I Taccuini Avventurieri - Vol. I

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AIPD PERGUGIA ____________________ Gruppo "Stefano Bianconi"

I Taccuini Avventurieri vol. I

sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni

Quaderni del volontariato CESVOL PERUGIA EDITORE 2017

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Quaderni del volontariato 4

Edizione 2017


Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net

Edizione Agosto 2017 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Cesvol Perugia

tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata


Il coraggio della testimonianza Non soffermatevi adesso su questa breve introduzione. Tornateci dopo. Quando avrete colto senza mediazioni di sorta, il significato o i significati dei quali chi ha scritto il libro ha voluto renderci partecipi. In qualche caso anche senza troppa consapevolezza, il che, se possibile, rende questa trasmissione di saperi e conoscenze ancora più preziosa, in quanto naturale ed “istintiva”. Ma di cosa stiamo parlando? Di una scelta coraggiosa. Gli autori di questi testi, di questi racconti, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza. Ma in quale tipo di società? Una società per la quale forse queste esperienze rimangono tutt’altro che virali (usando un termine contemporaneo) e spesso rischiano di rimanere nell’ombra. Una società che ha fra i propri tratti dominanti dei suoi componenti una innegabile riduzione del senso di appartenenza alla comunità, ad un gruppo allargato che sia in grado di condividere non solo ideali e visioni, ma anche obiettivi e cose da fare insieme per il bene comune. Certamente il quadro è stato complicato ed accelerato dalla individualizzazione della comunicazione nella scatola dei social, che hanno creato di fatto una nuova forma di relazione, che per qualcuno integra la relazione pre-digitale, per altri l’ha completamente sostituita. Ebbene, quale sarebbe questa scelta coraggiosa? Questi autori non si sono limitati ad un inutile e sterile lamento che parlasse dei bei tempi che furono, di quando c’era la piazza, di quando il Welfare era in un certo senso il vicinato, la famiglia allargata, la comunità solidale per natura. Di fronte al nuovo adagio che “non c’è più nessuno o nessun organismo sociale e relazionale che sia in grado di restituire alla nostra


società la flebile speranza di quello che potremmo definire un umanesimo post-moderno” che “stiamo coltivando la cultura del nemico”, chi ha scritto questo libro ha capito che l’organismo sociale e relazionale in grado di ricomporre e tenere unito il tessuto connettivo più profondo delle nostre comunità può essere ancora il fare associazionismo. Mettersi in relazione con altre persone per condividere una certa visione della realtà, dare senso al proprio tempo valorizzando quello che ognuno sa fare per metterlo in circolo nella propria comunità, occuparsi del prossimo o, più laicamente, dedicarsi alla relazione d’aiuto. Sono tutte azioni possibili, visto che una certa fetta della popolazione, in Italia ed in Umbria, sembra dedicarsi con una certa continuità ad un qualche tipo di impegno “solidale” e di cittadinanza attiva. E lo fa traendo linfa vitale dalla “dotazione di base di ogni persona”, da quel patrimonio di umanità e di empatia che, ognuno porta con sé dalla nascita. Quella sorta di componente genetica di solidarismo, che non tutti hanno la fortuna di concretizzare per vicende personali o per altre esperienze del proprio vissuto che, ad un certo punto della vita, ci rendono forse troppo attenti a noi stessi, al nostro individualismo.. e ci fanno perdere di vista l’altro, l’affresco complessivo delle relazioni, il cosiddetto bene comune. E allora? Cogliamo il valore di queste esperienze dal racconto diretto di chi le pratica nel suo quotidiano. E’ uno dei modi possibili per apprezzare il significato sotteso di queste testimonianze e per prendere consapevolezza che oggi, più di sempre, dedicarsi al volontariato, all’associazionismo e, più in generale all’impegno di cittadinanza attiva resta una scelta, adesso sì, coraggiosa. Salvatore Fabrizio Cesvol Perugia I Quaderni del Volontariato


I Taccuini Avventurieri vol. I

Associazione Italiana Persone Down



I taccuini avventurieri

I Taccuini Avventurieri vol. I Il pianeta teatrale dei Supererò(i)

Questo “taccuino” nasce dal desiderio di mettere su carta l’esperienza del laboratorio teatrale realizzato nel 2016 da “il Club degli Avventurieri”, una compagnia amatoriale formata nel 2014 in risposta al “piripicchio” dei ragazzi e dei volontari dell’Associazione Italiana Persone Down di dare sfogo alla fantasia, alla voglia di amicizia, all’arte, in uno spazio di aggregazione libero e creativo. E di fatto, così è stato: ormai da qualche anno gli Avventurieri, che nel frattempo sono aumentati oltrepassando i confini dell’AIPD, sanno con certezza che il martedì, dalle sette alle otto e mezza, possono tirar fuori il loro estro, il loro bisogno d’arte, e metterli in gioco su di un palco allegro e conviviale, in cui ognuno è portato a dare il meglio di sé per il solo piacere di farlo. Coerente a tutto ciò è stata la scelta degli spazi in cui vivere quest’avventura: ogni anno il Teatro Giuseppe Sarto della Parrocchia San Pio X, sede delle prove e della prima, ci accoglie con entusiasmo nel suo clima familiare e genuino, mentre la Società Rionale Le Graticole, che ospita il nostro spettacolo durante una delle serate la Festa Rionale, si prodiga ogni anno affinché 7


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la compagnia sia pienamente coinvolta nei festeggiamenti. Infatti, oltre a mettere in scena lo spettacolo, gli attori spesso si offrono volontari nelle serate seguenti in qualità di camerieri e tuttofare. Tutto ha avuto inizio nel 2014 con I Piccoli Principi proseguendo nel 2015 con Storia di un pezzo di legno per poi approdare ne I Supeperò(i) nel 2016, spettacolo che si ha ispirato la realizzazione di questa sorta di taccuino che, assolutamente svincolato dalla volontà di porsi come esempio o modello da seguire, è, al contrario, il risultato della volontà di abbracciare un rischio, quello di mettere sotto gli occhi di tutti il proprio lavoro, sperando che diventi non solo oggetto di discussione ma, ce lo auguriamo, un trampolino di lancio verso le infinite possibilità offerte dal teatro sociale. Ad ogni modo, prima di addentrarci in tutto questo, riteniamo giusto specificare le finalità del progetto e il modo in cui abbiamo spalancato le porte alla sua evoluzione. Se infatti l’attività teatrale era stata inizialmente pensata per i ragazzi down, già a partire dal secondo anno di vita, il Club degli Avventurieri ha trascinato dentro di sé persone che non hanno nulla a che vedere con l’A.I.P.D. e che, pur presentando disagi di genere disparato, hanno stabilito un grande affiatamento che disintegra ogni etichetta 8


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e categoria. Ed è questo il teatro che abbiamo scelto, un teatro che non è fatto per i down o per i paraplegici o per gli alcolisti o per i ragazzi con ritardo cognitivo. È un teatro fatto da tutti quelli che non vedono l’ora che sia martedì per salire sul palco e mettersi alla prova. E, mentre per i primi due spettacoli, mettersi alla prova poteva coincidere nell’imparare battute tratte da testi che non necessariamente avvinghiano l’attore e il suo mondo, partoriti dalla fantasia dei volontari, in seguito si è scelto di cambiare strada, concependo lo spettacolo come un abito da cucire su misura. Non si è trattato di adeguare il testo all’attore ma di pensarlo a partire dal ragazzo. Data questa premessa, è il caso di tornare a riflettere sulle infinite possibilità del teatro sociale, Una di queste possibilità, quella che ci è corsa incontro, è di considerare il nostro passaggio sul palcoscenico come un viaggio, un viaggio a cui ci siamo preparati settimanalmente, un viaggio in cui ci è stata data l’opportunità di scoprire altri lati di noi, portandoci dietro una valigia contenente ciò che siamo, ciò che siamo stati e ciò che vorremmo essere.

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1- La valigia È una valigia che, pur essendo carica delle nostre storie, di ricordi, desideri, paure, non ingombra, perché è di cartone, dunque, paradossalmente, non ci appesantisce e non pone freno a quell’istinto, generato dall’incantesimo teatrale, a uscire da noi stessi per diventare qualcun altro. Questo è il paradosso che abbiamo sperimentato. Fare in modo che il fatto di portare sempre con noi il bagaglio di ciò che siamo, si sposasse con la magia del teatro, quella che ci chiede di dimenticarci di noi per trasformarci nel personaggio che ci troviamo ad interpretare. Ma come si fa a uscire da noi senza uscire da noi, cioè portando sempre dietro un oggetto che ci ricorda costantemente cosa siamo? Come si fa ad entrare in un personaggio senza staccarci da ciò che siamo? E se invece avessimo voluto ribaltare la questione e chiedere agli attori di uscire da loro stessi non per dimenticare ciò che sono ma per osservarsi lucidamente dall’esterno, con gli occhi di un estraneo, districare il gomitolo della loro personalità, facendo ordine nella valigia che custodisce sogni, desideri, paure? Questa è stata la nostra strada. Fare ordine in ciò che sappiamo di noi per delineare i nostri caratteri, decidersi a 10


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prendere in mano la matita e unire i puntini numerati che affollano il foglio bianco del nostro personaggio. Ma prima di far questo, è stato opportuno guardare attentamente quel foglio, osservare bene i numeri scritti sopra ogni puntino prima di collegarlo a un altro puntino. È stato necessario guardarsi bene in faccia. Ne deriva che il primo oggetto da mettere in valigia è stato uno specchio.

2- Lo specchio Lo specchio ci permette di vedere chi siamo dunque è il punto di partenza, il presupposto per poter far ordine nella valigia. Per questo ha avuto diritto a un posto speciale, privilegiato rispetto agli altri oggetti che popoleranno la valigia in seguito. È stato attaccato al suo interno in modo da divenire il primo oggetto che gli occhi dell’attore avrebbero incontrato appena egli avesse aperto la valigia, quasi a ricordargli sempre che il suo teatro parte da dentro, da se stesso. Ci troviamo in cerchio, le valige, che nel frattempo sono state decorate e personalizzate a nostro piacimento, sono aperte come computer portatili e i nostri occhi sono fissi sullo specchio. Ognuno di noi deve rispondere a una domanda semplice e complessa: cosa vedi? 11


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C’è chi vede un ragazzo bello, chi vede una ragazza innamorata, chi risponde timidamente “vedo che sono brutto ma domani ci vado a fare i capelli”. Come spesso accade, il processo di riflessione innescato dalla domanda è mille volte più importante della risposta. Tutto serve a capire chi siamo, soprattutto il ridere insieme. E allora passiamo a un’altra avventura con lo specchio ancora più divertente: lo specchio a coppia. Pensiamo a un gruppo di ragazzi che, per la maggior parte, si conoscono e si frequentano da anni e che scoprono di non aver mai fatto caso a quanto è stravagante la camminata del loro amico, a quanto è simpatico quel suo tic, a quanto è rumorosa la sua risata. Imitare l’altro vuol dire studiarlo, scoprirlo, scoprire quanto ci rimane complicato modificarci per assumere le smorfie altrui per poi, infine, ritrovarsi a scoprire le nostre. Lo specchio è un’attività che piace dunque decidiamo di approfondire, sviscerare questo tema, e proponiamo lo specchio di gruppo: ed ecco che ci troviamo tutti a seguire le movenze di uno che si libera dall’imbarazzo per sciogliersi nel proprio personaggio, coccolato dal gusto di trovarsi al centro dell’attenzione ed essere imitato dagli altri, divertito dal vedersi replicare e dallo scoprire quanto sono buffe alcune sue abitudini che, magari, fino a quel momento neanche conosceva. 12


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3- Punti deboli e punti di forza Durante questa ricerca sulla propria personalità, presupposto alla creazione dei personaggi, è stato fondamentale, a un certo punto, concedersi il lusso della semplificazione definendo gli estremi” in positivo e in negativo della nostra persona. Si è trattato di chiedersi “qual è il nostro punto debole ?” e “qual è il nostro punto di forza?”. Le due domande, così brevi, semplici ed essenziali, sono stati i pilastri su cui edificare non solo i personaggi ma l’intero spettacolo. Scovare le proprie paure a raccontarle agli altri. Questo passaggio, che destava qualche preoccupazione in noi volontari, è stato affrontato con grande maturità, consapevolezza e serenità da parte degli attori i quali hanno saputo rispondere senza traccia dell’imbarazzo che, erroneamente, avevamo previsto. Inoltre riteniamo importante giustificare il costante tentativo di non influenzare, né tanto meno indirizzare, le risposte dei ragazzi. Per questo si è scelto di dare carta bianca, evitare di fare esempi, escludere i vincoli. Ed è per questo che le risposte hanno spaziato, con grande elasticità e disinvoltura, dall’astratto al concreto: paura dell’acqua alta, dei serpenti, dei cani, del buio ma anche paura di perdersi, paura del futuro, paura di sbagliare, paura del vuoto. E, per quanto riguarda i punti di forza, allegria, fare la ruota, 13


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passione per la tecnologia, memoria di ferro, danza, risata cosmica, nuoto.

4- L’oggetto magico L’individuazione da parte di ciascun attore di un oggetto magico è stato uno strumento che ci ha permesso di attraversare ricordi e sensazioni, suggestioni. L’oggetto magico non è stato interpretato come un qualcosa in gado di agire sulla realtà esterna producendo eventi straordinari, visibili a tutti, bensì come un amuleto silenzioso in grado di generare, in chi l’ha scelto, una magia privata, segreta, scaturita dall’associazione tra quell’oggetto e un ricordo, un evento passato, o un evento futuro di cui si brama o si teme l’arrivo. L’oggetto magico diviene dunque un simbolo, un feticcio che trova la sua ragione d’essere nell’esclusiva relazione con il soggetto che gli ha attribuito un valore. Scoraggiando la tentazione, quanto meno prevedibile, di “rifugiarsi” negli oggetti magici convenzionali (bachetta magica, lampade magiche e sfere di cristallo…..), si è insistito, ancora una volta, sulla necessità di esplorare sé stessi per poter individuare un oggetto carico di rilevanza. Per quanto riguarda questa ricerca, si è notata la tendenza a proporre oggetti figurativi, legati agli affetti: foto della 14


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mamma, foto dell’innamorato, ecc…, elementi che non sempre sono stati riportati nello spettacolo ma la cui ricerca, in ogni caso, è stata funzionale e significativa. Noi volontari infatti, ai fini di una maggiore coerenza e ironia, abbiamo infatti preferito dotare i Supereroi di oggetti magici di altra natura, che sono stati accolti con entusiasmo dai ragazzi: l’appassionato di videogames ha trovato la sua magia nel joystick mentre la ragazza che ama la musica e il canto, nel microfono. Per un’altra ragazza invece, l’oggetto magico è stato un gomitolo, amuleto che è stato al centro di un’attività durante le prove e il cui valore simbolico ha accompagnato l’intera esperienza teatrale 2016. MegDebi: La Vita è un gomitolo che si consuma. Al centro c’è la Felicità e così continuiamo a tirarlo, ad arrotolarlo velocemente così come velocemente viviamo la Vita, senza pensare che potremmo fermarci a cucire i nostri giorni e ricamare su di essi momenti stupendi. Queste parole, di Domenico Torelli, incarnano lo spirito e il metodo con cui si è voluto osservare e approfondire ciò che si è mostrato davanti ai nostri occhi ovvero il presente, il contingente, alla ricerca del personaggio che era già insito nell’attore piuttosto che del personaggio 15


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sconosciuto da calare sull’attore come un’armatura grigia e opprimente che lo avrebbe soffocato nell’obbligo di imitare qualcuno lontano da sé. Al contrario, si è voluto incoraggiare l’attore nella scoperta e nella narrazione di sé, cercando di spogliarlo delle vesti superflue, quelle che lo avrebbero ostacolato nella scoperta del suo personaggio. Ed è così che siamo approdati ai Supererò(i): supereroi plasmati sul temperamento degli attori, a cui è concesso aver paura dei cani o del buio ma in grado di ironizzare sui propri limiti, quindi, di superarli. Il risultato, aldilà di ogni considerazione di carattere estetico, è da ricercarsi nella simpatia con cui gli attori guardano ai personaggi in cui riconoscono non solo sé stessi, nei loro pregi, difetti e manie, ma anche ai compagni. In un clima del genere, fortemente empatico e disteso, cresce il sentimento di appartenenza verso il Gruppo, la cui complicità è determinata soprattutto dalla libertà di potersi prendere in giro, come quando si scherza sul tono di voce molto alto tenuto da una ragazza: WonderGigia: sarà bello quanto ti pare il gomitolo, ma che ci fa in mezzo alla tavola? Gli oggetti magici non vanno tenuti in giro. Io il mio l’ho messo qui dentro, vedi? Va verso il mobile, apre il cassetto e tira 16


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fuori il microfono WonderGigia (soddisfatta): eccolo qui MegDebi: ah è questo il tuo oggetto magico? A me pare che tu già urli abbastanza, anche senza microfono! Oppure quando si ironizza sulla fissazione di un ragazzo per Batman: Wondergigia (con dito alzato): anche i pipistrelli mi fanno paura, tutti viscidi, neri… (fa faccia schifata) con quegli occhietti maligni… Xboxman: I pipistrelli? Perché, cos’hai contro Batman?? Entra Chiara, va verso XboxMan: Flashfashion: Tranquillo. Nessuno te lo tocca Batman.

O quando alcuni Supereroi si confrontano sull’oggetto magico con cui sconfiggere il nemico: 17


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BUDRENZER: Ah a me questi libri non piacciono, io preferisco studiarmi il mio calendario. Per esempio, lo sapevate che oggi è Santa… ? Guerrifix: Bud Renzer, non mi importa sapere che giorno è! Io voglio solo sconfiggere il nemico a nuoto! Lo voglio sfidare a una gara di delfino! Xboxman: sì, se continui a bere tutta quella roba gassata voglio vedere come fai a vincere una gara di nuoto! Gli altri ridono MegDebi: anche io voglio colpirlo con lo sport! gli farò una sfilza di ruote che lo faranno stordire! WonderGigia: può essere un buon piano! Prima lo facciamo stancare a nuoto, poi lo stordiamo con le ruote e poi arrivo io e lo insordisco con una delle canzoni di Gigi!!

In particolare, quest ultimo estratto esemplifica in modo soddisfacente alcuni dei concetti espressi in precedenza: 18


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il riferimento a capacità e punti di forza che realmente caratterizzano l’attore (il ragazzo che interpreta Bud Renzer è “noto” tra i conoscenti per riuscire a ricordare a memoria il calendario di ogni anno solare, associando in tempi record il numero del mese al giorno della settimana; l’attore che interpreta Guerrifix è un nuotatore, lavora in piscina e ama realmente bere bibite gassate; WonderGigia nella vita reale è una fan sfegatata di Gigi D’Alessio). Inoltre appare evidente come le battute siano volutamente verosimili: per quanto riguarda il registro scelto, l’obiettivo è stato quello di mettere in bocca all’attore delle battute che avrebbe potuto benissimo pronunciare spontaneamente nel contesto reale. D’altra parte persino l’ambientazione è stata vicina al contesto reale, nonostante quanto ci aspetteremmo da uno spettacolo che parla di Supereroi: di fatto i Supererò(i), pur essendo personaggi “straordinari” chiamati a sconfiggere un Nemico di cui si conosce ben poco, hanno abitudini e interessi assolutamente umani. È per questo che non si può affrontare il Nemico senza prima essersi confrontati davanti a una bella pizza a casa di Bud Renzer: Bud Renzer: non devi aver paura del vuoto? L’unica cosa vuota che mi fa paura è la mia pancia! Ho una fame!! 19


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Wondergigia: Eh, a chi lo dici!! Prima di avviare l’Operazione Torcia, bisognerà riempirlo questo vuoto (si tocca la pancia)! Andiamo a mangiare qualcosa! Bud Renzer: Ci sto! Andiamo, offro io!

5- La scelta dei nomi Altro fattore decisivo, che ha favorito l’identificazione nel personaggio, è stata la creazione di nomi legati alla persona e agli interessi degli attori, i quali hanno dimostrato un forte compiacimento per il fatto di riconoscersi persino nel nome del Supereroe. Si è trattato dunque di Supereroi che ben poco avevano a che fare con il soprannaturale, il fantastico, tant’è vero che il loro vero prodigio è stato quello di comprendere quanto sia insensato sfoderare e mettere a frutto i propri punti di forza per combattere aprioristicamente un’entità di cui non si conosce nulla se non che è da combattere. I Supereroi del Pianeta Lume sono talmente a loro agio con sé stessi che non solo disconoscono il bisogno cieco di dimostrare 20


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forza a chi non conoscono, ma sono ben felici di mettere in discussione la ferrea dicotomia tra Bene e Male, ironicamente esemplificata dal nome del Pianeta che, chiamandosi Lume, si contrappone all’oscurità, alle tenebre, al buio da cui ci sentiamo avvolti quando esploriamo il Nuovo e per affrontare il quale vorremmo munirci di una Torcia, nome scelto per indicare l’Operazione messa in atto dai Supeperò(i): Operazione Torcia. Narratore: Il pianeta Lume sta per finire. Una forza oscura incombe sulle sorti dell’intera lumenità. Il suo fine ultimo è sovvertire l’ordine costituito, assoggettare gli abitanti per spegnere in ogni dove la fiaccola della giustizia, annientare la Lumibertà, prevaricare sugli equilibri del Pianeta e trasformarlo in un regno oscuro dove l’oscura oscurità abbia il suo nero, ma nero nero nero, buio buio buio, aiutatemi a dire buio, trionfo sulla luce. Riprende musica. Sfuma. Gli eventi indi per cui impongono di convocare con la massima urgenza un team esperto di supereroi 21


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professionisti. È il tempo quindi di avviare l’Operazione Torcia.

6- L’oscuro Nemico I Supererò(i) non temono neanche il confronto che nasce dalla conoscenza dell’estraneo, nel quale spesso, per pigra chiusura verso ciò che ci appare diverso e lontano da noi, finiamo per trovare un Nemico. Dunque perché non intervenire nel momento immediatamente successivo alla percezione dell’estraneità facendo sì che in esso prevalga una spinta curiosa piuttosto che una banale ottusità? Come dice Boldj, perché non scoprire il Nemico facendolo sedere alla nostra allegra tavolata? Boldj: il mio oggetto magico sarà quella sedia vuota. Supermino: vuoi tirargliela dopo che l’abbiamo insordito? Boldj: No, voglio che quella sedia venga messa qui in mezzo a noi, in questa tavola piena di lumanità che ha voglia di aprirsi, ridere e prendersi in giro. 22


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BudRenzer: Ci hanno chiamato per combattere il nemico e tu vuoi invitarlo a mangiare la pizza! XBOXMAN: quante assurdità devono sentire le mie orecchie!i Nemici mica mangiano la pizza! MegDebi: e tu che ne sai, mica lo conosci?? BoldJ: Ragazzi, pensiamoci bene: ha senso combattere qualcuno che non si conosce neanche? Dov’è scritto che il nemico è da combattere e non da conoscere? Narratore: Conoscere il nemico anziché combatterlo. Imprudenza? Ingenuità? Dabbenaggine? Utopia? Forse. Ma perché ci appare così assurda la voglia di capire se davvero il Nemico è nostro nemico? Sarà forse la pigrizia, la paura, a comandarci di combattere il Nemico senza chiederci chi è e perché qualcuno ha deciso che debba essere nostro nemico? Provare a comprendere l’altro è faticoso. È più comodo barricarsi dietro la decisione che il Nemico è nemico e basta. Dichiarargli guerra a 23


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spada tratta. Sfoderare i nostri punti di forza e sfidarlo. In nome di cosa? Del coraggio, della forza‌ o della paura di scoprire che il Nemico non è nemico?

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