Quaderni del volontariato 9
Edizione 2018
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net
Edizione aprile 2018 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Testi di: Angela Rita Cataldi, Eleonora Cataldi,
Rita Chiaverini, Debora Nardi, Denise Nardi, Monica Paggetta, Valentina Patrizi Stampa Digital Editor - Umbertide
tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata ISBN 9788896649787
Le parole che trasformano Con la collana “I Quaderni del Volontariato”, giunta alla sua undicesima edizione, il Cesvol con ben 116 titoli, concretizza una delle proprie finalità istituzionali, che rimane quella di promuovere la cultura del volontariato, della solidarietà e della cittadinanza attiva. Si tratta di testimonianze e di esperienze di vita che possono contribuire a tessere un filo di coesione e di dialogo positivo, contaminando il nostro immaginario collettivo con messaggi valoriali ed equilibrati, in perfetta controtendenza rispetto al flusso, ormai pervasivo, di contenuti volgari ed, in molti casi, violenti ed aggressivi di cui è piena la contemporaneità con le sue “vie brevi” di comunicazione (come i social). Se consideriamo la nostra mente come un bicchiere, sarebbe da chiedersi di quale liquido si riempie quotidianamente. Se la nostra rappresentazione della realtà viene costruita dai programmi televisivi, se il nostro punto di vista su un tema specifico viene condizionato dai commenti della maggioranza dei nostri amici di facebook, se abbiamo appreso tutti la facilità con la quale è possibile trattar male una persona, mascherati e non identificabili, senza che questo produca qualche tipo di turbamento alla nostra condizione psicologica, se nel postare i nostri punti di vista ci consideriamo degli innovatori solo perché siamo ignoranti e tutto quello che sappiamo lo abbiamo ricavato da ricerche lampo su Google… ebbene, se riflettiamo su tutto questo, forse non va ricercata molto lontano la risposta alla domanda ormai cronica del perché di una polverizzazione delle relazioni, di un isolazionismo nelle nostre “case elettroniche”, dell’adesione acritica ai vari estremismi di turno che, quelli sì, sono perfettamente consapevoli del potere trasformativo della parola e della sua comprensione sia razionale che emozionale. Eppure, le parole (e quindi i pensieri e le emozioni che vi sottendono) creano la realtà. Non occorre scomodare tanta letteratura per
comprendere quanto i pensieri siano potenti nel determinare la nostra realtà, nel convincerci che una cosa è in questo modo piuttosto che in quell’altro. Lo abbiamo sperimentato più o meno tutti nella nostra esperienza di ogni giorno, ma poi perdiamo la consapevolezza della nostra stessa origine: all’inizio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio. Il verbo era Dio. Più laicamente, questa “sequenza” è stata ripresa in tutte le millenarie tradizioni sia orientali che più vicine a noi. Ma ancora una volta, oggi se ne è persa la consapevolezza. La parola è un “fattore” unico nel suo genere, una vera e propria bacchetta magica. Ascoltare, leggere, udire solo parole negative produce nel destinatario un vero e proprio campo energetico negativo. L’energia altro non è se non un trasferimento di informazioni. Un trasferimento che avviene attraverso il filo sottile della comunicazione. Oggi, forse inconsapevolmente, l’umanità sta letteralmente usando il potere della parola senza rendersi conto di quanto questa stia trasformandola, conducendola agli estremi di qualsiasi punto di vista. E, quindi, l’un contro l’altro armati. Dice il noto psichiatra Vittorino Andreoli, “Ci troviamo ad un livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”, ma a noi, come osservatorio della sottile realtà dell’associazionismo e del volontariato, piace conservare e consolidare la speranza che, ad un certo punto, rispuntino da qualche parte parole come amicizia, solidarietà, condivisione e, perché no, amore. Le parole, non urlate, che appartengono e che ispirano il comportamento di quella parte di cittadinanza che ha preso in carico la sua quota di responsabilità nella società che abita. E che non resta alla finestra, o peggio, dietro al rassicurante schermo di un computer. Sono queste le parole che popolano il piccolo mondo della Collana del Volontariato, che con queste testimonianze prova a riempire con il liquido magico della parola trasformante quel bicchiere ancora mezzo vuoto. Salvatore Fabrizio Cesvol Perugia I Quaderni del Volontariato
Frascaro di Norcia Storia, arte, miti e leggende a cura di Monica Paggetta
Associazione
“Per il Sentiero del Silenzio da Frascaro a Norcia�
Frascaro di Norcia
INDICE
Prefazione di Romano Cordella Introduzione Le origini di Frascaro Chiese e monumenti La chiesa di Santa Maria del Rovaro La chiesa di Sant’Antonio Abate La chiesa della Madonna della Cona La fonte de Messanu I terremoti Storie, racconti e leggende Intervista sulla guerra La Resistenza a Frascaro Casaletto del Castagneto Violenze sui minori e sulle donne Il paese dei Briganti La leggenda di Cecco d’Ascoli “L’Incamata”, sfottò per i novelli sposi Detti e proverbi Festività e ricorrenze Festa di San Rocco Festa delle Croci Festa della Candelora Festa delle Fantelle La cena delle vecchie Canti tradizionali Rassegna stampa Rassegna fotografica Referenze fotografiche Bibliografia
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p. 9 p. 13 p. 15 p. 21 p. 24 p. 56 p. 62 p. 65 p.85 p. 87 p. 90 p. 93 p. 95 p. 97 p. 99 p. 100 p. 103 p. 105 p. 107 p. 112 p. 115 p. 116 p. 119 p. 120 p. 123 p. 143 p. 161 p. 163
Frascaro di Norcia
Prefazione Trovo straordinario che un manipolo di donne, 7 come il numero magico, abbiano avuto l’idea di scrivere un libro su Frascaro all’indomani della catastrofe sismica del 2016 che ci ha lasciati tutti orfani e spaesati, senza Dei Indigeti e senza Lari. La loro fatica è un balsamo sulle ferite aperte. Eccone i nomi: Angela Rita Cataldi, presidente dell’Associazione “Per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia” e promotrice dell’iniziativa, secondata da Debora Nardi, vicepresidente dell’Associazione; Monica Paggetta, storica dell’arte, curatrice del volume e della parte specialistica; Rita Chiaverini, nota ricercatrice abilissima nel frugare, come in questo caso, tra le curiosità del passato; Eleonora Cataldi, Denise Nardi e Valentina Patrizi, esordienti, cui auguriamo di continuare nel loro impegno per Frascaro. Un ringraziamento ai diversi autori delle fotografie. Un plauso sincero al Cesvol di Norcia guidato dalla dinamica Antonella Guidobaldi, altra donna, sempre disponibile a sostenere e a realizzare progetti tesi a mettere in luce le peculiarità del territorio. Come reagire al massacro del luogo più caro, quello dove si è nati? Risposta romantica delle autrici: sognandolo com’era nel momento più bello della sua esistenza. Qualcuno potrebbe dire: ma che c’è da sognare a Frascaro? Risposta draconiana delle autrici: tutto. Frascaro, spiega l’introduzione, è «un luogo ricco di tesori dal valore inestimabile: la fonte de Messanu, lu Sassu Straccu, la statua di Sant’Antonio Abate», e ancora: la statua di S. Rocco, la chiesa di Sant’Antonio Abate, la Cona, la festa delle Fantelle, l’Incamata, i teschi dei Briganti, i tedeschi di nonna Vittoria… insomma, Frascaro è un posto unico al mondo. 9
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Per curiosità ho voluto fare qualche sondaggio. Appena avuta la bozza del libro sono corso a cercare “lu Sassu Straccu” sul quale mi aveva interrogato Giobbe Furi dalla sua postazione nursina. Per associazione di idee lo avevo accostato alla ‘pietra montatora’ che i vecchi usavano per salire a cavallo. Sbagliavo. Ora so che cos’è, e non ho dubbi che sia un’esclusività mondiale come le altre che seguono. Dopo “lu Sassu” sono andato a cercare la ‘fonte de Messanu’, perché mi ricordavo che il periodico “Alta Valnerina” dedicò un servizio alla fonte quando fu riscoperta e restaurata al tempo del parroco don Giovanni Benedetti. Infatti ho trovato l’articolo nella ‘Rassegna stampa’. C’è da dire che l’idrografia di Frascaro non si limita a Messano: un’altra sorgente sprofondò per un sortilegio di Cecco d’Ascoli e pare che scorra ancora nel sottosuolo; poi c’è “lu cunnuttu”. Di questa ambigua parola dà spiegazione un passo degli Statuti di Norcia, rubrica 84, primo libro: «… li homini della universitate della villa del Frascaro possano extrahere una cannella della dicta aqua dal conducto de Sancto Peregrino e menarla ad quillo loco dove ad ipsi piacerà…». Per inciso, gli Statuti offrono altri spunti su Frascaro. Ci fanno sapere ad esempio chi era il suo ‘sindaco’ nel 1346 e in che punto della montagna si trovavano i prati falciativi della comunanza. Poi sono andato a cercare ‘la Cona’, che un tempo si chiamava ‘Madonna della Tevele’. Pochi sanno che questo termine potrebbe derivare dal latino ‘debelis’ che vuol dire terreno disboscato col fuoco e poi messo a coltura (‘debbio’). Altro particolare sfizioso è che dove attualmente sorge la Cona, in epoca antica esisteva un tratturo per il quale passarono milioni di pecore transumanti. Oggi corrisponde alla strada S. Pellegrino-Piediripa.
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Poi sono andato a visitare le pagine dedicate alla chiesa di S. Antonio, il monumento più insigne di Frascaro sia per l’architettura, ispirata alla basilica assisiate di S. Francesco, sia per la scultura. Quest’ultimo aspetto è stato egregiamente illustrato da Monica Paggetta sulla base della più recente ricerca, tra cui un bel saggio di Diego Mattei, dedicato proprio alla scultura lignea della Valnerina. Ma, ahimè, sto parlando di una chiesa, S. Antonio, ridotta a un mucchio di macerie. Le opere mobili che è stato possibile salvare giacciono a Spoleto nel deposito di Santo Chiodo. In un angolo ho visto la statua di san Rocco a pezzi come su un tavolo anatomico. E pensare che quando era sull’altare aveva un’aria spavalda, perfino ironica con quel cappello in bilico sulla spalla. Quando mai si è visto un san Rocco con la bombetta? Gode di buona salute, invece, la storiella che lo fa protagonista, con il ‘rivale’ san Pellegrino, della sfida burlesca raccontata a pag. 103. Dulcis in fundo, il blasone popolare «A Frascaru non se coce pizza se non è ranu de Fuscone o de Culizza» che necessita di un piccolo commento. Fusconi e Colizzi erano due potenti famiglie nursine che possedevano i migliori terreni della zona e facevano il bello e il cattivo tempo. Perciò tutto quello che spuntava dalle zolle, grano o reperti archeologici, era loro. Quaderni di “Spoletium”, 1, di Ecco perché nel palazzo Colizzi Romano Cordella e Nicola Criniti 11
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di Norcia si conserva un’iscrizione di Frascaro col nome di un defunto di 2000 anni fa. Non uno qualsiasi ma il ‘civis romanus’ Tito Egnazieno ascritto alla tribù Quirina, propria di Nursia (CIL 09, 04569). A ricostruzione ultimata bisognerà dedicargli una via. Queste noterelle senza pretesa, un tantino saccenti e barbosette, vogliono essere un segno di attenzione e di apprezzamento per il lavoro compiuto dalle autrici che non è stato possibile citare una a una, ma tutte brave e meritevoli di lode. L’auspicio è che questo libro diventi una specie di messaggio nella bottiglia per i futuri Frascaresi i quali saranno chiamati a giudicare in quali modi e tempi sarà restituito al loro paese il patrimonio culturale trasferito altrove per essere restaurato, e se le promesse delle Istituzioni oggi ripetutamente sbandierate saranno mantenute o si tramuteranno nella solita beffa, cioè nella delocalizzazione surrettizia dei beni più preziosi. Delitto deprecabile perché perpetrato contro una popolazione indifesa. Tenendo sempre a mente, amici di Frascaro, che per patrimonio culturale s’intendono non solo le opere d’arte maggiori, ma anche gli oggetti di valore artistico minore come gli oggetti sacri della devozione popolare e, su un piano generale, tutto il complesso di abilità artigianali e saperi trasmessi di generazione in generazione in stretto rapporto con l’ambiente circostante e con la storia del luogo, che forma e rinsalda il senso di appartenenza sociale e la base identitaria della comunità. Con una clausola essenziale: che la nostra identità valga quanto quella degli altri e ripudi i muri della diffidenza. Il mondo, infatti, è un insieme di posti unici e belli come Frascaro. Romano Cordella 12
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Introduzione La pubblicazione di questo libro, nato dalla volontà dell’associazione “Per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia” e dall’interesse dimostrato dal CESVOL verso questo progetto, è volta a ripercorrere la storia di Frascaro attraverso racconti, memorie ed immagini documentarie. Un viaggio alla scoperta delle origini, delle vicende storico-artistiche e dei cambiamenti di questo luogo recentemente colpito dai disastrosi terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre 2016. L’obiettivo centrale del progetto editoriale è quello di raccontare la storia legata al territorio di Frascaro, dedicando particolare attenzione tanto alle chiese e alle opere in esse contenute, quanto alle tradizioni e alle leggende dall’alto valore simbolico per l’identità locale. Una delle maggiori difficoltà riscontrate è stata la pressoché totale mancanza di una tradizione storiografica e documentaria, carenza peraltro resa ancora più evidente quando si è cercato di reperire informazioni sulle vicende costruttive delle tre chiese parrocchiali, sui manufatti lignei, le opere pittoriche e le usanze tipiche di questa piccola comunità. Al fine di fare chiarezza sui meccanismi che hanno portato alla formazione e allo sviluppo di questo territorio, la prima parte del libro è dedicata alle origini di Frascaro che, sviluppatosi lungo l’antica direttrice Norcia-Santa Scolastica-Nottoria-Valle del Tronto-Salaria, è stato per moltissimo tempo una delle principali vie di transito della Valnerina, favorendo così la diffusione ed un intenso intreccio di scambi con le altre zone limitrofe comprendenti l’area del Nursino, dello Spoletino, del Preciano e del Casciano. Attraverso le testimonianze scritte ed orali è stato, inoltre, possibile “entrare” nel passato di Frascaro la cui memoria, oggi, rivive attraverso un cospicuo reportage di immagini fotografiche che documentano il territorio prima e dopo il terremoto. 13
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Il nostro impegno è stato quello di dar voce ad un luogo ricco di tesori dal valore inestimabile: la fonte de Messanu, lu Sassu Straccu, la statua di Sant’Antonio Abate sono solo alcuni degli esempi che fanno di Frascaro un posto unico nel suo genere. Poiché “una città non si misura dalla sua lunghezza o larghezza, ma dall’ampiezza della sua visione e dall’altezza dei suoi sogni” (Herb Caen), il nostro auspicio è proprio quello di rendere omaggio a questo luogo e preservarne la memoria come simbolo della volontà di rinascita della comunità intera. Monica Paggetta
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Origini di Frascaro Frascaro si trova nell’altopiano di Santa Scolastica ed è una delle venticinque frazioni del comune di Norcia da cui dista 6,55 chilometri. Il villaggio è situato in una zona comunemente denominata Capo del Campo, vocabolo, derivante da Ager Nursinus (Campo di Norcia), che indica la parte estrema del territorio a sud della piana. L’intera area è coronata dagli Appennini dove la realtà paesaggistica della Valnerina s’incontra con quella dei monti Sibillini che raggiungono vette anche di 2000 metri. Feliciano Patrizi Forti nel suo libro Delle memorie storiche di Norcia descriveva l’intero territorio come «ricco di praterie e vigneti bellissimi con assai diligenza coltivati». La piana vantava inoltre numerosi mandorli che attiravano commercianti dai paesi limitrofi e che erano considerati gli olivi della montagna. Le origini e la storia di Frascaro sono inevitabilmente legate alle vicende di Norcia, la quale fu città sabina fondata alcuni secoli prima di Roma. Al tempo di tale insediamento i luoghi dove oggi sorge Frascaro, insieme a San Pellegrino e Nottoria, erano abitati da popolazioni sparse senza che vi fossero ben definiti confini di villaggio. A testimoniare la presenza romana vi sono numerosi reperti rinvenuti nei dintorni come il cippo appartenente al primo secolo dopo Cristo e una fontana d’epoca romana - La Fonte de Messanu -, a pochi passi dal paese. Le strade che qui si incontravano erano molto frequentate in quanto collegavano, ad Est, passando per San Pellegrino, alla Salaria da cui poi si giungeva, per diverse vie, sia ad Accumuli sia ad Ascoli. Inoltre collegavano a Sud-Ovest, Savelli e Civita attraverso Valcaldara. Si formava così un tracciato ricco di memorie romane e preromane, come il castelliere di forma ellittica sul vicino colle Cappelletta e i centri fortificati del monte Mùtaro. 15
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Se l’esistenza di Frascaro nel XIV secolo è attestata da documenti relativi ad una concessione di terreni da parte di Norcia, resta invece incerta la sua presenza prima dell’XI secolo poiché, in un passo del ‘Chronicon Farfense’, risulta attribuita a Valcaldara la proprietà di un terreno nelle vicinanze della fonte de Messanu. La tradizione racconta che in tempi più remoti qui sorgesse un castello di nome Fiorenzuola, probabilmente distrutto da un terremoto. Si narra che i superstiti diedero origine a Frascaro: il nome di questo luogo derivò infatti dalle frasche usate per costruire le prime abitazioni. Importanti informazioni si desumono inoltre dalla relazione di Innocenzo Malvasia di Bologna che, nominato chierico di Camera, fu incaricato nel 1587 da papa Sisto V di approfondire la conoscenza delle comunità dell’Umbria, lasciandoci testimonianze preziose sul funzionamento amministrativo, la storia, la cultura, gli aspetti paesaggistici e monumentali delle singole comunità . Malvasia denomina Frascaro ‘villa’, ovvero insediamento agricolo abitato da fienaroli e allevatori di masserie di bestiami. Da un punto di vista religioso, furono i monaci benedettini del priorato nursino a provvedere alla evangelizzazione della popolazione costruendo la chiesa di Santa Maria del Rovaro, la più antica del luogo. Nell’archivio ecclesiastico relativo al priorato di San Benedetto vi sono testimonianze di numerose discordie nate tra la popolazione e i benedettini, inasprite dalla sostituzione di questi ultimi con il ramo dei Celestini francesi nella seconda metà del Quattrocento. In un atto di concordia contenuto nel documento, si descrive una situazione in cui non era possibile per i monaci fornire un adeguato servizio religioso alla popolazione che, scontenta, faceva ricorso al vicario generale del vescovo di Spoleto. Il documento riporta poi una serie di accordi tra le due parti per consentire una pacifica convivenza. Ad oggi purtroppo le fonti 16
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relative a Frascaro non sono molte, ma i reperti, le testimonianze, insieme ai racconti e alle leggende tramandate di generazione in generazione, risultano di fondamentale importanza per raccontare la storia di questo luogo e delle sue genti. Eleonora Cataldi
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Chiese e monumenti
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La Chiesa di Santa Maria del Rovaro
fig. 1, Chiesa di Santa Maria del Rovaro, ruderi
Nei documenti ‘S. Maria de gravariis’ (con riferimento alla labilità geologica del luogo), fu dipendenza del priorato di San Benedetto di Norcia fino al 1599 e godette delle prerogative della parrocchialità prima della chiesa di Sant’Antonio Abate. I ruderi si vedono ancora a ridosso della stalla sociale fuori del paese, a poca distanza dal sentiero per Nottoria (fig. 1). I monaci benedettini costruirono Santa Maria del Rovaro nella parte a Sud-Est del paese. La struttura, di piccole dimensioni, fu modificata nel tempo e tale rimase a lungo. Durante una visita pastorale, il vescovo Lascaris la descrive «di forma oblunga, con tetto a tegole, unica porta, due altari, unica campana, disadorna». L’abside venne affrescata da Vincenzo e Francesco Sparapane nel 1533. Sulla facciata era invece immurato un cippo romano anepigrafo. 21
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Nell’archivio ecclesiastico relativo al priorato di San Benedetto è conservato il primo documento riguardante la chiesa (datato 1599) che fa riferimento ad una concordia tra i monaci benedettini (Celestini francesi) e gli abitanti di Frascaro. Qui si accenna all’impossibilità dei religiosi di prestare un soddisfacente servizio religioso e allo scontento della popolazione che aveva fatto ricorso al vicario generale del vescovo di Spoleto. Segue poi una rinunzia da parte del Priore alla giurisdizione sulla chiesa di Santa Maria del Rovaro e a «tutti i proventi finora dovuti dai parrocchiani». Da qui nacque l’impegno da parte del paese e dei santesi di nominare per il servizio di quella chiesa un sacerdote che il Priore avrebbe poi approvato e presentato al vescovo di Spoleto in vista della definitiva investitura. I monaci erano esenti dall’obbligo di fornire candele, palme e qualsiasi altra prestazione, ma restavano comunque proprietari dei terreni spettanti alla chiesa, mentre la casa parrocchiale e il “rinchiastro”, che la precedeva, sarebbero passati di pieno diritto alla chiesa. I santesi, da parte loro, si impegnavano in perpetuo a consegnare ai monaci ogni anno, a partire dalla festa dell’Assunzione, «una rasiera di grano buono e pulito». I beni, sia mobili che immobili, che in seguito sarebbero stati donati alla chiesa, dovevano considerarsi di esclusiva proprietà di questa. In riferimento alla chiesa della Madonna del Rovaro è inoltre documentata una visita pastorale di Mons. Gaetano Bonanni che, in veste di primo vescovo della ricostituita diocesi di Norcia (1821), il 27 maggio 1822 fece visita, oltre che alla parrocchia, anche alle vicine chiese di Sant’Antonio Abate e della Madonna della Cona.
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Di seguito i sacerdoti abilitati all’ufficio di cappellani della chiesa nel XVII secolo: • 1625 (prima del): Don Andrea Ciardiello, originario di Frascaro • 1625: Don Libanio Orlandini da Cerreto • 1628 dicembre 8: Don Loreto da Chiavàno • 1635: Don Francesco Ciardiello (nipote di Don Andrea) • 1640 febbraio 29: Don Francesco Ciardiello Rita Chiaverini
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La Chiesa di Sant’Antonio Abate
fig. 2, veduta della chiesa di Sant’Antonio Abate
Distrutta dal terremoto del 30 ottobre 2016, la chiesa di Sant’Antonio Abate era un importante esempio di architettura gotica che sorgeva a metà dell’abitato di Frascaro, nella piana di Santa Scolastica (figg. 2,3). Costruito tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, l’edificio si presentava a navata unica, suddiviso in tre campate con grandi volte a crociera decorate con motivi ad affresco in corrispondenza dei costoloni sorretti da pilastrini quadrangolari sporgenti (fig. 4). Un campanile a vela (fig. 5) poggiava sul versante laterale destro della navata, mentre un portale di epoca rinascimentale con arco a tutto sesto ed eleganti lesene scanalate (fig. 6), dominava sulla facciata con tetto a capanna. Una sezione di parete, dal profilo ribassato rispetto all’intero prospetto, ospitava oltre al portale monumentale anche una 24
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grande finestra decorata sulla sommità da un ovale con intrecci di corde dipinte. Al centro dell’architrave, inoltre, erano ben visibili tre stemmi a scudo tra cui quello con il simbolo del tau dedicato a Sant’Antonio Abate (fig. 7). La chiesa era illuminata da tre monofore sul lato destro e da una su quello sinistro, all’altezza della prima campata a partire dall’abside. All’esterno dell’edificio, lungo il perimetro della struttura, elemento costruttivo preponderante erano gli alti contrafforti realizzati come mezzo di rinforzo e sostegno murario. All’interno, in corrispondenza della zona absidale, vi era un grande altare marmoreo costruito intorno alla metà del secolo XX in luogo di quello precedente in legno simile agli altri due altari che si trovavano all’altezza della seconda navata. Fino al XVII secolo, le pareti della chiesa erano interamente decorate con un doppio strato di affreschi in seguito integralmente scialbati con calce bianca a scopo conservativo e preventivo. L’interno era inoltre abbellito da un pavimento in grandi lastre di pietra realizzato dallo scalpellino comasco Alessio di Battista da Bulciago (XVI secolo) a cui, verosimilmente, si devono anche le sedute lapidee che correvano lungo le pareti laterali della chiesa. Nell’atto notarile relativo al capitolato dell’appalto dei lavori, si legge infatti che tale maestro si impegnava a pavimentare l’edificio «con lastre di pietra dello stesso tipo di quelle usate per i costoloni delle crociere e a costruire la scala di accesso al presbiterio con gradini della stessa altezza di quelli esistenti nella chiesa di Santa Maria del Rovaro [con la sola differenza] che dovevano essere lavorati e messi in opera con la massima precisione».
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fig. 3, Chiesa di Sant’Antonio Abate
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fig. 4, interno della Chiesa di Sant’Antonio Abate
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fig. 5, campanile a vela
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fig. 6, portale d’ingresso
fig. 7, stemmi sul portale d’ingresso
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Al XVI secolo si riferiscono la maggior parte degli apparati decorativi della chiesa che, nel corso di questo secolo, doveva dunque aver raggiunto il periodo di massimo splendore e fortuna. Prima campata (dopo l’ingresso): al centro della parete destra, in una nicchia poco profonda, era collocata una statua lignea raffigurante Sant’Agostino (fig. 8) e sullo sfondo affreschi molto rovinati con figure di santi.
fig. 8, Statua di Sant’Agostino
A destra della nicchia, si trovavano altre immagini votive tra cui una Madonna col Bambino (fig. 9) ed un Cristo crocifisso con un santo francescano (fig. 10), entrambi realizzati attorno al secondo decennio del Cinquecento, probabilmente da uno dei pittori nursini noti con il nome di Sparapane. 30
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fig. 9, Madonna con Bambino, particolare
fig. 10, Crocifissione, particolare
A sinistra della stessa nicchia, nascosto in parte da un confessionale, si intravedeva un lacerto di affresco raffigurante una Natività (XV secolo) verosimilmente eseguita dal pittore nursino Giacomo di Giovannofrio. Nella parete opposta, sempre all’altezza della prima campata si trovavano, inoltre, una tela con un Cristo crocifisso tra la Vergine e San Giovanni Evangelista del XVI sec. (fig. 11), un tabernacolo in pietra ed un fonte battesimale abbellito da una grossa croce sulla sommità e da teste di angeli a rilievo nel dorso della vasca (fig. 12). Sia il tabernacolo che il fonte presentavano identici motivi decorativi di gusto classicheggiante in linea con lo stile del portale di facciata. È stata infatti ipotizzata una datazione comune corrispondente all’anno 1544 riportato nell’iscrizione apposta sul tabernacolo.
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fig. 11, Cristo crocifisso tra la Vergine e San Giovanni Evangelista
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fig. 12, tabernacolo lapideo
fig. 13, fonte battesimale
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Seconda campata: le pareti erano occupate da imponenti altari di gusto barocco dipinti a finti marmi colorati che ospitavano due statue lignee tra cui, a destra, quella della Vergine in trono con il Bambino1 risalente al XVI secolo (fig. 14) e, a sinistra, quella di San Rocco del XVII secolo (fig. 15).
fig. 14, Vergine con il Bambino
fig. 15, San Rocco
Terza campata: sulla parete di destra si trovava una tela centinata con la Madonna delle Grazie, ex voto del 1586, come informava la relativa iscrizione (fig. 16). Inserita sulla base della cornice in stucco, l’epigrafe riportava il nome dei committenti insieme all’anno di esecuzione: « […] tus et ioannes simon marini hoc hopus sumptibus suis facere fecerunt […] voto per eos et heredes D.XXII febrari A. Domini MD86». Sulla parete opposta, vi era la Madonna del Rosario con i SS. Domenico e Caterina (fig. 17), tela dipinta da Carlo Patrizi, sacerdote originario del posto. 1 Intorno al 1950 l’allora parroco don Natale aveva pensato di collocare la Vergine con il Bambino nel presbiterio della chiesa. Egli, infatti, fece sostituire il vecchio altare ligneo con uno nuovo di marmo e nella parete retrostante fece costruire una nicchia per ospitare la statua della Vergine. Poiché le dimensioni dell’opera erano troppo grandi, questa venne spostata nell’altare di destra della seconda campata, mentre nella nicchia fu posizionata la statua di Sant’Antonio Abate.
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fig. 16, Madonna delle Grazie
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fig. 17, Madonna del Rosario
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Presbiterio: la parte riservata al clero era delimitata da una bassa balaustra in legno ed ospitava nella parete di fondo, all’interno di una nicchia chiusa da un vetro, la statua lignea di Sant’Antonio Abate, opera del XVI secolo (fig. 18).
fig. 18, Sant’Antonio Abate
Il santo, rappresentato nell’atto di benedire, è una delle poche opere superstiti messe in salvo dopo il terremoto del 30 ottobre 2016 ed è assimilabile dal punto di vista stilistico alla stessa mano o bottega del sant’Agostino che si trovava nella prima campata. Posa, anatomia e panneggio denunciano in entrambe le opere una stretta vicinanza all’operato della pressoché sconosciuta dinastia Iucciaroni, attiva nel territorio nursino tra la fine del Quattrocento e inizi Cinquecento. 37
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A conclusione di questo breve excursus, è importante sottolineare come la chiesa di Sant’Antonio Abate non rappresentasse solo un edificio di culto, ma un luogo dove la memoria, la storia e il prestigio artistico avevano un alto valore evocativo e simbolico per l’intero territorio di Frascaro. Questo piccolo paese, così come tutta la Valnerina, è una terra di santi, tartufi e terremoti. Benedetto da Norcia, Rita da Cascia e Antonio Abate sono fra i santi più venerati nell’intera zona nursina, i tartufi sono tutt’oggi una delle eccellenze italiane più apprezzate, ma i terremoti sono purtroppo la maledizione con cui questa valle deve sempre fare i conti. A partire dal terremoto del 1703 - quando la chiesa parrocchiale di Frascaro subì ingentissimi danni in corrispondenza della facciata - altri sismi di rilievo, quello del 1979, del 1997 ed infine le ultime scosse del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, hanno messo definitivamente in ginocchio una comunità intera, cancellando la memoria storica e visiva di opere e monumenti. Nel caso della chiesa di Sant’Antonio Abate, gli interventi di messa in sicurezza non sono bastati a frenare l’inarrestabile corsa verso il crollo (figg. 19, 20). È rimasta in piedi solo l’abside dell’edificio, compresa la nicchia dove alloggiava la statua del santo titolare della chiesa (fig. 21). Dalle macerie sono riemersi la Madonna con il Bambino del XVI secolo (figg. 22-25), le statue di San Rocco (figg. 26-27), Sant’Agostino e Sant’Antonio Abate (fig. 28). Per conto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, gli uomini dell’Esercito, dei Vigili del fuoco, insieme ai carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Perugia, sono intervenuti per il recupero delle opere d’arte, riportando alla luce anche le due grandi tele raffiguranti la Crocifissione tra la Vergine e San Giovanni Evangelista e la Madonna delle Grazie. Attualmente tutti i “tesori” recuperati dalle macerie sono stati trasferiti nel grande deposito della frazione di Santo Chiodo nel comune di Spoleto in attesa di essere schedati e restaurati. 38
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fig. 19, interventi di messa in sicurezza, dopo il sisma del 24 agosto 2016
fig. 20, intervento di messa in sicurezza, dopo il sisma del 24 agosto 2016
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fig. 21, Chiesa di Sant’Antonio Abate, dopo il sisma del 30 ottobre 2016
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fig. 22, recupero statua della Vergine
fig. 23, recupero testa della Vergine
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fig. 24, recupero statua della Vergine
fig. 25, Vergine estratta dalle macerie Figg. 22,23,24,25. Operazioni di recupero della compagnia dedicata al salvataggio dei beni culturali dell’esercito italiano,comandati dal tenente genio guastatore Barbara Caranza
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fig. 26, San Rocco recuperato
fig. 27, San Rocco estratto dalle macerie
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fig. 28, statua di Sant’Antonio Abate estratta dalle macerie
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Approfondimenti
Anonimo scultore, San Francesco, XVI sec. (?), legno intagliato e dipinto, Frascaro (Norcia), chiesa di Sant’Antonio Abate.
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La statua, posta inizialmente in corrispondenza della prima campata di sinistra di fronte all’affresco cinquecentesco con la Crocifissione, al momento del terremoto e del conseguente crollo della chiesa, era collocata nella seconda campata di sinistra a fianco dell’altare barocco con la splendida statua policroma di san Rocco. San Francesco, rappresentato in posa ferma e severa, poggia entrambi i piedi sopra un basamento ligneo rettangolare decorato a finto marmo. Il volto dallo sguardo fisso e profondo è incorniciato da una grande aureola lignea dorata, dalla tipica capigliatura francescana e da una corta ma fitta barba che sottolinea i lineamenti squadrati e spigolosi del santo. Una lunga tunica marrone copre interamente il corpo, esaltandone la monumentalità attraverso le pieghe incannucciate della veste che, dritte e pesanti, cadono fino a coprire i piedi. La posa statuaria è dinamizzata dalle maniche rigonfie e dal movimento di apertura delle braccia che rimane comunque controllato. è probabile che san Francesco tenesse nella mano destra una croce (mancante anche prima del terremoto). Nella sinistra tiene un grande libro chiuso. Non sono visibili le tradizionali stigmate francescane, ma è comunque presente il caratteristico cappuccio a punta aguzza piegato sulla spalla destra e la tipica cintura con il triplice nodo che cinge l’abito nella parte alta del busto. In mancanza di notizie documentarie che possano consentire di far luce su quest’opera, si può solo constatare la buona qualità della statua lignea realizzata verosimilmente da un artista di area nursina.
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Scultore attivo nella prima metà del XVII sec., San Rocco, XVII sec., legno intagliato e dipinto, Frascaro (Norcia), chiesa di Sant’Antonio Abate.
La statua proviene dalla distrutta chiesa di Sant’Antonio Abate a Frascaro ed era originariamente collocata nella seconda campata in una nicchia di sinistra a partire dall’ingresso. La scultura attualmente si trova nel deposito di Santo Chiodo di Spoleto in attesa di essere restaurata. Rocco è uno dei santi più rappresentati per le sue capacità taumaturgiche contro la peste. Nato da una ricca famiglia di Montpellier, egli scelse la vita dell’eremita errante che lo portò a viaggiare in numerosi luoghi per prestare aiuto e cure ai malati colpiti dall’epidemia. 47
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è un santo invocato tutt’oggi per le malattie contagiose fino a rimanere egli stesso vittima del contagio. Levato su una base rettangolare ad angoli smussati che riporta l’iscrizione «Ora pro nobis beate Roche», san Rocco ha lo sguardo fermo rivolto verso l’osservatore, il capo leggermente chino da un lato e incorniciato dalla massa di lunghi capelli ondulati, barba e baffi arricciolati. L’abito è quello canonico del pellegrino, ma nella versione sontuosa che si confà ad un santo: mantello foderato d’oro chiuso al petto da una tesina alata, cappello a tesa larga abbinato al colore del soprabito, pesante giubba rossa stretta alla vita da una cintura di tessuto dorato, calzari da viaggio ai piedi. La veste, come di consueto, non nasconde anzi espone la piaga della peste sulla coscia, la cui presenza è sottolineata dall’indice e dal dito medio della mano destra. La lesione ha la forma di una ferita verticale, lineare ed ovale, molto simile al taglio provocato da una freccia, a sua volta simbolo della peste. Anche le mani e il modo di articolare le dita sono raffigurate con le deformazioni derivanti dai postumi del contagio. Si notano poi gli attributi inconfondibili del suo apostolato tra i malati: il bastone da pellegrino che richiama le marce lunghissime con cui esercitò la carità lenendo piaghe fisiche e morali, ed il cane che rappresentò per il santo il segno tangibile della divina provvidenza e della sua fedeltà alla chiamata di Dio. La leggenda, infatti, narra che l’animale più volte accorse in suo aiuto portandogli del pane per sfamarlo e per sostenerlo nei momenti di bisogno estremo.
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Bottega degli Iucciaroni di Norcia (?), Sant’Antonio Abate, prima metà XVI sec., legno intagliato e dipinto, Frascaro (Norcia), chiesa di Sant’Antonio Abate.
La statua lignea di sant’Antonio Abate era collocata nella parete di fondo sovrastante l’altare, all’interno di una nicchia di 150 centimetri chiusa da una vetrata. Il santo è rappresentato in piedi nell’atto di benedire, mentre regge nella mano sinistra un libro. Il volto è espressivo e realistico con lo sguardo estatico rivolto verso l’alto e una folta barba arricciolata fino al petto. La veste di bianco purissimo scende a pieghe verticali fino ai 49
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piedi ed è stretta all’altezza del busto da una sottile cinghia. Un lungo mantello marrone cade morbido fino a terra ed è elegantemente rappreso sulla sinistra, sottolineando il leggero incedere della posa. La resa anatomica non perfettamente naturalistica, il modo di panneggiare e lo stesso atteggiamento del santo leggermente spostato sulla destra con il peso che ricade su una gamba mentre l’altra si allunga, rimandano al san Procolo attribuito a Saturnino Gatti in Avendita di Cascia2. Le sembianze del viso, la robusta modellazione delle masse anatomiche e la posa bloccata sono vicinissime alle pitture degli Iucciaroni da Norcia rendendo plausibile l’attribuzione ad uno dei membri di tale bottega che scolpiva e affrescava nel territorio nursino tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo3. Il recente restauro (2017) ha permesso di apprezzare l’elevata qualità della scultura scolpita in più blocchi di legno assemblati tra loro tramite grandi chiodi di ferro. Cadute della preparazione gessosa e importanti fessurazioni del supporto, hanno permesso di individuare alcune parti costitutive del manufatto, come per esempio la tela usata per l’incamottatura ed uno strato di gesso di recente fattura sul basamento, dipinto con colori a tempera4. La devozione della comunità di Frascaro a sant’Antonio Abate risale a tempi antichi e affonda le sue radici in un territorio come quello della Valnerina, per lungo tempo luogo di pellegrinaggio e terra di eremiti. La venerazione del grande anacoreta del deserto, cui la fede popolare attribuiva la funzione di protettore del bestiame, è stata 2 L. Principi, Il Sant’ Egidio di Orte: Aperture per Saturnino Gatti scultore, in “Nuovi Studi”, XVII, 18, 2012, pp. 101-128. 3 Per maggiori informazioni si rimanda a D. Mattei, La scultura in Valnerina tra i secoli XIV e XVI. Scoperte e nuove proposte, Foligno, 2015. 4 Per maggiori informazioni relative allo stato conservativo dell’opera e agli interventi di restauro, si rimanda al catalogo della mostra “Ospiti in Rocca Tesori della Valnerina”, scheda n. 23, pp. 112-114.
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sempre particolarmente intensa in una società rurale come quella di Frascaro in cui, fin dal Medioevo, pastorizia e allevamento sono stati gli assi portanti dell’economia del paese. Nato verso il 250 a Coma (Qeman), nel medio Egitto, orfano di padre e madre prima dei vent’anni, Antonio rimase colpito in gioventù dalle parole di Gesù: «Se vuoi esser perfetto, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri» (Mt 19,21). Decise così di seguire la strada indicata dal Signore: donò tutta la sua eredità ai poveri, ma per quel gesto e per aver donato tutti i suoi beni, fu costretto a subire incessanti tentazioni e spaventose visioni. Pregava giorno e notte, alternando la veglia al digiuno, finchè, compiuti trentacinque anni, decise di ritirarsi in un cimitero abbandonato dove, con il semplice segno della croce, riuscì più volte a scacciare demoni e serpenti velenosi. La fama dei suoi poteri taumaturgici si diffuse velocemente e ben presto attorno alla sua figura si raccolsero le comunità orientali. È proprio da qui che nacque quell’ascetismo monastico poi diffusosi in Occidente grazie a due grandi pensatori come Agostino d’Ippona e Benedetto da Norcia.
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Bottega degli Iucciaroni da Norcia, Sant’Agostino, prima metà XVI sec., legno intagliato e dipinto, Frascaro (Norcia), chiesa di Sant’Antonio Abate.
La statua si trovava nella prima campata a destra, all’interno di una nicchia decorata con un motivo a conchiglia nella mezza calotta sferica e con affreschi che rappresentavano figure di santi in pessimo stato conservativo già prima del sisma. Sant’Agostino campeggiava al centro della nicchia seduto sopra un alto basamento rettangolare, distinto dalla mitra e dal pastorale, simboli della dignità vescovile. Il santo è rappresentato mentre leva la mano sinistra sopra un libro sacro chiuso ai lati da due strette cinghie. Oltre che vescovo, sant’Agostino fu infatti anche insigne dottore della Chiesa: convertito alla fede cattolica dopo un’adolescenza inquieta, fu battezzato a Milano da sant’Ambrogio e, tornato in patria, condusse con alcuni amici vita ascetica, dedita a Dio e allo studio delle Sacre Scritture. 52
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Eletto in seguito vescovo di Ippona in Africa, nell’odierna Algeria, fu per trentaquattro anni maestro del suo gregge, che istruì con sermoni e numerosi scritti, combattendo strenuamente contro gli errori del suo tempo ed esponendo con sapienza la retta fede. In questo caso sant’Agostino indossa la bianca veste eremitana cinta in vita dalla correggia, mentre un ampio mantello rosso cade morbido sugli arti inferiori avvolgendoli interamente. Soffermandosi sui particolari, emerge una grande qualità nell’esecuzione delle pieghe della veste, in particolare nel ductus ondeggiante all’altezza delle maniche e nella zona tra le due ginocchia, ma anche l’abilità nel lavorare i tratti fisionomici del volto, a partire dalla profondità degli occhi fino all’attenzione con cui vengono attorcigliati barba, baffi e capelli. Il panneggio arrovellato e tondeggiante, la posa bloccata dallo sguardo intenso e le piene sembianze in viso denunciano anche in questo caso le strettissime vicinanze alle pitture degli Iucciaroni da Norcia e permettono di avanzare dunque una datazione circoscritta ai primi decenni del XVI secolo.
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Scultore attivo nella seconda metà del XV sec., Vergine in trono col Bambino, XV sec., legno scolpito e dipinto, Frascaro (Norcia), chiesa di Sant’Antonio Abate.
La statua lignea, proveniente dalla chiesa della Madonna del Rovaro, si trovava nella seconda campata di destra della chiesa di Sant’Antonio Abate ed è oggi conservata presso il deposito di Santo Chiodo a Spoleto in attesa di essere restaurata. La Vergine, assisa su un trono dagli alti braccioli sagomati di gusto classicheggiante, si erge imperiosa con una posa sicura, mentre con la mano destra sostiene il Figlio in piedi sulle sue ginocchia. La massa compatta della figura, chiusa entro una sagoma di assoluta fermezza, si anima nella resa serpeggiante del panneggio, in particolare nelle pieghe del velo e della veste che, con andatura curvilinea, scivola sui seni materni mettendoli in risalto per poi ricoprire tutto il corpo fino ai piedi. La sontuosa regalità della Madonna è ribadita sia dalla preziosa doratura che riveste interamente il corpo, capelli compresi, sia dal grande libro a pagine aperte in cui è riportata la solenne 54
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preghiera: «Ave filia aeterni patris, ave mater aeterni filii, ave sponsa spiritus sancti, ave templum trinitatis, ora pro nobis» (Ave Figlia del Padre Eterno, Ave Madre del Figlio Eterno, Ave sposa dello Spirito Santo, Ave tempio della Trinità, prega per noi). Contrasta con la raffinatezza della Vergine la figura del Bambino, molto più grossolano nell’intaglio e meno naturalistico nella resa anatomica. L’infante nudo in piedi è una particolare variazione iconografica che si discosta dai più comuni esempi di gruppi scultorei con la Madonna ed il Bambino. Questo potrebbe trovare una spiegazione nel diverso sentimento devozionale e nel preciso messaggio che si voleva comunicare: più che una premonizione del destino di morte del Figlio, sembra qui volersi affermare l’umanità e la presenza fisica di Dio sulla terra, dimostrate appunto attraverso la nudità del suo corpo. Prototipi illustri di questa iconografia si rintracciano sia in numerose opere scultoree rinascimentali - Donatello, Madonna di Citerna; Jacopo della Quercia, Sedes Sapientiae, cattedrale di Ferrara; Benedetto da Maiano, Madonna con Bambino - sia in opere pittoriche come la Madonna Cini di Piero della Francesca, il Trittico dei Frari di Giovanni Bellini o nella Sacra Conversazione di Dresda del Mantegna. La statua lignea di Frascaro si muove nel solco di questa tradizione rinascimentale e mostra un buon grado di aggiornamento dell’artista capace di sbarazzarsi della pesante eredità gotica che nel Nursino era restia a scomparire, mostrando persistenze anche in epoche più tarde. Monica Paggetta
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La Chiesa della Madonna della Cona
fig. 29 Chiesa della Madonna della Cona, prima il sisma del 30 ottobre 2016
fig. 30, Chiesa della Madonna della Cona, dopo il sisma del 30 ottobre 2016
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La Madonna della Cona era una chiesa di piccole dimensioni (figg. 29, 30) che sorgeva in un avvallamento connesso alla valle di Nottoria, all’incrocio delle strade che congiungono Frascaro e San Pellegrino. Anticamente con il termine “coneâ€? si era soliti indicare quegli altari che venivano eretti lungo le strade, specialmente in prossimitĂ di incroci, con lo scopo di proteggere i luoghi considerati a rischio e pericolosi. Nel tempo tale tradizione fu conservata e diffusa attraverso le edicole stradali, piccoli tempietti costruiti appositamente per ospitare al loro interno statue e/o immagini divine. Risalente al XVI secolo, la chiesa della Cona di Frascaro era un basso edificio intonacato costituito da un ambiente unico a pianta quadrata abbellito da un grande arco trasversale cinquecentesco. Il presbiterio, con un grande altare ligneo, era rialzato di un gradino rispetto alla navata, contribuendo a tenere distinti i due ambienti anche grazie ad una balaustra in legno (fig. 31).
fig. 31, Chiesa della Madonna della Cona, interno dopo il sisma del 24 agosto 2016
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Le pareti dell’aula principale erano affrescate di azzurro, mentre il presbiterio era decorato con lunghe strisce azzurre e bianche. L’entrata principale era collocata in posizione laterale rispetto all’abside, in prossimità della quale, una volta entrati, si trovava un’acquasantiera in pietra. All’esterno, sopra il portale, era scolpito a bassorilievo lo stemma raffigurante la tiara pontificia e le chiavi di San Pietro (fig. 32).
fig. 32, stemma dello Stato Pontificio sopra il portale d’ingresso
All’interno della chiesa erano conservate altre opere: un dipinto di santa Rita da Cascia risalente al 1937 firmato D. E. Alibrandi (fig. 33), uno stendardo con la Vergine e il Bambino (fig. 34), un gonfalone processionale a due facce raffiguranti rispettivamente la Madonna con Bambino nel recto, e i Santi Antonio Abate e Rocco nel verso (figg. 35, 36). Interessante è anche una piccola tavola, attualmente conservata presso il deposito di Santo Chiodo, raffigurante la Vergine con il Bambino realizzata da Pico Discepoli nel 1949 (fig. 37). Eleonora Cataldi 58
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Fig. 33, Santa Rita da Cascia
fig. 34, Vergine col Bambino
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fig. 35, Madonna col Bambino, recto
fig. 36, Ss. Antonio Abate e Rocco, verso 60
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fig, 37, Vergine col Bambino
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La fonte de Messanu
fig. 38, Fonte de Messanu
L’antica fonte de Messanu (fig. 38) si trova a pochi passi da Frascaro lungo una strada, un tempo molto frequentata, che collegava il paese a Valcaldara e proseguiva verso Sud fino a raggiungere la Salaria. Di epoca romana, la fonte fu costruita usando pietre calcaree locali dette ‘crespo’, che ancora oggi costituiscono i divisori e le vasche. La copertura, non più presente, aveva una struttura a fornice. La fonte era alimentata da una sorgente a pochi metri a monte della stessa, chiamata, in dialetto, ‘lu cunnuttu’ (il condotto). La vicinanza stilistica e cronologica di questa fontana con altre localizzate nelle frazioni di Norcia, come ad esempio la Fontaccia di Nottoria, fanno pensare ad una serie di interventi unitari avvenuti in un periodo particolarmente florido del municipio dell’antica Nursia. Una fonte così antica racchiude e promana il fascino di chi ha visto la storia di generazioni e civiltà passargli accanto, a cui si aggiungono i racconti leggendari che le conferiscono un’aura 62
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unica. Tra il XIV e il XIX secolo la fonte ha subìto numerosi rimaneggiamenti e ristrutturazioni, fino ad arrivare al suo completo abbandono agli inizi del ‘900 causato dall’abbassamento della sorgente che andava disperdendosi nei campi e dal trasporto dell’acqua in paese. Solo nel 1991, grazie al Presidente della comunanza agraria di Frascaro, Maurizio Nardi, insieme al fratello Sergio e Mario Brugnoli, si è potuto ridare dignità a questa fonte sommersa da cumuli di macerie attraverso operazioni di pulitura e di completamento della parte superiore mancante, restituendo al territorio una testimonianza importante della sua storia. Eleonora Cataldi
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I terremoti
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Gli eventi che mutano il corso della storia di una comunità piccola o grande che sia possono essere di vario tipo e più o meno prevedibili e contrastabili. Alcune volte questi eventi si sommano, mettendo un’ipoteca pesante sulla vita delle stesse comunità, spezzando in un solo colpo l’ingegno e il lavoro che l’uomo contrappone da sempre alla natura. L’uomo è momentaneamente battuto ma non è sottomesso perché la vita, la voglia di reagire, il legame con le proprie radici è più forte di ogni avversità. Ricostruire la storia sismica di un’area non serve e non vuole alimentare le paure ma può essere utile a mostrare i caratteri ricorrenti di un evento naturale per contribuire allo sviluppo di una coscienza comune. La Valnerina è terra sismica da sempre e anticamente questo fenomeno naturale – non potendo essere spiegato scientificamente – veniva considerato una maledizione divina perciò accettato e subíto con tragica rassegnazione. La storia della Valnerina della sua gente, delle sue bellezze, del suo sviluppo – o arretratezza – è legata a questi ricorrenti eventi naturali che hanno contribuito a plasmare il DNA della popolazione. Potrebbe sembrare inutile guardare agli eventi passati visto che la storia al momento può aiutarci solo ad individuare il ‘dove’ e il ‘come’ dei moti della terra. Forse un giorno, però, grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, sarà possibile anche ipotizzare il ‘quando’ visto che terremoti ce ne saranno ancora e sarà quindi estremamente importante fronteggiare questi eventi in maniera sempre più consapevole ed adeguata. Ecco quindi una breve sintesi degli eventi tellurici più significativi e documentati che hanno interessato Norcia e quindi anche di Frascaro: 99 a C. - Norcia Il terremoto distrusse a Norcia un tempio, ma non fu l’unico danno dato che le fonti antiche selezionavano le informazioni tramandando solo quegli elementi che, in quel quadro culturale, 67
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si ritenevano degni di memoria. Il sisma venne sentito anche a Roma dove, nell’edificio del foro detto Regia, oscillarono le lance di Marte. 63 a. C. - Appennino umbro Non si conosce l’intensità del sisma che è indicato come uno dei tanti prodigi avvenuti durante il consolato di Cicerone. Quest’ultimo, nella sua terza orazione contro Catilina, accenna vagamente a terremoti ed altri presagi come la caduta di fulmini. 1328 dicembre 4 - Appennino umbro Si tratta di uno dei più importanti terremoti verificatisi nell’Alta Valnerina. Sembra aver interessato con elevate intensità (IX-X grado della scala Mercalli) una vasta area posta immediatamente a Nord-Ovest di Norcia, distruggendo quasi totalmente Preci e Montesanto. Ci furono gravissimi danni anche a Norcia e Cascia. Crolli si registrarono a Spoleto e Visso. Il terremoto fu sentito anche a Foligno e Roma. Il numero delle vittime fu piuttosto elevato: le cronache parlano di quattro – cinque mila morti in tutta l’area interessata dagli eventi. Da Norcia molta gente andò via mentre quella rimasta, sfidando l’imperversare dapprima della pioggia poi del freddo e della neve, organizzava processioni religiose, manifestazioni popolari di pubblico pentimento e perfino autoflagellazioni. Tutto si sopportava pur di allentare la tensione, allontanare la paura e invocare la fine di un incubo. 1599 novembre 4-6 - Alta Valnerina Tra il 1500 e il 1600 Norcia e il suo territorio rimase più volte danneggiata da frequenti scosse di terremoto. Si ricorda la scossa del 27 agosto 1567 ma anche il periodo sismico del 1599. Secondo una relazione manoscritta citata da Baratta (1901), la scossa del 5 novembre 1599 sembra sia stata accompagnata da un notevole periodo sismico «iniziato sul principio di ottobre» e 68
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durato almeno fino al gennaio del 1600. La prima scossa si ebbe alle 8:25 del 4 novembre che anticipò quella delle ore 1:25 tra il 5 e il 6 novembre 1599 che fu molto forte. Lo sciame sismico proseguì fino al 19 gennaio 1600. In tutta l’area, compreso il Casciano, si contarono 40 vittime. Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana è conservato un carme latino di Paolo Rocchi, letterato e ‘maestro del pubblico’ di Cascia, nel quale vengono descritte le sofferenze subite in quei mesi dalla popolazione. 1703 gennaio 14 - Italia Centrale «Si udì per staffetta spedita da Norcia a Roma esser questa città e suo contado e altre Terre circonvicine, cioè Cascia, Monte Leone, Leonessa, Le Preci et altri luoghi che poscia si diranno, tutti diroccati dal terremoto della sera delli 14 corrente con morte di più di tremila persone». Si tratta di uno dei periodi sismici più documentati e uno dei più gravi disastri tellurici della storia italiana sia per estensione geografica che per entità delle distruzioni. La prima scossa del 14 gennaio durò «lo spazio di un Credo» e colpì in modo distruttivo l’area compresa tra l’Umbria meridionale e le province di Rieti e l’Aquila. A Roma, questa scossa, fu preceduta da forte vento, ebbe la durata di «due salutazioni angeliche» e fece rompere le catene di ferro nell’aula del Campidoglio. La seconda grande scossa ci fu il 16 gennaio seguita da un’altra il 2 febbraio 1703 alle ore 18:00 che distrusse l’Aquila. Complessivamente furono danneggiati gravemente oltre 150 paesi. Il numero delle vittime fu di circa 9.761 di cui 2.067 in Umbria che faceva parte dello Stato Pontificio e 7.694 in Abruzzo che faceva parte del Regno di Napoli. Fino al 25 febbraio 1703 si contarono circa 160 repliche. Con il passare dei giorni giungevano a Roma notizie sempre più dettagliate sui danni causati dal sisma. Nell’ambito dello Stato Pontificio, il papa decise di inviare sul luogo del disastro una persona «savia, prudente ed avveduta» per coordinare i soccorsi. La scelta cadde su mons. Pietro de Carolis che raggiunse Norcia, 69
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Cascia e gli altri luoghi colpiti dal sisma con l’incarico di «impedire i furti, per assicurare da ogni violenza l’onestà delle donne costrette a ricoverarsi in luoghi aperti, a distribuire le derrate sottraendole previo pagamento nei luoghi dove erano scampate al disastro». De Carolis «fece disotterrare i cadaveri sepolti nelle rovine e gli fece dare sepoltura ecclesiastica senza fare l’esposizione per non atterrire maggiormente il popolo (…) fece riportare alla luce le sostanze rimaste sotto le rovine le quali, descritte dai notai, venivano restituite ai legittimi proprietari se sopravvissuti o se deceduti; nel dubbio venivano depositate per poi restituirle con maggiore sicurezza». Il terremoto causò una forte crisi economica per la paralisi delle attività produttive nelle zone colpite. L’intervento delle autorità fu rapido ma non efficace, esaurendosi in alcuni provvedimenti temporanei di carattere fiscale. Negli anni successivi Norcia e Cascia continuarono a chiedere sovvenzioni dirette per compensare i danni subiti dalle abitazioni. Allo stato attuale delle conoscenze si è evidenziato che le amministrazioni pubbliche non riuscirono a convogliare le risorse sufficienti per garantire la ricostruzione. La dimensione del disastro si scontrò anche con i limiti organizzativi e tecnologici del tempo: la rimozione delle macerie divenne, per esempio, un problema di difficile soluzione che richiese mesi e mesi con dispendio di grandissime energie e risorse umane. I rischi della diffusione di epidemie, della carestia e della perdita del controllo sociale furono affrontati dallo Stato della Chiesa e dal regno di Napoli con modalità simili e scarsamente risolutorie. Gli effetti di questo disastro perdurarono a lungo e innescarono anche consistenti flussi migratori dalle località più colpite. 1719 giugno 27 – Alta Valnerina La scossa del 27 giugno 1719 colpì l’Alta Valnerina alle 11:30 del mattino, durò per «due Ave Marie» e fu avvertita anche a Spoleto, Roma e Perugia. L’evento è testimoniato da una lettera scritta da Cascia dal medico Cocchi, all’amico G. M. Lancisi, medico 70
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archiatra del pontefice Clemente XI, il giorno dopo il sisma, sotto la tenda in cui l’autore si era rifugiato: «tutti, presi da timor panico correvano fuori mentre le case oscillavano, i tetti sbattevano e la terra sembrava si aprisse sotto i piedi. Le donne piangendo si misero a pregare e a fare voti». Lancisi rispose qualche giorno dopo attestando che la scossa era stata avvertita anche a Roma. Cocchi scrive che negli edifici di Norcia e Cascia si erano aperte profonde fenditure e che la popolazione si era rifugiata in tende erette all’esterno dell’abitato. Gli abitanti furono messi a dura prova da circa venti anni consecutivi di paura durante i quali non riuscivano a rimarginarsi le ferite provocate dal sisma del 1703. Una forte crisi economica investì l’intero territorio. La paralisi delle attività produttive e lo stato di disagio provocarono una massiccia spinta migratoria. 1730 maggio 12 - Appennino Centrale Non era ancora completata la ricostruzione dopo il sisma del 1703 che un altro violento terremoto distrusse una quindicina di paesi appenninici dell’Umbria meridionale, del Lazio e dell’Abruzzo. Il sisma si verificò alle 5:00 del mattino (con una forte replica alle ore 19:00) e - come si legge nelle relazioni del tempo - abitazioni, chiese, edifici pubblici sembravano una «continua maceria e molti sventurati restarono sepolti sotto i sassi, molti morirono e altri rimasero storpi». Negli scavi effettuati per soccorrere le persone rimaste sotto le macerie «viddensi con strano sbigottimento d’orrore alcune di queste ridotte in pezzi, altre nella stessa schiattate, molte ritrovate intatte o soffogate o perite di fame per essere decorso qualche giorno prima di ritrovarle per le molte macerie che gli ascondevano. Donne gravide estinte con parti mezzi fuori del seno, spettacoli tutti degni di somma compassione che chiamano all’occhi le lacrime, al cuore la pietà. Infiniti poi sono quelli che si salvarono prodigiosamente, chi con trovarsi solleciti alla campagna, chi con la fuga tra le cadenti fabriche e chi col saltare dalle fenestre con evidente pericolo della propria vita. Altri furono dalle stesse precipitanti mura trasportati sicuri in mezzo alla strada; altri salvati da 71
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soffitti delle proprie case che nel cadere gli servirono di capanna per assicuramento della propria vita». Non appena il Prefetto della Montagna informò i Cardinali (riuniti in conclave a Roma per l’elezione del successore di Benedetto XIII) vennero inviate alla popolazione somme di denaro e «padiglioni militari per il sollecito ricovero dei più miserabili che semivivi giacevano in mezzo alle pubbliche strade». Sul posto vennero inviati anche «soldati Corsi e birri per tenere lontani malviventi e scorrerie di ladri che già vi erano in gran numero concorsi». Il Prefetto della Montagna, in questa circostanza, svolse un ruolo importante nel coordinamento degli interventi. Da Spoleto giunse anche il vescovo che non si limitò solo a consolare la popolazione con la parola di Dio, ma «dispensò elemosine di propria mano e con i suoi elemosinieri». Inoltre, «per placare l’ira di Dio», venne ordinata la comunione generale e una processione di penitenza. Seguì un’altra scossa il 27 maggio 1730 e ben tre scosse il 25 e 26 dicembre quando la popolazione e il Prefetto della Montagna vivevano ancora dentro le baracche. 1815 settembre 3 - Valnerina Questo terremoto è stato a lungo un terremoto ‘fantasma’, documentato solo grazie al ritrovamento recente di nuove fonti documentarie presso l’Archivio di Stato di Roma e negli Archivi storici comunali di Norcia e di Cerreto di Spoleto. Presso l’Archivio di Stato di Roma è conservata una supplica [Camerale, Parte III, Comuni, b. 1549] inviata al pontefice dal popolo di Norcia e del contado con la quale si chiede la sospensione dei pesi camerali affermando che il terremoto del 1815 «ha portato un danno tre volte maggiore di quello del 1703 havendo diroccato al piano quasi tutte le case, chiese, casali di campagna e castelli». Nella supplica viene fatto presente che la città e il suo territorio confinano con il Regno per cui «se non si dà l’occasione agl’habitanti di rifarsi un poco di tetto dentro le mura castellane (…) restano soggetti li cittadini a continue scorrerie di ladri, et altri insulti non restando bene 72
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assicurati nelle baracche di tavole e tende, oltre allo scandalo che nasce dall’indispensabile communione di donne et homini allo scoperto di notte e di giorno per non havere il commodo della casa e si vive nell’inclemenza di un clima freddoso che dà nell’inverno continue nevi, piogge et humidità alla salute nocive». 1859 agosto 22 - Valnerina Alla vigilia dell’annessione dell’Umbria al Regno d’Italia, la Valnerina fu colpita da un nuovo evento sismico che si verificò fra «l’una e un quarto e l’una e mezza» del 22 agosto 1859 con tre scosse consecutive via via più forti, prima sussultorie poi ondulatorie. Il sisma causò gravi e notevoli danni al patrimonio edilizio pubblico e privato ed ebbe anche rilevanti effetti sull’ambiente: apertura di numerose spaccature nel suolo e la caduta di massi dai monti. A Norcia il sisma causò la morte e il ferimento di quasi duecento persone e il crollo, totale o parziale, dell’ottanta percento degli edifici ad uso abitativo. Furono interamente distrutti i quartieri più poveri situati sul pendio del colle, dove erano le abitazioni più fatiscenti, ma non furono risparmiate neppure le case di costruzione recente, particolarmente i piani più alti: subirono gravi danni il palazzo comunale, la Castellina, la cinta muraria, gli edifici ecclesiastici, numerose chiese e alcuni conventi. Ingenti furono le distruzioni anche nella vicina Cascia e Visso. Il nursino Leopoldo Mannocchi, in una relazione scritta in quei giorni, racconta che il sisma del 22 agosto 1859 ebbe numerose repliche e costrinse la popolazione a vivere con «gran disagio in baracche di legno e sotto un cielo che rendeasi umido freddo e piovoso». Le autorità pontificie incaricarono una commissione di rilevare i danni, basandosi sulle competenze specifiche di un architetto, Luigi Poletti, e di un sismologo, il gesuita Angelo Secchi, allora direttore dell’Osservatorio del Collegio Romano. Le relazioni degli esperti e il rapporto ufficiale presentato dal Ministero dell’Interno, a conclusione dei lavori della commis73
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sione, servirono da base per una legge che rappresenta uno dei primi esempi, in età contemporanea, di ordinamento dell’edilizia urbana di una zona a rischio sismico; il nuovo Regolamento edilizio venne approvato dal Consiglio comunale di Norcia il 17 novembre 1859, dall’autorità centrale il 28 aprile 1860, e su disposizione delle magistrature del gonfaloniere e degli ‘anziani’ di Norcia, divenne esecutivo il 15 maggio. Il regolamento esordiva vietando qualsiasi nuova costruzione e restauro di fabbricati senza il permesso dell’autorità competente, prevedeva l’espropriazione d’edifici per interventi di interesse pubblico, come ampliamenti e rifacimenti di piazze e di strade, e istituiva una commissione comunale, incaricata di approvare i progetti e di vigilare sull’applicazione della legge. Il testo passava poi ad enunciare la normativa specifica relativa alle costruzioni: gli edifici nuovi non dovevano oltrepassare i due piani, con un’altezza massima di otto metri e mezzo, mentre in quelli da restaurare poteva essere conservato il terzo piano, ma solo nel caso che gli interventi fossero di entità minima. Si privilegiava il tipo di casa ‘a baracca’ perché si era dimostrata la più resistente al terremoto; sui ‘terreni di scarico ed in pendio’ si poteva fabbricare solo scavando fondamenta così profonde da raggiungere lo strato compatto. I muri maestri, negli edifici non ‘a baracca’, dovevano essere larghi almeno 60 centimetri e rinforzati all’esterno da una ‘scarpa’, vale a dire da uno sperone. Una particolare attenzione era riservata ai soffitti a volta, permessi, nelle case nuove, soltanto nei sotterranei, e tollerati, ma soltanto fino al pianterreno, nelle altre: le volte, del tipo a botte o a vela, dovevano essere costruite «a tutto sesto semicircolare con mattoni o pietra spongosa o stratiforme, non sovraccaricate di pesi inutili, ed impostate con la loro grossezza ai muri». Si prescriveva il collegamento tra muri interni ed esterni «… onde facciano una massa unica». Ma soprattutto veniva richiesto che le aperture di porte e finestre fossero a distanza conveniente dagli angoli dei 74
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muri esterni e dalle estremità dei muri di tramezzature e che le aperture risultassero verticalmente allineate. Per tetti e solai bisognava usare travi poggianti orizzontalmente su tutti i muri, rinforzate con legature e chiavi di ferro e travi sussidiarie. Si specificava, inoltre, la tipologia dei materiali da costruzione da usare: «l’intonaco di poca grossezza con cemento di grosso, o con altro migliore dell’ordinario, e senza addossarvi rilievi», per i muri «la pietra conciata, spongosa, stratiforme di qualità resistente, e di dimensione non soverchiante piccola, con esclusione dei citottoli, permessi solo come riempimento per le fondamenta; infine per la malta, calce…. di tutto sasso bianco, portata in pezzi, non lasciata sfiorire all’aria, ma regolarmente smorzata con acqua, e mantenuta in consistenza molle…. e sabbia depurata dalla terra e dalle grosse brecce, con impasto» dosato secondo le proporzioni stabilite. Alla commissione spettava anche il compito di designare le cave di estrazione dei materiali. Anche questo evento sismico ebbe repliche violente che si susseguirono per circa un anno ed erano sempre preceduti da detonazioni sotterranee anche se non erano seguite da scosse. In una sola notte se ne sentirono quaranta. Anche padre Angelo Secchi, che dimorò a Norcia tra il 29 settembre e il 6 ottobre, testimoniò che i sensibili e violenti scuotimenti «non cessarono mai». 1898 aprile-settembre – Alta Valnerina Una nuova sequenza sismica colpì per diversi mesi alcune località poste nei monti tra Visso e Sellano colpendo indirettamente Preci dove nuove crepe si aprirono nelle case. La scossa più violenta avvenne quattro mesi dopo l’inizio dell’attività sismica, precisamente il 25 agosto 1898. Non solo terremoti… Nel corso dell’Ottocento non mancarono poi le epidemie di colera che, oltre ad essere un fenomeno sanitario, assunsero anche le caratteristiche di una questione sociale e religiosa poiché 75
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alcuni attribuirono l’infuriare del ‘cholera morbus’ alla punizione divina, altri alle combinazioni planetarie ed altri ancora ad avvelenamenti decisi dal governo per colpire le masse popolari cresciute in modo eccessivo. Anche lo Stato Pontificio adottò misure preventive e, attraverso cordoni sanitari, cercò di prevenire il diffondersi dell’epidemia. È giunto sino a noi il testo di una sentenza emessa da un tribunale criminale contro alcuni individui accusati di aver violato il cordone sanitario durante l’epidemia del 1836. Tra questi individui è presente anche un piccolo pastore, il sedicenne Paolo, figlio di Gaspare Del Moro, nato a Frascaro ma residente a Terracina (nel Regno delle Due Sicilie), rinchiuso nel carcere della Castellina e condannato a dieci anni di detenzione. Due anni dopo, nel 1838, cessata l’epidemia, il pontefice concesse l’amnistia a coloro che avevano violato il cordone sanitario purché non avessero usato violenza o resistenza nei confronti della forza pubblica. 1903 novembre 2 - Preci Una nuova sequenza sismica iniziò il 29 ottobre 1903 a Preci e culminò il 2 novembre alle ore 22:45, con una forte replica alle 7:20 del giorno successivo. Caddero molti comignoli, calcinacci e si registrarono lesioni agli edifici. Il sisma interessò le province di Perugia, Pesaro-Urbino, Ascoli Piceno, Macerata e Teramo. 1971 aprile 2, 4 ottobre - Valnerina Il sisma si verificò alle ore 2:44 del 2 aprile 1971 e venne avvertito, oltre che in Valnerina, anche nelle province di Terni, Ascoli Piceno e Macerata. Caduta di comignoli e cornicioni, distacchi di soffitti e lesioni più o meno gravi ai muri delle abitazioni si verificarono in vecchi edifici. Episodico, ma più intenso del precedente, fu il terremoto con epicentro a Nord-Ovest di Monte Patino, tra Preci e Norcia, alle ore 17:43 del 4 ottobre 1971. La scossa di VII grado fu seguita da varie repliche, di cui una molto forte alle 23:22. La scossa fu distintamente avvertita in una va76
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sta zona compresa tra le province di Macerata, Ancona, Ascoli Piceno, Teramo e in tutta la Valnerina. 1974 dicembre 2 - Valnerina Una forte scossa di terremoto colpì la zona tra la Valnerina e i Monti Sibillini. Una frana determinò l’interruzione della strada tra Serravalle di Norcia e Triponzo (Cerreto di Spoleto) costringendo a deviare il traffico per Pontechiusita e Preci. Anche la statale n. 209 venne chiusa al traffico il 6 dicembre 1974. I danni maggiori si ebbero a Triponzo dove le 80 abitazioni, in cui risiedevano circa 40 famiglie, furono fatte evacuare e gli abitanti dovettero rifugiarsi per giorni sotto le tende montate dai Vigili del fuoco. Le scosse del 2 dicembre allarmarono gli abitanti della Valnerina e in seguito alle ricognizioni furono predisposte dai vigili del fuoco di Spoleto e di Perugia delle tende in cui venne trasferita la popolazione. 1979 settembre 19 - Valnerina La terra tornò a tremare con violenza alle 23:36 del 19 settembre 1979. L’intensità raggiunse l’VIII grado della scala Mercalli e fu seguita da numerose repliche. La zona più colpita fu la Valnerina con i suoi comuni da Norcia a Cascia, da Sellano a Preci, da Monteleone a Cerreto di Spoleto, da Sant’Anatolia fino a Ferentillo. Le vittime furono cinque, decine i feriti. Probabilmente, se fosse successo un mese prima, le vittime e i feriti sarebbero stati molti di più visto che anche allora la Valnerina richiamava in estate turisti e soprattutto molti oriundi che amavano tornare al ‘paesello’ durante le ferie estive. Oltre 5.000 edifici vennero danneggiati e di questi circa 600 furono giudicati da demolire. Ci furono frane e smottamenti sulle strade principali che rimasero interrotte per diverso tempo. La scossa fu sentita in una vasta area dell’Italia Centrale e, particolare curioso, a Perugia, un’ora prima del sisma gli elefanti del circo Orfei cominciarono a barrire mentre, al momento della 77
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scossa, ruppero i picchetti delle catene e fuggirono per le strade della città. Il sisma mise a rischio un patrimonio storico ed artistico di grande valore e il simbolo ne divenne il tempio bramantesco della Madonna della Neve che, completamente distrutto dal terremoto, non verrà più ricostruito. Per la comunità della Valnerina sembrava che tutto dovesse finire senza speranza: i morti sotto le macerie, feriti, paura, l’inverno alle porte, poi la neve e ovunque cumuli di macerie e case puntellate. Anche allora arrivarono le squadre di soccorso, arrivò l’Esercito Italiano perché la protezione civile non era stata ancora istituita, vennero installate tendopoli militari, si valutarono i danni, si riaprirono le strade e le scuole, arrivarono i primi prefabbricati e tanta solidarietà dall’Italia e dall’estero. Encomiabile, nell’ambito degli interventi di emergenza operati nelle zone della Valnerina colpite dal terremoto, fu l’opera prestata – in collaborazione con i vigili del fuoco di Perugia – dai vigili del fuoco volontari di Norcia il cui distaccamento era stato attivato nel 1974. Qualche mese dopo il sisma, nel marzo del 1980, anche papa Giovanni Paolo II raggiunse la Valnerina per esprimere la sua solidarietà. Gli interventi di emergenza portarono in pochi mesi all’installazione di 1682 prefabbricati, di cui 135 destinati a servizi, per l’alloggiamento di oltre 4.500 persone senza tetto. Vennero predisposte 30 stalle (tra definitive e provvisorie) e 4 fienili per il ricovero complessivamente di 4690 ovini e 610 bovini. Nella fase post-sismica l’emergenza cedette il passo ad un intervento regionale programmato e con respiro pluriennale. Iniziò la sperata ricostruzione e arrivò la voglia di riscatto. Tutti si rimboccarono le maniche: gli aiuti economici da parte dei governi d’altronde non furono mai lesinati e le amministrazioni comunali, provinciali e regionali furono sempre al fianco dei cittadini che con caparbietà erano determinati a rimanere in Valnerina ed erano pronti a ricominciare nonostante tutto. Gli abitanti rimasero presenti nel territorio anche durante i mesi 78
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invernali successivi all’evento sismico, nonostante il freddo e nonostante il ripetersi delle scosse di assestamento e costituirono un pungolo costante per le amministrazioni a tutti i livelli istituzionali. All’evento disastroso seguirono anni di grande fermento socio-economico: non mancarono dibattiti e polemiche sul da farsi, sia sotto l’aspetto architettonico sia sotto l’aspetto delle infrastrutture e delle politiche di sviluppo. Il terremoto della Valnerina causò anche un cambiamento epocale negli usi e costumi delle popolazioni locali, trasformazioni urbanistiche sociali, culturali ed economiche. Alla fine la ricostruzione venne considerata un modello positivo per tutto il territorio della Valnerina. 1997 settembre 26 - Appennino centrale Alle 2:33 del 26 settembre 1997 si verificò una forte scossa di terremoto a Colfiorito, piccola località tra l’Umbria e le Marche. La magnitudo, parametro che indica la quantità di energia liberata dal terremoto sotto forma di onde sismiche, fu pari a 5.6, valore che in Italia può significare danni gravi. Alla prima scossa seguirono numerose repliche più piccole coinvolgendo il segmento dell’Appennino che va da Gualdo Tadino a Preci. Circa nove ore dopo la forte scossa della notte, alle 11:40 si verificò, più o meno nella stessa zona epicentrale, un’altra scossa più forte della prima, di magnitudo 5.8. Per sei mesi seguirono centinaia di scosse di media intensità, capaci di gettare nella paura le popolazioni colpite e mettere a dura prova la capacità di organizzazione e gestione dell’emergenza e della ricostruzione da parte delle istituzioni. I morti furono 4 – due religiosi e due tecnici della Soprintendenza ai Beni Culturali – per il crollo delle due vele della basilica superiore di San Francesco ad Assisi e altre 8 vittime per lo più per cause naturali, anche se indotte dal terremoto. Questo sisma fu un evento seguito con molta attenzione dai mass media che rilanciarono in tutto il mondo le immagini del crollo delle vele della 79
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basilica di San Francesco e della nube di polvere che la invase, il salvataggio con una gru del transetto a rischio e l’analogo tentativo di messa in sicurezza del torrino del palazzo comunale di Foligno che, purtroppo, non riuscì per effetto di una nuova violenta scossa di terremoto. Con quest’ultima scossa si paralizzò anche la Valnerina a causa delle frane che bloccarono le principali arterie di comunicazione, mentre i comuni più colpiti risultarono Preci e Sellano. 2016 agosto 24 - ottobre 26 - 30 ottobre 2016 e 18 gennaio 2017 - Appennino centrale Il 24 agosto 2016 alle 3.36 un terremoto di magnitudo 6.0 colpisce il centro Italia, interessando i territori di quattro Regioni: Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria. Sono migliaia le persone coinvolte nell’evento che provoca 299 vittime, numerosi feriti e gravi danni su tutto il territorio interessato. L’epicentro è nei pressi di Accumoli, in provincia di Rieti, nel Lazio - paese equidistante da Amatrice e Norcia - a soli quattro chilometri di profondità. E proprio ad Accumoli e nella vicina Amatrice si registrano i danni più gravi: il centro di Amatrice è polverizzato, Accumoli viene cancellato. Stessa sorte subisce la frazione di Pescara nel comune di Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. Dopo due mesi da quel terribile 24 agosto i riflettori dei mass media cominciavano a spegnersi, tutte le forze impiegate nei soccorsi pian piano stavano tornando nelle proprie sedi quando, due forti scosse il 26 ottobre 2016, hanno ferito profondamente la Valle Castoriana mentre una nuvola di polvere ha nascosto pietosamente il crollo della pieve del San Salvatore a Campi e ha sfregiato la facciata dell’abbazia di Sant’Eutizio causando il crollo dell’antico rosone. Il dolore per la perdita di queste testimonianze artistiche è stato unanime ma il peggio doveva ancora arrivare. Il sisma del 30 ottobre, di magnitudo 6.5, ha polverizzato il 80
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presente di molte comunità stravolgendo i progetti di vita delle famiglie e dei singoli individui che potranno rimanere radicati nel territorio solo se le attività economiche saranno aiutate a ripartire in questo momento particolarmente difficile e complesso. Per ripartire, però, sarà fondamentale anche salvaguardare l’identità della comunità e del territorio, un patrimonio che si identifica nei beni culturali la cui perdita porterebbe ad uno smarrimento delle proprie radici e delle proprie particolarità. In questo ambito, dopo il sisma, è stata preziosa l’opera svolta nel recupero delle opere d’arte dai vigili del fuoco, insieme ai carabinieri del nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, all’Esercito Italiano nucleo MIBACT e alla Protezione Civile, sotto la guida delle competenti Soprintendenze. Un lavoro che è andato avanti anche in situazioni di rischio personale a causa del protrarsi delle scosse telluriche e delle difficili avversità atmosferiche in cui si è stati costretti ad operare soprattutto nel periodo invernale. Purtroppo non ci sono alternative e tutto il patrimonio recuperato è stato portato temporaneamente in luoghi lontani considerati più sicuri, ma è ferma la volontà delle comunità locali di riavere prima possibile questi beni non appena ci saranno edifici o strutture idonee per poterli conservare e valorizzare in condizioni di sicurezza. Il lavoro di squadra fatto dai vigili del fuoco e dalle altre Forze dello Stato per salvare l’identità locale vuole essere anche un segno di speranza e di fiducia in un futuro permeato di memoria ma soprattutto di capacità di rigenerare e reinventare il genius loci nella piena consapevolezza che nulla sarà più come prima poiché i terremoti disastrosi, mettendo inevitabilmente le comunità di fronte ad un prima e a un dopo, ne cambiano profondamente il corso della storia. A Frascaro, la distruzione della chiesa di Sant’Antonio Abate costituisce la perdita del monumento di cui la comunità andava più fiera. Frascaro sta reagendo con forza e dignità alle 81
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profonde ferite causate dagli eventi sismici del 2016 e la comunità ha dato vita all’associazione no profit “Per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia”, presieduta da Angela Rita Cataldi, con l’obiettivo di raccogliere fondi per contribuire alla ricostruzione della chiesa di Sant’Antonio Abate e della chiesa della Madonna della Cona, nonché di attuare un’azione continuativa finalizzata alla tutela e valorizzazione del territorio di Frascaro. Per le donazioni è stato istituito un apposito codice IBAN (IT98A0570438580000000155400 presso Banca Popolare di Spoleto – Agenzia Norcia) mentre per le informazioni è stata creata una pagina facebook ed un giornale on-line. Tutta la comunità, formata da circa sessanta persone, ha espresso il desiderio e la decisa volontà - intrisa di coraggio, determinazione e speranza - di far risorgere dalle macerie Frascaro. Sono stata testimone di questo impegno quando nel febbraio 2017, a seguito del sisma del 30 ottobre 2016, mentre risuonavano i coinvolgenti canti Gospel dell’associazione culturale ‘One Voice’, la task force dell’8° reggimento Folgore – MIBACT, coordinata dal tenente (oggi capitano) Barbara Caranza, esperta in beni culturali - che ho avuto modo di conoscere ed apprezzare nelle fasi di recupero dell’archivio storico comunale di Norcia -, continuava le difficili operazioni di recupero degli arredi sacri e delle opere d’arte tra le macerie della chiesa di Sant’Antonio Abate. La preziosa opera dell’Esercito - in collaborazione con i Vigili del fuoco, i Carabinieri del nucleo tutela del patrimonio culturale e della Protezione Civile, sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni culturali - ha permesso di recuperare sia opere dipinte che sculture conservate all’interno della chiesa di Sant’Antonio Abate, portate in salvo presso il deposito di Santo Chiodo di Spoleto. In ogni caso, anche a distanza di tempo, è duro da accettare che il terremoto abbia distrutto una storia tanto ricca e profonda: sta comunque a noi, alle future scelte politiche e amministrative, far sì che si conservi questa radice e le future generazioni pos82
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sano ancora vivere e ammirare questi luoghi che, nonostante le ferite inferte dal sisma, costituiscono il simbolo dell’identità di questo territorio. Ecco perché è estremamente importante che, prima possibile, con il ritorno della quiete sismica, accanto alla ricostruzione, ci sia un impegno forte e unitario a far sì che i tanti capolavori d’arte, sradicati per cause di forza maggiore e per garantirne la preservazione, tornino nei luoghi di origine se si vuole che la comunità non perda definitivamente i simboli e le matrici della sua identità. Rita Chiaverini
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Frascaro, febbraio 2017: Rita Chiaverini, ispettore archivistico onorario con il tenente (oggi capitano) Barbara Caranza durante il recupero dei beni culturali all’interno della chiesa di Sant’Antonio Abate crollata in seguito al sisma del 30 ottobre 2016.
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Storie, racconti e leggende
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Intervista sulla guerra Mario Cataldi racconta: «Penultimo di nove fratelli, venni alla luce nel 1928 quando la Prima Guerra Mondiale era alle spalle; quanto vi racconto è accaduto alla mia famiglia in quel brutto periodo ed è la storia di mio padre, Agostino Cataldi, nato il 12 giugno 1887 e morto il 20 settembre 1976». Agostino, da uomo libero, premuroso di far crescere la sua numerosa famiglia, si ritrovò all’improvviso soldato a fronteggiare una guerra ingiusta e crudele. Arruolato in prima linea a Trieste, imparò a parlare velocemente il tedesco e a combattere, rischiando la vita più di una volta. La vita in trincea era durissima: spesso i piedi si congelavano e l’unico rimedio era farsi dei massaggi con la neve perché l’acqua calda congelava a sua volta. I fuochi non potevano essere mai accesi perché i cecchini potevano facilmente scoprirti e ucciderti. Ricordava bene anche quando una volta fu salvato da un amico militare: «c’erano spari ovunque, la mitragliatrice sparava di continuo e rischiai la vita affacciandomi al di sopra della trincea per vedere da quale direzione venisse l’attacco»; il suo compagno gli salvò la pelle tirandolo giù tempestivamente! In quel giorno funesto sopravvissero solo in otto poiché durante quell’assalto violento in trincea morirono più di duecentoquaranta militari, tutti suoi compagni. Da questo evento in poi tutto cambiò. Da soldato combattente per la patria, non poteva più accettare quella situazione di pericolo. Pensava sempre alla sua famiglia e a come i suoi cari avrebbero vissuto senza di lui, per questo motivo incominciò ad escogitare alcuni modi per poter essere riformato. Finse la pazzia, mangiando il sapone in modo da simulare una crisi di nervi con la bava alla bocca; su suggerimento degli altri militari, provò anche a rovinarsi le gambe con un tipo di erba orticante che causava bolle e arrossamenti, ma nessuno di questi espedienti portò al risultato sperato, fino 87
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a quando un giorno arrivò una lettera nella quale si diceva che sua madre anziana era molto malata e che aveva bisogno di lui. Così andò dai comandanti per chiedere di poter tornare a casa, ma anche questa volta il permesso gli venne negato. Fortissimo crebbe il desiderio di lasciare tutto per tornare dalla sua famiglia e decise di scappare. Pagò cara questa scelta perché fu presto arrestato dai carabinieri e condannato al carcere presso Gaeta. Quando scappò dalla guerra di trincea era inverno e trovò rifugio in una capanna di legno nascosta nella vigna di proprietà che si trovava poco fuori del paese. Per riscaldarsi accendeva dei fuochi e un giorno, mentre era fuori a raccogliere qualche pezzo di legna, la capanna prese fuoco. Per paura di essere scoperto dai carabinieri, scappò in direzione di Nottoria camminando all’indietro nella neve in modo da far sembrare che le orme andassero nella direzione della capanna invece che dalla parte opposta. Rimase in questo paese per qualche giorno, poi andò a Piediripa dalla sorella che, per un lungo periodo, lo tenne nascosto permettendogli di rivedere la sua famiglia. Addirittura in una nevosa notte d’inverno, dovendo ritornare al nascondiglio senza farsi catturare, camminò nuovamente al contrario nella neve fresca rifugiandosi in un forno dove veniva cotto il pane. Quando arrivò la primavera tutti i familiari cercarono inutilmente di convincerlo a consegnarsi ai carabinieri. Solo la madre riuscì un giorno a persuaderlo ed Agostino si decise così ad incamminarsi sulla strada che portava a Norcia. Nel crocevia che lo avrebbe portato dai carabinieri, presso la chiesa della Madonna della Cona, si fermò a pregare davanti ad un’immagine della Madonna chiedendole quale fosse la scelta giusta, se proseguire oppure tornare indietro. La risposta fu quella di tornare indietro e quando la madre lo vide di ritorno solo dopo un quarto d’ora, pianse, lo abbracciò e lo convinse di nuovo a consegnarsi ai carabinieri. Fu così che venne arrestato e portato a scontare la pena a Gaeta. Qui le prigioni erano umidissime, quando pioveva entrava acqua da tutte 88
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le parti e da lì non si poteva proprio fuggire poiché intorno c’era soltanto mare e nient’altro. Il tempo passava, finché arrivò il giorno in cui annunciarono che la Regina aveva partorito e che per questo motivo concedeva la grazia ai carcerati di guerra, lui compreso, che così finalmente poté fare ritorno a casa. Rita Chiaverini
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La Resistenza a Frascaro 8 settembre 1943 - 17 giugno 1944, questi i nove interminabili mesi che segnarono l’inizio e la fine della Resistenza in Umbria con più di novecento partigiani all’attivo, divisi tra 212 donne e 700 uomini. Numerose furono le vittime cadute per la rinascita della libertà, ma numerosi furono anche i sopravvissuti che nel tempo hanno tramandato il ricordo di quegli eventi drammatici. La piccola comunità di Frascaro, ovviamente, non fu immune dalle vicende della guerra. Qui di seguito si riportano importanti memorie di alcuni dei protagonisti, preziosi testimoni di quel periodo raccontato senza abbellimenti letterari e finzioni retoriche. Il ricordo inizia con la testimonianza di mia nonna, Vittoria Magroni (1925-2013), donna ardita che spesso, seduta nella sua panchina preferita davanti alla propria casa, amava intrattenere noi giovani del posto con i racconti di quell’epoca. Vittoria, nata in un piccolo paese di montagna, a soli sette anni rimase orfana di padre e fu presto mandata a lavorare in un albergo di Norcia per poter dare un aiuto economico a sua madre e suo fratello. È da questo luogo che iniziano i suoi ricordi e le sue prime esperienze sulla guerra. Mia nonna raccontava che in quell’albergo spesso arrivavano gli ufficiali tedeschi i quali, dopo aver fatto razzie presso i contadini, pretendevano che gli venisse cucinato quello che avevano rubato e che dopo aver mangiato, questi si facevano sempre portare il liquore ma, non fidandosi, prima lo facevano assaggiare a coloro che glielo servivano. Durante la loro permanenza mostravano spesso le foto dei familiari, ma non smettevano mai di dire che, per ogni tedesco ucciso a Norcia, loro avrebbero ucciso tre nursini, così dicevano: «un di noi, tre di voi !!!». Oltre ai tedeschi, anche gli inglesi venivano spesso in quell’al90
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bergo ed era loro usanza farsi scaldare grandi pentoloni d’acqua per preparare il tè. Mia nonna e le altre persone che lavoravano con lei, non conoscevano questa bevanda e per loro fu dunque un’occasione importante per apprezzarla. Vittoria, inoltre, spesso raccontava che nel 1944, durante la fiera di Norcia che aveva luogo nei pressi della vecchia stazione (distrutta dal terremoto del 30 ottobre 2016), un giorno arrivò un aereo tedesco e iniziò a mitragliare sulla gente ferendo a morte il parroco di Ospedaletto, Don Lorenzo Moretti. Preziose sono anche le memorie di un altro anziano frascarese che, ancora oggi, racconta con grande lucidità la sua esperienza durante la Resistenza. Antonio Di Alessandro, detto “Peccatore”, ha 90 anni e racconta così gli avvenimenti per lui più toccanti di quel periodo: «Io ed altri giovani ci trovavamo all’inizio del paese, quando arrivò una camionetta con alcuni abitanti di Norcia. Questi ci dissero di portare via tutto il bestiame perché stavano per arrivare i tedeschi. Così noi giovani portammo le mucche, i maiali, le pecore in montagna, nascondendoli nei boschi. Nella fretta però, non prendemmo nulla da mangiare per noi, così di notte, mandammo i nostri fratelli più piccoli giù in paese a prendere un po’ di cibo, ma nel frattempo arrivarono i tedeschi a cavallo, che appena li videro, li presero a frustate, finchè non riuscirono a scappare e a nascondersi in una grotta. Restammo quattro giorni nei boschi senza mangiare, potevamo solo bere latte munto dalle nostre mucche. Un giorno si avvicinarono due uomini e noi ci spaventammo perché credevamo fossero tedeschi; erano invece dei ribelli, ma non ci fidavamo lo stesso di loro, perché avevamo paura che rubassero il bestiame, quindi a turno scendevamo in paese di notte. Nel 1943 ci fu un’ordinanza che proibiva l’ascolto di notizie di guerra via radio, quindi anche il suo possesso. Per questo di sera, di nascosto, ci riunivamo a casa di Davide Cataldi (un giovane di Frascaro che aveva una radio) per sentire notizie sull’arrivo degli inglesi. Ma un giorno Ernesto, un nostro compaesano, disse ad un tedesco ubriaco, 91
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pensando non capisse l’italiano: «bevi, bevi, che tanto alla radio hanno detto che siete circondati!». Ma questo tedesco conosceva benissimo la nostra lingua e riferì l’accaduto ai suoi compagni. La mattina dopo chiamarono tutta la gente del paese, minacciandola che, se non avessero fatto il nome della persona che aveva detto quella frase, avrebbero ucciso dieci persone. Fummo così costretti a dirglielo, Ernesto fu preso dai tedeschi e fu portato sotto la minaccia di una pistola sulla strada che porta al “connutto” (luogo in cui vi è una sorgente d’acqua che fuoriesce dalla roccia) e fu appoggiato ad un palo. Gli dissero quindi che sarebbe stato ucciso se non avesse fatto il nome del possessore della radio. In sua difesa la madre di Ernesto fece intervenire anche il parroco Don Antonio Brugnoli, ma fu tutto inutile. Così Ernesto, tremando e piangendo per la paura, fece il nome di Davide; i soldati si recarono a perquisire casa di quest’ultimo ed una volta trovata la radio, Ernesto fu lasciato andare. I tedeschi amavano molto bere, specialmente vino rosso, per questo andavano dalla gente del posto chiedendone un po’ e offrendo poi in cambio biancheria rubata. Un giorno andarono nella cantina di Romolo, un altro giovane del paese, chiedendogli di consegnare le damigiane che contenevano aceto, ma che loro credevano fosse vino. Lui negò spiegandone il reale contenuto, ma i soldati non credendogli, lo costrinsero a bere per verificare che non stesse mentendo. Romolo dovette bere quasi una damigiana intera di aceto prima che i tedeschi credessero alle sue parole. Tempo dopo lasciarono Frascaro, incamminandosi verso Castel Santa Maria e lì, vennero infine contrastati ed uccisi dagli Americani». Questa dunque la testimonianza di Antonio Di Alessandro che trova riscontro anche nelle memorie di Assunta Leoncilli raccontate dalla Sig.ra Orelli, sua nipote. Quest’ultima riferisce che, durante la Resistenza, i soldati tedeschi si erano recati anche da sua nonna e che le ruppero tutte le botti di vino. Non contenti, le rubarono anche l’amato asino di nome “Miccia” che però, non smettendo mai di ragliare, fu subito rilasciato al ponte dopo San Pellegrino da cui fece velocemente ritorno. Denise Nardi 92
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Casaletto del Castagneto
fig. 39, Casaletto
Il Casaletto, nato originariamente come rifugio e rimessa attrezzi, è rimasto nel tempo un importante punto di riferimento per il territorio e gli abitanti di Frascaro (fig. 39). In questo luogo era infatti usanza festeggiare la raccolta delle castagne con un pranzo a base di vino e carne alla brace. La storia di questo luogo è tramandata dagli eredi della famiglia Wlderk, attualmente titolari di questa proprietà. In particolare, grazie a Filippo Wlderk è stato possibile ricostruire le vicende storiche e aneddotiche legate al rifugio, la cui origine risale ai primi del ‘900 quando venne costruito per mano di Andrea Toccaceli. Nursino di nascita (seconda metà dell‘ottocento), da semplice garzone dei pastori, egli riuscì in pochi anni a conquistare uno status economico e patrimoniale di estrema importanza. Rimasto vedovo di Rosa Wlderk, originaria di Oriolo Romano, dalla quale non ebbe figli, ben presto si risposò con Chiara, nipote della moglie defunta. La differenza di età tra i due era tantissima e anche questo matrimonio non diede progenie. I due coniugi riuscirono insieme ad amministrare intelligente93
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mente il patrimonio familiare, diventando in breve tempo abili imprenditori e preziosi mecenati per Frascaro. A loro, infatti, si devono lavori importanti come il restauro della casa parrocchiale e la donazione degli scranni della chiesa di Sant’Antonio Abate. Chiara, donna bella e ricca, dopo la morte di Andrea nel 1934, cedette alle lusinghe di Augusto Marini di Ancarano, sposandolo e si dimostrò un’avveduta imprenditrice oltre che donna lungimirante nonostante le difficoltà legate alla seconda guerra mondiale. Fu lei infatti ad ospitare nel Casaletto molti giovani (Pietro Franchi, Gasperino Patrizi nonchè suo nipote Romolo Wlderk ed altri) che, scappati dalla guerra, trovarono in questo posto rifugio, altrimenti avrebbero dovuto prestare servizio militare per la Repubblica Sociale Italiana. I giovani, nascosti nelle macchie circostanti, alla data stabilita, scendevano al Casaletto del castagneto, dove venivano accolti da Chiara che, almeno una volta alla settimana, garantiva loro “un caldaio di polenta e dieci pagnotte”. Una storia che si ripeté più volte, fin quando furono derubati del cavallo del calesse di Chiara, catturati e costretti dall’esercito nazista a tagliare vigne sulla Piana di Santa Scolastica per la realizzazione di un aeroporto per l’aviazione tedesca. I giovani successivamente riuscirono a fuggire nella macchia e trovare nuovamente riparo nel castagneto. A seguito del recente terremoto del 30 ottobre 2016, oggi, del Casaletto rimane purtroppo soltanto un cumulo di macerie. Debora Nardi
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Violenza su minori e sulle donne Rinaldo Patrizi, il 20 giugno 1825, querela Angela Patrizi davanti al Governatore distrettuale di Norcia accusandola di aver bastonato qualche giorno prima il figlio Tommaso di quattro anni. Il giorno dopo vengono chiamate a testimoniare Anna, moglie di Vincenzo Placidi, «di anni cinquanta circa, attenta alle faccende di casa e di campagna, nativa di Frascaro» e Maria Brugnoli, moglie di Domenico, figlia di Felice di Apecchio di Visso che non provarono l’accusa per cui ‘l’incarto’ venne archiviato5. Marianna Cataldi di Frascaro, figlia di Domenico, è una contadina di 22 anni che insieme alla sorella Anna il 19 aprile 1859 querelano Pietro Brugnoli, figlio di Filippo e Vincenzo Di Alessandro, figlio di Innocenzo «per ferita superficiale prodotta da strumento contundente con pericolo di piccola cicatrice apparente». Tutti i protagonisti sono di Frascaro, ma i fatti si svolgono a San Pellegrino. Marianna, davanti al Governatore, dichiara che la domenica di Quaresima – 17 aprile 1859 – insieme alla sorella Anna «ci portammo ambedue in San Pellegrino ad oggetto di ascoltare la predica circa l’un ora di notte, in compagnia di altri abitanti dell’istesso paese; discostateci da tutti per ritornare in casa, poco lunghi si trovano impostati i due querelati Pietro Brugnoli e Vincenzo Di Alessandro che nel vederci isolate, cominciarono a scagliare dei sassi contro di noi, uno de’ quali colpì a me Marianna sul labro superiore ed a me Rosa nel dito mignolo della mano sinistra e dalla chirurgica relazione meglio si conoscerà il male che ci ha fatto, sebbene a me Rosa abbia detto il chirurgo che non si vedeva contusione e altro. Dopo che fummo noi percosse dai sassi, incominciammo a piangere ed a strillare ed i due querelati furno visti di fuggire da Oliva Cesari, Giuseppe Stanchetti, Claudio Tibaldeschi e sua figlia Rosa che mi viddero col sangue al labro a me Marianna, ai quali dissi gli autori del mio ferimento». 5 Archivio Storico Comunale Norcia, d’ora innanzi ASCN, Governatore, 1825, fascicoli penali, n. 1167.
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La querela venne archiviata per mancanza di prove in quanto i testimoni chiamati a deporre non confermarono di aver assistito all’episodio ma solo di aver visto le due donne agitate ed una sanguinante. Resta agli atti una relazione del chirurgo Massetti del 18 aprile 1859: «A Marianna del fu Domenico Cataldi di Frascaro d’anni 22 ho medicato io sottoscritto chirurgo una superficiale ferita longitudinale, posta alquanto a destra sul labro, lunga un dito trasverso e profonda poco più di una linea stata causata da stromento contundente che giudico senza pericolo di vita ma con pericolo di lieve sì ma apparente cicatrice»6. Rita Chiaverini
6 ASCN, Governatore, 1859, fascicoli penali, n. 8826.
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Il paese dei briganti Un blasone popolare definisce Frascaro ‘il paese dei briganti’. Si racconta che una banda di malviventi terrorizzasse gli abitanti di Frascaro. Una notte la gente decise di reagire e, in un agguato, ne uccise nove. Il blasone vuole alludere al fatto che per uccidere un così gran numero di briganti, bisogna essere uno di loro. All’interno della chiesa di Sant’Antonio Abate erano presenti alcuni teschi umani -due di questi teschi sono stati recuperati dalle macerie e si trovano presso il deposito di Santo Chiodo di Spoleto- che, secondo alcuni, erano quelli dei briganti per le cui anime, fino a qualche anno prima del sisma, venivano celebrate delle messe in suffragio. Qualche riferimento in tal senso ci viene anche dal monaco Fortunato Ciucci che nella sua Istoria di Norsia scrive che gli abitanti: «si mostrarono valorosi nel passaggio che fecero a questa villa i banditi di Marco, Sciarra, Catena et altri capi, quali tenevano atterrito il mondo, nel 1592 a dì 9 d’aprile difendendosi francamente al rispetto del gran numero di essi, i quali con disonore grande e danno si partirono da questa villa»7. Altri attribuiscono questo episodio all’epoca della dominazione francese dell’Ottocento, periodo in cui non mancarono briganti locali come Domenico Brugnoli e Ferdinando Patrizi sui quali furono poste due taglie dal prefetto del Dipartimento del Trasimeno Roederer nel 1813. A proposito di Ferdinando Patrizi, in un fascicolo penale della cancelleria criminale del governo distrettuale di Norcia, Francesco Petruccioli di Savelli testimonia che «sul fine di maggio dell’anno 1814 alli tre quarti di notte nella strada vocabolo li Prata delli Paganelli, da dietro una quercia spunta Ferdinando Patrizi dal Frascaro che stava lì appostato e mi produsse un male mortale mediante la rottura di quattro costate e molte contusioni e una cicatrice aparente sopra il ciglio dell’occhio sinistro»8. 7 F. Ciucci, Istorie dell’antica città di Norsia, Firenze, 2003. 8 ASCN, Governatore, 1817, n 417, fasc. n.° 120.
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Petruccioli, nonostante la gravità delle «offese ricevute» - che spinsero i familiari a richiedere il «santo viatico» - riuscì a sopravvivere all’agguato tant’è che il brigante Patrizi millantava in giro «di essersi pentito di non averlo ammazzato con aggiunta che quanto prima avrebbe completato l’opera».9 Viene chiamato a testimoniare il campagnolo Nicola Berardi di Savelli che rilascia la seguente dichiarazione: «È a me noto che il Patrizi abbia fatto il brigante e sia stato anche capo in compagnia di Domenico Brugnoli che a Civita di Cascia disarmassero tre preposti e che li fucilassero nella montagna come pure che in un giorno che stavo a battere le noci vicino al mio paese furno intese delle archibugiate sopra la coppara e poco dopo vidi portare nella piazza del mio paese un cadavere che riconobbi essere un certo Fiorelli Propezio che era stato ammazzato con le archibugiate che si erano intese dalli briganti»10. Altro brigante originario di Frascaro fu Lorenzo Patrizi, ferito a Piediripa dalla Guardia Nazionale e trasferito alla rocca di Spoleto sempre nel 1813. Sicuramente, il più pittoresco dei briganti fu il frate cappuccino Liberato che andava in giro con l’abito di San Francesco portando sciabola, pistole ed un cappello bianco in testa infettucciato di rosso. Fra Liberato, insieme ad un altro frate zoccolante Luigi Guerra e al molinaio di Accumoli Domenico Adduci, guidò gl’insorgenti della montagna contro i Francesi nel 1799. Rita Chiaverini
9 Ibidem. 10 Ibidem.
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La leggenda di Cecco D’Ascoli Antiche testimonianze narrano di un importante fiume che scorreva verso Nord ai piedi della fonte de Messanu, congiungendosi prima con il fiume Pescia e poi con il Torbidone, fiumicello carsico riemerso dopo l’ultimo terremoto del 30 ottobre 2016. Per poter attraversare il fiume, e dunque proseguire per la strada che portava a Valcaldara, occorreva pagare un pedaggio ad un traghettatore. Secondo una leggenda locale un giorno il famoso Cecco d’Ascoli si ritrovò a dover percorrere tale strada. L’uomo, realmente vissuto tra il 1200 e 1300 era un medico, astrologo, astronomo e poeta conosciuto anche come ‘il mago’; ed è proprio ad una sua maledizione che è stato imputato il prosciugamento del fiume. Cecco, non volendo pagare il pedaggio e dopo aver detto «o passo bagnato o passo asciutto», riuscì ad attraversare il fiume camminando nel suo letto privo di acqua. Prima di proseguire, però, disse anche che il fiume sarebbe ritornato solo quando un uomo fosse morto cadendo nel pozzo di Messano, poco distante. Fortunatamente, negli ultimi ottocento anni, nessuno ha mai avuto questo infausto destino. Eleonora Cataldi
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“L’Incamata” sfottò per i novelli sposi
Pochi ormai ricordano che la notte prima del matrimonio un gruppo di ragazzi, più o meno nutrito, a seconda delle esigenze, entravano in azione e facevano “l’incamata”. Dopo aver rubato paglia e cama dalle case limitrofe, si prendevano cura di spargerla lungo le strade che collegavano le case degli imminenti sposi a quelle dei rispettivi precedenti ex fidanzati rimasti senza anima gemella. E se a qualcuno del paese fosse sfuggita qualche love story (cosa - bisogna aggiungere - praticamente impossibile), bastava seguire la paglia per aggiornarsi sull’argomento. E le parti lese? Sostanzialmente reagivano abbastanza bene, anzi erano talmente rassegnati che sarebbero rimaste deluse se i soliti “ignoti” organizzatori si fossero dimenticati di loro. Anzi, accadeva che spesso erano questi ultimi che di buon mattino, armati di scopa, ripulivano le strade (per non rovinare almeno le fotografie), e poi di corsa a festeggiare gli sposi in chiesa e al ristorante. Finita una giornata di nozze, i nottambuli, fieri di difendere una delle tradizioni popolari più antiche, erano già pronti a colpire la futura vittima. Un racconto dal passato: Il 14 giugno 1829, il ventiduenne Filippo Brugnoli di Frascaro, compare davanti al governatore distrettuale di Norcia ed espone quanto segue: «Il primo settembre 1828 sposai la figlia di Silvestro Severini da San Pellegrino per nome Anna. Sulli primi del perduto maggio diversi individui a me incogniti si fecero leciti sotto alla mia fenestra ove dormivo portarci dei somari e somare a ragliare e sulla sommità di detto mese farmi anche l’infiorata. La scorsa notte poi parimenti si son fatti leciti accanto alla mia abitazione farmi l’incamata. Per quante indagini io ebbi praticate onde capire gli autori, sono arrivato a conoscenza che informati 100
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sono Giovanni Cesari, Paolo Matteocci, Patrizio di Rinaldo Patrizi, Sabatino Cataldi e Claudio Tibaldeschi del Frascaro onde faccio istanza che venghino esaminati e proceduto contro chiunque come sarà di ragione». Due mesi dopo la presentazione della querela viene ascoltato Paolo Matteocci, figlio di Felice Antonio, un contadino di vent’anni, sempre di Frascaro, che sotto giuramento dichiara che tempo prima, pur non ricordando la data, passando per la via principale di Frascaro «dove è posta la casa di Filippo Brugnoli dove convive con la moglie Anna, viddi per ben due volte che in quella pubblica via, infino alla casa delli indicati coniugi vi avevano posto delle frasche, cama ed erbe che noi diciamo ellerata ed è disdicevole alla donna alla quale si fa. Ho sentito poi raccontare che l’ellerate suddette venissero eseguite da un tal Domenico Patrizi del Frascaro» e che lo stesso «abbia commessa simile indecenza a danno dei coniugi Brugnoli perché prima facendo all’amore colla sorella di Filippo Brugnoli per nome Lucia – quale convive con li indicati coniugi – ora si è disgustato». Paolo Matteocci dichiara inoltre che Filippo, Anna e Lucia Brugnoli «sono buone persone e per quanto io le conosco oneste, come pure Domenico Patrizi sembra un buon giovane».11 Qualche giorno dopo, il sostituto Giovambattista Santini, su ordine della cancelleria, esamina Claudio Tibaldeschi, figlio di Cristoforo di Frascaro, di 35 anni, contadino. Sotto giuramento dichiara di aver sentito dire «esser stata fatta una ellerata con cama alli coniugi Filippo ed Anna Brugnoli cioè sporcando con cama di grano le strade tutte del Frascaro che andarono a terminare nella casa delli coniugi Brugnoli. Io un giorno viddi detta incamata che si disse ridondare a scorno [a scapito] di Anna e Filippo e dimandato chi fusse potuto essere l’autore o autori di simil fatto, mi fu riferito da Mariano Cataldi che si sospettava che Patrizio Patrizi e Domenico Patrizi potessero essere stati gli autori tant’è che la mattina dell’avvenuta incamata, non sono intervenuti alla Messa unica che in esso villaggio vi era in giorno festivo».12 L’ultimo teste ascoltato è il ventenne Giovanni Cesari, figlio di Francesco, anche lui contadino di Frascaro. 11 ASCN, Governatore, 1829, fascicoli penali, n. 2617 12 Ibidem.
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Il Cesari dichiara che tempo prima «passando a Frascaro sotto la casa dei coniugi Brugnoli viddi che per quelle pubbliche vie vi era gettata della cama segno di ellerata che si usa di fare a danno di qualche donna o uomo»13. Soltanto il 24 aprile del 1830 viene sentito il ventunenne Patrizio Patrizi, figlio di Rinaldo, contadino possidente di Frascaro che dichiara: «Ero nella notte in cui avvenne l’incamata alla Montagna. La mattina ne sentii parlare».14 Insomma alla fine l’esposto venne archiviato «per esserne ignoti gli autori».15 Rita Chiaverini
13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ibidem.
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Detti e proverbi «A Frascaru non se coce pizza / se non è ranu de Fuscone o de Culizza» I Fusconi e i Colizzi erano famiglie patrizie di Norcia. «S. Pilligrinu ciecu» Il detto viene così motivato: San Rocco, patrono di Frascaro, e San Pellegrino, patrono del paese rivale, si davano la burla dietro il campo della chiesa. San Rocco invitato alla lotta da San Pellegrino gli risponde schernendosi vista la debole complessione dello sfidante, ma nel fare il gesto del diniego gli sfiora un occhio e lo acceca. «A ru Frascaru statte bonu co le mani A Nutturia magna bii e scappa via A San Pillirinu viè a sintì lo inu A la Cardara gente trista e gente avara A Savieji scopa paduji e rubba vitieji A Cricchiu, Populi e Bervedè daje focu a tutte e tre A Piripa n’ce sta ‘n cane che te ‘nvita» Il detto è uno sfottò riferito agli abitanti dei paesi circostanti: A ru Frascaru (Frascaro) era il paese dei briganti e quindi conveniva stare buoni e tranquilli. A Nutturia (Nottoria) si ubriacavano e facilmente venivano alle mani, per questo era bene andar via subito dopo mangiato. A San Pillirinu (San Pellegrino) erano soliti far assaggiare il vino che producevano. A la Cardara (Valcaldara) era gente cattiva e avara. 103
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A Savieji (Savelli) avevano la fama di ladri di galline e vitelli. A Cricchiu (Ocricchio), a Populi (Popoli) e Bervedè (Belvedere) non erano ben visti da nessuno e quindi potevano essere bruciati tutti e tre A Piripa (Piediripa) erano poco socievoli e non invitavano mai nessuno nÊ per feste nÊ per motivi di lavoro. Angela Rita Cataldi
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FestivitĂ e ricorrenze
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Festa di San Rocco Fra tutte le feste di Frascaro quella di San Rocco (16 agosto) era sicuramente la più importante ed impegnativa in quanto la sua preparazione era lunga e richiedeva la collaborazione di molte persone. Già dai primi di maggio, infatti, i santesi si riunivano insieme al sacerdote per definire come organizzare i festeggiamenti e scegliere le persone con cui collaborare. Nei giorni che precedevano la festa, i santesi si recavano presso ciascuna famiglia del paese praticando il cosiddetto “accattenno”, ovvero la richiesta di un contributo economico per lo svolgimento della festa. La liturgia religiosa si svolgeva sempre con le stesse modalità: dal tredici agosto, ogni pomeriggio, si effettuava una funzione religiosa di preparazione alla celebrazione solenne; il sedici mattina, a mezzogiorno, la Santa Messa “cantata”; il sedici pomeriggio, alle 19:00, si svolgeva la processione. La statua di San Rocco, precedentemente addobbata con fiori, veniva portata a spalla dai giovani di Frascaro lungo l’unica strada principale: a partire dalla chiesa di Sant’ Antonio Abate, situata al centro del paese, si trasportava verso “Capo le case” (Frascaro Alto) fino alla Madonnina di proprietà della famiglia Leoni, da qui, passando di nuovo davanti la chiesa, verso “Piedi le case” (Frascaro Basso) fino all’edicola di Santa Rita e poi di nuovo in chiesa dove veniva impartita la benedizione. Da evidenziare che durante la processione sfilavano tre bellissimi stendardi: gli uomini della confraternita portavano lo stendardo di Sant’Antonio, mentre quello di Santa Rita e del Santissimo Sacramento era accompagnato da tre ragazze. La statua del Santo veniva accompagnata dai membri della Confraternita del Santissimo Sacramento (fig. 40) abbigliati con la tradizionale ‘vesta’, tonaca bianca munita di un cordoncino in vita ed un mantello rosso impreziosito da una spilla rotonda 107
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con l’immagine di un calice (fig. 41). La parte ludica della festa veniva organizzata con grande entusiasmo e prevedeva una lotteria con premi importanti (1° premio una macchina). Questa, insieme all’“accattenno”, doveva servire a coprire interamente le spese per la festa. La vendita dei biglietti coinvolgeva soprattutto i bambini che svolgevano il compito con molta solerzia, girando a piedi e in bicicletta tutti i paesi del territorio, riuscendo sempre ad ottenere buoni risultati. Gran parte dei biglietti, inoltre, veniva venduta anche a Roma e Frascati, dove molti nativi di Frascaro avevano la residenza e lavoravano presso le proprie botteghe di norcineria. Nei pomeriggi del 14, 15 e 16 agosto erano previsti giochi per bambini e adulti. Per i bambini: corsa con i sacchi, il famoso gioco della “pignatta” (sostituita in tempi recenti da palloncini). Per gli adulti: tornei di briscola per gli uomini e di scopone scientifico per le donne; il gioco dell’albero della cuccagna che consisteva nel dover prendere i premi (di norma generi alimentari) arrampicandosi in cima ad un palo che veniva ingrassato con la sugna del maiale in modo da renderlo il più possibile scivoloso; il gioco del tiro al gallo che richiamava le persone più adulte e che consisteva nel tirare con un fucile ad un bersaglio rappresentante un gallo. Se l’obiettivo veniva centrato, il premio finale era appunto un bel gallo. Al termine dell’ultima serata, il 16 agosto, avveniva l’estrazione della lotteria. Tutte le tre giornate di festeggiamenti terminavano con una serata danzante, ognuna caratterizzata da un complesso musicale diverso. Erano giornate ricche di brindisi e grandi mangiate, ma anche di intenso lavoro: gli abitanti di Frascaro, infatti, dovevano mantenere il fuoco sempre ardente pure di notte per poter cuocere 108
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le centinaia di salsicce che venivano gratuitamente offerte alla gente che, da Norcia e dintorni, arrivava a Frascaro per mangiare, bere e soprattutto divertirsi. Addirittura si narra che qualche volta fu necessario l’utilizzo della rete di un letto per cuocere tutte le salsicce e sfamare la moltitudine di persone che, spesso, per riuscire a raggiungere la festa erano costrette a parcheggiare la propria auto lungo la strada sino alla chiesa della Madonna della Cona. Dal 16 agosto del 1993, la festa di San Rocco viene celebrata solo dal punto di vista religioso (figg. 42, 43) e solo negli ultimi anni si sta tentando di riportare in auge i tradizionali festeggiamenti civili (figg. 44, 45). Angela Rita Cataldi, Debora Nardi
fig. 40, processione di San Rocco
fig. 41, spilla della confraternita SS. Sacramento
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fig. 42, processione di San Rocco, anni ‘80/’90
fig. 43, processione serale di San Rocco, anni ‘70
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fig. 44, festa di San Rocco
fig. 45, un banchetto della festa di San Rocco
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Festa delle Croci Nei giorni di San Giorgio (Giurgittu, 23 aprile), San Marco (Marchittu, 25 aprile) e nel giorno della Croce (3 maggio) venivano celebrate le rogazioni, ovvero delle cerimonie benaugurali per far sì che il raccolto andasse bene. Nel giorno di San Marco non si lavoravano i campi, in quello di San Giorgio si accendeva un fuoco nella vigna, mentre nel giorno della Croce venivano piantate diverse insegne sacre laddove un tempo sorgeva l’antico paese di Fiorenzuola, poi divenuto Frascaro. Quattro sono i luoghi dove erano posizionate le croci: “Colle Piano”, nei pressi della chiesa di Santa Maria del Rovaro (fig. 46); “Capo le Case”, all’imbocco di via “De lu Lubaru” che porta a San Pellegrino (fig. 47); sopra “lu Cunnuttu”, sopra la Costa (fig. 48); nella via della “Croce” (dietro la Chiesa di Sant’Antonio Abate, lungo il sentiero che conduce a San Pellegrino). Realizzate in modo disadorno con bastoni di legno incrociati, su ciascuna di queste croci veniva eseguita una foratura per accogliere un ramoscello di palma e una candela, simbolo di Cristo luce del mondo e strumento per illuminare il popolo. La processione avanzava seguendo le tappe indicate dalle croci e di fronte ad ognuna di esse si pregava affinché il raccolto fosse propizio. Circa dieci anni fa alcuni abitanti del paese realizzarono tre delle quattro croci in ferro e le riposizionarono una a “Capo le Case”, una a “Colle Piano” e una sopra “lu Connuttu” affinché questa usanza, oggi non più praticata, non venisse dimenticata dalle generazioni future. Non poteva mancare il rito della benedizione delle stesse ad opera del “caro” don Antonio Diotallevi. Anche se tutti non sono a conoscenza del loro significato, c’è chi passeggiando incuriosito tra questi sentieri scatta qualche foto immortalando l’incantevole paesaggio che fa da sfondo. Angela Rita Cataldi, Debora Nardi, Valentina Patrizi 112
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fig. 46, Croce di Colle Piano
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fig. 47, Croce di Capo le Case
fig. 48, Croce sopra “Lu Cunnuttu”
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Festa della Candelora Il 2 febbraio si festeggiava la Candelora, giorno in cui avveniva la tradizionale benedizione delle candele, simbolo di Cristo “luce delle genti”. Per gli abitanti di Frascaro era una festa importante in quanto, alla fine della celebrazione liturgica, il sacerdote procedeva a nominare le coppie di santesi, ovvero le persone che dovevano curare ed organizzare le feste religiose più importanti della parrocchia: festa della Madonna della Cona (ultima domenica di maggio), festa delle Fantelle (ultimo sabato e domenica di giugno), festa di San Rocco (16 agosto), festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio). Il sacerdote scriveva due gruppi di bigliettini da cui venivano estratte a sorte le coppie di santesi: una parte dei bigliettini riportava il nominativo dei capofamiglia residenti a Frascaro, mentre l’altra quelli residenti a Roma. Da ognuno veniva estratto uno o più nominativi. Solo nel caso della festa delle fantelle, la coppia era formata da due donne che dovevano essere entrambe ragazze non sposate. L’investitura al ruolo di santese avveniva attraverso la donazione da parte del sacerdote di una candela molto più grande di quella data ai fedeli. Angela Rita Cataldi, Debora Nardi, Valentina Patrizi
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Festa delle Fantelle
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Così chiamata in riferimento alle ragazze dette appunto “fantelle”, questa ricorrenza si festeggiava l’ultimo sabato e domenica di giugno con una processione lungo la via principale del paese. In inverno, le due fantelle, scelte come santesi, si occupavano della preparazione dei giochi e del buffet. Il tutto veniva preparato anche grazie ai compaesani che contribuivano con delle offerte all’organizzazione della festa. Due erano le giornate dedicate ai festeggiamenti: l’ultimo sabato di giugno in cui a mezzogiorno venivano suonate le campane a festa annunciando un ricco banchetto con dolci e bevande; l’ultima domenica di giugno in cui, durante la mattinata, si celebravano due messe per permettere a tutti di partecipare e poter prendere parte al pranzo allestito presso la casa di una delle santesi. Quest’ultime erano vestite allo stesso modo, con la testa velata e lunghi abiti bianchi. Aiutate da altre due ragazze, a loro spettava il compito di portare la tela della Madonna Addolorata. L’opera era ornata da un fiocco, le cui estremità erano tenute da quattro bambine, due davanti e due dietro. Il pomeriggio si lasciava spazio ai giochi che solitamente erano la pignatta (una pila con dentro sorprese), la corsa con i sacchi ed il palio. Il palio o “riffa” consisteva nella preparazione di vari bigliettini contenenti sia i nomi dei partecipanti che la scritta “Madonna Addolorata”. Il biglietto estratto dopo quello della Madonna, vinceva un premio che, solitamente, era un oggetto per la casa (coperte, stoffe, ecc…). Angela Rita Cataldi, Debora Nardi,Valentina Patrizi
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La cena delle Vecchie In tutto il territorio della Valnerina, la sera prima dell’Epifania, è uso radunarsi in gruppi eterogenei dal punto di vista anagrafico ed andare per le case a cantare la cosiddetta “Pasquarella”, ovvero il canto per l’arrivo dei Re Magi al cospetto del piccolo Gesù. Il gruppo con fisarmoniche, organetti e tamburelli, gira per le abitazioni cantando in dialetto canzoni della tradizione religiosa popolare. Ogni cantata finisce con “ciambella e vino” ed un’offerta simbolica in denaro. Con il ricavato delle offerte si organizza nel periodo di carnevale la cosiddetta “cena delle Vecchie”, così chiamata per l’età della famigerata befana, ma anche perché la cena veniva preparata dalle donne più anziane del paese. Anticamente la cena si svolgeva presso l’abitazione di uno del gruppo ed era allargata a tutti gli uomini capofamiglia; ad essa faceva seguito una serata danzante all’insegna dell’allegria e del divertimento carnevalesco. Nel tempo le cose sono cambiate, con gruppi molto organizzati e gruppi più spontanei, soprattutto di ragazzi, e la cena, aperta a chiunque voglia partecipare, svolta spesso in ristoranti o pizzerie. A Frascaro già da qualche anno, purtroppo, questa tradizione è venuta meno. L’ultima risale agli anni 2000. L’organizzazione della Pasquarella era di grande divertimento per tutti i partecipanti. Qualche giorno prima del 5 gennaio si provavano le canzoni da proporre e le risate erano assicurate perché in tanti non azzeccavano una nota! Le cene si svolgevano presso il centro sociale del paese, un prefabbricato recuperato dopo il terremoto del 1979, ed erano preparate da donne di buona volontà che si cimentavano nella preparazione di cene deliziose. Il momento conviviale proseguiva poi con la serata danzante tra valzer, tango, marcette ed il “saltarello”, ballo tradizionale della Valnerina. Angela Rita Cataldi 119
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Canti tradizionali
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Tre Re dall’Oriente Tre re dall’oriente Dal lungo cammino Al nato bambino La stella guidò
Io già di Betlemme Ascolto le grida che il ferro omicida I figli svenò
Dagli arabi regni I doni preziosi Gli aromi odorosi Ciascun gli recò
Ma il Santo Giuseppe Fuggendo in Egitto Dal barbaro editto Il bambino scampò
Al nato fanciullo La gloria e la lode Che il perfido Erode Soffrire non può
E morte più cruda E pene più fiere Eterno volere A lui destinò
E punto di cura Geloso di regno Ingiusto ed indegno Editto formò
Di sommo infinito Il suo grande amore Per me peccatore Così si abbassò
Editto crudele Che barbaramente La turba innocente A morte mandò
Prostrato ai tuoi piedi Ti adoro Signore E questo mio cuore In dono ti do.
N.B. Questa pasquarella veniva cantata con grande fierezza da Di Pietro Gaetano, unico a conoscerla e a tramandarla. 122
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Da il Corriere dell’Umbria, 20 dicembre 2016
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Dopo sisma: Frascaro chiama, Frascati risponde con donazioni e... Pubblicato sul web da CONTROLUCE. PORTALE DI CULTURA E INFORMAZIONE, 7 febbraio 2017
Frascaro – Cronache recenti. Dopo i gravi fenomeni sismici del 24 agosto 2016, ma soprattutto dopo le gravi scosse del 30 ottobre, anche il territorio di Norcia ha visto estendersi zone rosse inaccessibili e molti cittadini hanno perso abitazione e lavoro. Stesso destino per gli abitanti della frazione di Frascaro, pochi chilometri dalla antica città nursina, circa 70 persone rimaste senza casa in un piccolo abitato semidistrutto in aperta campagna e circondata da monti, domenica 5 febbraio appena innevati sulle cime. Per fortuna non è freddo pungente al momento. I cittadini sono ricoverati in un campo tende con servizi poco distante dalla frazione, ma tornano presso le tenso-strutture comuni (sala mensa e sala ritrovo, piccola cappella), oggi per incontrare i frascatani che arrivano con due Van carichi di saluti, e non solo, dalla parrocchia San Giuseppe di Cocciano. A bordo ci sono Don Baldassarre, parrocchiani e amici, il coro One Voice che ha deciso di portare un po’ d’allegria dopo la messa condivisa. Il coro, attraverso la parrocchia, dona l’incasso delle offerte libere per il concerto del 29 dicembre scorso, e i pulmini sono carichi anche di doni ma soprattutto di voglia di stare assieme. L’accoglienza è delle migliori. Qualcuno all’arrivo, intorno alle 11, è già ‘ai posti di comando’ in cucina: prepara sughi profumati e verdure, è pur sempre domenica. Si scaricano i doni, ciò che serve per la giornata, ci si abbraccia e saluta, ci si presenta se si incontrano gli amici di Frascaro per la prima volta. Si celebra una messa e gli abitanti della frazione arrivano alla spicciolata, gettando un’occhiata alle macerie che tormentano la vista con la loro realtà e subito di fronte c’è il campo comune attrezzato al meglio, una piccola oasi per incontrare gli altri, distrarsi dalla 131
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dura precarietà. Dopo la celebrazione eucaristica, si esibisce il coro One Voice con un concerto pieno d’allegria, ben eseguito e fresco anche grazie alla varietà del repertorio: la musica e le belle voci portano ad affacciarsi molte altre persone e tutti i bambini presenti. Il coro offre un breve assaggio di brani del suo repertorio di musica Gospel, Worship, Rock, Pop. Un momento toccante è rappresentato dalla donazione Frascati a Frascaro: la delegazione frascatana, nella persona di Pina Barboni, consegna ad Angela Rita Cataldi, rappresentante la comunità di Frascaro, 1.250,26 euro (centesimi in testa!), il ‘gruzzolo’ raccolto durante l’evento che si diceva sopra svoltosi al Teatro Capocroce, somma che dovrebbe contribuire al recupero della chiesa di S.Antonio Abate al momento distrutta. Ancora il coro ha contribuito alla giornata con frutta e porchetta. Grazie alla generosità di tante persone sono arrivate a Frascaro da Frascati, ciambelle offerte dal supermercato TOP, vino offerto dalla Cantina Ceccarelli; pane offerto dal Forno Ceralli romanella offerta da…Emilio. Don Baldassarre, instancabile, mostra anche un bel container dispensa che era già arrivato sul posto per poter tenere puliti e asciutti cibi e suppellettili utili alla comunità. Durante l’ottimo pranzo condiviso si parla con tutti, anche se ci si vede per la prima volta. Le giovani donne, mamme, coloro che in questa fase si sentono più responsabili e prodighe nei confronti della comunità, raccontano ancora del terremoto che «è stato un mostro, non un terremoto: nelle settimane seguenti alle scosse s’è portato via tanti anziani che non ce l’hanno fatta a sostenere il dolore per la distruzione…». Fra gli altri, sono presenti cittadini della vicina Norcia che hanno perso la casa e il lavoro: «avevo il negozio a Norcia, è andato tutto distrutto», racconta una donna, gli occhi lucidi. Le antiche porte della cittadina d’arte e fede, almeno il 40% della cinta muraria crollata o in pessime condizioni, sono presidiate dall’esercito. La città sembra morta sotto il peso del sisma, però alcune attività della cinta extra muraria, o sulla strada per 132
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arrivare, resistono perché il panorama resta sempre incantevole: i monti attorno, spolverati di neve candida, il Nera che scorre attraverso le campagne coltivate, le fonti campestri, le pievi che ancora si scorgono, rappresentano alcune tra le bellezze di questo cuore prezioso dell’Italia centrale. Le botteghe norcine, ricche anche di cereali, legumi, formaggi profumati, funghi secchi e tartufi, vendono le loro prelibatezze a chi ha voglia di arrivare qua nonostante tutto. Si assaggia un ottimo prosciutto, uno dei produttori locali, che presso lo stabilimento di lavorazione ha subito crolli importanti, dice: «Buona parte dell’ultima produzione è stata ricoverata a Parma, lì ci aiutano per terminare la stagionatura dei salumi e conservarli». Fra arte e paesaggio l’arte norcina è uno dei tesori del territorio: si tramanda di padre in figlio anche fra i nursini stabilitisi anni or sono ai Castelli Romani. Le loro botteghe vivono, apprezzate e frequentate, in molti paesi castellani ma la tradizione è tutta umbra. Molti lamentano la lentezza della burocrazia che consente con difficoltà di spendere i soldi ricevuti dalla generosità privata e raccontano: «La Protezione Civile ci ha dato tanto aiuto col suo lavoro: a Norcia sono stati montati i moduli scuola e gli alunni di ogni ordine e grado fanno i turni fino alle 18.30 per seguire le lezioni. L’ospedale è chiuso, ma in una struttura c’è il pronto soccorso e i macchinari per esami d’urgenza. Però è difficile mettere insieme tante teste, capire cosa vada realizzato prima e non abbiamo tutti gli stessi obiettivi». Addentrandosi un po’, con le dovute cautele, verso quella che è la zona rossa della frazione, si vedono i crolli più pesanti: una gru rimuove le abitazioni ormai senza speranza, anche la strada di passaggio è stata liberata, allo stesso modo, dalle macerie. Villette di nuova costruzione perfettamente integre convivono accanto a capannoni sventrati dalla furia della natura: le tecniche costruttive miste, molte delle quali non antisismiche, come in altre parti d’Italia da nord a sud, le aggiunte fatte in epoche diverse secondo le possibilità economiche del momento, hanno 133
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fatto il resto. Ragazzi dell’esercito, muniti di cassettine e spazzole cercano le braccia e le teste del gruppo ligneo Madonna con Bambino (opera del 1500) appena recuperato, fra ciò che resta della chiesa di S. Antonio Abate, amatissima e molto conosciuta in tutta la Valnerina: «Frammenti e parti sono qui sotto, in mezzo alle macerie – dice un giovane militare – occorrono solo tempo e pazienza per rintracciare in mezzo a sassi e calcinacci le parti utili per restaurare l’intera scultura». Oggi è stata ritrovata l’antica campanella che col suo suono richiamava all’inizio delle funzioni: è stata spolverata, fotografata, e subito suonata da un bambino per sottolineare l’inizio della S. Messa domenicale. Sono piccoli momenti di speranza, di ricordi condivisi che hanno portato qualche sorriso. Negli abitanti c’è la consapevolezza d’una macchina ‘ricostruttiva’ lenta, però la comunità dà la solida impressione di elaborare e cercare soluzioni per i problemi immediati, alla propria portata. Dopo una giornata così, Frascati-Frascaro insieme, salutarsi è più leggero ma non facile. Negli occhi di tutti una domanda di futuro. Serena Grizi
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Sisma, recuperati altri reperti da chiesa. A Frascaro di Norcia da soldati e carabinieri Pubblicato da ANSA.IT UMBRIA, 16 febbraio 2017
NORCIA (PERUGIA) - Dalle macerie della chiesa di Sant’Antonio Abate di Frascaro di Norcia riaffiorano altri tesori d’arte. La settimana scorsa era stata recuperata una statua cinquecentesca della Madonna con in braccio il Bambino: la testa di quest’ultimo è stata ritrovata nelle ultime ore. Gli uomini dell’Esercito che stanno intervenendo per il recupero delle opere d’arte per conto del Ministero dei Beni culturali, e i carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale di Perugia, hanno anche ritrovato una tela raffigurante alcuni santi, risalente al diciassettesimo secolo. è stata invece soltanto individuata la statua di San Rocco: non appena ci saranno le condizioni di sicurezza, i militari procederanno al suo recupero. Le opere estratte stamani sono state trasferite nel deposito di Santo Chiodo di Spoleto, ‘scrigno’ di tutta l’arte della Valnerina ferita dal sisma. Reportage esclusivo. A Spoleto il deposito che custodisce le opere salvate dai terremoti Pubblicato da ARTRIBUNE, DAL 2011 ARTE ECCETERA ECCETERA, 21 marzo 2017
Dove sono finite le opere d’arte scampate al terremoto che ha colpito il Centro Italia lo scorso ottobre? Ecco un esclusivo reportage dal deposito regionale allestito nei pressi di Spoleto, custode di capolavori messi in sicurezza da esperti del settore. In attesa di un ritorno al loro contesto originario. Per numero di opere contenute può equipararsi al deposito di un grande museo come gli Uffizi, quello che, ai piedi di Spoleto, ospita le opere salvate dalle zone terremotate dell’Umbria. Si tratta di un deposito regionale creato per il ricovero delle opere 135
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d’arte in momenti di crisi e attrezzato con sistemi di sicurezza e microclima. Trasportate qui dalle forze dell’ordine preposte alla tutela del patrimonio, accolte e schedate dagli addetti del Ministero, messe in sicurezza dalle mani sapienti di dieci ex allievi dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, tutte queste opere “fuori contesto” lasciano un po’ di amaro in bocca. IL PATRIMONIO Ognuna sembra raccontare più della propria storia secolare: la sua commissione, realizzazione e collocazione fino a prima del terremoto dello scorso ottobre. Sebbene vi siano conservati lavori di grande pregio, gli storici dell’arte, addetti alla pianificazione degli interventi più immediati sui manufatti che mostrano un degrado avanzato, non vogliono assegnare a essi un maggior valore rispetto agli altri. Più di quattromila opere – dai reperti archeologici del museo della Castellina alle grandi pale cinquecentesche delle chiese di Norcia fino alle sculture lignee che vanno dall’epoca arcaica a quella rinascimentale e alle tele datate fra il Seicento e l’Ottocento – sono custodite insieme a oggetti sacri della devozione popolare come gli ex voto, ad abiti per le rappresentazioni in costume, a strumenti musicali, a vetrate. BENI MATERIALI E NON Tutti insieme costituiscono il Patrimonio Culturale dell’Umbria nella sua accezione più ampia, quella che prevede, oltre ai beni materiali, anche quelli immateriali. Tutti quegli oggetti di valore artistico minore rappresentano le arti performative, le pratiche sociali e rituali, le conoscenze e le abilità artigiane, che sono trasmesse da generazione in generazione, costantemente ricreati dalle comunità e dai gruppi in stretta correlazione con l’ambiente circostante e con la sua storia, ciò che permette alle comunità, ai gruppi nonché alle singole persone di elaborare dinamicamente il senso di appartenenza sociale e culturale, come 136
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li definisce l’Unesco, e che la dichiarazione di Friburgo sancisce come diritti culturali che devono essere garantiti. In questo spirito di salvaguardia operano le persone che lavorano qui, in attesa che le opere ritrovino il loro contesto originale. Lucilla Loiotile
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Da Frascaro a Cocciano: una domenica solidale speciale per le popolazioni terremotate
Pubblicato da ILMAMILIO.IT. L’INFORMAZIONE DEI CASTELLI ROMANI, Mercoledì, 11 Ottobre 2017
FRASCATI (attualità) - Il 15 ottobre alcuni dei residenti della frazione di Norcia, già sostenuti nei giorni scorsi, saranno ospiti nel pranzo organizzato dalla parrocchia di San Giuseppe Lavoratore. Una domenica speciale per la comunità parrocchiale di San Giuseppe Lavoratore di Cocciano. A Frascati sono infatti attesi una ventina di residenti di Frascaro che, dopo diverse occasioni in cui i volontari si sono recati nella zone terremotate dell’Umbria, rendono visita. Una domenica nella quale toccare da vicino le difficoltà e le sofferenze delle popolazioni colpite dal terremoto dell’agosto e dell’autunno 2016. Frascaro, piccola frazione di Norcia, è stata duramente colpita dal sisma. Una domenica dal forte sapore sociale e solidale. Dopo la messa delle 11, dalle 12 nel salone della parrocchia, gli abitanti della cittadina umbra racconteranno la loro esperienza e la difficile fase della ricostruzione. Un gemellaggio, quello tra Frascaro e Cocciano, che dura da tempo e che ha portato nei mesi scorsi aiuti concreti in termini di volontari e di fondi. «Queste persone - dice il parroco di San Giuseppe Lavoratore, don Baldassare Pernice - stanno cercando tra mille difficoltà di ricostruire il loro paese, i loro luoghi. Il nostro piccolo contributo riguarderà l’acquisto di materiale per l’arredamento della sala polifunzionale che sarà realizzata sul terreno acquisito dal Comune sul quale verrà installata una struttura in legno lamellare donata da una società di Brescia. A Frascaro non hanno neanche più la chiesa e questa sala servirà anche per la celebrazione delle messe». Dopo il momento di confronto, dalle 13, il pranzo sociale a sottoscrizione libera. «Quanto raccolto - dice ancora don Baldassare, verrà donato agli abitanti di Frascaro per l’acquisto di arredi per la nuova sala». Di particolare significato l’impegno dei giovani della parrocchia che hanno già partecipato ad alcuni dei viaggi in Umbria 140
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e che cureranno l’organizzazione della giornata di domenica. Presente anche una delegazione del coro gospel “One voice” il ricavato del cui concerto di qualche mese fa fu proprio destinato alle popolazioni terremotate. Terremoto, le associazioni per riattivare il territorio di Frascaro di Norcia. Questa realtà si chiama “Per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia” e punta a “ricostruire ciò che il terremoto ha distrutto”. Pubblicato da UMBRIADOMANI.IT, Martedì 14 novembre 2017
NORCIA– Frascaro, la piccola frazione del comune di Norcia colpita pesantemente dagli eventi sismici del 2016, prova a reagire cercando di recuperare ogni piccolo tassello dell’identità e della memoria storica della comunità. Ad attivarsi in tal senso è l’associazione no profit ‘Per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia’, sorta dopo gli eventi sismici con l’obiettivo di valorizzare il territorio di Frascaro e ricostruire ciò che il terremoto ha distrutto, in particolare le chiese di Sant’Antonio Abate e della Cona. «Cerchiamo – spiega Angela Rita Cataldi, presidente dell’associazione – fotografie, video, documenti e quant’altro possa essere utile a raccontare la storia di Frascaro e delle sue chiese. Contemporaneamente ci stiamo attivando per avviare ricerche archivistiche e bibliografiche al fine di realizzare una pubblicazione su Frascaro e il suo territorio». Per contribuire all’interessante progetto è possibile inviare le proprie memorie di famiglia (fotografie e/o documenti) all’indirizzo email: sentierofrascaro@gmail.com.
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fig. 49, Frascaro panorama
fig. 50, Frascaro panorama
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fig. 51, Frascaro panorama
fig. 52, Frascaro panorama
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fig. 53, Falò di Sant’Antonio
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fig. 54, Lu Sassu Straccu
fig. 55, Fonte de Messanu
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fig. 56, Chiesa di Sant’Antonio Abate, dopo il sisma del 24 agosto 2016
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fig. 57, interno chiesa di Sant’Antonio Abate, dopo il sisma del 24 agosto 2016
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fig. 58, affresco ignoto rinvenuto a seguito del sisma all’interno della chiesa di Sant’Antonio Abate
fig. 59, Chiesa di Sant’Antonio Abate, dopo il sisma 30 ottobre 2016
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fig. 60, Frascaro dopo il sisma del 30 ottobre 2016
fig. 61, Frascaro dopo il sisma del 30 ottobre 2016
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fig. 62, Frascaro dopo il sisma del 30 ottobre 2016
fig. 63, da sinistra: Don Olivo, parroco di Valcaldara; Don Paolo, parroco di Nottoria; Don Natale, parroco di Frascaro; Don Pasquale, parroco di San Pellegrino
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fig. 64, prima comunione di una bambina del paese
fig. 65, contadini dopo una giornata di lavoro nei campi
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fig. 66, Frascaro 1959 con la strada principale non asfaltata
fig. 67, Lavatoio di un’abitazione privata
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fig. 68, abbeveratoio per animali
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fig. 74, Castagneto
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Referenze fotografiche Battaglia Marco: fig. n. 58 p. 151 Brugnoli Fabrizio: fig. n. 3 p. 26 Cataldi Angela Rita: fig. copertina recto; figg. nn. 19, 20 p. 39; fig. n. 21 p. 40; fig. n. 28 p. 44; fig. n. 32 p. 58; fig. n. 34 p. 59; fig. n. 38 p. 62; fig. n. 41 p. 109; fig. n. 48 p. 114; fig. n. 54 p. 148; fig. n. 64 p. 154; fig. n. 67 p. 155; fig. n. 73 p. 159; Caranza Barbara: fig. n. 22 p. 41 Chiaverini Rita: fig. n. 23 p. 41; figg. nn. 24, 25 p. 42 Cenfi Fabio: fig. n. 46 p. 113 D’Alessandro Maddalena: fig. n. 66 p. 155 Duca Giovanni: fig. n. 4 p. 27; fig. n. 5 p. 28; figg. nn. 6, 7 p. 29; fig. n. 8 p. 30; fig. s. n. p. 45; fig. s. n. p. 47; fig. s. n. p. 54 Gentile Luigi: figg. nn. 9,10 p. 31, fig. n. 11 p. 32; figg. nn. 12, 13 p. 33; figg. nn. 14,15 p. 34; fig. n. 16 p. 35; fig. n. 17 p. 36 Guidobaldi Fernando: fig. n. 2 p. 24 Leoni Antonio: fig. n. 39 p. 93 Leoni Teresa: fig. n. 40 p. 109; figg. s. n. p. 116; fig. n. 63 p. 153; fig. n. 65 p. 154 Lucci Amelia: figg. nn. 26, 27 p. 43 Mattei Diego: fig. n. 18 p. 37; fig. s. n. p. 49; fig. s. n. p. 52 Nardi Daniel: fig. n. 30 p. 56; fig. n. 59 p. 151; figg. nn. 60, 61 p. 152; fig. n. 62 p. 153
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Nardi Debora: fig. n. 31 p. 57; fig. n. 33 p. 59; figg. nn. 35, 36 p. 60; fig. n. 37 p. 61; fig. n. 53 p. 147; fig. n. 56 p. 149 Nardi Denise: fig. n. 47 p. 114; fig. n. 55 p. 148; fig. n.74 p. 160 Nardi Sergio: fig. n. 68 p. 156 Associazione “Per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia�: fig. n. 1 p. 21; fig. n. 57 p. 150 Polito Rino: fig. p.167 Clito Valeriani: figg. nn. 42, 43 p. 110; figg. nn. 44, 45 p. 111; figg. nn. 49, 50 p. 145; figg. nn. 51, 52 p. 146; fig. n. 69 p. 156; figg. nn. 70, 71 p. 157; fig. n. 72 p. 158
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Frascaro di Norcia
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