attiva, in paesi diversi, a livelli diversi. In Kenya credo di
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poter dire che sia molto attiva, la marcia della pace, le scuole per la pace, le attività per la giustizia, i seminari, gli incontri, è una società molto viva da questo punto di vista. Gianmarco Elia Consiglio Perla Nera, l’ha scritto tre anni fa Kizito con la collaborazione di un coautore, a me pare che tratti molti argomenti della cooperazione internazionale, dall’Aids al rapporto tra le chiese, anche con i danni che le chiese hanno fatto nel continente africano e anche ad esempio l’atteggiamento di una certa classe politica. Tocca molti temi, secondo me, riguardo il continente, interessanti e trattati in modo intelligente. Attira poco da un punto di vista della grafica ma ha grandi contenuti! Intervento pubblico Casualmente ho letto che in Africa una delle malattie più diffuse e che è causa di mortalità, forse ancora più dell’Aids, è il diabete. È vero oppure è una notizia inventata? Mi ha stupito, perché da noi il diabete è curabile: lì mi hanno spiegato che non si cura perché non hanno l’insulina e quella che viene donata viene poi importata dalle multinazionali. Padre Renato Kizito Onestamente non so le statistiche ma certamente è un grosso problema. Come pure stranamente è un grosso problema l’ipertensione, mentre è un problema meno grave che da noi, notevolmente meno grave, il cancro. Però non sono un esperto in questo campo. Noi abbiamo un medico keniano che viene nel nostro dispensario, che ha studiato qui a Perugia, e fa un servizio straordinario. Quando io ho bisogno di sapere le notizie di quel tipo lì, le chiedo a lui, ma stasera purtroppo non è qui! Gianmarco Elia Comunque l’Africa è un campionario di malattie assolutamente curabili per cui si muore, questo indubbiamente sì! Riferendosi al caso dei Nuba, non mi ricordo se il primo o il secondo viaggio, ci fu un’epidemia dove morirono 3000 bambini per il morbillo. A me sembrava di essere sceso sulla luna. Quando sono tornato a casa e l’ho raccontato, la gente ti riempiva le tasche di soldi (ma non è nemmeno così che si fa), fece una grande impressione a me e alle persone attorno a me. Qualcuno dice che il vaccino della malaria ad esempio c’è, però non viene commercializzato perché comunque la gran parte dei fruitori in realtà non la può pagare (come lo si dice anche per l’Aids). Abbiamo un padre gesuita americano, vicino a Clinton, vicino a moltissima stampa di primo livel-
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lo americana, uno che le informazioni le ha e le conosce bene: lui è sicuro di questo e lo dice con certezza. Non ho ancora sentito nessuno che ha contraddetto D’Agostino. Non c’è bisogno di far troppa dietrologia, però è veramente una campionario di malattie curabili per cui la gente muore. E poi non si sa nemmeno il motivo, perché non c’è la possibilità di far nessun tipo di diagnosi in gran parte dei posti. Per quanto riguarda l’Aids, giusto per ricordarlo, io ero vicino a quegli ambienti in quel momento come impegno: qui da noi si negò per molto tempo l’esistenza dell’Aids, ad un certo punto si cominciò a dire che era la malattia dei gay, poi dopo di quello si disse che era la malattia dei tossicodipendenti, e infine la malattia degli eterosessuali. Quindi abbiamo avuto anche noi un lungo percorso per riconoscere il nostro rapporto come società occidentale con questo virus. Qualcuno diceva che poi ovviamente era nato in Africa e veniva da là, e quindi che loro ci diedero questo bel regalo. Però nessuno la mai dimostrato. Intervento pubblico Senta padre, volevo sapere qualche cosa sulla sua esperienza più prettamente cristiana, su come ha portato il messaggio di Cristo a queste popolazioni. Quale è stato il suo approccio di Cristiano, sappiamo che il Cristianesimo si basa sui due pilastri dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo (e dell’amore al prossimo abbiamo ampiamente discusso)? Quale è stata la sua esperienza di Cristiano che ha portato il messaggio di Cristo a questi popoli e a queste popolazioni? Padre Renato Kizito Noi abbiamo portato spesso un Cristianesimo fatto di catechismo insegnato a memoria, un Cristianesimo fatto di cose già cucinate da noi, da cose che sono cresciute nel nostro ambiente e nel nostro humus culturale: e le abbiamo un po’ imposte, facendo spesso gli stessi errori che erano stati fatti allo stesso livello dai colonialismi: mi viene in mente un’episodio, c’era un padre in Kenia che veniva dalla Campania e portava devozione alla madonna di Pompei! Queste sono cose che mi sembrano un po’ forzate. Io sono partito dopo un po’ di esperienza e ho sempre cercato di lavorare sul principio di portare i valori fondamentali. Uno di questi valori è ad esempio l’incarnazione, Dio che si fa uomo e quindi la dignità della persona umana, i valori della persona umana. Quindi la radice di tutto è nel Dio che si fa carne. Nella trasmissione di questi valori, uno in Africa ha un grande vantaggio: si trova di fronte ad una religione tradizionale e quando la religione tradizionale magari non c’è più, resta tutta la spiritualità tradizionale che è molto simile
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all’Antico Testamento. Come nel caso che citavo del levirato. Gli Africani intuiscono, non hanno bisogno di esegesi per capire, perché la loro vita è così: sono vicinissimi all’Antico Testamento. Quindi il passo dall’Antico Testamento al Nuovo, al capire il Vangelo, a capire il fatto che Dio si è fatto uomo, diventa per tutti noi la liberazione e la dignità che crea nella persona umana: e capire questi valori è relativamente facile, perché sono già sulla strada, sono preparati come erano preparati gli Ebrei dell’Antico Testamento. Questo secondo me spiega anche il fatto che in Africa ci sia stata una conversione al Cristianesimo che è storicamente la più grande che ci sia mai stata nella storia della sua diffusione. Non solo numericamente, perché potrebbe essere facile (oggi siamo molti di più di quanto fossimo mille anni fa), ma proprio a livello percentuale: se voi guardate l’Africa dell’anno 1900, probabilmente non c’era l’uno per cento dei Cristiani. Se voi guardate l’Africa del 2000, i Cristiani sono oltre il 50%. C’è stata un’esplosione in un secolo. Perché questa risposta? Perché c’è questa preparazione e non perché, come a volte si pensa qui nel nostro senso di superiorità, ci si è abituati a giudicare gli Africani come sempliciotti, come bambinoni: gli Africani sono ben consapevoli delle scelte che fanno. Non fanno scelte a caso, per aderire ad una religione devono essere convinti, devono fare una scelta personale. Quindi se hanno fatto questo passo, è perché c’è tutta una preparazione forte, c’è una spiritualità forte; tradizionalmente il senso di dio, della presenza di dio nel mondo è fortissima. Dio è unico, è grande, è padre ed è presente e voi sentite le mamme dei villaggi che salutano i bambini al mattino, nominano Dio, augurano la benedizione di Dio ma come una cosa sentita e profonda. Per cui questa adesione è spesso un’adesione sincera, come è avvenuta in tanti altri popoli. E adesso vediamo delle cose di ritorno, nel senso cioè dei ragazzi africani che sono venuti in Italia, tornano indietro e dicono: Dio non c’è più per voi. Non lo si nomina più. Uno può stare a guardare la televisione per 24 ore e non sente mai nominare Dio. Questo è impensabile in Africa, la presenza di Dio, il senso della presenza di Dio lo si percepisce in mille modi. Mi ricordo anche un ragazzo, Michael, è stato su un mese in Italia; la prima volta che è venuto, ha fatto un corso d’informatica in un’istituzione legato ad un centro di ricerca a Roma e viveva in una pensioncina a fianco delle mura vaticane. E lui, la sua sensazione: «Ma qui Dio non c’è più, dov’è che l’avete messo? Non ne parlate più, non esiste più». C’è questo grande senso della presenza di Dio.
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Parte Terza
I
ncontro con Jean Leonard Touadi
Jean Leonard Touadi, giornalista congolese da tempo residente in Italia, è collaboratore e consulente di numerosi periodici italiani e stranieri per le tematiche relative ai rapporti tra Nord e Sud del mondo, ai fenomeni di migrazione e di globalizzazione. Ha lavorato presso la redazione Esteri del TG3, ha collaborato a programmi Rai (Permesso di soggiorno, C’era una volta) e ha spesso partecipato a programmi di informazione radiotelevisiva. Ha realizzato e condotto per Rai Educational il programma Un mondo a colori. Nominato di recente assessore al Comune di Roma per l’Università e le Politiche Giovanili (con varie altre deleghe), continua a mantenere una sua rubrica fissa su “Nigrizia”. Numerose le sue pubblicazioni, anche in volume. Tra queste, Africa. La pentola che bolle (EMI, 2003), Congo, Ruanda, Burundi. Le parole per conoscere (Editori Riuniti, 2004), L’Africa in pista. Storia, economia e società (SEI, 2006).
Capitolo Primo Bastia Umbra 15/06/2006 Luigino Ciotti Buonasera a tutti. Questa sera abbiamo portato qui da noi Jean Leonard Touadi – giornalista della Rai – per parlare di una guerra dal tragico bilancio di sangue, quella del Darfur, e più in generale dei grandi problemi dimenticati che attanagliano il continente africano. Problemi che sono veramente drammatici. Pensiamo ad esempio alla questione dell’Aids: nel mondo ci sono circa 40 milioni di malati di Aids e 28 milioni e mezzo sono nella sola Africa. In Sudafrica muoiono per Aids 600 persone al giorno, una cifra enorme. All’Aids si aggiunge poi tutta una serie di grave problematiche, come quello del debito estero. Per fare un esempio, la Tanzania ha un debito estero da ripagare che è nove volte superiore a quello che spende per l’istruzione. È emblematico. Che futuro ha l’Africa di fronte a tutto questo, che cosa prospetta ai giovani? Kizerbo, uno storico del Burkina Faso – che è anche amico di Jean Leonard – dice che i giovani rischiano, rispetto alla storia dell’Africa, di trovarsi di fronte ad un passato muto, ad un presente cieco ed ad un futuro sordo. Queste sono le prospettive dell’Africa. Un continente dove il prodotto interno lordo negli ultimi dieci anni è diminuito del 24%; in una situazione in cui il rapporto tra il quinto dei paesi ricchi del mondo rispetto al quinto dei paesi più poveri si è fortemente sbilanciato, da 30 a 1 degli anni Sessanta ad oltre 80 a 1 dei giorni nostri, tanto per dare degli elementi di valutazione. Un continente dove ancora esiste la schiavitù, dove esistono decine di migliaia di bambini soldato, dove in molte zone c’è il drammatico problema dell’acqua e dove migliaia di persone muoiono a causa della fame o dei suoi degli effetti collaterali. Queste sono alcune delle questioni che abbiamo all’interno dell’Africa. Anche se la situazione varia ovviamente da paese a paese, complessivamente le logiche sono simili dappertutto. Un continente dalle innumerevoli zone di guerra dimenticate: la Costa d’Avorio, la Sierra Leone, l’Eritrea, il Sudan, tutta la questione dei grandi laghi, le precedenti esperienze dell’Angola e del Mozambico, tanto per fare degli esempi: zone dove si muore con quelle bombe che spesso fabbrichiamo noi. Tanto per darvi un’unità di misura, quest’anno nel mondo si sono spesi 957 miliardi di dollari solo per le armi – quando poi, con 14 miliardi di dollari annui, si può dare risposta al problema della fame – e di questi 957 miliardi, 416 sono stati spesi dagli Stati Uniti d’America. L’ONU si era presa la responsabilità – i cosiddetti “impegni del millennio” – di agire soprattutto rispetto a tre grandi questioni: ridurre di due terzi la mortalità infantile, cercare di eliminare l’analfabetismo e il risolvere problema dell’acqua potabile. In Occidente si diceva che bastava lo 0,7 % del prodotto interno lordo per eliminare, nel giro di pochi anni,
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queste problematiche ed erano stati presi degli impegni precisi. Ma questi impegni non sono stati assolutamente rispettati, tranne che in qualche caso, come nei paesi del Nord Europa: gli Stati Uniti d’America però, rispetto alle cifre che spende per le armi, dà solo lo 0,14 %, una percentuale quindi nettamente insufficiente inferiore rispetto a quel 0,7% di cui si parlava (che è stata ritenuta fin da subito una cifra molto bassa, tanto è vero che si pensava di raddoppiarla). Questi sono i dati in cui ci troviamo di fronte oggi. E rispetto a queste grandi tragedie, che cosa si fa? Pensiamo a questa questione del maremoto, lo tzunami che ha colpito i paesi dell’est asiatico: la quantità di risorse che è destinata alla cooperazione rischia di essere spostata e di finire tutta lì. Quando succede un’emergenza, tutto viene rigirato su di essa e si trascurano i problemi che già esistono. Questo tzunami quotidiano – che sono la morte per fame e per malattie, il fatto che in Africa si muore per partorire o per le cose più stupide (come la diarrea o le polmoniti o perché non ci sono i medicinali o non si ha la possibilità di comprarli, non ci sono i medici, non ci sono le strutture ospedaliere), che non si investe nella sanità così come non si investe nell’istruzione perché spesso ci sono governi corretti che servono all’Occidente per rapinare meglio le risorse – viene di conseguenza completamente dimenticato. Questa è in sintesi la situazione, se volete anche catastrofica. Però è un dato reale che milioni di persone lasciano la campagna e si accentrano nelle baraccopoli (la Korogocho di cui ci ha parlato padre Zanotelli è solo un esempio). Ma ci sono tante Korogocho, solo a Nairobi ci sono circa duecento baraccopoli e questo vale per tutte le grandi città. E rispetto a tutto ciò, che cosa si può fare? Io, per ora, ho cercato di dare degli elementi in modo tale che Jean Leonard, che è un grande conoscitore della sua terra, ci illustri ancora di più quelle che sono le problematiche dell’Africa per poi successivamente dare la parola a voi, come è nostro costume, per fare domande e approfondire ulteriormente. Grazie. Jean Leonard Touadi Io saluto tutti, avrei voluto salutarvi uno ad uno, facendo saluti lunghi come quelli che si fanno in Africa. Però non li farò perché mi hanno sempre detto che quando vai a parlare di sera con gli Italiani e con gli Europei, devi parlare poco; questa è gente che va a letto presto, perché deve lavorare, giustamente! Considerate davvero come se io vi avessi salutati uno ad uno! Per me è sempre un grande piacere tornare non solo in Umbria ma vicino Perugia dove ho passato il mio primo anno di soggiorno in Italia all’Università per Stranieri. Era obbligatorio andare a Perugia, passare l’anno di lingua prima di andare
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all’Università. Però non conoscevo Bastia, perché le professoresse dell’Università per Stranieri ci dicevano di non frequentare i “burini” per non contaminare la purezza della lingua che noi stavamo imparando! E allora eravamo segregati, il posto più lontano dove potevamo arrivare era Piazza 4 novembre, andare a teatro, a sentire il jazz e poi basta. Ci dicevano di non parlare con i Perugini, figuratevi con quelli di Bastia: sennò perderete tutto quello che state imparando! Davvero, è sempre un piacere ritornare in Umbria perché è legato a questo mio primo contatto: il mio “fidanzamento” con l’Italia inizia con l’Umbria e con Perugia. E ringrazio Luigino per il suo invito, per i suoi inseguimenti, sia telefonici che tramite e-mail: neppure una donna innamorata mi ha mai inseguito in questo modo! Con tanta tigna ha voluto questo incontro e quindi lo ringrazio. Lavorando io in Rai e facendo l’autore televisivo per guadagnarmi il pane e per fare anche tutto il resto, mi stavo chiedendo come mai oggi, venerdì, a quest’ora della sera, con tutto il ben di Dio che Rai e Mediaset (oppure Raiset, visto che siamo diventati tutti una famiglia!) hanno preparato per voi, come mai delle persone, madri e padri di famiglia, giovani, si ritrovano qua a parlare, a ragionare e a discutere di Africa. Questo davvero ogni volta mi colpisce, perché i tempi che viviamo sono quelli che sapete; sono i tempi dei mezzi di “distrazione di massa”. Ora quando si sente questa espressione, mezzi di “distrazione di massa”, uno pensa all’uso che abbiamo imparato semanticamente della parola “distrazione” che sta per divertimento. L’antica romano, “panem et circensem”; in qualche modo siamo tornati ai quei tempi là. E invece no, distrazione proprio nel senso letterale della parola latina, “trarre accanto”. Mezzi di distrazione di massa che traggano accanto all’essenziale, accanto alle cose che toccano la vita delle persone, la vita di intere comunità: e allora non so se avete visto il grande dibattito che c’è in Rai adesso, se il programma della Antonella Clerici “Il Ristorante” debba fermarsi o andare avanti: i programmi della Ventura, di Bonolis e così via dicendo. Le armi di distrazione di massa. Una congiura organizzata per trarre la massa accanto all’essenziale, fuori dall’essenziale. Quindi mi intriga, mi inquieta anche un po’ la vostra presenza qui, stasera. Dovevate essere altrove! Spero che nel dibattito mi darete le ragioni e le motivazioni del vostro esservi distratti da questo ben di Dio creato da Mediaset e da Rai. Vogliamo parlare di Africa. Non è semplice parlare di Africa e di tutte le questioni che Luigino ha prima sollevato. Vorrei cominciare parlando del rapporto tra l’Africa e l’Europa. La mia impressione – ma non è solo un’impressione – è che per l’Europa, l’Africa è ancora una volta quella che si vede camminando
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tra il Colosseo e l’altare della Patria o ai Fori Imperiali. L’Africa dell’hic sunt leones, l’Africa della terra incognita. Si conosce l’Asia Minore o Superiore, si conosce l’Africa settentrionale, (l’Africa europea dicono alcuni storici: la Cirenaica, la Tripolitania e così via dicendo). Sotto il Sahara è l’hic sunt leones, la terra incognita, quella terra che sappiamo che esiste ma di cui conosciamo poco. E quel poco che conosciamo ci inquieta. Un rapporto sempre tra attrazione per l’ignoto ma anche di paura, come accade per tutte quelle cose che sono a noi ignote; una specie di contraddizione. Un rapporto strano questo tra l’Africa e l’Europa, in cui ancora una volta gli Europei si sforzano di considerare le cose africane come cose a sé, come cose che in realtà non rientrano nell’andamento del mondo e non partecipano della storia cosiddetta normale. È un po’ come se tutti voi aveste letto Hegel, quando dice, nel 1830, che in realtà nella storia universale l’Africa non ha dato niente e che è il continente senza storia. Non hanno dato niente all’umanità ‘sti negri, perché li dobbiamo inserire nella storia umana? Non hanno inventato la ruota, non hanno inventato la bussola. È il continente senza storia. Ciò che ci interessa dell’Africa è che lì accadono della cose che ci ricordano quello che noi eravamo nella barbaria e quindi vi possiamo osservare l’uomo nella sua purezza selvaggia. Il barbaro per eccellenza. In Africa si sono spostati i confini delle barbarie. Per i Greci, i barbari erano i Macedoni. Per i Romani erano quelli che oggi chiamiamo i Laziali (i burini che vengono allo stadio Olimpico con la caciotta sotto le ascelle e il trattore!). L’Africa rimane nell’immaginario collettivo ai margini della storia del mondo e le cose che accadono laggiù noi non le possiamo capire. C’è come una specie di alone di inconoscibilità. Lì accadono delle cose strane che noi razionali europei non possiamo capire. Una storia a sé. Quindi la prima cosa che dobbiamo forse imparare stasera è di capire che in realtà l’Africa fa parte della storia del mondo. Reinserire l’Africa nella storia del mondo. Non c’è nulla di ciò che avviene oggi e di ciò che è avvenuto ieri in Africa che non abbia rapporti con il resto del mondo, con voi, con la vostra vita di tutti i giorni, con la vostra politica, la vostra economia, con la vostra cultura (e con la vostra presunta superiorità culturale). L’Africa è sempre stata nella storia del mondo se è vero come è vero che l’uomo, inteso come nostra specie, è nato in questo continente. Anche Bossi e Calderoli possono rivendicare orgogliosamente origini africane, non so se lo sanno! Bisogna che qualcuno un giorno glielo dica. Un’Africa da inserire con urgenza nella storia del mondo. Se noi parliamo del Congo, del Sudan, del Rwanda, attenzione a non dire guerre tribali o guerre etniche. Stiamo parlando di guerre che sono anche vostre e spero stasera di riuscire a convincervi dei legami molteplici che ci sono tra quelle che voi chiamiate guerre etniche e la vostra vita, anche qui a Bastia (Bastia che
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è così piccola e già vi siete divisi in Bastia Nord e Bastia Sud, confondendo il povero Africano che viene da Roma e non sa dove uscire!). L’Africa come parte della storia del mondo e come parte delle scelte geopolitiche, economiche, delle scelte di civiltà che noi facciamo. Solo quattordici chilometri ci separano dall’Africa, lo stretto di Gibilterra. In realtà quei quattordici chilometri non sono veri, perché Seuta – che è una città spagnola – è in realtà è una città marocchina. Quindi è il continente più vicino a voi, è il continente gemello dell’Europa. Un’altra questione che possiamo dibattere stasera. Gli Stati Uniti possono ignorare l’Africa, geograficamente possono permetterselo: dubito che Gorge Bush sappia dove sia l’Africa, nonostante abbia una consigliera alla sicurezza afro-americana, Coondoleza Rice. L’Europa non può permettersi questo lusso, è troppo vicina e ci sono legami storici, culturali, di dipendenza economica. Gli Europei devono interessarsi all’Africa, per tutti questi legami. Cosa difficile, perché se uno vuole far fare qualcosa ad un Europeo, deve fargli capire l’interesse che c’è a farla; perché l’Europeo capisce solo il linguaggio dell’interesse, del tornaconto. Ma che ci guadagno? Ebbene, 800 milioni di persone – che diventeranno un miliardo e passa tra dieci anni – alle porte dell’Europa, in questo stato di sbandamento politico ed economico che descriveva prima Luigino, non sono nell’interesse dell’Europa. Quindi l’Europa deve muoversi, o per interesse e per etica. Temo che non avverrà mai per etica perché l’etica, così come le radici cristiane, servono solo per i discorsi e per i dibattiti a Porta a Porta. Ma quando l’Europa deve muoversi, conta solo il suo interesse. Siamo arrivati al punto in cui il buon Ciampi è arrivato ad ipotizzare la levata dell’embargo delle armi alla Cina perché c’è un interesse. De Gaulle diceva, parlando della Francia: «La France n’a pas d’amis, elle n’a que des intérêts». Ebbene l’Europa non ha amici, l’Europa non ha valori, non ha principi; l’Europa capisce solo ed esclusivamente il linguaggio dell’interesse. È brutto dirlo, ma la realtà di oggi purtroppo è così. Avete avuto un anno fa un ministro degli esteri – seppure ad interim – che ha avuto il merito di parlare chiaro sotto questo punto di vista, dicendo che la politica estera italiana deve essere guidata dagli interessi italiani e che le ambasciate italiane all’estero – e quindi anche in Africa – devono diventare dei punti che incentivano il “Made in Italy”. Tutti noi giornalisti ci siamo quindi sbizzarriti ad immaginare le ambasciate italiane nel mondo con i salotti in cui sono appesi prosciutti oppure olio extravergine! Questo è commercio, non è politica estera: e un conto è il commercio, un conto è la politica estera. Un grande paese mediterraneo, come l’Italia, non si può accontentare di commerciare, deve avere una politica estera. Abbiamo detto della necessità di reinserire l’Africa nella storia e dell’importanza per l’Europa dell’Africa, il continente gemello. Terzo punto: le vicende
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africane toccano anche noi. 9 novembre 1989, caduta del muro di Berlino; l’Europa si ritira dallo scenario africano e investe verso il nuovo Eldorado, l’Europa dell’Est. È il momento che gli esperti definiscono “della solitudine geopolitica africana”, perché con la guerra fredda – non per rimpiangere la guerra fredda – l’Africa ha avuto un suo ruolo negli equilibri geopolitica mondiali, essendo uno dei teatri di scontro tra Est e Ovest. Alcuni di voi ricorderanno la guerra dell’Ogaden tra la Somalia e l’Etiopia o la guerra in Angola che è una parte rilevante della guerra fredda. Sul territorio angolano si sono contrapposti il blocco occidentale e il blocco sovietico. L’MPELA, l’UNITA, il FRELIMO, tutta questa gente si è schierata con i Sovietici; non certo perché folgorati sulla strada del marxismo-leninismo ma perché in quell’epoca in cui i Portoghesi – che facevano parte della Nato – occupavano l’Angola, nessuna potenza occidentale sosteneva i movimenti di liberazione angolani. Questi hanno dovuto quindi scegliere il nemico delle potenze occidentali, come scelta obbligata. Ricordate la guerra in Mozambico e tante altri conflitti del periodo della guerra fredda. Con la caduta del muro di Berlino, l’Africa ha perso anche questa sua rendita geopolitica. Gli Europei si sono ritirati, gli investimenti sono cessati drasticamente dell’80% e si sono spostati, sia quelli privati che quelli pubblici, nell’Europa dell’Est. È il momento della solitudine geopolitica africana, segnata dalla guerra della Somalia. La ritirata degli Americani dalla Somalia e di tutte le altre potenze europee segna simbolicamente il ritiro della politica occidentale dall’Africa, proprio quando Gorge Bush I – non Gerge Bush II la vendetta!, non so se avete notato che ci stanno preparando un terzo Bush: Colin Powell è andato nel sud-est asiatico accompagnato dal fratello di Bush. Stanno cominciando a presentarlo a livello internazionale e forse ci ritroveremo, come tutte le serie cinematografiche americane, Bush 1, Bush 2 e Bush 3! – prometteva il nuovo ordine mondiale. Con la fine dell’operazione in Somalia, abbiamo assistito alla ritirata simbolica dell’Occidente dall’Africa, apparentemente disinteressandosene. In realtà non è stato così. Al posto degli equilibri della guerra fredda, l’Africa è diventata il laboratorio più interessante di quello che Ignazio Ramon, direttore de “Le monde diplomatique” chiama la geopolitica del cinismo (o anche la geopolitica del caos). L’Africa non è più una posta in gioco geopolitica per i motivi della guerra fredda e delle contrapposizioni tra Est e Ovest. Che cosa è diventata allora l’Africa? Abbiamo detto che gli investimenti sono statti ritirati, che la cooperazione non c’è più, che la crisi del debito sta attanagliando questi paesi e che è cominciata la geopolitica del cinismo. Cerchiamo di delineare i connotati di questa geopolitica del cinismo. A confrontarsi in Africa non sono più le ideologie, non è l’Est o l’Ovest che si combattono; a confrontarsi sono solo e semplicemente i corposi interessi materiali legati alle multinazionali. Il
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territorio africano viene in qualche modo depotenziato dal punto di vista della capacità degli stati e dei governi di controllare il territorio, la crisi del debito mette in ginocchio il continente e fa si che i governi – che erano governi dittatoriali, però avevano una certa legittimità e comunque avevano la capacità di assicurare un minimo di rete scolastica, un minimo di rete sanitaria, un minimo di infrastrutture e un minimo di garanzia dell’ordine – non riescano più ad avere il controllo di queste cose. Gli stati si sfaldano o li fanno sfaldare, attraverso la Banca Mondiale e Il Fondo Monetario Internazionale che svuotano queste nazioni di tutta la loro forza, attraverso le privatizzazioni. Lo stato centrale non controlla più la periferia e diventa, come lo hanno definito alcuni analisti, lo “stato nullo”, lo stato che non c’è più. E quando non c’è più lo stato, incominciano a nascere in alcuni territori i signori della guerra che controllano, per conto terzi, quei territori. Se io ad esempio sono originario di una zona dove ci sono i diamanti, allora mi faccio finanziare dalla De Beers – che è la prima esportatrice di diamanti del mondo – prendo le armi, le do a qualche giovane ed io e la De Beers sfruttiamo il diamante direttamente, senza passare per lo stato centrale. Chi sta nella zona dove c’è il legname fa altrettanto, chi sta nella zona dove c’è il petrolio fa altrettanto, come la Elf o la Shell e così via dicendo. Nell’analisi geopolitica, questa cosa si chiama la “somalizzazione” di un territorio: le multinazionali non passano più attraverso negoziati con i governi ma hanno direttamente accesso alle materie prime. I primi territori a sperimentare questa geopolitica del cinismo sono stati la Sierra Leone e la Liberia che hanno come prodotti essenziali il legname e il diamante (anche se adesso si è scoperto anche il petrolio). La geopolitica del cinismo che ribadisce che l’Africa, dal ’500 a oggi, non è altro che un grande serbatoio di materie prime. Nella divisione internazionale del lavoro, fino adesso all’Africa resta questo triste compito di fungere da grande serbatoio di materie prime. Materie prime che prima venivano negoziate con i governi mentre oggi basta rifornire di armi un signore qualunque in modo che crei un piccolo esercito di ribelli. Materie prime scambiate con armi e anche con droga. Armi, materie prime, droga, una specie di trittico, drammatico, delle guerre in Africa. E allora diventa difficile anche fare un negoziato di pace. Se prima i soggetti e i protagonisti della guerra erano l’URSS o gli Stati Uniti, oggi non sono visibili. Inoltre questi signori della guerra non sono credibili, alcuni di loro sono semi-analfabeti. Non sono loro i protagonisti. Dietro queste guerre ci sono dei signori rispettabilissimi: De Beers ha gli uffici a Londra, andate a vedere che uffici che ha la De Beers, primo produttore di diamanti nel mondo. Diamanti insanguinati, insanguinati per decenni, provenienti dalla Sierra Leone, dalla Liberia, dall’Angola (nelle zone controllate dall’Unita), dal Congo Democratico. Questi signori si chiamano Elf, che ades-
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so si è allargata perché ha assorbito anche Total-Fina e dietro alla quale c’erano pure il figlio di Mitterand e attuali collaboratori di Jacques Chirac. Elf che non ha esitato a scatenare una guerra in Congo-Brazzaville o che ha sostenuto la guerra in Angola. E dietro la Elf c’è anche la nostra brava Agip, questo neutrale, quasi simpatico dragone nero su sfondo giallo. L’Agip è presente in tutte quelle zone e lì fa i suoi giochi. Ricordatevi come nel delta del Niger, nel 1993, il poeta Ken Saro-Wira venne impiccato insieme ad altri nove attivisti. Che delitto avrà mai commesso, Ken Saro-Wira il poeta? Quello di aver chiesto che il popolo Ogoni – che vive nel delta del Niger – potesse vivere sulla sua terra senza che l’olio della produzione petrolifera invadesse i campi o senza che i pesci del fiume morissero perché soffocati dalle macchie d’olio. Per avere chiesto questo, Ken Saro-Wira è stato impiccato con nove suoi compagni a Lagos. Nemmeno per un giorno si è fermato il pompaggio dell’olio in Nigeria. E subito dopo la Shell, la presenza più importante nel delta del Niger è quella dell’Agip. Altro che Enrico Mattei, altro che l’Agip buona! Questi signori si chiamano Sabena – la compagnia aerea belga – che ha trasportato per anni quel prodotto che si chiama coltan dalla zona del Congo. Quando ero piccolo, sapevamo di tutti questi traffici e di gente che andava a cercare fortuna per i diamanti, il mercurio o l’uranio (che nel Congo è sfruttato fin dalla seconda guerra mondiale: l’uranio delle bombe atomiche cadute su Hiroshima e Nagasaki proveniva proprio da lì). Oggi scopriamo che c’è un prodotto stranissimo, con il quale, quando eravamo piccoli, ci giocavamo e a cui nessuno dava importanza. Il coltan, nome scientifico colombotantalite. Il coltan serve per fabbricare i cellulari. Quindi non solo diamanti insanguinati ma anche cellulari insanguinati. Il coltan rientra inoltre anche nella componentistica dei computer e in quella degli aerei. Quindi tre settori chiave della new-economy come l’informatica, la telefonia mobile e l’aereospaziale, non possono funzionare senza la colombotantalite. Ebbene, per sfruttare il coltan, le multinazionali europee non hanno esitato a camminare sui cadaveri di quattro milioni di Congolesi, morti in 6-7 anni. Avete mai sentito parlare dei 4 milioni di morti in Congo? Guerra etnica, si è detto. In uno dei miei scritti, ho detto che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere questa espressione, la “guerra etnica”, e che come giornalista non posso sostituirla con una nuova, perché prima che la gente ci si abitui dovrebbe passare tanto tempo. Ma, se vogliamo parlare di guerra etnica, allarghiamo però la schiera di coloro che possono far parte delle etnie. La parola guerra etnica può avere senso solo se anche la Sabena, anche l’Agip, anche la De Beers, diventano delle etnie, delle mega etnia. Allora sì che sono guerre etniche! Non so se rendo l’idea. Ogni volta che apri-
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te la Repubblica o il Corriere e vedete questi diamanti che brillano, ricordatevi che dietro c’è non solo il lavoro di ragazzini di dieci anni – che passano quattordici ore al giorno con i piedi dentro il fiume a setacciare il fiume alla ricerca dei diamanti – ma anche che quel diamante – un segno d’amore, come dice una pubblicità famosa! Un diamante è per sempre – è insanguinato. Abbiamo fatto una prova – rischiando anche parecchio – io, Alberizi del Corriere della Sera e Pietro Veronesi di Repubblica. Abbiamo comprato dei diamanti in una zona di guerra del Congo, quando era uscito il trattato internazionale in cui le compagnie si impegnavano a non comprare diamanti dalla zona di guerra. Siamo andati ad Anversa, in Belgio, a vendere queste pietre. Appena le hanno viste e hanno saputo subito da dove veniva il diamante – perché i diamanti non sono tutti uguali – l’hanno comprato e ci hanno chiesto, quasi pregandoci in ginocchio, se avevamo solo quello o se ne avevamo anche altri. E in questo modo stiamo vivendo anche le guerre nel Congo, nella Sierra Leone, nella Liberia; e pure la guerra che stanno combattendo oggi nel Darfur, visto che c’è anche nel titolo. Il Darfur è una zona grandissima, all’ovest del Sudan e in questo territorio 70000 persone sono già morte e 2 milioni sono state sfollate (con un numero imprecisato, forse 250000, nel Ciad: anche se non si può essere sicuri, perché le etnie sono parenti, per cui alcuni non vanno nei campi a farsi registrare). Lo stesso Sudan che fino a ieri era classificato come uno degli stati canaglia: vi ricordate gli stati canaglia? In uno dei discorsi sullo Stato dell’Unione, Bush ha usato questo nome di stati canaglia e il Sudan è stato il primo ad essere citato. E questo per un motivo semplicissimo: Osama Bin Laden ha vissuto a lungo a Karthoum in Sudan. Gli Americani che all’epoca bombardarono Karthoum oggi sono invece diventati i più grandi sponsor dell’accordo di pace tra il governo islamico di Karthoum e il sud. Per quale motivo c’è stata questa improvvisa folgorazione pacifica del dipartimento di stato? Il Sudan è emblematico della geopolitica del cinismo e della geopolitica del caos. Questo paese si è scoperto improvvisamente – ma forse qualcuno lo sapeva già – pieno di petrolio e per questo motivo sta diventando una posta in gioco geopolitica ed economica importante, non solo per gli Americani. Che cosa fanno gli Americani, che cosa fanno le grandi potenze? Quando la guerra comincia a toccare i loro interessi, a lambire i loro interessi, la fermano. Gli Stati Uniti hanno sponsorizzato la fine della guerra in Sudan, per poter sfruttare gli immensi giacimenti di petrolio del Sudan. Però attenzione, qui non ci sono solo gli Americani. Al petrolio del Sudan è interessato anche la Cina. La Cina ha importato dal Sudan 110 milioni di tonnellate di greggio con un aumento del 21% rispetto all’anno precedente. E la
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China National Petroleum Corporation (CNPC) è il principale partner del governo islamista di Karthoum per lo sfruttamento del petrolio. Quindi altro che diritti umani, altro che bene della popolazione, lì è solo business. Era palese che in Sudan – lo hanno detto Human Rights, Mèdecins Sans Frontières, Amnesty International, lo hanno detto tutti i giornalisti che sono andati nel Darfur – si stava consumando un genocidio. E la carta internazionale dell’ONU dice che, quando si osserva che c’è un genocidio, l’ONU deve intervenire. Ma per negare il genocidio sono state usate tante diverse espressioni: chi ha detto eccidi di massi, chi massacri etnici, tutto per non pronunciare la parola “genocidio”. La carta dell’ONU definisce come genocidio qualunque degli atti di seguito elencati commessi con l’intenzione di distruggere del tutto o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, raziale o religioso, in quanto tale: il massacro dei membri di un gruppo, l’attentato grave all’integrità fisica o mentale di un gruppo, la sottomissione intenzionale di un gruppo, etc. etc. Ora tutto quello che è avvenuto in Sudan si configurava come un genocidio. Invece, che cosa ha detto Kofi Annan? Kofi Annan ha detto: «Perché pronunciare questo nome, quando la comunità internazionale non è pronta ad intervenire come esigerebbe la convenzione?». La parola non si pronuncia e se non si pronuncia non si fa niente. Chi si è opposto alle sanzioni contro il Sudan, al Consiglio di Sicurezza? Gli Stati Uniti erano pronti a delle sanzioni, perché la lobby afro-americana spingeva perché le sanzioni avvenissero. Chi si è opposto invece? La Cina, ha minacciato di esercitare il diritto di veto se fosse passata questa sanzione; l’Algeria, in nome della solidarietà araba (perché il governo di Karthoum è un governo arabo e mussulmano che sta massacrando dei “negri” ed è sostenuto dalla lega araba, il cui portavoce si è dichiarato assolutamente contrario a sanzioni contro il Sudan); la Spagna, che ha degli interessi molto forti in Sudan e che per bocca del suo ministro degli esteri ha annunciato – proprio alla vigilia del voto al consiglio di sicurezza – la sua intenzione di riaprire la sua ambasciata a Karthoum. E l’Italia che cosa ha fatto? L’Italia è stata tra i primi paesi ad andare in Sudan, avendo mandato nel Darfur il sottosegretario Margherita Boniver a fare una missione. Dopo di che veniamo a sapere che la joint-venture italo-britannica Alenia-Marconi System fornisce al governo sudanese sistemi radar per il controllo del traffico aereo. Quattro milioni di dollari solo nel 2002, apparecchiature da 22 milioni di euro installati negli aeroporti – anche in quelli militari – secondo dati dell’Istat (quindi non sono dati di Rifondazione, non sono dati comunisti!). Secondo dati dell’Istat sul commercio estero, l’Italia ha acquistato tra il 1999 e il 2003 petrolio da Karthoum per oltre 144 milioni di euro; 24 milioni nel
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1999, 14 milioni nel 2000, 13 milioni nel 2001, 54 milioni nel 2002 e 37 milioni nel 2003. Un’altra questione: gli aiuti umanitari. Di che cosa parliamo quando diciamo di mandare gli aiuti? Gli Africani sono stufi degli aiuti umanitari, basta aiuti umanitari. Soprattutto quando questi sono portati da pompieri che abitano la stessa casa dei piromani. Forse la cosa più utile che gli Africani possono chiedervi non è tanto di venire a fare i pompieri ma quello di combattere a casa vostra i piromani. È l’aiuto più grande che potete fare all’Africa. Smettete di venire a fare i pompieri. Voi dite: ma è il nostro spirito cristiano – visto che le radici cristiane sono diventate di moda. Pure Ferrara ha scoperto le sue radici cristiane, che saranno belle grosse! Sono tuberi le radici cristiane di Ferrara! – è la nostra indole, la nostra solidarietà e buon cuore, andare ad aiutare gli altri fa parte delle nostre radici cristiane. Voi dite che è la nostra indole. Noi vi chiediamo invece di non venire ad aiutarci ma di agire in casa vostra. I problemi dell’Africa non sono problemi dell’umanitario ma di scelte politiche e di indirizzo economico. Finché non capiremo questo, l’aiuto potrà essere infinito e non basterà mai. Dobbiamo andare alla radici, ai nodi, alle strutture del peccato. Questa parola non è mia ma è del Pontefice. In uno dei rari momenti di ispirazione in cui lo Spirito Santo passa ogni tanto a Roma, il Papa – trattando della globalizzazione in una delle sue encicliche – ha parlato di strutture di peccato. Basta quindi con l’aiuto, affrontiamo veramente i problemi. Mi fa male al cuore che una persona sensibile come Veltroni, che si è fatto il giro dell’Africa e che ha visto quello che ha visto, nel tornare a Roma, scrive un librettino dal titolo “Forse Dio è malato” – non so se l’avete visto in giro. Stendiamo un velo pietoso, se qualcuno l’ha visto nascondetelo perché non fa onore al nostro sindaco e neanche al suo partito! – e si limita a fare la proposta dei pozzi in Monzambico. Forse servono anche i pozzi in Mozambico, ma il segretario di un grande partito della sinistra – vice presidente dell’internazionale socialista nel momento di quel viaggio – non può fare quel viaggio e poi non fare una proposta politica su grandi nodi quali l’organizzazione mondiale del commercio, la questione del debito, quella del brevetto, la questione della privatizzazione dell’acqua. Sono problemi politici di cui noi Africani non abbiamo le chiavi; le chiavi stanno qui a Roma, a Parigi, a Bruxelles. Basta con gli aiuti, non ce la facciamo più! Abbiamo un po’ l’impressione di rivivere il ’500 quando chi ci veniva a battezzare e chi ci veniva a colonizzare arrivavano dalla stessa nave e parlavano la stessa lingua. Di questo bisogna parlare, le guerre non sono etniche ma sono causate da questi problemi. Così avviene nella guerra in Congo o in quella in Sudan oppure in un’altra guerra, quella in Costa d’Avorio. Sulla
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Costa d’Avorio ho scritto recentemente un articolo per la rivista del gruppo Abele, intitolato “Narcomafie, il cioccolato insanguinato”. Vi vedo là tutti pesanti di torrone, panettone, non negate eh?! Ebbene il primo paese produttore di cacao al mondo, la Costa d’Avorio, sta vivendo una crisi incredibile, una guerra incredibile. C’è anche un giornalista ivoriano piuttosto famoso qui in Umbria, fa questo programma “Nero su bianco”, Laurent De Bai. In Costa d’Avorio la posta in gioco non sono le rivalità etniche, ma gli interessi economici. C’è la Francia che non vuole cedere il potere nel golfo di Guinea, una zona che molti in geopolitica chiamano “l’altro golfo”. Cosa sta avvenendo nel golfo di Guinea? Sta avvenendo che il Medio Oriente è entrato in una crisi profondissima che – forse voi non ve ne rendete conto – vi sta facendo rischiare di avere il tracollo negli approvvigionamenti di petrolio e di gas naturale. Il Medio Oriente è messo molto male. E l’Iraq non è che il primo punto. C’è l’Arabia Saudita che sta lì lì per scoppiare; nei piani degli Americani, si pensava che la crisi dell’Arabia Saudita sarebbe venuta prima dell’Iraq (in previsione della crisi in Arabia Saudita, hanno intanto deciso di prendersi l’Iraq). Quindi la crisi del Medio Oriente. Ciascuno naturalmente corre ai ripari. E quali sono le alternative? Le alternative sono innanzitutto il Mar Nero e il Caucaso che ha delle riverse di petrolio e di gas naturale molto più importanti di quelle del Medio Oriente. Questo è il motivo per cui gli Americani spingono per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, perché attraverso la Turchia può passare il petrolio e il gas di queste zone. Anche il vostro ministro degli esteri – questa volta senza bandana! – è stato uno dei grandi avvocati della causa della Turchia. Anche lì però il disordine è tale che queste risorse non sono sfruttabili a breve. Occorreranno almeno 10-15 anni per pacificare la Cecenia, l’Abchasia, il Kazakistan, il Kirzighistan: tutti questi nomi a voi forse non dicono niente ma domani il vostro approvvigionamento in petrolio e gas naturali dipenderà da questi paesi. Tutti cercano comunque di trovare degli approvvigionamenti alternativi: il Venenzuela o la Libia per esempio. Il presidente del Consiglio è andato ad inaugurare una pipeline che deve portare il gas dalla Libia alla Sicilia, arrivando fino a definire Gheddafi un campione della libertà. Cosa non si fa per un po’ di petrolio! In questo contesto anche il petrolio africano diventa appetibile (quando parlo di petrolio africano parlo di quei paesi che vanno dalla Sierra leone giù giù fino all’Angola). Gli Stati Uniti hanno già chiesto e ottenuto di installare delle basi militari a Sao Tomè e Principe che è una piccola isola al largo della Guinea Equatoriale. Da lì possono controllare l’Angola, il Gabon, il CongoBrazzaville, la Nigeria e il Camerun che da soli fanno il 70% della produzione petrolifera africana. Nella ridefinizione delle politiche strategiche fatta nel 2000 degli Stati Unità, l’Africa ne diventa una priorità strategica. Da qui al
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2015, gli USA vogliono importare almeno il 30% del loro fabbisogno petrolifero dall’Africa. La posta in gioco in quella zona è altissima. Per darvi un’idea del futuro petrolifero dell’Africa, nel 2008 l’Angola produrrà più petrolio del Kuwait. Questo significa che la geopolitica del cinismo è solo all’inizio, le guerre sono solo all’inizio, le sofferenze per le persone sono solo all’inizio. E i Francesi – che sono già ben radicati in quel territorio – non intendono lasciare campo libero agli Americani. Anche la guerra in Costa d’Avorio, come lo è stato la guerra in Angola, è da leggere in questa ottica. Altro che guerra etnica! Qual è il prezzo che i popoli ricchi sono pronti a far pagare agli altri pur di approvvigionarsi di benzina, di diamanti, di oro, di uranio? Bastano un milione di morti o ne servono due, tre o quattro? Su quanti cadaveri le multinazionali sono pronte a camminare pur di avere accesso alle materie prime? In tutta questa situazione, concludo parlando del popolo africano; vittima degli interessi esterni e vittima della sua classe politica, la quale non altro che un gruppo di potere che gestisce per conto terzi le ricchezze di questi paesi. Come durante la schiavitù quando non erano i negrieri che andavano all’interno delle terre a catturare gli schiavi bensì i re della costa a cui veniva dato questo incarico, allo stesso modo oggi i governi africani non sono altro che i mandatari di questi interessi extra-africani. A me fa ridere quando ci parlano male della nostra classe politica; nessuno dei grandi dittatori che abbiamo avuto avrebbe potuto restare anche solo un’ora al potere senza l’appoggio politico, economico e finanziario di cui ha goduto all’estero. Non so se vi ricordate Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga, tale era il suo nome durante il suo impero! Prima si chiamava Joseph-Désiré Mobuto, poi ha deciso di dire basta ai nomi occidentali, basta con la cravatta, etc; torniamo all’autenticità, da oggi in poi mi chiamo Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga. E tutti i giornali, radio, televisioni dovevano pronunciare il nome sempre per intero. Siccome più della metà del telegiornale raccontava i suoi fatti, solo la pronuncia del nome prendeva un terzo del telegiornale! Rendendosi conto del ridicolo, Mobuto a metà degli anni ’80 dice: «Beh, sono al potere da più di vent’anni, da ora in poi sono il papà di tutti gli Zairesi, chiamatemi pure papà» e quindi nel telegiornale: «Stamattina papà ha ricevuto il presidente…». «Domani papà e mamma si recheranno in visita…». Voi ridete ma è così. Nella sigla del telegiornale c’erano delle grosse nuvole bianche con un puntino nero; poi le nuvole scendevano e mano a mano che scendevano compariva il faccione di Mobuto. Non ridete tanto perché l’aria che si tira qui non è poi così lontana! A parte questi fatti anedottici, quest’uomo è stato un dramma per l’Africa. È riuscito a rendere povero uno dei paesi più ricchi del mondo – non solo dell’Africa – lo Zaire. Ha creato questa spe-
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cie di “cleptocrazia” durata 30 anni. Ebbene, per questo signore, la Francia ha mandato tre volte dei contingenti in Congo ogni volta che il potere di Mobuto era minacciato. Ricordatevi le tre guerre di Kolwezi. Un personaggio, Mobuto, che veniva ricevuto in pompa magna in tutte le cancellerie occidentali. E quindi che cosa possono fare i popoli in Africa in mezzo a tutto questo marasma? Un invito che vi vorrei fare in questo incontro è di sforzarvi di leggere la storia, il presente, il futuro dell’Africa non solo attraverso i vari Mobuto ma sforzarvi anche di vedere l’altra parte; il popolo, la gente. Ecco perché quando l’editore, quando ha ricevuto il mio manoscritto, ha detto di intitolarlo “Il sogno tradito” (questo era il titolo che aveva proposto, padre Ottavio). Ma il sogno tradito sarebbe stato guardare le cose solo al negativo: e infatti tutto quello che vi ho detto adesso è molto negativo, non potrebbe essere altrimenti. Vi ho solo raccontato quello che sta avvenendo. Questa è la fotografia dell’Africa. Se però noi ci sforziamo di andare oltre la fotografia e facciamo la radiografia delle società africane, voi troverete che ci sono motivi per non essere così pessimisti. La capacità del popolo africano di resistere, di attaccarsi alla vita nonostante tutto dica morte, pandemie, Aids, crisi del debito, disoccupazione, inflazione – che raggiunge in certi paesi il 100% – mancanza di ospedali. Ebbene questo popolo resiste, sorride alla vita e si inventa un presente fatto di cose semplici. Se volete capire cosa voglio dire, andate a leggere Serge Latouche, “L’altra Africa”. L’Africa dell’informale, dei contadini che si organizzano; l’Africa che sta riscoprendo i saperi tradizionali, sia nella medicina che nelle piccole tecnologie, l’Africa delle donne, che sono una forza della natura incredibile. Lo vedo nella mia famiglia, mia nonna, mia madre; donne che hanno conosciuto tragedie che se ve le raccontassi stasera, solo a sentirle vi sentite male. E che invece stanno in piedi, ogni giorno, si alzano, resistono, creano legami di solidarietà tra di loro. Vi racconto solo questo: finita la guerra in Congo, non sapevo se mia mamma fosse viva oppure morta ma alla fine riesco ad avere notizie. E mamma mi dice: «La nostra casa è distrutta, ma…» «Però voi siete vivi, va bene ricominciamo». Le mando un po’ di soldi attraverso quei ladri organizzati della Western Union (è l’unico canale che abbiamo per mandare i soldi in paese. Prendono il 14% sui soldi versati, però con la garanzia che se mamma mi chiama stasera e ha un problema, io mando i soldi e nel giro di trenta minuti lei li può andare a prendere). Le mando dunque questi soldi. Passa un giorno, passano due giorni e la chiamo per sapere se li ha ricevuti. E lei mi risponde ridendo: «Non solo li ho ricevuti, ma ho chiamato le mie amiche e abbiamo mangiato e bevuto con questi soldi!». Lì per lì una cosa di questo genere la potrebbe prendere male,
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ma riflettendoci mi sono detto che i miei soldi oggi arrivano e domani non possono arrivare; in questo lei invece ha fatto un investimento sociale, ha fatto un investimento relazionale. I miei soldi non ci sono sempre, ma le sue amiche ci saranno sempre e lei sa che potrà sempre in ogni momento contare sulla solidarietà di queste sue amiche. Ecco, questa è l’Africa dell’economia informale; che non monetizza tutto ma che gioca sulla riattivazione di valori che l’economia ufficiale e la mercatizzazione hanno espulso. Quell’Africa che riesce a non trasformare le relazioni sociali in relazioni economiche come purtroppo ha fatto invece l’Europa che è diventata una società di mercato. E l’economia informale si ferma laddove il profitto diventa prevalente. Questa Africa che sta lì e che resiste, a mio avviso può essere il volano da utilizzare per risolvere tutti i drammi che vi ho raccontato. Quindi, ripartire dall’Africa. Io vi faccio una confessione, io sono nato attorno agli anni ’60 ed sono stato uno di quelli che veniva mandato in Europa – a studiare nei collegi dei gesuiti – con la missione ossessiva di andare a rubare il segreto della potenza europea. Come dice il romanziere senegalese Cheikh Hamidou Kane nel libro “L’ambigua avventura”, “andate dagli europei a imparare l’arte di vincere senza avere ragione”: arte nella quale siete insuperabili! Oramai sono passati molti anni ma più vivo qua e più vado in Africa (e sempre più spesso ci vado), sto scoprendo che quel segreto che cercavamo in Europa sta ancora giù; nella saggezza di questi anziani, nella capacità di resistenza di queste mamme. E più la globalizzazione mostra i suoi volti più cattivi, più mi dico che bisogna scavare in Africa e non in Europa se vogliamo trovare la chiave per la soluzione dei nostri problemi. Che cosa ci manca? Ci manca una classe dirigente che abbia quelle caratteristiche che Gramsci delineava (si può ancora accettare Gramsci?); mancano gli intellettuali organici, perché la scuola africana, nel momento in cui noi mettiamo piede a scuola, comincia il cammino di allontanamento dalla nostra società e dai nostri popoli. E più dura la nostra presenza e più si allunga la distanza tra noi e le istanze profonde di questi popoli. Quando poi torniamo, dopo 20-25 anni, e tentiamo di imporre a quei popoli soluzioni apprese altrove, lì nasce il corto circuito. Quindi un nostro vero problema è trovare degli intellettuali obbedienti – nel senso latino di “abaudiens” – che siano in ascolto dei loro popoli, che prendano queste aspirazioni e le traducano in progetti politici. Se questo non avverrà, se continuerà questo corto circuito, l’Africa dell’informale e l’Africa ufficiale continueranno a camminare per strade parallele. Mi consola il fatto che il problema di trovare una classe politica adeguata, obbediente, organica, non è solo un problema africano! Grazie. Gli ospiti rispondono alle domande e agli interventi del pubblico
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Nota Per problemi con l’impianto di registrazione, non è stato possibile riportare tutte le domande e gli interventi posti dal pubblico nonché alcune parti delle risposte di Jean Leonard Touadi Primo intervento pubblico La prima cosa che volevo dire è dare una risposta a quella domanda che ci era stata fatta all’inizio, sul perché eravamo qua stasera. Io sono qua stasera perché mio padre mi diceva sempre una cosa, che non dovevo fare agli altri ciò che non mi piaceva fosse fatto a me. E da questo pensiero semplice, cerco di capire quello che succede ora in Africa e che poi probabilmente – non so cosa ci riserverà il futuro – può succedere benissimo anche in Italia. Un’altra cosa che volevo chiedere: io faccio l’agricoltore e lavoro con molti immigrati di cui la maggior parte sono africani. Lavoro in una azienda che fa tabacco e con la legge della Comunità Europea che hanno approvato da poco, c’è la possibilità di fare il tabacco fino al 2006 dopodiché verranno dati incentivi per la sua dismissione. Questo tabacco verrà fatto poi in Africa. Mi chiedo allora che guerra si scatenerà in Africa per il tabacco visto che si sono scatenate guerre per tutto! Ho poi una curiosità. Molti degli operai che lavorano con me, soprattutto le donne, cambiano spesso nome. Mi sono ritrovato con queste ragazze che provenivano dall’Africa e che si chiamavano chi Natalina, chi Anna, chi Rachele e ho chiesto il motivo di tutti questi nomi italiani. E loro mi hanno risposto che quando vengono in Italia, cambiano nome! Infine un’ultima cosa sulla guerra da combattere a casa nostra. Lei faceva il discorso che in Africa non volete più gli aiuti umanitari ma volete essere lasciati in pace e inoltre ha detto che le guerre contro questi metodi di mercato devono essere combattute all’interno dei propri paesi, quindi anche all’interno dell’Italia. L’ultima volta che è stato presentato un libro, quello su Ho Chi Min, un compagno raccontava che una volta una delegazione italiana del PC – tra cui anche Occhetto – era andata da lui e che gli fu fatta la seguente domanda: «Come noi comunisti italiani possiamo venirvi a dare una mano?» e Ho Chi Min rispose, molto tranquillamente: «Combattendo la nostra guerra all’interno del vostro paese». Secondo intervento pubblico Volevo rispondere a quell’inquietudine che all’inizio ci avevi detto, l’inquietudine mia ma che forse riguarda tutto il genere umano. L’Africa ci inquieta perché forse è quella zona dove un tempo lontano c’era l’Eden. Ma siccome siamo stati cacciati a calci in culo, forse ci ricordiamo questa inquietudine! E poi, volendo ricordare alcuni concetti di Jung come quello di ombra, voi siete la nostra ombra: ombra non nel senso negativo del termine, perché poi le due cose stanno insieme e non sono separate. È la nostra coscienza, è la nostra
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anima: non per niente, l’animismo è di casa in Africa. Molto spesso il nostro Cattolicesimo e le religioni ci fanno perdere il contatto con la nostra propria anima. Io personalmente sono sempre stato attratto dall’Africa, mi affascina dell’Africa il mistero. Spesso parlando dei paesi dell’Asia e dell’India si dice che quei popoli o si amano o non si amano. Io credo che con l’Africa non capiti questa cosa, ma si viene sempre affascinati. Un’altra cosa su cui mi veniva da riflettere era che tutti si preoccupano, a livello mondiale, della Cina che comincia ad essere determinante nei consumi a livello internazionale. Si tralasciano però i veri problemi che sono anche i problemi dell’Africa. Quello di cui sono convinto e di cui cerco di convincere gli altri è che, per risolvere tali problemi, bisogna iniziare ad essere essenziali nella vita, essenziali nel mangiare, essenziali nel comprare, essenziali in tutto. E già la scelta di cercare di fare delle scelte dove si fa attenzione a quello che si acquista, da dove arriva, come si fa, non basta più. Va bene il commercio equo e solidale, ma non basta. Bisogna invece ridursi al minimo. Luigino Ciotti Per chi vuole approfondire le questioni dell’Africa, vi ricordo che c’è la rivista dei Comboniani, Nigrizia, che è fatta molto bene. E poi ci sono un paio di siti, www.chiamafrica.it e www.misna.org che sono altrettanto importanti. Vi segnalo poi che la Caritas locale ha prodotto recentemente un video su Kasumo, dove hanno costruito due scuole anche grazie al contributo di diversi Bastioli. Terzo intervento pubblico Erri di Luca, qualche tempo fa, su un articolo di Liberazione molto interessante che riguardava la questione degli emigranti, parlando come se fosse un emigrante e non un cittadino italiano, diceva: «Noi siamo i piedi del mondo, siamo quelli che fanno i chilometri per arrivare nel posto dove serviamo al momento». In Africa – e non solo – è comunque aumentato il flusso delle giovani generazioni che spesso non hanno speranza e rivolgono la loro speranza verso l’“amica” Europa. Mi chiedo allora se la domanda di questi giovani è direttamente proporzionale al disinteresse dell’Europa e al cinismo della geopolitica o è soltanto – come dice qualcuno – la demografia in eccesso (fanno tanti figli, l’economia è debole e si parte)? E questa bomba dell’immigrazione che ci investirà indipendentemente dalle leggi che si possono fare in un paese (anche Roma fece delle legge che i Barbari non potevano entrare nell’impero. I barbari sono passati) è da valutare positivamente o invece ci creerà dei problemi che dovremo affrontare in qualche modo?
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Jean Leonard Touadi Non comincerò dicendo che sarò breve perché significa che sarò lunghissimo! Però non darò risposte ai vostri interrogativi, mi angosciano come angosciano voi. Mano a mano che vi ascoltavo mi veniva da rigirarvi a voi stessi le domande che mi avete fatto… Velocemente sul discorso degli agricoltori e del tabacco che si sposterà da qui all’Africa. Non ho informazioni precise a riguardo, so solo che gli agricoltori africani, così come quelli boliviani o colombiani, stanno cominciando a strappare dalla terra il caffè e il cacao per coltivare cose più redditizie, per coltivare quelle merci che l’Europa cerca e paga di più. E questo è drammatico, è una cosa che non dovrebbe avvenire ma che invece sta già avvenendo. Gli Africani hanno capito quello che avevano capito gli Spagnoli all’epoca; cioè che – essendo il clima e la vegetazione simili in certe parti dell’Africa e dall’altra parte dell’Atlantico – certe piante, se crescono rigogliose in Bolivia e in Colombia, allora crescono rigogliose anche nella foresta equatoriale del Centro Africa o del Congo. Ma questa roba non si consuma in Africa. E anche in questo caso si tratta di fare delle scelte. Che cosa preferite? Comprare il caffè o il cacao al giusto prezzo o vedere i vostri mercati inondati di droga? Scelte estremamente semplici. E la legge del mercato vuole che le persone producano ciò che il mercato chiede. Non so se è la risposta alla tua domanda, però sicuramente ci sono questi spostamenti… Per quanto riguarda il cambio di nome, può essere anche un fatto culturale. I nomi africani sono nomi di circostanza. Solo adesso abbiamo imparato, con il diritto coloniale, ad avere i nomi del papà. La persona nasceva e gli veniva dato il nome a seconda della circostanza della sua nascita, a seconda del momento che stava vivendo la famiglia; tanto è vero che mia moglie si diverte molto a chiamarmi con il cognome di mia mamma che si chiama “Basebiuna”, coloro che sanno mentire! Perché prima della nascita di mia madre, mia nonna aveva già avuto tre figlie (tre figlie erano quasi una sciagura!). La sua famiglia incominciò a chiamarla “la donna sterile”. Quando poi è nata mia madre, l’hanno chiamata “Basebiuna”, la vergogna delle bugie, ecco è nata. Però questo nome fa gioco a mia moglie per altri motivi! Quindi può essere anche un fatto culturale, il non attaccarsi ai nomi perché i nomi cambiano a seconda delle circostanze. Ma può essere una cosa ancora più brutta, forse più grave, che consiste nella difficoltà e nella fatica di dire agli altri come mi chiamo. Se vuoi entrare in contatto con me, devi imparare a dire come mi chiamo. Su questo spesso gli Italiani non si rendono conto, ma è un disagio sentire quando vai negli uffici: «Cheee???» «Mi chiamo Touadi…».
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Ci sono nomi più complicati di Touadi, pensate solo a Calderoli! Calderoli è più complicato di Touadi! Eppure… Questo fa sì che molti Africani vogliano abbreviare il momento dell’incontro interculturale offrendo agli Italiani una cosa facile e che dà loro meno noia. E questo è un fallimento, secondo il mio punto di vista, dei rapporti interculturali. Significa che una delle due parti si annulla per fare contenta l’altra. Questo è ciò che, da qualche anno a questa parte, mi sta un po’ costando l’amicizia con Magdi Hallam, un mio grande amico. Lui dice che noi siamo i nuovi italiani, di pelle scura, con nomi diversi, ma siamo la nuova Italia. L’Italia deve imparare a capire che non è fatta solo da persone bianche nate nel paese. La cittadinanza è un fatto di valori, di accettazione, di regole comuni e non solo di biologia. Sono più Italiano io del pronipote di un Italiano che vive in Australia. Questo sicuramente. Però nel nostro essere Italiani, dobbiamo portare a questa nazione che ci ha accolto lo specifico di ciascuna delle nostre culture. Questo farà ricca l’Italia. Se noi ci accontentiamo di servire al paese che ci accoglie ciò che vuole sentire, non c’è lo scambio. È quello che rimprovero a Magdi Hallam, che spesso serve agli Italiani ciò che vogliono sentire. Mi dispiace per lui, ha fatto una brillante carriera, per noi è un onore che uno di noi sia diventato il vice direttore del Corriere della Sera; strappato da Repubblica a suon di miliardi, con un’ operazione tutta da capire su cosa è successo. Con questa specularità per cui se Pisano dice una cosa, te lo ritrovi nell’articolo di Magdi Hallam il giorno dopo. E poi quello che Magdi Hallam scrive, il ministro dell’interno la cita tale e quale. Lui si è fatto una villa miliardaria, è ricco e sono contento per lui. Però la multiculturalità è qualcosa di diverso. È come nelle copie, come dire che noi andiamo d’accordo perché siamo uguali! Cretini, che cosa vi scambiate?! Il profeta Kalil Jibram diceva: «Servitevi il vino l’un l’altro ma non bevete dalla stessa coppa». Quindi questo cambio di nome – temo – sia in qualche modo il fallimento del rapporto interculturale. Ribadisco allora l’importanza che voi ci aiutate a combattere qui da voi, che facciate la vostra parte di lotta qui. Anche noi Africani chiaramente dobbiamo fare la nostra parte, questo lo dico sempre. Ieri sera ero ad un dibattito a Milano sulla Costa d’Avorio e ho detto a questi Africani (che si lamentavano con i francesi): «Attenzione, sono quarant’anni che siamo indipendenti, quanta fetta di responsabilità abbiamo avuto? 50, 40, 30? 20, 10, 5%? Ma anche di questo cinque, che cosa ne abbiamo fatto? Finché non sapremo render conto ai nostri popoli di che cosa abbiamo fatto di quel margine di autonomia che abbiamo avuto, le nostre grida contro le leggi e contro lo sfruttamento degli altri, non avranno credibilità (discorso che è difficile far passare in Africa, quasi ti tirano i pomodori). Quando però noi abbiamo fatto la nostra parte, c’è un punto dove noi ci fermiamo. La questione del debito, la questione dei brevetti per le
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medicine; la questione del “doping” sui prodotti (ad esempio il cotone nostro che incontra il cotone americano che è finanziato. E questo significa che non c’è nemmeno mercato libero perché se tu ricevi sussidi e il tuo cotone arriva sul mercato a prezzo ridotto mentre il mio non ha avuto sussidi, non c’è mercato), la questione della globalizzazione che diventa anche un inganno. La questione delle armi: il kalashnikov è la cosa che si può più facilmente acquistare in Africa, compreso in Angola. Laddove le medicine, il pane, i quaderni, le penne non arrivano, le armi arrivano sempre e comunque. Chi li manda, chi li vende? Quali sono le banche? Forse anche i vostri risparmi, non so quanti risparmi avete in banca se non li avete sprecati in Cirio oppure in Parmalat? Quello che è rimasto forse sta alimentando il circuito della compravendita delle armi. Queste sono battaglie che noi non possiamo fare. Allora, io non è che vi dico di non venire. Se proprio ve l’ha prescritto il medico, venite pure in Africa! Ma la cosa più importante è che voi facciate queste battaglie, per liberare le comunità e i popoli, perché non ce la fanno più. Si dice che questi “negri” non hanno voglia di lavorare. Andate in qualunque città africana, si muovono tutti. Si muovono i bambini, si muovono le mamme, tutti a correre, camminano, si fanno dei chilometri, a volte con quattro arance sulla testa, arance sbucciate con un po’ di sale sulla testa. Chilometri e chilometri, come fanno i senegalesi sulle vostre spiagge durante l’estate. Per portare a casa che cosa? Un pesciolino rinseccolito con quattro fagioli neri. Questo non è un popolo pigro, questo è un popolo che ha davvero la cultura della resistenza, che ha imparato a sue spese ad ottimizzare l’anarchia che c’è oggi in Africa. È il punto di forza delle nostre popolazioni. Però anche quando avremo fatto questo, ci sono delle cose che non dipendono da noi. Chi vende le armi, chi traffica in droga, chi in petrolio. Che ci possiamo fare? Questa è una battaglia che affidiamo alla parte più illuminata, alla parte migliore dell’Europa. Non lo dico perché siete qui ma quando a volte leggo i giornali e mi chiedo in che razza di paese mi trovo, mi basta vivere una serata come questa per capire che l’Italia non è quella che viene rappresentata in televisione, così come anche l’Africa non è sempre quella che viene rappresentata. Questa gente va aiutata e questo nemmeno a volte non lo capiscono nemmeno le ONG. Anzi, sono soprattutto le ONG che non lo capiscono o i missionari che a volte vivono questa mistica del “deus ex machina” che arriva e risolve tutti i problemi. Io ho incontrato spesso dei missionari che magari stanno in un villaggio da trent’anni che girano ancora personalmente a chiudere dappertutto senza lasciare l’incarico ad altri perché non si fidano di nessuno. Non ti fidi di nessuno? Ma in questo modo stai decretando la fine, il fallimento della tua missione. Se io fossi il tuo vescovo, dopo una frase di questo genere, ti rimanderei in Italia. Se dopo trent’anni non ti fidi di quel villaggio e pensi
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che non cambierà nulla, io ti rimando a casa. Ti faccio anche un piacere, che cosa stai facendo là? Quindi, se c’è un senso oggi nell’aiutare l’Africa, è nel fare questa parte di lotta qui da voi su queste questioni che sono centrali: il debito, i farmaci, la privatizzazione dell’acqua. In paesi dove piove otto mesi su dodici, se privatizzi l’acqua, hai ammazzato milioni di persone. È quello che sta succedendo oggi. La Leonesse des Eaux, una compagnia francese, sta comprando tutte le fonti d’acqua nell’Africa Occidentale. La voglia di liberté, egalité, fraternitè! Niente da dire sul discorso dell’inquietudine, il mistero dell’Africa che sta lì e forse rimarrà sempre, perché io stesso li ritrovo in Africa ogni volta che ci torno, pur essendo io un Africano nato e cresciuto in Africa fino all’età di 19 anni. Non so nemmeno perché mi hanno mandato in Europa, non avevo mai pensato di arrivare a 45 anni a mangiare spaghetti! Non sono potuto tornare perché il paese è in guerra. Però ecco, questa idea di ritrovare qualcosa di primordiale. È sbagliato dire primitivo o selvaggio, però sicuramente c’è qualcosa di primordiale, di arcaico nel senso proprio di “archè”, principio, fondamento, inizio. Ed è un sentimento fortissimo. Dopo di che c’è anche quel mal d’Africa così alla “matriciana”, quello di Licia Colò, tanto per intenderci! Questa multiculturalità semplicistica di Licia Colò dove la cultura dell’altro rimane sempre e comunque un folklore ad uso e costume degli Occidentali. Brava ragazza e si presenta pure bene, Dio la benedica. Però sta facendo un’intercultura alla matriciana, la cultura dell’altro piegata ad elementi folkloristici, residuali ad uso e consumo degli Occidentali. E a lunga scadenza, non so se è bene o un male. A volte dico che è meglio non fare multicultura piuttosto che farla mala, perché lascia delle cose profonde. Sono cose che dico anche a lei, anche lei lo sa. Importante, secondo me, è il richiamo all’essenzialità. Un invito che faccio sempre agli Europei e a tutti è il ritorno all’essenzialità, fare lo sforzo di sottrarre buona parte della nostra vita alla logica del profitto e del dare/ricevere. Chiunque riesce a fare questo ne trae giovamento. E non dovete riscoprire questo in Africa, fa parte della vostra cultura. Leggete Erich Fromm, “Avere o essere”, un libro eccezionale. È una scelta importante se io voglio vivere secondo la modalità dell’essere o secondo la modalità dell’avere. Cambia molto. Tutta la televisione sempre spingerci verso la modalità dell’avere. Invece dobbiamo ribellarci. Quando Zanotelli dice che oggi la vera idolatria da combattere è quella dei supermercati, dice una cosa molto vera e anche molto profetica. La società europea tornerà secondo me ad essere felice quando cesserà di credere che il benessere inteso come cumulo quantitativo di
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beni corrisponde allo stare bene come fatto relazionale e valoriale. Però questo è difficile. L’essere essenziale, forse l’Africa ci comunica anche questo. Potere essere felici con poco. Anche se pure lì la seduzione della modernità sta avanzando attraverso i satelliti geostazionari, le antenne paraboliche. Sotto questo punto di vista, esse rischiano di diventare per l’Africa antenne diaboliche! Perché introducono degli elementi antropologici che distruggono dei pilastri essenziali dell’antropologia africana come ne hanno distrutti pure in Europa. Non credo che questi valori siano africani, sono valori semplicemente umani. Ecco perché quando li ritroviamo, abbiamo la sensazione di aver ritrovato qualcosa che ci apparteneva, la primordialità. La questione demografica è secondo me una falsa questione perché se da un lato c’è il boom demografico in quasi tutti i paesi del sud del mondo, basta solo andare a guardare il tasso di mortalità per rendersi conto che il boom demografico, stante queste condizioni, non avverrà mai. Se mi muoiono cinque figli su dieci – e l’Aids sta completando il resto – la mia impressione (ma non è solo la mia) è che parlare di pianificazione demografica prima di parlare di sviluppo è mettere il carro dinanzi ai buoi. La mia sensazione, molto empirica ma forse vera, è suffragata anche da studi: laddove c’è un minimo di innalzamento di condizioni economiche e sociali, di alfabetizzazione delle donne, la demografia cala. Con un minimo di benessere materiale, di innalzamento delle condizioni di vita, di cultura per le donne soprattutto, la demografia cala. Allora che cosa bisogna fare? Sterilizzare tutti gli Africani?! Oppure fare in modo che le donne possano andare a scuola e che le condizioni economiche e sociali migliorino? L’ho visto nella mia famiglia, il passaggio dal numero di figli di mia nonna al numero di figli di mia madre al numero di figli di mia sorella. L’innalzamento delle condizioni di vita e della cultura, della capacità di andare a scuola, di avere accesso a conoscenze, etc. etc. ha portato di per sé ad una riduzione drastica della natalità. Mia sorella ha due figli il che per mia nonna che ne ha avuti dodici è un grande scandalo! Nel frattempo c’è passata la scuola, il fatto che mia sorella lavora, l’emancipazione, la cultura e così via dicendo. Per cui non confondiamo le cose, io non credo molto nella bomba demografica. Credo invece che l’immigrazione sia un grosso problema, grossissimo: talmente grosso che non possiamo affidarlo a Calderoli e Bossi. Purtroppo la politica d’immigrazione in questo paese è fatta da Castelli, Calderoli e Bossi, però questa non è colpa mia! Quarto intervento pubblico Innanzitutto desidero complimentarmi con lei per la padronanza della nostra lingua e per la brillantezza dell’esposizione, affatto noiosa. Vale 150000
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“Porta a Porta” questo incontro, a dir poco! La mia domanda è un pochino particolare. Negli anni ’70 Thomas Bernhard, uno scrittore austriaco, nel ricevere un premio letterario, determinò un notevole scalpore affermando che la cultura austriaca e quella europea erano minacciata dalla presenza della cultura araba. Oggi in Italia c’è qualcuno che afferma quanto le sto dicendo, e forse lo avrà sentito, che la cultura italiana ed europea è minacciata da quella africana. Esiste un pericolo? Io non l’ho visto. Grazie. Jean Leonard Touadi La questione che ha posto sul mondo arabo, se la cultura araba minaccia la cultura italiana, io la rovescerei e mi chiederei che cosa è la cultura italiana oggi. Sto andando in giro cercando un po’ di sfidare gli Italiani a dirmi oggi che cosa intendono per la cultura italiana. Non oso pensare che la cultura italiana è quella che va in onda sull’“Isola dei famosi”, “Panariello”, “Grande Fratello” etc. Non penso nemmeno che la cultura italiana sia solo quell’operazione di archeologia culturale che riguarda il passato, il glorioso Rinascimento o il Risorgimento, il mondo romano e così via dicendo. Di che cosa culturalmente vive l’Italia oggi? Che cosa sta esprimendo, nella contemporaneità? Che cosa sta attivando per far passare tutto quel patrimonio che ha reso grande l’Italia, che ha fatto invidiare a tutto il mondo gli Italiani, che cosa sta facendo l’Italia per travasare questo alle nuove generazioni? Chi fa qualcosa per evitare il corto circuito tra questo grande patrimonio e i giovani di oggi che rischiano di avere solo delle cose molto vaghe e generiche di quello che i loro antenati hanno vissuto? Dove posso trovare oggi la cultura italiana, dove la posso toccare, dove la posso esprimere? Se io la voglio vivere, dove vado? Sulle grandi questioni di cui stiamo parlando adesso, la globalizzazione, il mondo, l’incontro/scontro tra le civiltà, io posso citarvi cinque, otto, dieci autori significativi francesi o significativi inglesi. In questo momento, tolto Cacciari che più o meno sta su quella linea di dire “diamo risposte a questi problemi”, quali sono gli autori significativi italiani? Stento a credere che voi vogliate mettere in questa lista Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Renato Farina e così via dicendo. Quando gli Italiani dicono che vogliono difendere la propria identità, io capisco bene che un discorso strumentale; è un’identità che vogliono riscoprire per brandirla come spada, per dire “tu non sei dei nostri”. Però mi interessa questo discorso della riscoperta delle radici, perché se gli Italiani davvero riescono a riscoprire la vera identità italiana, quell’identità ha molte cose da dire su ciò di cui stiamo parlando adesso. Quell’identità infatti afferma l’importanza della centralità della cultura. Quell’identità afferma l’importanza della cen-
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tralità della persona. Quell’identità sostiene l’importanza della centralità della cultura del diritto. Insomma, quell’identità dice tante cose che ci possono dare delle risposte. E se c’è una cosa che a me dispiace è come l’Europa abbia abdicato – nel momento della firma dell’accordo di Maastricht – a tutto il suo passato per aderire ad un tipo di capitalismo di stampo anglo-sassone. Ciò che è passato nell’accordo di Maastricht non è la tradizione europea della socialdemocrazia, della dottrina sociale della Chiesa, della centralità della persona. Ciò che è passato nell’accordo di Maastricht è l’impianto capitalistico di stampo anglosassone, quello weberiano e protestante in cui primeggia l’individuo. Se sono ricco è perché sono stato fedele a Dio e Dio mi gratifica. La cultura cristiano-cattolica dice invece solidarietà. Attenzione a Lazzaro, attenzione a colui che cade vittima, attenzione ai poveri. Una cultura questa espressa per la prima volta in modo organico dalla Rerum Novarum di Leone XIII nel 1893 e sul franto laico espressa dalla socialdemocrazia che diceva di riformare il capitalismo insediando il welfare (questa parola che per l’economia neo-liberale è diventata quasi una parolaccia, tanto che le vostre brave Unità Sanitarie Locali sono diventati “Aziende Sanitarie Locali”. Il malato non è più una persona, è un utente. E le sale di chirurgia devono rendere conto delle operazioni che vengono effettuate quasi nello stesso modo in cui il magazziniere rende conto delle merci che entrano o escono). Dove sta in tutto ciò l’identità italiana? Allora, di fronte a questa incertezza e a questo smarrimento totale, qualunque cultura che abbia un minimo di coerenza e di forza, fa paura. Altrimenti non posso pensare come 400-500 mila immigrati possano minacciare la cultura di 58 milioni di italiani! È un’aberrazione. Se la minacciano, significa che la cultura d’origine sta attraversando una fase di grande debolezza. Dopo di che ci sono dei conti aperti tra l’Occidente e il mondo arabo, dei conti storici. Lepanto o i diversi nodi che non sono stati risolti con il crollo dell’impero ottomano. E in questa situazione, l’Occidente che cosa ha fatto? Si è solo precipitato sulle spoglie dell’impero ottomano dividendolo tra britannici e francesi, senza affrontare la questione culturale. Quindi stiamo facendo, con tanti secoli di distanza, i conti con i problemi che non avevamo risolto ieri, i problemi storici tra il mondo arabo e il mondo cristiano. Però possiamo dire che il cavallo di Troia è oramai oltre le mura. Non possiamo pensare di cacciarlo, di ridefinire la nostra identità e poi semmai di rincontrarli. Sono già qui. I Mussulmani in Italia. Cosa vuoi fare con loro. Arrivare allo scontro? Come stanno facendo su i vari Borghezio che a Lodi hanno portato i maiali su un terreno destinato a far sorgere una moschea. Questa è la soluzione che noi diamo ad un problema annoso come questo? Quindi c’è la necessità, su questi
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problemi, di essere molto seri: non ci si può scherzare su questioni di tale genere. E allora qual è la scorciatoia? La scorciatoia è di dire che loro hanno un valore forte e di contrapporre anche noi un valore forte: che troviamo nel Cristianesimo. Il Cristianesimo “à la carte”, prendendo solo quello che mi serve per costruirmi un’identità e lasciando fuori tutto il resto. Per cui i grandi liberali come Ferrara, Feltri, Panebianco, oggi sono diventati i difensori dei valori cristiani, traviando lo stesso messaggio cristiano, proprio perché Cristiano significa essere aperto all’universale. Cristo non è Europeo, Cristo è nato in Medio Oriente ed è stato ammazzato perché ha rifiutato di identificarsi con una religione di stato. «Il mio regno non è di questo mondo» ha detto agli Ebrei. E gli Ebrei hanno risposto: «Bene, se il tuo regno non è di questo mondo, a questo punto non ci interessa, perché noi aspettavamo il Messia che doveva liberarci dai Romani. Se sei venuto per questo, ti sosteniamo. Se non sei venuto per questo, non ci servi più». Non so se vi rendete conto. Proprio colui che ha creato questa religione, sta ridiventando in Europa la persona attorno al quale coagulare una religione culturale e sociologica. Non è bastato il cesaropapismo del Medioevo che ha traviato lo stato e la religione. Grazie a Dio, il concilio ha liberato la religione e lo stato. Non possiamo tornare indietro. E i Cristiani che non sono Europei, possono fare la stessa operazione? Che facciamo, ci accaparriamo gli abiti di questo cristianesimo, un pezzettino all’uno, un pezzettino all’altro? Non è seria questa cosa. E che Ruini, Ratzinger entrino in questa operazione, davvero è una cosa che mi scandalizza. È scandalosa, dal punto di vista dottrinale, prima ancora che dal punto di vista morale e politico. Però si sa, lo Spirito Santo non soggiorna a Roma! Io mi auguro davvero che muoia presto questo Papa (Giovanni Paolo II, n.d.r.). Sono cinque anni che non controlla più niente. La fanno da padrone i vari Ruini e Ratzinger. Che muoia, che ci sia un uomo nella forza delle sue capacità fisiche e mentali e che decida. Non mi puoi scrivere un’enciclica aperta, rifiutare la guerra e avere invece dietro di te tutti i tuoi collaboratori che costruiscono una fortezza cristiana contro i Mussulmani. Non è coerente tutto questo, almeno dal mio punto di vista. Basta, concludo così. Solo un’ultima constatazione, quella che una serata come quella che abbiamo vissuto oggi ci dice che dobbiamo reimparare a passare il tempo insieme. Grazie.
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luglio 2007