Pensiero e immagini - antologia di racconti e poesie

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Il Cesvol (Centro servizi per il volontariato della Provincia di Perugia) attraverso il servizio pubblicazioni/editoria, realizza ogni anno una collana di libri dal titolo: “I Quaderni del Volontariato”.

Le produzioni editoriali vengono realizzate ed of fer te gratuitamente dal Cesvol alle Associazioni di Volontariato che vengono selezionate per tali produzioni e che propongono tematiche sociali.

Chiunque fosse interessato ad approfondirne i contenuti di una o più pubblicazioni e quindi a riceverne una o più copie, è invitato a devolvere un piccolo contributo economico (pari o superiore a 10 euro a libro) attraverso un versamento su c/c bancario Monte dei Paschi IBAN: IT 95 F 010300 3073 000000 467051 intestato a Cesvol – Centro servizi volontariato Perugia pro Associazione culturale “Il Corimbo”.

Fondazione Cassa Risparmio Città di Castello

Edizione 2012

Pensiero e immagini antologia di racconti e poesie

Il Cesvol svolge le sue attività con risorse del Fondo Speciale per il Volontariato amministrato dal Comitato di Gestione dell’Umbria e alimentato dalle seguenti Fondazioni bancarie:

Quaderni del Volontariato

Pensiero e immagini Antologia di racconti e poesie a cura di Angelo Veneziani Autori Finalisti

Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Sandro Penna 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel. 075.5271976 fax. 075.5287998 Sito Internet: www.pgcesvol.net Visita anche la nostra pagina

Info e contatti: pubblicazioni@pgcesvol.net

Con il Patrocinio della Regione Umbria Edizione 2012

Premio Letterario “Bruno Dozzini” IL CORIMBO Edizione 2011

Quaderni del Volontariato

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Quaderni del volontariato

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Edizione 2012

Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provicia di Perugia Via Sandro Penna 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel. 075.5271976 fax. 075.5287998 Sito Internet: www.pgcesvol.net Visita anche la nostra pagina su

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Con il Patrocinio della Regione Umbria

Edizione: Aprile 2012 Progetto grafico e videoimpaginazione: Chiara Gagliano Stampa Digital Point (Ponte Felcino)

Tutti i diritti sono riservati Ogni riproduzione, anche parziale è vietata

ISBN: 978-88-96649-16-9

I QUADERNI DEL VOLONTARIATO, UN VIAGGIO ATTRAVERSO UN LIBRO NEL MONDO DEL SOCIALE

Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato.

L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali.

La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale.

I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.

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a cura di Angelo Veneziani

PENSIERO E IMMAGINI

ANTOLOGIA DI RACCONTI E DI POESIE Premio Letterario “Bruno Dozzini” IL CORIMBO Edizione 2011

Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Introduzione Luigi Lanna Presidente Cesvol Perugia

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Testimonianza Bruno Brunori Direttore Umbria Settegiorni Presidente della Giuria Tecnica

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Presentazione Angelo Veneziani Presidente Associazione Culturale “Il Corimbo”

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Note critiche degli altri componenti della Giuria Tecnica: Germana D’Alascio

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Gianluca Prosperi

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Fabio Melelli

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Giovanni Zavarella

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Finalisti Narrativa Adulti Claudio Ferrata Ius

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Rita Santarelli Via Garibaldi

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Lenio Vallati Senza via di scampo

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7

Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Margherita Pierini La storia di Jolanda

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Salvatore Sorriso Carminello il maltese

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Dorella Dignola La buca

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Catia Rogari La vita alla fermata

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Matteo Comastri Io c’ero – 2022

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Piero Pini La macchinetta infernale

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Costantino Mori Giurassico

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Finalisti Poesia Adulti Domenico Luiso Molte parole

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Marisa Provengano Portami con te

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Giulio Dario Ghezzo Come un presagio

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Giuliano Filippini Il pollaio democratico

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Ines Scarparolo Sassi de cavesĂ gna

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Armando Bettozzi Le grida senza voce

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Alessandra Santi La memoria dell’acqua

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Danilo Saccoccia Autunno

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Franca Fiorucci In quel viale

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Alessia Palazzoli Dopo il temporale

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Vincitori Narrativa Giovani Marianna Fatti La breve notte

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Andrea Guelfi Il falco e il veggente

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Alice Casagrande Moretti Circo Baluardi

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Vincitori Poesia Giovani Ursula Martelletti A mio padre

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Marta Mercati Piccola profuga

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Maddalena Betti Spengo il cuore

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

I beni relazionali appartengono a quella categoria di beni che la dottrina suole indicare come il patrimonio di base che rende ricca una comunità. Tra i soci del Cesvol esistono più associazioni, sodalizi, gruppi che ogni giorno “fabbricano” beni relazionionali a strato necessario di quel tessuto interpersonale che rende coesa e contemporaneamente partecipe della vita di ciascuno tutti i soggetti che sono a contatto con l’associazione o il gruppo. Non tutte però le associazioni di questa tipologia sono consapevoli che mettere in “contatto” quel pubblico indifferenziato che partecipa alle loro iniziative produce alla lunga una rete di rapporti personali che va al di là dell’occasionalità degli incontri proposti dall’associazione.

Il gruppo dirigente del “Corimbo” invece è pienamente consapevole e anzi ha assunto questa strategia come la mission essenziale dell’associazione: le 20 persone chiamate a giudicare i lavori presentati in occasione delle varie edizioni del Premio letterario “Bruno Dozzini” non avevano certamente avuto se non in minima parte occasione di conoscersi personalmente ma quantomeno hanno scoperto che nei giudizi espressi erano ispirati da alcuni valori condivisi fra di loro che in quel momento inconsapevolmente li aiutavano a costituire un’insieme di persone con una precisa graduatoria di valori: ogni vicenda personale è degna di essere portata a conoscenza di altri; i dialetti che appaiono lontani dalla lingua parlata hanno una ricchezza di sfumature e di accenti che ciascuno può comprendere: la musicalità delle rime infonde in ciascuno sensazioni di piacere ecc... .

Il “Corimbo” con questa pubblicazione vuole quantomeno lasciare memoria scritta a disposizione di tutti di immagini, sensazioni, racconti che solo perchè frutto individuale di singole persone hanno acquisito i meriti di essere ricordati.

Avv. Luigi Lanna Presidente Cesvol Perugia

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Testimonianza Bruno Brunori

Ad ogni appuntamento con il Premio “B. Dozzini”, organizzato dall’Associazione culturale “Il Corimbo” di Perugia, abbiamo confortanti sorprese incontrando opere intelligenti, culturalmente molto valide, che meriterebbero di essere ospitate in antologie importanti.

E nell’edizione del 2011 del “Premio” – ideato e portato avanti dal professor Angelo Veneziani – sono state tante le opere – sia nella sezione poesia che in quella della narrativa – che ci hanno positivamente iPoeta perugino spentosi nel 2008. mpressionato. La selezione operata dalla giuria tecnica ha portato al voto della giuria popolare (ha dimostrato competenza e attenzione nel giudizio che ha portato alle classifiche finali) il meglio degli elaborati presentati in concorso.

Sicché la raccolta a stampa – che “Il Corimbo” curerà – con – l’attenzione e l’impostazione grafica che ha caratterizzato le precedenti edizioni – avrà il valore di una preziosa antologia che ha il compito di rendere noti ed apprezzati autori i cui nomi finora erano rimasti sconosciuti ai più. Il merito di tutto questo è del professor Angelo Veneziani, presidente dell’Associazione “Il Corimbo”, che, con sforzo personale e con alta sensibilità, porta avanti una organizzazione che merita il riconoscimento non solo degli ambienti culturali di Perugia ma anche dell’Umbria.

Tra qualche anno ci sarà data l’occasione, nel leggere il curriculum di un’opera di un poeta o di uno scrittore diventato famoso, che la sua attività letteraria ha preso il via proprio da questo Premio che è dedicato alla memoria ed all’opera del Maestro Bruno Dozzini, sensibile e colto Poeta perugino spentosi nel 2008.

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Presentazione di Angelo Veneziani Presidente Associazione Culturale Il Corimbo “Pensiero e Immagini”

Lo scorso 9 ottobre presso la Sala del Dottorato annessa al Museo Capitolare di Perugia si è celebrata la VI° edizione del Premio Letterario Il Corimbo “Pensiero e Immagini” che ha cadenza biennale.

Presidente onorario di questa Edizione è stato Claudio Ricci, Presidente Nazionale dei Siti dell’Unesco nonché Sindaco di Assisi e Presidente effettivo della Giuria Tecnica, il giornalista Bruno Brunori Direttore della rivista Umbria Settegiorni, membri di giuria i Critici letterari Germana D’Alascio, Gianluca Prosperi, Giovanni Zavarella, il critico cinematografico Fabio Melelli e Angelo Veneziani, Presidente dell’Associazione organizzatrice del Premio.

Il Premio Letterario è intitolato al grande poeta umbro Bruno Dozzini, primo e insostituibile Presidente della Giuria Tecnica, che è venuto a mancare nel 2007, per cui la sezione Giovani di Poesia e Narrativa è rimasta ferma per una edizione, quest’anno è stata riproposta , nella speranza e convinzione di potenziarla per il futuro.

Il Premio Letterario “Bruno Dozzini” organizzato dall’Associazione Culturale Il Corimbo “Pensiero e Immagini” ha ormai assunto una connotazione nazionale, confermata dalla partecipazione di oltre la metà di poeti e scrittori provenienti da varie parti d’Italia.

C’è da rilevare come sia sensibilmente aumentato il numero di poeti dialettali partecipanti al concorso, che hanno presentato composizioni in dialetto romano, ternano, napoletano, vicentino, piemontese, siciliano, hanno partecipato anche poeti in dialetto perugino, ma incredibile a dirsi appena quattro (!?) a fronte di decine di poeti e scrittori in dialetto esistenti a Perugia e provincia.

Le opere di poesia e di narrativa degli autori finalisti sono state selezionate da una giuria tecnica che ha definito una rosa di dieci finalisti per ogni sezione. Queste opere sono state date in visione per la lettura ad una giuria popolare, che non conosceva la valutazione della giuria tecnica e che nello stesso giorno stabilito per la premiazione 13

Il CORIMBO - Pensiero e immagini

ha contestualmente espresso, con un video pubblico, la propria valutazione che si è andata a sommare a quella criptata della giuria tecnica. La somma dei due punteggi ha determinato l’ordine finale e la classifica dei vincitori. L’antologia del Premio Letterario comprende solo poeti, scrittori finalisti e vincitori sia tra gli adulti che tra i giovani, per rendere memoria e testimonianza agli autori finalisti e per offrire a tanti amici la lettura di racconti e poesie di vario genere, che rappresentano frammenti e testimonianze di vita, interiori urgenze e umane motivazioni che durano per sempre, in una società dell’immagine, cosiddetta “liquida”, in cui tutto fugge e nulla resta o poco riusciamo a trattenere.

Alcuni racconti sono a sfondo psicologico, altri a sfondo sociale, altri ancora brillanti, altri intriganti, altri scritti con un linguaggio raffinato ed elegante, piano e godibile, tradizionale o di taglio moderno.

Comunicare se stessi attraverso la scrittura rappresenta un valore e una ricchezza interiore, perché è vera ricchezza quella che scopriamo dentro di noi, quella che il tempo non modifica, non sconvolge e non annulla, quella che gli altri non possono mai toglierci e che ci accompagna in ogni istante della nostra esistenza.

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Note degli altri componenti della Giuria Tecnica Germana D’Alascio Giuria Tecnica Poesia e Narrativa Giovani

Gianluca Prosperi Giuria Tecnica Poesia e Narrativa Giovani e Poesia Adulti

Da un osservatorio privilegiato per sondare e aggiornare lo stato della poesia, qual è un concorso letterario come quello indetto dalla Associazione Culturale “Il Corimbo”, viene confermata un’ampia partecipazione dei concorrenti, con provenienza dall’intero territorio nazionale, segno cheil ricorso alla scrittura ( non solo in versi) mantiene la sua vitalità, collegata com’è ad una connaturata esigenza esistenziale. È altresì nella norma constatare come l’elaborazione personale, nella maggioranza dei casi, risenta dei modelli ereditati dalla tradizione e, in particolare, degli echi della lirica novecentesca.

Cosicché la necessaria selezione da parte della giuria, pur nella generale presenza di componimenti di buona qualità, ha premiato la maggiore originalità degli esiti nella ricerca formale e la più matura espressività delle opere. Con pari dignità peraltro di lingua e di dialetto equiparati (seppure con traduzione a fronte) nel regolamento del concorso, tanto che facilmente conquistano la classifica anche le composizioni vernacolari, che recuperano il “colore locale” delle radici ambientali o il gradevole spirito faceto, talvolta in apologhi di ascendenza trilussiana. Una più sistematica divulgazione e sensibilizzazione, soprattutto attraverso la scuola, permetterebbe poi di incrementare la pur meritoria sezione, prevista con finalità promozionale, per i giovani, cui risulta naturale come si sa, secondo anche il ben noto detto di Croce (“Da giovani tutti scrivono versi...”) esprimersi in esercizi di scrittura “poetica” o narrativa, dove possono comunque essere reperite, tra immediatezze e acerbità, voci dagli accenti intensi e autentici.

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Fabio Melelli Giuria Tecnica – Narrativa Giovani e Adulti

Esistono molti premi letterari nel nostro paese, ma quello organizzato dall’associazione “Il Corimbo” indubbiamente ha delle peculiarità che lo rendono per certi versi raro.

Intanto oltre alla sezione riservata agli “adulti” ne ha una in cui vengono chiamati a cimentarsi i giovani delle scuole; il confronto tra le due tipologie di elaborati indubbiamente costituisce la ricchezza culturale dell’evento, naturalmente riservato a chi con lo scrivere si diletta senza necessariamente coltivare ambizioni professionali.

Quest’anno è stato possibile vagliare opere di giovani autori estremamente stimolanti: sorprende soprattutto come alcuni ragazzi, piuttosto che rifugiarsi in un solipsismo autobiografico sterile e auto-contemplativo, tentino strade narrative anche impervie, come il fantasy e l’avventura epica, declinando in chiave personale le strette griglie di generi codificati.

Tra gli adulti, ha prevalso una tendenza che potremmo definire “proustiana” legata alla rievocazione nostalgica di un passato più o meno recente, più o meno legato alla propria esperienza di vita.

Ma non sono mancati apologhi grotteschi, fiammeggianti melò, truculenti noir, essay umoristici, e tutta una vasta gamma di approcci disinvolti alla scrittura “fictionale”.

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Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Giovanni Zavarella Giuria Tecnica – Poesia e Narrativa Adulti

In un tempo di imperante regressione linguistica e di prepotente prevaricazione dell’immagine sulla parola, l’iniziativa della benemerita Associazione Culturale ‘Il Corimbo’, fondata e diretta dal prof. Angelo Veneziani, di ideare e realizzare un Concorso letterario nazionale, articolato nella sezione Poesia e Racconto, è risultata quanto mai degna di plauso e di applauso. Non solo perché il Concorso è intitolato ad uno dei poeti maggiori del XX secolo umbro Bruno Dozzini, ma anche perché ci si ingegna per evitare il relativismo linguistico e l’arroganza del superficiale concettuale . Il progetto culturale che ‘il Corimbo’ persegue è in controtendenza con una società che, purtroppo, privilegia il radente utilitarismo e il centrismo pragmatico appariscente, a scapito e nocumento della umanità, idealità, spiritualità, religiosità e della solidarietà.

Non ultimo il Concorso letterario de ‘il Corimbo’ accarezza l’idea di poter concorrere alla promozione delle arti , in tutte le sue accezioni e a trarre dal buio di pudici cassetti umbri e nazionali, manoscritti che altrimenti resterebbero nell’oblio del tempo. Nella piena e indubbia convinzione che la Poesia e il Racconto nel XXI secolo non sono più limitati dai confini territoriali e dal vieto luogo comune di un remoto passato punteggiato di provincialismo. L’occasione mi è propizia per ringraziare il prof. Angelo Veneziani e i suoi collaboratori per quello che hanno fatto e fanno quotidianamente per l’avvento di una società dove prevalga l’amore per le arti.

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Finalisti Narrativa

Il CORIMBO - Pensiero e immagini

Primo classificato Motivazione: un raffinato esercizio di stile alla Queneau, un elegante rondò tessuto con sapienza e competenze linguistiche.

“IUS” di Claudio Ferrata Assisi

Se ho commenti da fare sulla sentenza? E me lo domanda, signor giudice? Quale imputato rinuncerebbe a un’opportunità del genere?

Vero è, come affermò san Bonaventura, che la giustizia si nutre di silenzio ma qui, in quest’aula di tribunale, non se ne abbia a male se glielo dico, qui non mi pare di vedere santi o, se ci sono, appartengono a una schiera poco incline alla riflessione, ragion per cui ...no, non intendevo offendere gli avvocati e tantomeno l’illustre procuratore che, tengo a sottolinearlo senza ironia, hanno svolto in pieno il loro dovere. Mi riferivo al fatto che la giustizia è un po’ come l’onore delle prostitute...ma sì, senza che stavolta debbano offendersi le prostitute, si sa che per loro quello che conta, mi si perdoni il bisticcio di parole, è il contante mica l’onore...non si alteri, signor giudice, il paragone sarà irriverente ma è tutt’altro che inadeguato. Mi conceda dieci minuti del suo prezioso tempo e le dimostrerò come la sentenza emessa nei miei confronti, sebbene ineccepibile dal punto di vista processuale, calpesti l’elementare, sacrosanto diritto alla giustizia cui ogni cittadino legittimamente aspira. E, di conseguenza, come sia necessario rovesciarla per restituire alla giustizia quell’onore che lei, in ossequio alla toga indossata, si impegna a difendere. Poi, dopo avermi ascoltato e aver perdonato, spero, la mia scarsa dimestichezza con il linguaggio giuridico, trarrà le sue conclusioni...come dice? È ora di pranzo, lo so e, se non fosse l’orologio a ricordarmelo, lo capirei dall’espressione infastidita del cancelliere, dagli sbuffi degli avvocati, 21

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dallo scricchiolio delle seggiole sotto i loro glutei impazienti; ma credo che di fronte alla mia richiesta qualche brontolio gastrico sia un sacrificio di poco conto, non è d’accordo anche lei? Grazie. Anzitutto, signor giudice, mi consenta di analizzare le motivazioni da cui sono scaturiti i fatti...sì, egregio procuratore, so benissimo che i fatti sono stati...com’è che ha detto nella requisitoria? Acclarati, dico bene? Acclarati dopo essere stati, aggiungo io, scarniti nei dettagli.

No, lontana l’idea di modificare di una virgola quanto da me dichiarato, dal collegio della difesa confermato e da lei, sia pure in minima parte, condiviso. È unicamente sulle motivazioni che intendo richiamare l’attenzione della corte, perché è l’aver sorvolato su di esse a costituire, a mio avviso, il fattore determinante della sentenza...no, avvocato, non pretendo di dare lezioni di diritto, si figuri, ma la prego di distinguere il concetto di motivazioni da quello di cause, su quest’ultime tutto è stato detto in sede dibattimentale e nulla intendo aggiungere...come dice, signor giudice? Si tranquillizzi, non sto addentrandomi in una discussione filosofica, anche se una rispolverata ogni tanto al pensiero di Platone su etica e giustizia non farebbe male, visto che se oggi lo Stato agonizza è proprio per mancanza di etica da parte di chi lo dovrebbe modellare su un’idea di giustizia.

Ma capisco come non siano questi né la sede né il momento per dissertare sull’utopia o meno della società perfetta. Le offro, al contrario, un esempio pratico quanto mai chiarificatore: guardi il signore sul terzo banco alla sua sinistra, quello con i capelli grigi e il giaccone blu...sì, che cerca di nascondersi dietro la signora bionda con l’impermeabile marrone. Visto? Bene, come noterà il signore ha la bocca piena, mastica, probabilmente sbocconcella un pezzo del sandwich acquistato al bar prima di venire qui, lo deduco dal sacchetto di carta che gli vedo spuntare dalla tasca. Mi spingo oltre, dovrebbe trattarsi di un sandwich al tonno e alla maionese visto l’unto sulle sue labbra ...giusto? No, caro signore, non deve vergognarsi di aver soddisfatto l’appetito in un’aula di tribunale, il suo gesto potrà offendere il bonton dei presenti, non certo la sacralità della legge; semmai, parafra22

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sando Dante, si dirà che su di lei più che il diritto poté il digiuno. Ma neppure deve stupirsi se le dico che non è stata la fame a motivarle il gesto, o meglio, che non c’è stata la fame alla base del procedimento psico-motorio iniziato, nel suo caso, con un lancinante crampo allo stomaco, proseguito con un furtivo lavorio della mano nel sacchetto e terminato con la risalita della mano in bocca per un’appagante ingollata di pane, tonno e maionese. No, c’è stato il bisogno naturale di riequilibrio organico, un bisogno che, dalla profondità dell’inconscio, ha provocato in superficie lo stimolo avvertito da lei come fame.

Anzi, se qui in aula c’è un dottore, lo pregherei di farsi avanti per confermare o smentire la correttezza delle mie asserzioni...lei è un dottore? Dietologo? Meglio ancora, quindi è senz’altro in grado di esprimere un giudizio sulla mia, chiamiamola così, diagnosi e di riferirlo alla corte. Bene, la invito a farlo allora...le dispiace parlare più forte? Grazie. Sentito, signor giudice? Come? Me ne rendo conto, mi sono assunto delle prerogative che non mi spettano, all’imputato non è consentito sollecitare deposizioni se non attraverso la voce di chi legalmente lo rappresenta. Certo. Ma tenga presente, primo, che l’esigenza di giustizia richiede, o almeno dovrebbe richiedere, il superamento delle pastoie tuttora presenti nell’iter processuale, soprattutto trattandosi di pastoie frutto di prevenzione nei confronti dell’imputato; secondo, che con dieci minuti di tempo a disposizione posso solo affidarmi a iniziative estemporanee che escludono un benché minimo consulto con la difesa; terzo, e qui finisco, se il diritto è, come qualcuno ha detto, la più efficace scuola di fantasia, un’improvvisazione come la mia dovrebbe ricevere il plauso, non la critica del docente...sì, signor giudice, ha capito bene, scuola di fantasia. Nessun artista, scrittore, poeta, pittore, scelga lei la disciplina, ha piegato l’estro alla realtà con lo stesso capriccio del giurista...be’, liberissimo lei di confutare la definizione ma altrettanto io di sostenerla. Comunque ci rifletta, in questo momento non avverte un’interferenza nella sua anima di convinto positivista, di interprete razionale, obiettivo, notarile della norma? Un’interferenza dovuta all’inevitabile giudizio 23

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di saccente, presuntuoso, ampolloso con il quale ha tacitamente bollato la mia persona? No? Allora da cosa le deriva quell’improvviso tic nervoso, quel frenetico saliscendi della palpebra sinistra? Non è l’espressione di un conflitto interno fra il magistrato e l’uomo, fra l’integerrimo dottor Jekyll e il trasgressivo signor Hyde, fra chi professionalmente è tenuto ad ascoltarmi e chi istintivamente vorrebbe zittirmi? Guardi che sono abbastanza dotato di senso critico per capire che il vaso della sua sopportazione è pieno fino all’orlo, così pieno da giustificare la fuoruscita di qualche goccia di livore, niente di eticamente riprovevole, per l’amor di Dio, appena un’insignificante smagliatura nella trama della sua indiscussa integrità. D’altronde, dove pensa che io abbia attinto gli aggettivi saccente, presuntuoso, ampolloso, con i quali presumo lei mi abbia qualificato? Dal vocabolario di mia moglie, proprio così, la quale ha sempre sottolineato il carattere snervante della mia dialettica, il suo effetto stillicida sull’interlocutore, la sua deflagrante carica di irriverenza, tanto che cinque anni fa, nel fascicolo del dibattimento avrà senz’altro trovato un accenno in proposito, rivolse al tribunale un’istanza di separazione per allontanare da sé il pericolo, diceva, di una qualche reazione inconsulta, addirittura violenta, alla soffocante morsa del mio eloquio. Istanza contro la quale non ho neanche provato a oppormi in quanto consapevole della sua fondatezza. Già, come ho detto poc’anzi, la mia autostima non è tale da impedire all’ego di riconoscere i propri difetti ...prego? Ha ragione, signor giudice, il tempo passa e io continuo a svicolare dal punto chiave della questione, colpa anche sua, però, lo ammetta, che mi spezza continuamente il filo del discorso. Un sorso d’acqua e mi riallaccio al punto...ecco qua, omaggi alla sua pazienza.

Punto che consisteva, se ben ricorda, nell’analisi delle motivazioni da cui prendono le mosse i comportamenti delle persone e di cui le persone colgono il momento finale, quello riconoscibile come effetto di una causa facilmente individuabile: la sete, per esempio, che con quel senso di aridità mi ha costretto un attimo fa a bere, in realtà nascondeva la fondamentale esigenza del corpo di pareggiare la tem24

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peratura interna con quella esterna...sì, sì, ho finito, lo giuro, arrivo ai fatti, anche se trattandosi di fatti relativi al capo di imputazione emesso nei miei confronti, ho ragione di credere che ormai tutti qua dentro, persino i muri, li conoscano...ah sì, sì, d’accordo lei d’accordo tutti, io per primo considero irrilevante la loro dinamica se non per focalizzarne la fase estrema, quella sfociata in una fattispecie di omicidio volontario con l’aggravante dell’efferatezza. Omicidio volontario con l’aggravante dell’efferatezza: incredibile come una frase letta o sentita chissà quante volte in un servizio di cronaca e mentalmente archiviata per l’estraneità delle sue implicazioni, assuma un senso, un peso, persino un suono diversi, qualora ci riguardi da vicino. Adesso, però, lasciamo da parte l’imputazione e riesaminiamo i passaggi attraverso i quali la difesa si è mossa per...come dice, vostro onore? Mi restano tre minuti? Purché non vengano spezzettati, tre minuti sono sufficienti, stia tranquillo, per arrivare dove giustizia vuole che si arrivi. La volontarietà, innanzitutto. Mi dispiace, avvocato, dover distruggere in quattr’e quattr’otto l’impianto probatorio con il quale ha eliminato la benché minima ombra di dubbio sulla mia ...come l’ha chiamata? Aspetti che me lo sono scritto su un foglietto, dove l’ho messo? ah, eccolo ...voluntas necandi, così l’ha chiamata, vero? Affascinante il latino, dà alle parole quel tocco di classe altrimenti escluso dal loro significato. Voluntas necandi, pur non conoscendo il latino ho capito lo stesso di cosa si trattava, mi è bastato ascoltare il resto dell’arringa, l’incalzante avanzata delle sue argomentazioni dietro le quali il profilo di un omicida sfumava nel ritratto di una potenziale vittima o, comunque, di un involontario attore del dramma.

Ma quale legittima difesa, avvocato, quale preterintenzionalità, io ho ucciso perché spinto dalla volontà di farlo! Punto. Dirò di più, quella sera ho ucciso prima ancora di premere il grilletto, ho ucciso...non mi interrompa, la prego, ho ucciso nell’attimo stesso in cui davanti a me si è delineata l’ombra del rapinatore, o meglio, l’ombra che speravo tanto appartenesse a un rapinatore per poter sfogare impunemente la mia voluntas necandi. Impunemente, ci tengo a rimarcarlo, in 25

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quanto consapevole che l’essere stato vittima di precedenti rapine, una delle quali lesiva della mia incolumità, mi offriva la possibilità di infrangere la legge senza, per così dire, subirne appieno le conseguenze ...ma per carità, avvocato, non intendo discutere la validità delle attenuanti da lei sollevate, se non altro perché di quelle attenuanti porterò per sempre le cicatrici, fisiche e morali. Semplicemente porto a galla le motivazioni della mia condotta delittuosa, e non è colpa di nessuno se, per antitesi, vanno a fondo i capisaldi della sua linea difensiva. Semmai, volendo trovare un colpevole, lo indicherei nella giustizia, nello ius per usare un termine latino, la cui incompatibilità con il compromesso è storicamente accertata anche se occasionalmente, non riguarda il nostro caso, disattesa. Lei non gradirà quanto sto per aggiungere ma oltre al dolo sappia che nell’omicidio ho messo anche un bel po’ di premeditazione, sì, ha capito bene, premeditazione, perché quello che la sua ricostruzione dei fatti indica come ...aspetti, mi sono appuntato anche questo, ecco qua ...leggo, come “proditorio agguato ai danni del mio assistito che per reagire alla minaccia di un’arma da sparo, si difendeva sparando a sua volta eccetera eccetera...”, era in effetti un appostamento che da tempo, da quando quell’ultima, sciagurata rapina mi aveva lasciato i segni delle revolverate, mettevo ostinatamente in atto con la speranza che, dài oggi e dài domani, avrebbe dato i suoi frutti, insomma, che a forza di andare al lardo la gatta ci avrebbe lasciato lo zampino.

Come alla fine è successo. Cosa? Ritirarle il mandato? Mi dispiace, avvocato, suscitarle un pensiero del genere ma deve credermi, non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello, anzi, le rinnovo i complimenti per l’abilità con cui ha...ma forse a questo punto sarebbe corretto dire aveva, raggiunto il traguardo della mia assoluzione. Solo che la giustizia esige sacrifici e io, pur di assistere al suo trionfo, sono intenzionato a sacrificare il beneficio a prima vista, a prima vista badi bene, derivante dalla sentenza. Lo ripeto, piena è stata la mia volontà di uccidere e piena...si tappi le orecchie se ritiene che la verità possa offendere il suo amor proprio, piena la mia volontà di infierire sul 26

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rapinatore. Ammirevole, sa? quel passo dell’arringa nel quale, mimando il tremito di chi è costretto a improvvisarsi giustiziere, lei dimostra come i dodici colpi esplosi sul volto della vittima siano conseguenza dell’orgasmo che mi avrebbe, per così dire, incollato l’indice al grilletto. Ammirevole ma non veritiero. L’efferatezza non solo era voluta ma...mi segua nel ragionamento, signor giudice, nasceva dalla motivazione di distruggere materialmente il male che la figura del rapinatore, il suo volto soprattutto, incarnavano. Come ho fatto, mi chiede, a vedergli il volto? Certo, portava il passamontagna, ma il rapinatore precedente, quello che con una mano svuotava la cassa e con l’altra mi gambizzava, a lui l’ho vista bene la faccia, me la ricordo che trasudava odio, ostilità, violenza, una maschera del male, insomma. Sicché a quest’altro che bisogno c’era di vederla? Mi bastava la certezza che sotto il passamontagna ci fosse una faccia magari diversa nei lineamenti ma improntata alla stessa brutalità. Ecco perché l’ho presa di mira e ci ho sparato sopra fino all’ultimo proiettile, perché giustizia vuole che il male venga distrutto in ogni sua manifestazione, interiore ed esteriore. Ho esaurito i tre minuti, signor giudice? Pochi secondi ancora? Bene, più che sufficienti per chiederle di rovesciare la sentenza e condannarmi. Che significa non posso?

Che significa la seduta è tolta lei è libero di andare? No, piano un momento, qui non si toglie un bel niente, finché giustizia non è fatta qui il processo continua...ma è proprio in nome della giustizia che la sentenza va rivista...sì, d’accordo, la legge è stata applicata alla perfezione ma ...avvocato, mi ascolti almeno lei, una volta ha usato una frase latina per dire...accidenti, dovevo segnarmi anche questa...ma sì, era durante l’udienza preliminare, per dire, se ho ben capito, che l’applicazione rigida della legge ne uccide lo spirito o qualcosa del genere...summum ius summa iniuria...sì, proprio questa...ma che importa se è stata usata per scagionarmi? Vista la sua adattabilità alle circostanze, la si usi adesso per condannarmi...buon Dio, sono più di dieci minuti che sto qui a sbandierare la mia colpevolezza! Perché credete che lo faccia, per compiacermi della mia bella voce?

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O perché non vedo l’ora di salire sull’altare del martirio? Lo faccio perché amo sopra ogni altra cosa la giustizia e non ammetto che venga calpestata per causa mia, anche perché in tal caso sarei costretto io a ripristinarla. Come farei, signor giudice? Mi sembra ovvio.

Se invece di garantirne l’applicazione, lei infanga il diritto, prima o poi sarei costretto a uccidere lei, proprio così, perché in tal caso lei incarnerebbe il male e il male, l’ho già detto, va eliminato in ogni sua manifestazione. Come vede, tanto vale rovesciare subito la sentenza e condannarmi, se non altro sarà lei a trarne sul serio un beneficio.

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Secondo classificato Motivazione: l’approccio proustiano caratterizza un racconto arioso e stratificato, che inanella personaggi e luoghi in una suggestiva geografia narrativa.

“VIA GARIBALDI” di Rita Santarelli Fano (PU)

Quanto più mi allontano dall’età dell’infanzia tanto più i ricordi di essa, dai recessi della mente, dal sommerso del cuore affiorano, a volte sinuosi e discreti, a volte dirompenti ed improvvisi,scevri dell’inutile quotidiano,e mi inseguono e mi pungolano prendendo spunto da sensazioni olfattive,da nomi dimenticati,da immagini ritrovate fra le pieghe della memoria fino a costringermi in un passato lontano a cui torno inesorabilmente con struggente rimpianto. Il profumo della legna bruciata nella fredda aria d’inverno, l’odore della prima neve o quello della sabbia calda del mare di giugno,o un insolito scampanìo,una frase dialettale in disuso,un nome caratteristico, una vecchia casa dei vicoli...tutto ed ogni cosa mi riporta alla mia casa di via Garibaldi dove ho vissuto l’infanzia e la fanciullezza. La casa e la via,perché anche questa era testimone e palcoscenico della vita di ogni giorno di chi vi abitava,soprattutto il tratto che andava dal cavalcavia vecchio all’incrocio con via Nolfi. Ognuno sapeva degli altri la composizione della famiglia con i vari nomi,soprannomi,caratteri,le parentele e, spesso anche gli affari di casa. Poche cose,a volte neppure le più intime,riuscivano a restare tali per gli abitanti di quel tratto di strada.Via di confine fra il quartiere dei vicoli, detti Ciociaria ed il centro della città, era fiancheggiata da palazzi signorili e da case di borghesi ma anche da modestissime abitazioni di operai e di artigiani, di povera gente che viveva alla giornata con lavori umili, a volte addirittura occasionali e saltuari.

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Dei primi le mura eleganti racchiudevano le fasi della vita in una discrezione signorile e silenziosa,dei secondi si vedeva talvolta l’aspetto esteriore,quello che si poteva mostrare al pubblico con dignità,ma degli ultimi,porte e finestre erano gli altoparlanti di ogni parola o fatto che accadesse nell’interno e,se questo non bastava ancora,la via diventava prosieguo di quel teatro ameno o tragico che era il vivere di ogni giorno per chi,abituato ad esternare ogni sentimento di allegria o rabbia,di dolore o di gioia, a voce alta, faceva partecipi tutti senza ritegno alcuno. E di questo popolo minuto e vivo sembrava che la via fosse piena, proprio perché riempiva con grida e voci,con gesta a volte plateali,con sceneggiate comiche o drammatiche quei cento metri di selciato su cui le finestre degli altri si facevano occhi e orecchi per assistere gratuitamente allo spettacolo. Personaggi curiosi, comici,caratteristici ce n’era un vero campionario,un campionario di umanità che la vita grama accomunava, umanità spesso dolente,sempre rassegnata,anche se i più focosi o irascibili si sfogavano ogni tanto con una “scagnarata” o con un canto di rabbia repressa. - PITRIN. In fondo alla via,verso il mare, proprio vicino al cavalcavia vecchio,c’era la porta che conduceva alle cantine del conte Castracane dove regnava,padrone indiscusso, Pitrin il cantiniere.

Pitrin,anche se il nome può farlo immaginare piccolo,era quello che suole definirsi un “pezzo d’uomo”: alto,segaligno ma robusto,eretto nella persona,aveva l’atteggiamento di chi è consapevole di occupare un ruolo importante,specie nel periodo della vendemmia.Per il resto dell’anno scompariva dalla vista di tutti e si pensava che il suo daffare fosse esclusivamente all’interno delle cantine dove,come un alchimista, miscelava, rimboccava e depurava ogni botte, ogni tinaccio e controllava con amore di intenditore ogni bottiglia di vino. Ma alla fine di settembre,eccolo in mezzo alla strada,con gli stivali di gomma, camicia a maniche arrotolate fino ai bicipiti, gilè slacciato e perenne fazzoletto colorato intorno al collo ad aspettare i birocci trainati dagli ondeggianti buoi che arrivavano dalle campagne vicine e lontane,carichi di uva che spandeva il suo odore tutt’intorno, richiamando, 30

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come api,uno sciame urlante di ragazzini che correvano dalla vicina Ciociaria per rubare un grappolo d’uva. I più arditi e monelli cercavano di arrampicarsi sul carro, non solo per servirsi,ma anche per distribuirne a quelli che rimanevano indietro o ai più piccoli che non arrivavano con le braccia alle sponde. E il contadino che vedeva decimarsi il suo prezioso carico,dava di frusta nell’aria affinché lo schiocco, spaventandoli, li facesse desistere da tale scempi. Ma inutilmente!Solo l’apparire di Pitrin,piantato a gambe larghe e pugni ai fianchi in mezzo alla strada, riusciva a sparpagliare quella turba dalle mani e la bocca piene,appiccicose e dolci...che però era pronta a ricominciare all’apparire di un secondo carro.Era l’odore dell’inizio dell’autunno,dei primi mosti quello che,dalle bocche di lupo delle cantine, saliva pian piano sulla via a segnare la fine della calda stagione estiva. - LA BOTTEGA DELLA INES. I profumi più forti e particolari erano,in tutte le stagioni,quelli che si sprigionavano dalla bottega della Ines. La sua era una bottega di generi alimentari piena di ogni ben di Dio e delle cose più disparate,dai lacci delle scarpe,ai dolci e caramelle per i bambini,dalle uova fresche in un cestino di ferro appeso ad un gancio,allo zucchero e la farina messi sfusi in profondi cassetti di legno da prelevare con la sessola,alla conserva in enormi barattoli rossi e oro, al tonno nel barattolone argento e blu.I bambini si fermavano fuori con il naso nella vetrina,prima di spendere un soldo,per decidere fra il cannello di liquerizia o le caramelle di zucchero d’orzo o i rombi neri dal sapore di anice o le fettucce di liquerizia morbida arrotolate intorno ad una pallina di zucchero. A contrasto di tante dolci leccornie dentro dominava un forte odore di baccalà che in una bagnarola su cui filava l’acqua di un rubinetto, si stemperava dal sale di cui era impregnato,a questo odore era secondo quello pungente delle aringhe affumicate in un barilotto di legno col coperchio semi aperto,e poi nell’ordine quello delle spezie che si vendevano sfuse dai barattolini o della coppa sempre pronta nell’affettatrice per essere venduta per le merende o colazione degli operai.“Do sold de copa” era la misura per riempire un bell’angolo 31

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di pane. - IL SIGNOR BARTLEMY. I vari passatempi,ed erano tanti, partivano dalla inventiva, dalla fantasia, dall’occasione che si presentava.Uno di questi,appunto,era quello di andare a suonare il campanello dalla porta del signor Bartlemy. Il nome la dice lunga... .

Questo signore infatti era un caso particolare della via Garibaldi,un personaggio a sé stante e fuori dalle regole. Abitava all’interno del palazzo dei conti Bracci con la porta d’entrata nel cortile; la sua abitazione si trovava all’ultimo piano con portoncino e scala di suo uso esclusivo. Era uno scapolo ormai anziano, dicevano misogino, sicuramente scorbutico e solitario, non riceveva mai visite e non lasciava che alcuno entrasse nella sua abitazione. Anche il postino o qualunque fornitore comunicava con lui per mezzo di un cestino che lasciava calare dalla finestra tenuta sempre con le persiane accostate.

Usciva solo nel pomeriggio, verso le sei per fare la spesa ed una passeggiata. Altro di lui non si sapeva. Ma un simile caso non era ignorato dai ragazzini che abitavano lì intorno, primi, ovviamente, i nipoti del conte Bracci ed i loro pochi amici ammessi a giocare nel cortile.

Fra questi c’ero anche io e Oretta che eravamo spesso assieme ad Alberto e Luciano Anselmi, padroni di casa, mentre Cicci (Francesco) raramente si univa a noi perchè più piccolo e Mario ultimo nato, era ancora affidato alle cure della balia di Arcevia. Si univano a volte Carlo Fausti loro compagno di scuola e Anna Bonavia che veniva d’estate dalla nonna Area che abitava nello stesso palazzo. E quale poteva essere per noi il più stimolante divertimento se non quello di andare a provocare questo misterioso misantropo? La “suonata (del campanello) con fuga” era la più scontata delle prodezze a cui però spesso seguiva, ma molto più spesso precedeva, battendoci sul tempo, una bella secchiata d’acqua che improvvisamente e non si sa come, usciva d’un tratto da quella misteriosa finestra che continuava a rimanere con le persiane accostate. Non ancora contenti di queste “discolate” ci mettevamo sotto la sua finestra, ma non a portata di tiro e gridavamo in coro: “Bartlemy!Bartlemy!”. Fino a quando, un pomeriggio, e la guerra dei nervi era ormai aperta fra noi e lui, si aprì 32

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di colpo il portoncino e ne uscì proprio lui con il bastone da passeggio che però teneva ben alto sulla testa brandendolo minacciosamente pronto a colpire il primo che gli fosse capitato a tiro! Fu un fuggi fuggi generale con grida e pianti: Oretta cadde inciampando e gli altri, poco caritatevolmente, la scavalcarono correndo verso le proprie case, lasciandola sola ad affrontare quello che in quel momento ci sembrava un terribile energumeno. Ma la vista di quella vittima indifesa e spaventatissima fece sbollire l’ira tutto ad un tratto e Oretta fece ritorno a casa senza problemi anche se con grande spavento. Il gioco era finito per tutti! - FAGIULIN - POGGIOLI ALFREDO - CAVIOT. Nelle sere d’estate, dopo il lavoro di tutta la giornata, una simpatica coppia di vecchietti si sedeva davanti alla porta della loro bottega; erano il ciabattino Tombari e la moglie, da tutti conosciuti con i nomi Fagiulin e l’Agatusia. Del primo forse si voleva evidenziare la figura piccola e rotondetta sovrastata da un cappello a bombetta che teneva sempre in testa anche d’estate; il nome della moglie era invece una derivazione del nome Agata che portato al vezzeggiativo il dialetto fanese aveva trasformato in un suono che sembrava più riferirsi a un gatto che a un grazioso nome femminile.

Sedevano di sera l’uno accanto all’altra sul bordo della via, lui nello sgabello basso impagliato che usava per lavorare al deschetto di ciabattino, lei in una seggiola cui avevano tagliato le gambe per portarla alla stesso livello dello sgabello. Stavano seduti in silenzio, scambiandosi poche parole: la lunga ed affiatata vita in comune le aveva rese ora del tutto superflue, si godevano il fresco e guardavano i rari passanti. Lui fumava la pipa che era la sua seconda compagna fedele ed ogni tanto lanciava certi sputacchi che arrivavano fino al mezzo della strada e questo era niente se la fumata la faceva stando seduto fuori; il bello era, se bello si può dire, che il più delle volte fumava mentre lavorava o meglio nelle soste fra un lavoretto e l’altro, stando seduto dentro prossimo alla porta, allora se qualche ignaro passante si veniva a trovare lì davanti rischiava di ricevere in pieno quella sorta di saluto!

Nella porta accanto c’era la bottega da falegname di Berto Poggioli, 33

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padre di Enzo, compagno dei nostri giochi. Berto portava sempre un lungo camice giallastro e perennemente la matita piatta infilata sopra l’orecchio pronta per segnare le misure. La sua bottega ci affascinava molto, ma Berto era scorbutico e non gradiva avere ragazzini intorno mentre lavorava. Nel fondo, coperto di segatura e ragnatele si intravedevano abbozzi di nasoni, orecchie enormi, piedi e scarponi… e questo perché, in inverno, lavorava per i carri di carnevale. Figuriamoci come ai nostri occhi questo fatto lo rendesse importante! Avremmo voluto poter rovistare in quegli abbozzi per avere una primizia del soggetto dei carri. Per noi dunque Berto non era un semplice falegname, ma un fantasioso artista! Più avanti, prima del portone di palazzo Bracci, c’era il carbonaio Alfredo. La sua bottega scura come l’antro di Vulcano era piena di carbone e legna, nera dappertutto, come nero era tutto ciò che usciva da lì dentro. Alfredo si considerava un bell’uomo e lo dimostrava camminando bene eretto, col petto in fuori, il piglio importante anche perché per lui lavoravano diversi garzoni, uomini e ragazzi dei vicoli, specie per trasbordare legna e carbone dai camions alla bottega e viceversa. Lì era sempre un andirivieni: arrivava il carbone e allora due garzoni sul camion con la pala e gli altri a terra coi cestoni sulle spalle coperte con lunghi sacchi di iuta messi a cappuccio sulla testa, cominciavano a scaricare fino a sera. È inutile dire che quei poveretti, dopo le prime ceste diventavano tutti neri sul viso dove spiccavano solo gli occhi e così conciati non si distinguevano più l’uno dall’altro. Sembravano una compagnia della Misericordia così neri, così uguali, così tristi per quell’ingrato lavoro. E Alfredo dava ordini, sollecitava:”Déi giù!” pavoneggiandosi un po’ per quell’importanza che gli derivava da un così imperioso comando! Dopo l’incrocio con via Nolfi, più avanti sulla destra c’era un altro ciabattino che fisicamente e per temperamento si poteva definire l’antitesi di Fagiulin: era Caviot! Secco, lungo, nero non solo per il colore della pelle e dei capelli ma perché scuro era sempre il volto che era pervaso da una sorta di tristezza sconsolata, di rancore interiore. Nessuno, credo, l’aveva mai visto 34

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sorridere. Convinto anarchico aveva per motto: né Dio, né Padrone!

E per ostentare questo suo fermo credo si premurava di lavorare regolarmente la domenica e le altra feste religiose e civili. Solo in due giorni dell’anno chiudeva bottega e, tolta la lunga parananza, esibiva, al posto di una cravatta, un fiocco nero. Questi due solenni giorni erano il 1° maggio, festa dei lavoratori e il 2 novembre, commemorazione dei defunti. Due realtà dure e tristi che neppure lui poteva eludere. - LA MARCHESA CALCAGNINI D’ESTE. Da uno dei portoni di palazzo Bracci e precisamente dal primo sulla sinistra venendo dal mare, usciva ogni mattina una coppia di inquilini che abitavano un vasto appartamento al primo piano. Erano il dottor Pinzani, Ufficiale Sanitario del Comune di Fano, in pensione, e la moglie marchesa Alessandra Calcagnini d’Este.Fra i due correva una ventina d’anni di differenza che, per le condizioni di salute assi precarie del dottore, si notava tutta. Lui bianchissimo di capelli, baffi e sopracciglia, camminava strascicando le gambe ed appoggiandosi al bastone da una parte ed al braccio della moglie dall’altra. Lei che aveva conosciuto splendori in gioventù, conservava un portamento eretto, quasi imperioso che andava a tutto contrasto con quello del marito. I capelli biondi erano portati alti sul sommo del capo, il viso incipriato ad esaltare un pallore di alta casta. Ma il suo animo e la buona educazione la volevano signora non solo nei confronti dei suoi pari ma anche, e questo era rimarchevole, con la umile gente che incontrava per via Garibaldi. A tutti dispensava un sorriso od un saluto, per tutti aveva una parola di cortesia e la cosa non si fermava solo all’apparenza. A tutti era nota la sua disponibilità e l’aiuto che dava, per quanto poteva. Nessuno la chiamava mai signora Pinzani, perché per tutti era la “marchesa”. VIA GARIBALDI NELLE STAGIONI. L’autunno si preannunciava, come sempre, con l’abbreviarsi delle ore di sole, ma lì nella nostra via tale abbreviazione era ancor più evidente poiché i palazzi alti erano tutti sul lato ovest, perciò coprivano il sole nel percorso del suo tramonto ancor prima che calasse all’orizzonte anticipando il crepuscolo e l’oscurità. Era la 35

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stagione della malinconia con le piogge uggiose che non finivano mai. Tutti si chiudevano in casa e si cominciava ad accendere le stufe.

Fuori del portone di casa noi mettevamo le piante nei vasi beneficiare di quella pioggia, almeno per loro salutare. Erano piante che abitualmente stavano nello studio dello zio, quelle foglione rustiche di colore verde scuro che si trovavano spesso nelle sagrestie, che non abbisognavano di particolari cure o di sole, resistevano al freddo ed alla poca luce, ma erano piene e rigogliose e perciò ornamentali. Si riaprivano le scuole e la via restava quasi deserta, nulla invitava ad uscire. La sera la strada, fattasi buia, veniva illuminata debolmente da piccole lampadine che la tenevano in una semioscurità ancor più deprimente ed i pochi negozi non avevano insegne luminose ma anche lì una sola luce disposta sopra il bancone di vendita più per vedere bene il peso nella bilancia che per illuminare la merce. L’umidità entrava nelle case e con essa il freddo che sembrava più intenso perché non asciutto. Si spandeva nell’aria il buon odore di legna bruciata che usciva da tutti i camini. Con la festa dei Santi, regolare arrivava la prima bora, la prima di una serie che, d’inverno si alternava a qualche periodo di nebbia o di freddo asciutto. (Fano e la bora sono un binomio inscindibile ed i fanesi non solo sono abituati a sentirla, ma si preoccupano se, a scadenze fisse non arriva per tre giorni a pulire strade, mare e cielo). Si preannunciava con lo sbatacchiamento di porte e finestre, poi man mano aumentava di intensità emettendo un ululato che non prometteva niente di buono; strapazzava piante, siepi, colture e copriva tutto con il suo fiato salmastro e giù a far danni! Poi fra i tetti ed i camini sentivi il fischio rissoso e prepotente, sfrontato ed aggressivo di chi sa che nulla e nessuno lo può ostacolare. Via Garibaldi poi, che è volta verso il mare, era la prima ad esserne percorsa,come se per entrare in città, la bora percorresse un corridoio di ingresso e la prendeva d’infilata fischiando come un diretto. Entrava dappertutto: gli infissi facevano del loro meglio, ma gli spifferi la facevano da padroni ed era difficile tamponarli, senza contare che dai camini entrava non solo il vento gelido ma, quel che 36

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è peggio, anche il fumo ricacciato dentro a tutta forza. Veniva voglia di piangere! E si piangeva per la rabbia e per il bruciore agli occhi; allora si aprivano le finestre: o il caldo e il fumo o il freddo e si ricominciava daccapo! Poi una mattina, quando l’ultimo sonno si faceva leggero e preparava al risveglio, i rumori della strada arrivavano affievoliti, il suono delle voci ovattate era come spinto da un muro all’altro e la luce dalle fessure delle persiane si proiettava sul soffitto più bianca ed abbagliante di sempre: la neve! Che festa! Si balzava dal letto incuranti dell’aria gelida ”Copritevi! Non camminate scalze!” gridava mamma, e si cercava di aprire la finestra che opponeva resistenza, ma il biancore intenso di quella luce già ci faceva fremere di gioia anticipandoci la sorpresa dello spettacolo. Bisognava subito vedere quanta ne era caduta. Era tanta! Tutta la notte silenziosa e leggera era discesa senza sosta ed ora la strada ne era tutta coperta.

Spesso non c’erano tracce di orme, ma il bordo dei tetti ci dava subito la misura: mezzo metro e, dove l’aveva buttata il vento, anche ottanta centimetri! Ci si svegliava a vicenda: “ La neve! È tanta!” Dagli angoli dei tetti già si formavano i primi cannelli di ghiaccio, prima brevi poi più lunghi: “Presto, presto bisogna accendere la stufa: oggi non si va a scuola!”. Allora non c’erano scarpe adatte per affrontare la neve e gli uomini al massimo mettevano le calosce sopra le scarpe. Pochi avevano gli stivali di gomma. Si aprivano le porte di casa e con pale e palette si cominciava a fare la “rotta” per uscire ed arrivare almeno al primo negozio del mangiare o per raggiungere il posto di lavoro.

Poi gli scopini e gli spalatori del Comune avrebbero aperto le strade.

Ma tolto il primo ostacolo e superato il primo impaccio, ecco i più animosi grandi o piccoli a tirare le prime palle di neve ed allora si salvi chi può! Con i guanti di lana che si bagnavano immediatamente, una sciarpa sulla testa annodata sotto il mento, via sulla strada a tirare palle di neve ed a riceverne. Con il naso rosso e le lacrime agli occhi non ci si dava per vinti: si toglievano i guanti che, bagnati com’erano facevano solo più freddo e con le mani nude, ormai diventate di fuoco, si continuava fra le risa, lo schiamazzo ed i tonfi sordi, felici 37

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di poter prendere in pieno qualche passante che inutilmente cercava di sgattaiolare inosservato ed attraversare quella linea di tiro a segno.

Verso marzo cominciavano i preparativi per la Pasqua Le giornate divenute più lunghe elargivano un pallido solicello che illudeva quanti pensavano fosse già primavera. L’aria era ancora molto fredda, ciò nonostante si preparava con grande aspettativa il soprabito da mezza stagione con i colori primaverili che assolutamente, freddo o non freddo, si doveva mettere il giorno di Pasqua, anzi per essere più precisi, il Giovedì Santo per la visita ai sepolcri nelle varie chiese della città. E già arrivava la settimana santa che prevedeva, almeno a casa mia, la ritinteggiatura della cucina, le pulizie profonde ed accurate di tutta la casa, il termine dell’accensione della stufa. Ricordo quei profumi di vernice, di olio rosso per i mobili, ma anche il freddo che ci prendeva verso sera quando, senza più riscaldamento, speravamo che almeno il sole ce ne elargisse un po’. Poi bene o male la primavera arrivava e con la buona stagione tutti si intrattenevano di più per la strada, anche mamma la mattina si attardava in piazza a fare la spesa, diceva lei, in realtà chiacchierava con le amiche che, come lei, avevano piacere di incontrarsi al mercato ed approfittavano per fare conversazione. Al mattino, molto presto, verso le sei, subito dopo che lo scopino aveva ramazzato le strade, arrivavano dagli orti le ortolane con le carrette cariche di verdura dirette alla piazza del mercato, ad una ad una dalla salita del cavalcavia, spingendo con fatica quel trasporto carico di ceste che contenevano i vari ortaggi freschi ancora della rugiada notturna o del primo lavaggio fatto con l’acqua del pozzo. Dopo la scuola del pomeriggio, verso le cinque i bambini giocavano finalmente liberi dai compiti e dalla sorveglianza, per strada e nei giardini. C’era dunque il risveglio, anche se nessuno vedeva una pianta o un fiore o una foglia: era l’aria col suo tepore, era la vita che rimescolava dentro; c’era allegria e la voglia di ridere era la giovinezza che sintonizzava con la stagione: eravamo tutti felici, di molto poco, di quel poco che ci pareva tanto! Le giornate divenute lunghe invitavano ad attardarsi la sera nella passeggiata o nei giochi e, piano piano 38

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qualche artigiano metteva fuori della bottega uno sgabello o una seggiola e, dopo il lavoro, si godeva quella tiepida aria che profumava di erba nuova. A distanza di tanti anni sono tornata a rivedere via Garibaldi in quel tratto dove abitavo, fino all’incrocio con via Nolfi: nulla è apparentemente cambiato nella sua struttura: i palazzi, le case, le finestre sono le stesse con qualche piccola miglioria ma sotto tutto è diverso: i negozi hanno preso il posto delle “botteghe”, gli artigiani sono scomparsi, ora c’è una lavanderia, l’oreficeria, un bar, una tavola calda, due o tre esposizioni, qualche ufficio; tutto molto comune e molto anonimo; le persone di allora tutte scomparse...Se fosse concesso a me quello che Thorton Wilder in “Piccola città” concede alla protagonista Emily, ormai defunta, e cioè la facoltà di poter rivivere un giorno della sua passata vita, sceglierei, senza esitazione un giorno “qualunque” vissuto nell’infanzia in via Garibaldi. Sono sicura che così ritroverei tutti, non solo quelli di casa mia, ma gli abitanti che erano il piccolo mondo esterno, dal confini molto limitati ma per me sufficienti e sicuri, ognuno nella sua bottega o sulla porta di casa o per la strada: Pitrin, Poggioli, la Ines, Bartlemy, Fagiulin, Alfredo e tutti i suoi neri garzoni, la marchesa Calcagnini e tanti, tanti altri che, anche se non avevano caratteristiche individuali degni di nota, facevano parte e sfondo di quella via e nessuno potrei togliere dal suo posto senza danneggiare o sminuire l’insieme. Con uno sguardo tutti li potrei rivedere e risentire con il suono delle loro voci il dialetto familiare, ognuno con i difetti ed i pregi, con le piccole miserie e le grandezze d’animo.

Tutti “presenti” all’appello del mio ricordo!

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Terzo classificato Motivazione: una trama avvincente, annodata intorno ad un’ impeccabile struttura narrativa, un abile gioco con i generi letterali, condotto con la necessaria sobrietà.

“SENZA VIA DI SCAMPO” di Lenio Vallati Firenze

Sono in macchina. Non so da quanto tempo sto guidando. L’autostrada scorre davanti ai miei occhi: due rette parallele verso l’infinito.

Mi basta tenere le mani tese sul volante per seguire la rotta. Ma dove sono diretto? Non lo so esattamente. Non ricordo il nome del casello al quale debbo uscire. Se vedessi scritto sui cartelli stradali il nome di quella località...forse la riconoscerei certamente. Basterebbero le prime lettere per farmela ricordare. Ho perso il foglietto sul quale c’era scritto l’indirizzo preciso, l’ho cercato dappertutto ma non l’ho trovato. Comunque la località, ne sono sicuro, comincia con... .

Ecco, ci sono...no, non è neppure quella. Ancora avanti, mentre comincio a sentirmi terribilmente stanco. Potrei anche addormentarmi.

No, debbo resistere, forse tra poco sarò arrivato. Fa caldo. Fa terribilmente caldo. Un’altra fila di cartelli. No, ancora avanti. Sono ore che guido, sei sette...ma il serbatoio è ancora a metà. Strano. Si susseguono altre uscite. Ma per quanto tempo dovrò guidare ancora?

Comincio a dubitare di aver preso l’autostrada giusta. È assurdo, non posso aver sbagliato. L’indicazione era chiara, non dava adito a fraintendimenti. C’era pure la cartina allegata...peccato che non l’ho più con me. È la stanchezza che mi fa ragionare così. Ecco, forse...dev’essere questa la località...sì, è questa, metto la freccia, mi avvicino al casello, pago. Accidenti, settanta euro! Ma da quanto tempo sto guidando? Meno male che sono arrivato! Prati, ancora prati, un ponticello di legno sopra a un ruscello. Ci passo sopra lentamente.

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Il gorgoglio dell’acqua mi pare un richiamo amico. Mi sembra di esserci già stato in questo posto, ma quando? Io debbo recarmi a...per un congresso, e a...non ci sono mai stato, almeno penso. Poche case, una strada luccicante di sassolini, qualche albero sparso qua e là.

Querce. Un caseggiato enorme di color arancione con le persiane verdi aperte. Ecco, sì, ora ricordo! È qui che sono nato, tanti anni fa.

Mi vengono alla mente alcuni episodi della mia vita di bambino...avevo cinque-sei anni, raccattavo quei sassolini per poi giocarci, è pirite caduta dai camion che la trasportano, la mettevo in un barattolo che tenevo nascosto in cantina. Poco più avanti la scuola che frequentavo con la siepe intorno. Profumo di erba tagliata di fresco. Ma non c’è anima viva, nessuno a cui chiedere informazioni. La strada, costeggiata di viti e ulivi, si inerpica fino a raggiungere un tranquillo paesino accoccolato su un monte. Che ci faccio adesso qui? Non è questo il posto al quale ero diretto. Forse, non so, avevo bisogno di rivedere i luoghi della mia infanzia e così...inconsciamente...ho seguito quel cartello credendo fosse quello giusto! Debbo tornare indietro, riinfilarmi di nuovo in autostrada, ripercorrere ancora chissà quanti e quanti chilometri! Fortuna che adesso fa meno caldo. Seguo un’infinità di altri maledetti cartelli, attraverso ponti.

Sette chilometri al nuovo raccordo autostradale. Manca poco. Ecco, adesso sono di nuovo in autostrada. Mentre tendo la mano per prendere un nuovo tagliando, mi arriva dal finestrino aperto l’aria fresca della sera, una sferzata che risveglia come d’incanto i miei sensi assopiti. Eccomi di nuovo a scrutare i cartelli per trovare l’uscita giusta.

Neppure questa. Ancora avanti. Ormai sta rabbuiando. I miei occhi sono due perle di vetro. Ancora avanti, senza tregua. Sto per arrendermi quando vedo lampeggiare una luce rossa. La lancetta della benzina è ormai prossima allo zero. Vorrei uscire da questa maledetta autostrada, non importa dove sono, e fermarmi su di un prato a riposare. Ma non posso. Debbo andare ancora avanti. Forse a quel congresso mi stanno già aspettando. Oppure se ne sono già andati via tutti. Ma io non posso fermarmi. Debbo comunque arrivarci, 41

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anche se ormai in ritardo. Non posso arrendermi. Forse la prossima curva sarà l’ultima! Ancora avanti. È ormai notte. Da più di un’ora ho acceso i fari. Ecco un’altra uscita. Metto gli abbaglianti per leggere meglio i nomi delle località Niente che mi faccia ricordare quella impressa sul foglietto. Ad un tratto uno scoppio improvviso, fuoco, fiamme. Deve esserci stato un terribile incidente da queste parti.

Vado avanti per forza d’inerzia. Dopo alcuni minuti le sirene di un’ambulanza squarciano il silenzio della notte. Al un certo punto un cartello. Fine autostrada. Non capisco! Ancora pochi metri, poi il manto autostradale è sostituito da un folto tappeto erboso. Non c’è alcun casello, almeno non occorre pagare ancora, penso sorridendo.

Fermo la macchina, o meglio è lei che si ferma da sola. Non c’è più benzina. Mi guardo allo specchio. Un urlo. La mia faccia non esiste più. Il collo, gli arti, il corpo, niente di me è rimasto, vedo solo uno scheletro seduto sul sedile anteriore di un’auto. Uno scheletro che mi guarda fisso e manda al mio indirizzo un ghigno feroce. Mi sveglio all’improvviso, di soprassalto, sono sudato. È un sogno, soltanto un sogno, mi ripeto, mentre sono ancora sotto le coperte. Ma tra poco dovrò alzarmi, cambiarmi, prendere l’auto per recarmi a quel convegno a...ma come diavolo si chiama quel posto? Tengo gli occhi ben svegli. Ho paura di riaddormentarmi. Ho terrore di fare di nuovo il sogno di prima. Mi domando come mai mia moglie non sia accanto a me. Eppure è presto, sono ancora le sette, non dovrebbe ancora essersi alzata...solo alle otto si veste per andare al lavoro. Lentamente mi alzo e vado in bagno a lavarmi. L’acqua fresca del rubinetto rimette in moto le cellule ancora annebbiate del mio cervello. Improvvisamente mi viene in mente che il foglietto con il nome della famosa località deve essere nella tasca interna della giacca. Evito inconsciamente di guardarmi allo specchio, forse per paura di rivedere l’immagine del sogno, vado nel salotto e tiro fuori dalla tasca interna di una giacca grigia e lisa un foglietto spiegazzato. “Egr. Sig...(sono io) il giorno...(ieri?) lei è invitato al convegno che si terrà a...” .Una grande macchia di grasso, o di sugo, copre interamente una parola 42

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di media lunghezza. E adesso? Potrei telefonare al numero riportato alla fine della comunicazione, certo, posso chiedere a loro...forse la data del convegno è stata spostata ad oggi...ma un’altra macchia, pressappoco della stessa lunghezza e della stessa consistenza copre il numero di telefono e un’altra ancora il numero del cellulare, e un’altra ancora l’indirizzo e-mail! Cerco nervosamente il telecomando, accendo la televisione, forse ho bisogno di distrarmi, di non pensare che non so dove andare e sono solo. Ho bisogno di raccogliere le mie idee, di formulare una spiegazione che mi appaia appena plausibile. Sul video, per un attimo, come un lampo, un volto di donna. È mia moglie! Sembra disperata, sta urlando, i suoi occhi sono velati di lacrime. Poi sento la voce del telecronista. È afona, senza inflessioni.

“Scontro frontale a...(ma sì, è questa la località dove dovevo recarmi...) tra due auto provenienti in senso opposto, una Fiat...e una Opel Vectra. Color amaranto.

Il conducente della Opel è morto sul colpo”. Cerco disperatamente di cambiare canale, ma le mie dita sono adesso due artigli rigidi che serrano il guscio nero del telecomando. Poi vedo un groviglio informe di lamiere. È difficile distinguere in quell’ammasso la mia Opel Vectra dalla Fiat. Anche il colore, l’amaranto, non si riesce più a individuare. Tutto mi appare sfuocato come una foto d’altri tempi, sullo sfondo solo orrore e desolazione. Improvvisamente avverto accanto a me una presenza. Non c’è nessuno nella stanza, sembra soltanto una sensazione, eppure c’è qualcuno tra me e il televisore. Vedo qualcosa che fluttua nella penombra del salotto, come una massa di capelli in movimento. Intravedo anche un volto di giovane donna, ma forse é soltanto frutto della mia fantasia. No. La figura si sta muovendo. Chi sei? Mi sorprendo a chiedere al tavolo e alle sedie sparpagliate per la stanza. Perché mi trovo qui, in casa mia, invece di essere a...perché ho dormito qui tutta la notte? Chi sei? Chiedo ancora rivolto alla finestra del salotto, alle tendine bianche che adesso adombrano distintamente un corpo flessuoso vestito di nero. Le mie domande rimangon senza risposta. Riesco però a comprenderne la 43

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loro essenza, a intuire l’intimo significato del nostro esistere, come se quella presenza me le suggerisse. Noi esseri umani ci alziamo, ci muoviamo, corriamo in mille direzioni come tanti manichini senza volto, senza sapere mai dove siamo diretti. Senza mai conoscere il nostro vero scopo nella vita. Adesso strane verità stanno venendo alla luce nella mia mente ancora annebbiata. Un ronzio continuo le accompagna. Sono le sue parole? Quella era l’ultima uscita che avrei dovuto prendere, e Lei, la presenza che adesso vedo distintamente, e che mi parla, era lì ad aspettarmi. Era lì, appollaiata su quel cartello autostradale con impresso il nome della località come un avvoltoio in agguato, pronta a ghermirmi con i suoi artigli subito dopo la curva, dopo lo schianto. Sapeva che non sarei potuto mancare all’appuntamento con il mio destino. Forse ha poi avuto pietà di me, della mia ancora giovane età, e non mi ha portato via subito, ma ha voluto che dormissi per l’ultima volta nel letto dove per venti anni ho dormito, prima di portarmi definitivamente via con se. Forse. Adesso non mi resta che aspettare la sua ultima mossa, il suo ultimo sibilo di richiamo. Eccolo. È ora di andare, mi sta dicendo. Mi guardo intorno per l’ultima volta. All’ingresso un grande specchio davanti a me riflette l’immagine di una pianta dalle larghe foglie che si trova alle mie spalle. Vedo una foto di mia moglie racchiusa in un’elegante cornice in argento. E nient’altro. Poi una gradevole sensazione di leggerezza, un battito d’ali e via, là dove non esistono appuntamenti, là dove il tempo è un foglietto spiegazzato con dentro parole cancellate...là dove una lunga autostrada conduce all’infinito e all’oblio. E Lei è accanto a me. Lei, signora e padrona dell’eternità.

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Quarta classificata Motivazione: pur nella brevità del racconto, l’autore restituisce un affresco storico incisivo e vibrante, con capacità evocative rare e singolari.

“LA STORIA DI JOLANDA” di Margherita Pierini Assisi

Questa storia mi è stata raccontata durante un pranzo tra amici.

Qualche bicchiere di troppo, facce arrossate e soddisfatte, le confidenze volano quasi galleggiando tra le bollitine del lambrusco.

E così un salto nel passato lungo sessant’anni che, in virtù del racconto e per la potenza della parola, riporta al periodo tragicamente oscuro della guerra.

Immaginatevi una farfalla dalle ali d'oro che, girando nell’aria, finalmente si posa sull'erba di un prato: ci troviamo ora in una verde collinetta che spunta quasi per miracolo nascosta ai comuni mortali, circondata da fitti boschi di elci e ornelli. In cima una casa colonica così antica che i suoi muri hanno il colore delle pietre sparse sul prato, sta lì immobile, accucciata, aspettando chissà che cosa. Dietro la vecchia costruzione i pagliai colore d’oro, dove ha scavato la cuccia il cane di casa.

Intorno c’è una siepe di rose selvatiche che segna il margine del bosco. Ma, al tempo del nostro racconto, la primavera addolciva l'aria e rallegrava i cuori. Il vento fresco correva tra i rami e faceva danzare le foglie, portando lontano il profumo dei lillà in fiore.

La strada sterrata, quasi un sentiero, proseguiva a lato della casa, salendo verso il monte. Da lì passava qualche gregge in cerca di pascolo, quando spuntava l’erba verde sui dolci colli e il sole accarezza la terra. Dietro camminava il pecoraio, appoggiandosi al bastone, in compagnia del cane. Ma il silenzio, padrone dell’aria, venne interrotto 45

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dal rumore rombante di una moto. Eccola: ora si poteva scorgere, si inerpicava veloce tra un nuvolo di polvere, lanciando ciottoli che schizzavano via sotto le ruote, un sidecar militare con la carrozzina a lato. L’immobilità ha il colore della paura. Un bagliore sinistro è dato dalla luce che si riflette sugli elmetti dei due soldati tedeschi.

In quel tempo l’esercito germanico abbandonava le strade della pianura troppo scoperte e pericolose.

I loro nemici, gli alleati, arrivavano dal cielo volando come oscuri falchi, colpivano e sparivano persi nell’orizzonte.

Sinora l'ombra oscura della guerra non era arrivata lassù. Si udivano qualche volta spari salire dal fondo della valle. È per questo che i tedeschi, braccati, si ritiravano tra quelle colline.

Le colline dell’Appennino sono formate da una terra aspra ma ondulata. Le strade, ricche di curve, salgono e scendono in avvallamenti improvvisi, scompaiono tra i boschi per ricomparire un attimo sui cucuzzoli di sassi e aride zolle, alti verso il cielo.

Solo la sera gli uomini hanno la possibilità, dopo il lavoro, di raccontare, vicino al fuoco, storie accadute, storie di guerra, ma lo fanno sottovoce, per non preoccupare le donne.

Iolanda, una giovane contadina, è vicino al pozzo in mezzo al cortile davanti a casa. Chinata, sorride alla sua immagine riflessa nell’acqua profonda, un viso birichino tra i lunghi capelli neri. “In fondo non sono brutta”, sta dicendo a se stessa. Ha gettato la brocca di rame nel pozzo. Ora, pesante, la tira su con la carrucola di ferro che, arrugginita, cigola: non c’è acqua nella vecchia abitazione. È un rito antico che si ripete, un dovere di donna: riempire la brocca tutte le mattine, appena sveglia, e portarla in casa senza versarne una goccia.Un rumore improvviso, un motore scoppiettante, Iolanda guarda spaventata. Ha sedici anni e non ha mai visto un soldato, trema con i piedi incollati a terra. Con una manovra avvolgente, una moto si ferma sul prato. Scende il guidatore, una giacca militare copre a fatica una pancia prominente. L’altro è giovane. rossiccio, con un viso quasi anonimo.Il loro aspetto è sporco e disordinato. La polvere 46

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della strada fa da padrona, copre le uniformi, si posa sulla peluria sopra le labbra, si insinua nella bocca, si intreccia tra i loro capelli, resi simili a stoppa, rende opachi i cinturoni, ricopre gli stivali. “Bitte, fraulein avere sete!” tuona il più anziano. È quasi un ordine, poi sputa a terra, ha la bocca riarsa! Con uno straccio, forse un fazzoletto, cerca di pulirsi il viso. Le rughe profonde, ai lati della bocca, finiscono in una barba incolta, gli occhi si notano appena, hanno un’espressione spenta. La ragazza prende un bicchiere posato sul muricciolo del pozzo, lo riempie d’acqua e stende la mano. Ha paura. Il grosso uomo ride con la mano poggiata sul petto. “Vino, vogliamo. vino!”.

Di scatto Iolanda impaurita si gira, le sue lunghe gambe corrono, leggere come il vento, verso la porta di casa. I due tedeschi, assetati, dietro di lei.

La vecchia porta di quercia si apre, il buio inghiotte la ragazza e i due militari. Entrano in cucina: le pareti sono scolpite dalle ombre, i muri neri di fuliggine, il pavimento in mattoni sconnessi. Il fuoco accende i muri del camino. Al centro un lungo tavolo, due panche Accostata alla parete, una madia.

Sul camino è appeso il paiolo, la brace manda bagliori rossastri, un rumore, quasi un borbottio, dice che la zuppa di cipolle sta bollendo.

L’odore avvolge le cose, il fumo sale odoroso verso il soffitto.

Tutto in casa racconta di una vita semplice e amica. La ragazza mette a tavola una vasella colma di vino e del pane appena cotto, involtato in un panno di lino. Il più giovane gira le stanze con fare sospetto, sale le scale di legno che portano alle camere, guarda intorno; il viso appuntito ed il pelo rossiccio ricordano quello di una furba volpe.

Cerca, ha paura che, nascosti, lì si trovino partigiani o armi.

Ma in casa non ci sono uomini. Il padre di Iolanda è lontano in guerra e nessuno sa dove sia. Uno dei due ritorna. Poi spingendo davanti a sé una donna, pallida e tremante, le gambe gonfie reggono a fatica un corpo pesante, è pettinata alla maniera antica: due grosse trecce nere girate intorno al capo, ha all’incirca quarant’anni: è la zia di Iolanda. I due, rassicurati, si lascino cadere sulle panche.

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Il vino nella brocca è frizzante, profuma di rosa, Poi le donne preparano un minestrone di cavolo, insaporito con il lardo, e pongono sul tavolo una torta di granturco: è quello che dà la loro terra. Il vino passa abbondante, con velocità straordinaria, dai bicchieri alle bocche assetate. “Guarda – dice Iolanda preoccupata alla zia – è una gara a chi beve di più!”.

Iolanda serve a tavola, è vicina al giovane tedesco. La sua pelle, lucida e scura, racconta il lavoro sotto i raggi del sole. Quel profumo di donna, appena chinata sulla tavola, i seni che si muovono con il respiro sotto il grembiule sconvolge Hans. “Quanta felicità – pensa – può dare una donna!”.

Il vino rosso in corpo, gli dà un’energia nuova, ma confonde la mente. Grete, la sua ragazza, gli torna un attimo nel cuore, poi le immagini si sovrappongono. La fidanzata, la contadina: i medesimi occhi grigi e spalancati.

Afferra Iolanda, tremante, slaccia i primi bottoni della camicetta eindica la catenina d’oro che porta al collo. “La puoi prendere – balbetta lei – ma, ti prego, lasciami andare!”.

Hans non risponde e la trascina verso la camera. L’altro abbruttito dal vino non alza il capo. “Ma perché è così rigida? – pensa Hans – perché con le mani puntate sulla divisa cerca di scansarmi? Non mi vuole forse? Eppure io sono un bel ragazzo, nessuna donna mi ha mai rifiutato. Domani posso anche morire, ho vent’anni. Oggi è il tempo dell’amore”. Nel frattempo l’ha spinta in camera. Il letto è vicino, Hans cerca di buttarla sopra: baci come morsi sul collo, mani pesanti sul seno, il sudore gli bagna la fronte, l’alito è pesante: sa di aglio affogato nel vino. La bella bocca di Iolanda, rossa come una ferita, è spalancata. La giovane non pronuncia parole, non riesce a gridare, singhiozza piano. La ragazza è giovane ed ha un cuore limpido. “L’amore non è questo – pensa – l’amore è tenerezza, l’amore è una canzone, l’amore è un vestito candido e un mazzo di rose davanti all’altare! Questo è un inganno, questo è il male! Mio Dio che cosa mi accade?”. Spavento e orrore si scontrano e fantasmi giun48

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gono da un mondo oscuro. In quel preciso momento accade un fatto insolito. Il cigolio della vecchia porta, spinta a fatica, il rumore di ciabatte strascicate e la zia irrompe ansante nella stanza. Approfittando della sorpresa, mentre i due, per un attimo, rimangono stupiti ed immobili, si infila a forza davanti al tedesco e spinge indietro la nipote.

Con gesti rapidi si sbottona e apre la vestaglia. Appare la pelle rosea, come quella di un maialino da latte, là dove comincia il seno. La veste, quasi uno straccio grigio, cade afflosciandosi ai piedi.

Rimane in camiciola bianca e in mutandoni lunghi con il merlettino in fondo, che le dona un’aria civettuola.

Poi passa le mani sui fianchi, lisciandoli compiaciuta. Con un gesto di estremo sacrificio, allarga le braccia cercando di attirare a sé il soldato. Pensa la povera donna: “Io sono vedova, pazienza! Ma mia nipote è una ragazza da marito. No, questo non le deve accadere!”.

Hans rimane dapprima interdetto, confuso dal troppo vino, poi afferra la situazione e scoppia in una risata, dapprima roca e cavernosa.

Poi sempre più alta e squillante, dannatamente giovane. La risata vola per le stanze, scende in cucina, esce dalla porta e raggiunge il prato dove, posandosi leggermente sull’erba, svanisce. Poi un attimo, subentra la calma, la passione è sospesa. Ma il caso si diverte alle loro spalle, ficca il naso nella vita degli uomini, imprevedibile, toglie, aggiunge, la fa da padrone!

Un rombo di aerei spezza il silenzio dell’aria, volano a bassa quota, sono bombardieri alleati che solcano il cielo minacciosi. Trasportano un carico di morte. Dalla finestra si vedono spezzoni come bottiglie d’argento sotto il sole, venire giù veloci.

La terra trema, sussulta, ferita. Hans lascia la presa e corre giù bestemmiando, il compagno è già montato in moto. Si allontanano veloci, sparendo nel bosco. Di loro resta solo una nuvoletta di polvere.

Iolanda e la zia fuggono da casa, corrono attraverso un campo di grano tenero e verde, rotolano per il sentiero sassoso, verso il fosso, dove un ruscello salta sulle pietre. La voce del ruscello ora è quasi allegra, le bombe sono lontane su per la collina; ma i contadini rac49

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contano che, il giorno dell’inizio della guerra, l’acqua torbida ribolliva cupa, quasi presagisse i dolori e le disgrazie. La ragazza è veloce, la zia goffa, saltella dietro, cade sui sassi, poi si rialza, non ha i vestiti, si scorgono per un poco i bianchi mutandoni ondeggiare al vento.

Rimangono nascoste, abbracciate fra le ginestre e gli sterpi, per un’ora, forse due o più. E il tempo fugge e non può essere contato.

Le gambe di Iolanda sono tutte graffiate. China si bagna, lava le ferite, l’acqua è fredda ma fa bene. C’è il sole, ma piccole nuvole corrono.

Poi comincia a piovere come fa talvolta a primavera: piccole gocce di luce cadono sui loro capelli.

Al tramonto ha smesso di piovere, il sole annega rosso dietro la collina, quando le due donne, rassicurate, risalgono verso casa. È l’ora del ritorno, ma qualche cosa è cambiato per sempre, la pace è fuggita dalla loro terra. La zia le tiene un braccio intorno alla vita.

Iolanda, che non può dimenticare, ha gli occhi pieni di lacrime.

Un raggio di sole attraversa i vetri della finestra e si posa sui capelli bianchi di Iolanda; è turbata, il ricordo antico è impresso nella memoria, quella memoria che non è possibile cancellare.

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Quinto classificato Motivazione: ritratto intimo di un “perdente” della società, caratterizzato da notazioni psicologiche e comportamentali, che arricchiscono il profilo di un personaggio davvero ben scolpito.

“CARMINELLO IL MALTESE” di Salvatore Sorriso Perugia

Incontrai Carminello a Licata, una cittadina di origini greche in provincia di Agrigento. Egli aveva circa quaranta anni; ma, a guardarlo attentamente, non ci si sapeva regolare. Sembrava, infatti, che la sua età cambiasse col suo umore o con le condizioni atmosferiche o con i giorni della settimana. E non ci si poteva meravigliare troppo dal momento che egli trascorreva la giornata all’aperto, come un animale selvatico. Era una di quelle persone che giocano a rimpiattino col tempo, un po’ vincendo e un po’ perdendo; per cui anche l’età dimostrata, che è una conseguenza del tempo che passa, va incontro a questi andirivieni. Figlio unico, magro come una foglia di agave di Monte Sole a Ferragosto, era rinseccolito a tal punto che aveva difficoltà a trovare un abito adatto alla sua taglia. Quelli che riusciva a reperire nei negozi lo facevano sembrare come uno spaventapasseri.

Non parliamo poi dei tanti che gli regalavano; gli venivano così larghi che dentro ce ne potevano andare due.

Vestiva sempre di grigio e non faceva molta differenza tra le stagioni come se fosse atermico. Abitava nel quartiere di San Paolo e probabilmente era discendente di quei maltesi che nel 1565 si trasferirono a Licata per sfuggire all’assedio della flotta ottomana al comando dell’ammiraglio Pialy. Il santo del quartiere, invero, è il patrono dell’isola di Malta, dove fu dalla tempesta costretto a fare tappa durante il suo trasferimento a Roma per esservi giudicato, essendo Saulo, come tutti i farisei, cittadino romano. Allora a Licata non c’erano abi51

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tazioni sufficienti per far fronte a simili imprevisti; per cui i maltesi furono ospitati nelle antiche grotte di San Giovanni Boccadoro, che si trovavano alle falde di Monte Sant’Angelo, messe a disposizione dalla chiesa del Carmine, che ne era la proprietaria. Da lì il nome del rione. Avrei chiamato Carminello con il termine di parassita se non gli fosse sembrato troppo impegnativo e se non si sarebbe offeso non cogliendone per intero il significato.

La mattina, appena si levava dal letto, Carminello si dava una sciacquata alla faccia, alla stregua dei gatti quando si avvicina il maltempo; si vestiva – le volte che ce n’era bisogno dal momento che spesso dormiva con i panni addosso – e subito andava nel cortile Montana da lui scelto come luogo di soggiorno, di rifugio e persino di lavoro poiché era dallo stare lì dentro che ricavava il minimo sostentamento per arrivare all’indomani.

Il trasferimento avveniva in maniera furtiva, guardandosi attorno come un ricercato. Appena arrivava a destinazione sembrava tirare un sospiro di sollievo. “Piccatu”, pensava, “ca u curtigliu non ha mancu na porta e mancu na irada”.

Nel cortile afferivano quattro ingressi per altrettante abitazioni, uno dei quali aveva tre scalini esterni alla porta elegantemente rivestiti di travertino, che veniva dai padroni tenuto sempre perfettamente liscio, come se lo facessero per Carminello, che, dopo un certo tempo, cominciò a crederci veramente. Egli si sedeva sul secondo e lì trascorreva l’intera giornata. Ogni tanto si alzava per rinfrancarsi le gambe altrimenti il “sangue gli si addormentava”, diceva lui, e per far riposare il sedere che col tempo gli avrebbe potuto cominciare a fare i calli. “A stu munnu puru u fari nenti certi voti ria problemii”, osservava di tanto in tanto nei momenti in cui non c’erano intorno orecchie indiscrete.

Là dentro si sentiva protetto. Anche la strada nella quale si innestava il cortile, via Marotta, sembrava fatta apposta per lui. Poco frequentata; nelle ore in cui egli era lì, di tanto in tanto vi passava qualche carro agricolo di cui avvertiva il rumore continuo dei cerchioni sull’antica basola logorata del selciato, rumore frammisto a quello in52

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termittente degli zoccoli ferrati degli animali. Era come se gli entrasse nel cervello. “Tutti i iorna u stessu sonu”, diceva lui. E tutti i giorni iniziava con una identica imprecazione nel riguardi dei pochi contadini che, per un motivo qualsiasi, andavano tardi in campagna: “Nun ti lassanu campari, sti becchi! “Accanto al fastidio inconsapevolmente procurato dai lavoratori della terra c’era quello volontario dei soliti rompicoglioni, come chiamava lui i ragazzini che, conoscendo le sue abitudini e le sue ubbie, ogni mattina andavano a dargli, a modo loro, la buona giornata mentre si recavano a scuola:“I voi, i voi!”.

Queste parole, non si sa perché, suscitavano immediatamente in Carminello una reazione di panico che di lì a poco diventava rabbia.

E, poiché, come in tutte le baiate – che non esisterebbero se il destinatario facesse finta di nulla – lui se la prendeva a morte, man mano che aumentava la sua ira, i ragazzini rincaravano la dose; per cui ogni sua parola, ogni suo gesto equivalevano a buttare benzina su un tizzone ardente.

Lui, facendo finta di inseguirli, li redarguiva con uno dei suoi tanti doppi sensi, nei quali era un maestro:“i vuoi dataccilli e buttani di vostri mammi, ca ci ponu sèrviri.”

Di imprecazioni poi ne aveva un florilegio, “una più facchina dell’altra”, dicevano le donne di passaggio. E quando nemmeno queste dediche bastavano per allontanare la marmaglia allora ricorreva alle pietre; ma, anche tale ripiego diventava fonte di divertimento sempre maggiore per i ragazzini, che così non la smettevano più.

Insomma, si cacciava, suo malgrado, in un vicolo cieco dal quale era impossibile uscire senza reincontrare i suoi rompicoglioni.

E per liberarsene nemmeno avrebbe potuto rivolgersi alle loro madri.

Infatti,, le rare volte che ci provava si sentiva candidamente rispondere: “E chi ti fanno ti mangiano? Tu lasciali scialari; sunu carùsi e quannu crìscinu non ti disturberanno più vostra signoria!”. Come dire “sopra il fuoco scopettate”, ovvero il rimedio si era rivelato peggiore del male.

Era una battaglia chiaramente impari. Per fortuna ad un certo punto costoro dovevano andare a scuola, per cui necessariamente erano costretti a interrompere lo svago.

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Carminello non era sciocco; anzi in materia di furbizia spicciola poteva dare lezioni a diversi. Nel caso in cui qualcuno, ad esempio, provava ad attaccare bottone con lui, anche se seriamente per chiedergli a pagamento il disbrigo di qualche faccenda nei dintorni, egli non rispondeva anche quando l’incombenza era alla sua portata. In questi casi, in silenzio aspettava che l’importuno si allontanasse di una distanza dalla quale era possibile ascoltare ma non rispondere; quindi parlando da solo attaccava: “Carminé, Carminé... . Ma, si può sapìri chi vonu di Carmineddu?... . E chi ci paru scimunitu ca mi manninu a fari surbiza ‘nculiannumi chi sorda?... .

Ia se mi arruscèdu ni sacchetti , mi pozzu accattàri ssii morti di fami... E poi, i surbizzadda un si ponu fari iddi? Chi ci sudanu i denti pi casu ?”

Con lui gni velleità di stabilire un qualche rapporto era come voler gettare un ponte la le due sponde dell’Oceano.

La sua giornata iniziava abbastanza di buon’ora anche d’inverno, a costo di essere costretto a sfregarsi fortemente le mani e stare all’impiedi per lungo tempo onde non intirizzirsi dal freddo.

Il suo problema più impellente, che tra l’altro si presentava tutti i giorni con la massima puntualità, era come sbarcare il lunario, dal momento che di lavoro non ne mangiava nemmeno a brodo e di chiedere l’elemosina non ci pensava minimamente. In ogni caso durante la giornata almeno un piatto di pasta doveva gettarla nello stomaco poiché un sacco vuoto, come ripeteva lui tra sé e sé, non sta additta. Per mettere d’accordo queste due esigenze Carminello, al fine di non morire del tutto di fame, aveva escogitato un metodo tanto originale quanto efficace. Esso si basava sull’espediente di “parlare a mia suocera per farlo sentire a mia nuora”, approfittando del fatto che, delle quattro famiglie che abitavano in quel cortile, egli conosceva vita morte e miracoli, cioè, diceva lui, poteva leggere la vita essendo fin dall’adolescenza vissuto tra i loro piedi.

Quando arrivava nel cortile si guardava bene dal prendere una qualsiasi decisione strategica; la prima cosa da fare, per lui, era quella di capire che aria tirasse. E, se non era di quelle buone, preferiva star54

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sene a digiuno piuttosto che pregiudicare il futuro: “poiché stari ogni tantu cu stomacu vacanti fa campare meglio,” diceva a volte, senza molta convinzione. Con questa massima della suocera e della nuora nella testa, egli aveva diviso la mattinata in diversi momenti variandoli a secondo delle giornate, che non erano tutte esattamente eguali. Pertanto, cadenzandoli con arte nel tempo, inviava alle signore del cortile Montana come dei messaggi cifrati, il cui significato in effetti non era poi tanto difficile da capire. E questo per le destinatarie era come una goccia d’acqua sul capo, che è insignificante all’inizio ma dopo diventa insopportabile.I messaggi per forza persuasiva erano in crescendo, in una specie di climax fatto in casa.

Per cominciare aspettava che nel cortile non si sentisse volare una mosca. Indi, fiutata per l’ultima volta l’aria, come i gatti a caccia di topi, iniziava la sua giornata lavorativa. Dal suo posto di combattimento, quando i ragazzini non gli rompevano le scatole, cominciava a parlare da solo, inerpicandosi spesso in discorsi alquanto scoscesi per la sua statura; senza, tuttavia, dilungarsi troppo. Come primo momento faceva una specie di resoconto del giorno precedente, che gli consentisse di stabilire una solida continuità col passato, nel quale non gli era venuto a mancare nulla. “Chi jurnata aeri ; pariva ch’aviva a stidda in fronti”esordiva, facendo seguire una breve pausa, per poi riprendere:“Certi voti para ca u munnu non è ciù chiddu di sempri, ca tutta na vota è cangiàtu. Se i cosi ìssiru sempri accussì puru a vìviri fussa ciù facili.” Con questa frase aveva terminato il suo prologo preparatorio.

Quindi si alzava fingendo indifferenza e, manovrando fra cintura e pantaloni, provava a rimettere a posto in qualche modo la parte inferiore del suo vestito. “Certu, sunu duri a mòrir!”, riprendeva, senza far capire mai con chi ce l’avesse espressamente. E se qualcuno si pizzicava lui faceva finta di niente, lasciando passare un lasso di tempo sufficiente, dopo di che senza dimostrare rancore alcuno dava una risposta non molto sibillina: “Co sa senta è sua” Seguiva un lungo silenzio, anche di quasi un’ora: i tempi erano fondamentali per la buona riuscita dell’operazione.

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Ma lui in materia era diventato un maestro. La pausa aveva due scopi: consentire al messaggio di fermentare nella mente delle interessate e, nel contempo, rimettere a posto la situazione qualora fosse stata turbata. E continuava, sempre con un tono di voce né eccessivamente forte, onde evitare che già di prima mattina i destinatari si sentissero troppo toccati né eccessivamente piano, poiché avrebbe vanificato il suo parlare: “Co sapa chi pretenninu certuni di l’autri! Ma, armenu si spiegassiru bonu.” Questi primi approcci avevano anche lo scopo di dare un singolare buongiorno; uno strano saluto che in questo caso voleva dire “ci sugnu ancora”. Quindi, sempre parlando fra sé e sé, calcava la mano: “N massa di morti di fami di arrinisciuti, di leccapiatta...sfumao il tutto nel tono e nella reticenza, come se tendesse l’orecchio per sapere che effetto avesse sortito.

Trascorso il tempo necessario per una riflessione da parte delle destinatarie, riprendeva: “Massari, massari... Hanu sulu u nomi di massar Ma poi alliccanu a sarda e mangianu sulu pani e cipudda” Da come chiudeva le frasi e dall’insistere o meno sulle reticenze si poteva facilmente intuire l’effetto dei suoi monologhi.

E, quando gli effluvi delle cucine, in quell’angusto ambiente, mescolandosi si facevano più intensi, accentuando così il suo appetito, e ancora nessun piatto si era visto all’orizzonte, egli rincarava la dose: “Chi crìdunu ca i cosi non si veninu a sapìri? .I cosi anu i pedi e camìninu.

E comi! E poi dicinu ca giustizia di Diu un’esista: curra curra ca t’accicu, dicia u Signuri.”

Seguiva un interminabile silenzio che, nonostante ogni giorno si ripetesse con le stesse modalità, e con lo stesso esito positivo, metteva ugualmente ansia a Carminello, poiché gli ricordava la precarietà della sua situazione. Minuti che non passavano mai, come l’eternità.

Avrebbe voluto calare l’asso, in questa briscola a segni, ma temeva che fosse sprecato o, peggio ancora, controproducente.

A volte, quando la minaccia non sortiva alcun effetto, perché le donne sensibili erano fuori casa, cambiava strategia passando dalla minaccia alla compassione.

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E iniziava a declamare, intercalando le frasi con brevi silenzi a seconda dell’opportunità: “Certu ca unu putissa mòriri di fami; un si smuovunu mancu chi cannunati...santudiavuluni!”.

E quando sentiva il rumore delle posate, credendo che tutti già fossero a tavola senza aver pensato a lui, cercava di essere più convincente: “E comi ci cala liscia dintra a panza santu diavuluni. E se ci facissa vulenu?” Un piattu ciù o un piattu menu chi cangiassa? U Signuri un si scorda di certi cosi”.

Ad un certo punto, con quel biascicare di posate che dalle orecchie passava subito al cervello, non sapendo a che santo votarsi, anche il linguaggio di Carminello risentiva chiaramente della sua confusione interna e della sua paura. E avrebbe continuato con “riflessioni” simili, sempre più pietose, se uno scalpitio cadenzato di scale di legno non avesse interrotto la sua agonia. Era per lui come il suono dei tasti di un pianoforte appena accordato.

Le massaie, infatti, per tappargli la bocca preferivano battere in ritirata. Pertanto, come a turno, gli scendevano un piatto di pasta, che sistematicamente accompagnavano con una raccomandazione e un invito: “Mangia, mangia, basta che ti stai zitto...Ma quantu l’hai lunga sta lingua!”. La raccomandazione e l’invito sortivano solo l’effetto di dichiarare la propria debolezza e il convincimento che con i cretini non si ragiona, si cede solamente. Ma, nel caso di Carminello, “si trattava di cretini che prendono per cretini coloro che si credono intelligenti” confessavano in separata sede, l’un l’altra, le massaie.

Infatti, egli non si teneva nemmeno questa e con finta ingenuità prontamente ribatteva: “E chi dissu?? Ia parlava sulu Chi nni sacciu ca, ammeci di fari i surbiza, ascutati i cosi di l’autri? E la massaia di turno, non sapendo come farlo smettere, nel timore che potesse continuare a blaterare peggio di prima, continuava: “Stai zitto che ti strozzi.”

E dopo qualche attimo, quasi per nascondere la propria debolezza, come se volesse salvare la faccia, apparentemente serena ma intimamente stizzita, ella concludeva: “E ricordati che si ottiene più con una goccia di miele che con un barile d’ aceto. Gli antichi non avevano torto”.

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Carminello anche in questa circostanza doveva sempre dire la sua: “Ma vidi un pocu ca un si pò parlari mancu suli.” E intanto incassava per quel giorno e riceveva un anticipo per l’indomani, avendo appena avuto la conferma che costoro non erano insensibili ai suoi contorti soliloqui. A quel punto, consumato in quattro e quattrotto il semplice pasto, aveva inizio la sua lunga siesta, in compagnia di fiammiferi affilati che gli servivano da stuzzicadenti. E li roteava artatamente per dare all’intorno l’impressione di avere mangiato carne, della quale invece aveva smarrito persino il sapore.

Carminello lasciava la sua postazione verso l’imbrunire, quando accendevano le luci. Non prima di aver tranquillizzato la sua coscienza con le parole arcane “amuninni, tantu cu è bagnatu a st’ura un s’asciuca ciù”. E, così dicendo, adottava gli adempimenti per trasferire il suo sedere in un posto e in una posizione più riposanti.

Ma nemmeno tale momento era sereno per lui. Questo per colpa di Marchisa, una splendida cagna di tipo lessy tenuta isolata in casa per tutto l’anno, che se ne accorgeva anche se lui camminava in punta di piedi e persino senza scarpe. L’animale cominciava subito ad abbaiare intensamente, facendolo andare su tutte le furie ed esclamare: “Chi ti para ca sugnu latru? Nenti arrubbavu!”

Uno qualsiasi avrebbe pensato che la cagna gli volesse dare, a modo suo, il saluto. Carminello, invece, considerava ciò come un’offesa personale e se ne usciva con un’imprecazione seondo lui consolatoria: “mancu armali si fannu i cazzi sua!”

Era, insieme, la sintesi e la conclusione della sua giornata lavorativa: semmai si potesse considerare tale.

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Sesto classificato Motivazione: l’asprezza dei contenuti è stemperata dall’asciuttezza di una narrazione che sa evitare inutili orpelli, toccando a fondo la sensibilità del lettore.

“LA BUCA” di Dorella Dignola Novara

Nell’aria fredda del mattino Maria aveva qualche brivido; si era affrettata a raggiungere i compagni che l’attendevano al di là del cancello, in fondo al giardino. Era scesa rapida dalla scalinata di casa andando circospetta e di nascosto all’appuntamento, eludendo la sorveglianza di sua madre che sicuramente non le avrebbe dato il permesso d’andare al fiume con glí amici. Ma la vita in campagna permette certe libertà che sono impensabili altrove. È un luogo rassicurante: una distesa verde che si vede a perdita d'occhio; non ci sono perché la gente è semplice e conoscono. Non è facile compiere azioni di vergognare, senza che vengano prima o poi rotture tra gli vive in città. Ad esempio può essere gravissimo rubare un grappolo d’uva nella vigna altrui, tanto che se un proprietario se ne accorge si mette tranquillamente a sparare per difendere ciò che è suo; altri reati invece, come vedremo in seguito, anche gravi sono invece sottaciuti, addirittura coperti da omertà quando meriterebbero la galera.

Il collo e le braccia, bruniti dal sole, uscivano scarni dal vestito di cretonne fiorato che le stava largo. Il suo aspetto appariva un po’ malinconico ma il volto leggermente appuntito era bello, dal colorito di pesca matura. Gli occhi ampi e lucenti sotto l’arco dei sopraccigli ben disegnati, il naso piccolo e un po’ rivolto all’insù le davano un’aria da cerbiatta assai grazioso. Il mento breve e sfuggente quasi spariva nel luminoso sorriso, fitto di quelle perline bianche che aveva per 59

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denti e le ciocche di capelli ricci, raccolti in due fiocchi di nastro azzurro, ben si armonizzavano con l’età tenera che aveva. Il padre era stato richiamato al servizio militare e sua madre rimasta sola affidava a lei il fratellino per riuscire, con l’aiuto di un’amica, a lavorare alle macine del mulino, senza del quale non avrebbero saputo di che vivere. Il mulino serviva anche il paese vicino, in tutto circa cinquecento abitanti ed al mulino c’era sempre il codazzo della gente per gli approvvigionamenti di farina. Al mulino veniva distribuito anche il riso che veniva coltivato nelle zone ma che era venduto all’estero con grande profitto. Alla gente del posto ne rimaneva poco ed era importante arrivare presto per non rischiare di rimanerne senza.

I figli della Mugnaia erano diventati amici di Maria e la sera si ritrovavano con lei ed altri ragazzetti della cascina vicina per farsi compagnia e rincorrere le lucciole.

Qualche volta si fermavano a cenare con loro; la madre li conosceva ad uno ad uno ed era lieta di offrire la cena per rivedere i propri figli contenti e per risentire nella casa il suono gaio delle giovani risa che si erano spente da quando il papà era partito richiamato per fare il soldato. Le davano ansia, sollievo, le facevano dimenticare per qualche ora la pena, la paura.

Le serate dell’estate erano lunghe e calde nella pianura; bisognava difendersi dalle zanzare e dalle faine che di notte facevano scempio nei pollai. Verso la fine della stagione, sull’ampia aia si adunavano tutte le donne della fattoria a spannocchiare il granoturco e Maria cercava di rendersi utile anche in questo lavoro che tuttavia era eccessivo per lei e che le procurava vesciche sulle mani, molto lente a guarire.

Allora passava il tempo aggirandosi intorno al gruppo delle madri, rincorrendo le lucciole cercando di imprigionarne qualcuna nello scatolino che portava sempre in tasca. Le madri si raccontavano ciò che sapevano sugli avvenimenti del giorno: ciò che aveva detto il prete, ciò che aveva detto la radio. Più raramente parlavano di una lettera ed allora in quel caso, nel silenzio, l’attenzione di tutte si faceva totale; saliva dalle donne sedute sull'aia a un’aria sinistra, un cupo incrociarsi 60

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di sguardi mentre Maria si accoccolava ad ascoltare riuscendo a distinguere soltanto, tra il frusciare delle foglie, il singhiozzo di qualcuno. I ragazzi le erano andati incontro un po’ spazientiti poiché era da molto che l’attendevano per andare insieme al fiume. Scesero per un sentiero e camminarono a lungo per più di due ore, attraversando campi coltivati e frutteti, in silenzio, scambiando qualche parola di tanto in tanto nella tacita consapevolezza di essere talmente conosciuti gli uni agli altri da sentirsi un tutt’uno compatto, unito. Uno dietro l’altro mettevano i piedi sulle orme di chi stava davanti ed avevano gli stessi pochi pensieri. Percorsero un lungo viale all'ombra di due filari di peschj che fiancheggiavano la strada e che facevano da confine a due poderi. I frutti erano insoliti ed essi ne raccolsero alcuni poiché crescevano selvatici e non appartenevano ad alcun podere.

Avevano la buccia verde e liscia e la polpa rosso scuro; il sapore era asprigno ma ai ragazzi piaceva e li avrebbe dissetati alla sera, sulla via del ritorno. Dai rami dei gelsi non staccarono neppure una bacca ma ne avrebbero raccolte con tanta voglia per il sapore molto dolce somigliante a quello delle more; sapevano che i frutti marcivano sugli alberi mentre le foglie servivano ai bachi da seta che se ne cibavano per produrre il prezioso filato in quella zona.

Senza fare altre soste proseguirono il loro cammino; ognuno di essi aveva in sé la paura: paura d’essere soli, paura dell’ignoto in un tempo in cui la guerra faceva sparire di casa le persone care Sentimento nascosto, celato nel profondo dell’animo, inconfessato per non turbare la consuetudine della quieta quotidianità che li sosteneva e permetteva loro di trascorrere in una apparenza di pace il tempo della adolescenza, nel bel mezzo di una guerra atroce la cui eco giungeva ogni giorno nelle loro case. Molti avevano lasciato la città e si erano rifugiati in paesi di campagna, cercando di salvare quanto era possibile dalla devastazione dei bombardamenti che quotidianamente avvenivano. Innanzitutto gli anziani ed i bambini e chi rimaneva in città per motivi di lavoro, doveva affrontare pericoli ad ogni uscita e ad ogni rientro.

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Alla domenica i più fortunati che ancora avevano un lavoro, raggiungevano le campagna con le biciclette per trascorrere qualche ora dí riposo lontano dalle bombe. Quando avvistavano in lontananza le sagome scure dei posti di blocco, si affrettavano a scendere dalla bicicletta per nascondersi dietro un piccolo argine di fosso, o tra gli arbusti che fiancheggiavano la strada. Due sorelline erano arrivate da qualche tempo nel loro paese, accompagnate dalla nonna. Originaria del meridione la donna, non ancora anziana, sapeva eseguire a mano vari tipi di pasta fresca che vendeva alle famiglie su loro ordinazione ogni giorno. L’anziana signora era divenuta cliente ed amica della madre di Maria, la mugnaia e riceveva in cambio del suo ambito lavoro, sacchi di farina per proseguire nella sua utile attività in un tempo in cui sul banco del panettiere non vi era più che pane scuro, fatto di strani ingredienti che non somigliavano affatto alla farina e la pasta era una cosa riservata ai pochi della città che la potevano comperare a “borsa nera” insieme con il sale. Anche questo alimento era quasi del tutto scomparso e veniva trovato soltanto nelle borse degli sciacalli ad alto prezzo.

La madre di Maria ovviamente, in cambio del lavoro, otteneva farina anche per figli che vivevano in città. Con la salsa di pomodoro e qualche zuppa di ceci si nutrivano ma mai a sufficienza. Molta gente si cibava unicamente dei frutti dell’orto e tutti erano magri ed ossuti.

Solo qualche uomo era panciuto di sua natura ma la fame la soffrivano tutti. Il problema dell’anoressia era cosa d’altro mondo, assolutamente sconosciuto. Era invece molto diffusa la tubercolosi per la malnutrizione e gli ambienti freddi, le tristi condizioni in cui tutti vivevano. Maria provava affezione per quella signora sempre vestita di nero; sapeva che non vestiva di nero per civetteria o per apparire più snella essendo grassoccia grazie alla pasta che produceva ogni giorno e della quale essa pure si cibava. stava ore ed ore sull’asse bianca ad allineare orecchiette e fuselli. Maria sapeva che era afflitta da lutti che oltre ad essere molto lunghi, nell’osservanza delle tradizioni dei suoi luoghi d’origine, non avevano intervalli a causa della guerra aveva che le aveva ucciso alcuni figli.

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Quasi atteso e all’improvviso, i ragazzi udirono lontano il temutissimo rombo di motori, da essi ben conosciuto; si guardarono sgomenti ma non si persero d’animo. Presero a correre tutti insieme velocissimi ed a grandi falcate, cercando di raggiungere il bosco, al di qua dell’argine del fiume, che si vedeva in lontananza. Con grande energia percorsero una lunga ed ampia curva raggiungendo un campo di grano ancora verde, ma sufficientemente cresciuto per poter nascondere e coprire i loro corpi.

Vi si buttarono faccia a terra, con le mani alte sulla nuca; poco dopo, pochi minuti soltanto, un intero stormo di aerei passava basso sopra di loro e, a distanza, si udirono subito ed alternate le scariche delle mitragliatrici. Il fiume al quale erano diretti era attraversato proprio in quella zona da un grande ponte di barche, molto importante per il trasporto delle merci tra le due province limitrofe.

La comitiva si trovò proprio nel mezzo di una operazione militare che strategicamente mirava a quel bersaglio e che, né i ragazzi e neppure la gente del paese, avrebbe potuto prevedere.

Stesi tra il grano stettero immobili per molti minuti senza far rumore; poi lentamente iniziarono a chiamarsi per nome ad uno ad uno, alzandosi piano. Si sorrisero, felici di essere vivi e di esserci tutti, cosa tutt’altro che ovvia. Proseguirono tenendosi per mano camminando con le gambe che tremavano; arrivarono tuttavia presto alla boscaglia che rada digradava e fiancheggiava il letto ampio del fiume. Il fondo sabbioso ed ombrato consentì loro di dare frescura ai piedi affaticati, nudi e graffiati dalla lunga camminata tra le erbe. L’acqua del fiume avrebbe adeguatamente lavato le ferite che ognuno di loro, già dal mattino, aveva sui piedi e nel cuore.

All’estremità del bosco, oltre l’argine, sul limite del grande alveo fluviale, al loro arrivo il sole alto aveva già arroventato la sabbia ed essi non poterono inoltrarsi fino alle acque, che pure scorrevano poco lontane. Dovettero fermarsi cercando di posare i piedi sui ciuffi d'erba sporgenti qua e là, senza lamentarsi per l’ispido e il duro delle foglie sottilmente spinose. Erano consci d’aver scampato “il grande pericolo” e non volevano sciupare la gioia con inutili lamenti.

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Ad un tratto, uno di loro vide lontano una sagoma scura che in controluce, sarebbe potuta sembrare un arbusto. Era invece un uomo accovacciato; il ragazzo lo capì vedendo che si muoveva. Lo additò ai compagni e tutti insieme si misero a gridare, a fare gesti con le braccia, a sventolare qualcosa per attirare la sua attenzione, affinché si accorgesse di loro. E quell’uomo si accorse di loro. La sagoma nera si era mossa verso i ragazzi raggiungendoli quasi di corsa e a fatica poiché sulla soffice sabbia i suoi piedi ad ogni passo affondavano.

Quando fu loro vicino, ai ragazzi parve un angelo, un papà, un prode guerriero coraggioso, capace di prenderli tutti in braccio portandoli al sicuro dicendo loro cose dolci e rassicuranti.

L’uomo aveva aperto la larga bocca scoprendo grandi denti gialli tra i quali ampie zone vuote denunciavano lrestirpazione di denti cariati e mai sostituiti. L'uomo bofonchiò qualche parola nel dialetto di quei luoghi cercando di mostrarsi premuroso. Promise che sarebbe tornato poco dopo per aiutarli a rinfrescarsi ed a riposarsi. Intimoriti all’idea che li lasciasse, lo guardarono allontanarsi rassicurandosi l’un l’altro, certi che non li avrebbe abbandonati sulle foglie spinose e sotto il sole cocente.

Tante volte si erano trovati sulla sabbia rovente ed avevano imparato a corre tra un ciuffo e l’altro dell’erba dura, tipica della vegetazione di questo greto di fiume. Ma quel giorno avevano avuto gli aerei sulla testa e il bombardamento vicinissimo. Erano tanto impauriti e la loro voce usciva tremante. Lo videro arrivare molto vicino all’acqua del fiume, in un punto in cui affioravano ampie secche di sabbia. Capirono che s’era messo a scavare velocemente una buca, muovendo le grandi mani che gettavano altrove manciate di sabbia scura. L’uomo scavò e scavò e dopo molto tempo ritornò dai ragazzi che se ne stavano con lacrime silenziose che scivolavano sulle guance. Egli si avvicinò rapido camminando su grandi calzari di cuoio e di legno che lo tenevano ben sollevato sopra la sabbia cocente e i ragazzi capirono che era intenzionato a trasferirli tutti, prendendoli in braccio uno alla volta, per portarli fino alla buca che aveva scavato. Non ne capirono il perché ma si affidarono tranquilli.

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Era una grande buca di forma rotonda, sufficientemente profonda da avere sul fondo un affioramento d’acqua del fiume. L’uomo si era premurato di rimuovere tutt’intorno lo strato di sabbia rovente per consentire una fresca seduta ai ragazzi che sistemò ad uno ad uno mettendoli a sedere in circolo, con le gambe penzolanti, all’interno di essa. I bambini immersero i loro piedini riarsi nella poca e fresca acqua, felici di avere tra loro la faccia scura e passa dell’uomo dagli occhi sporgenti e dai denti gialli. Ma egli voleva sistemarli meglio: li agguantò uno alla volta sotto le vesti con le mani lorde di sabbia e di brama, indugiando e strofinando l’innocenza della carne che aveva tra le mani ridacchiando con affettuosità volgare. Prese posto tra loro, con il capo all’altezza delle loro gambette appese, confondendosi tra loro, facendosi scudo dei loro corpi che lo celavano agli occhi di chiunque fosseaccidentalmente passato da quelle parti in quel momento. Egli sollevò Maria e se la mise a gambe aperte su di sé; la premette sulle spalle con movimenti concitati ed esperti schiacciandosela sul ventre per penetrarla con forza e velocità, continuando a trattenerla con le grandi mani nere lorde di sabbia bagnata e sotto gli occhi attoniti e sgomenti dei compagni.

Un urlo cancellò il mormorio dell’acqua che gorgogliava accanto; l’argine ripeté più volte l’eco di quel grido finendo in lontananza.

I piccoli si ritrovarono soli ed ancora increduli quando ancora vedevano l’uomo che si allontanava frettoloso sparendo nella boscaglia.

Presero la loro compagna per le ascelle e l’aiutarono ad arrivare all’acqua; la misero a sedere nel fiume e con le mani le buttarono manciate d’acqua trasparente e tiepida evitando di toccarla come a non volerla profanare. La lavarono, la consolarono con parole semplici quasi scherzose e la fecero asciugare al sole.

Muti ed atterriti si avviarono per fare ritorno alle loro case senza più riuscire a capire dove fossero i confini della guerra. Quel fatto cadde nell’oblio e nessuno ne fece mai parola. I piccoli avevano paura a parlarne, ancora di più dell’esperienza del bombardamento.

E l’energumeno non fu mai punito.

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Settimo classificato Motivazione: un inno alla vita che si rinnova tessuto intorno ad una vicenda minima che ogni giorno si ripete con luoghi e personaggi diversi.

“LA VITA ALLA FERMATA” di Catia Rogari Perugia

Elena ricordava tutto con perfetta lucidità... .

Aveva finito quella lunga e pesante giornata di lavoro, stanca ma felice, salì in macchina pregustandosi il rientro a casa, era sempre una gioia quando Mirko la stava aspettando e questa sera la gioia sarebbe stata doppia, già sapeva che lui le avrebbe fatto trovare tutto perfetto era molto premuroso e innamorato.

Scontato forse nelle sorprese, ma questo era un dettaglio che Elena non teneva nemmeno in considerazione, erano troppo piacevoli i momenti che passava in sua compagnia, sentiva il suo volto illuminato e il cuore sereno immaginandosi Mirko intento nel prepararle un bel bagno caldo, la cena semplice ma, come al solito gustosissima, la tavola minuziosamente apparecchiata...ancora due curve ed avrebbe potuto gustarsi tutto questo.

Lo schianto fu terribile, una macchina che percorreva contro mano la sua corsia la centrò in pieno; ai soccorritori le sue condizioni apparvero subito disperate, Elena non dava segno di vita, il verdetto fu drammatico: coma. Come era potuto succedere tutto questo a lui... .

Mirko guardava la sua Elena inerme nel letto d’ospedale, le macchine avevano preso il posto dei suoi organi vitali. Non riusciva a darsi pace, era già una settimana che consumava tutte le sue lacrime seduto vicino a lei. Nessuno riusciva a portarlo via, non avrebbe permesso che altri si sostituisse a lui, Elena era sua, era tutta la sua vita e se l’avesse perduta, niente per lui avrebbe più avuto un senso.

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Reduce dal fallimento del suo primo matrimonio, l’aveva incontrata nel momento più buio della sua vita, stava disintossicandosi dall’alcol e, proprio in quel centro di “Alcolisti anonimi” l’aveva incontrata, Elena era l’assistente della psicologa. Subito s’instaurò fra di loro una sorta d’empatia, Mirko usciva dagli incontri assolutamente sollevato, lei riusciva piano piano a frantumare il suo dolore e quel calore e senso di benessere che percepiva dopo ogni colloquio si trasformò irrimediabilmente in amore. Come dichiararsi a lei? Come poter vivere questo sentimento con la certezza di non trarne un’altra delusione, ora sarebbe stato troppo, il suo cuore non avrebbe retto.

Nulla però avviene per caso e molto spesso le sofferenze non sono altro che il mezzo per portarti a nuove felicità e la felicità aspettava proprio lui dietro l’angolo. Quella sera, dopo l’ennesima seduta, stava lentamente tornando a casa in preda ad un rimestio interno di sentimenti contrastanti, gustava il suono della voce di Elena che lo accarezzava dolcemente e allo stesso tempo provava paura mista a rabbia, come rilassarsi? Come trovare il coraggio di esternarle tutto il suo amore? Camminava così tutto assorto quando un colpo di clacson lo fece sobbalzare, si voltò e i suoi occhi incrociarono quelli di lei che con uno splendido sorriso lo invitò a salire in macchina, lo avrebbe accompagnato volentieri a casa.

Il suo cuore accelerò il battito, le gambe cominciarono a tremare, il suo io prese a rimproverarlo – Via Mirko sii uomo, queste sono reazioni da donna, calmati e vai. – Con un debole cenno d’assenso salì e, da quel momento la realtà riuscì a superare la fantasia, entrambi si sentirono trascinati dentro una stupenda favola a lieto fine.

Stava ricordando tutte queste cose a voce alta vicino a lei nella speranza che lo sentisse quando il primario entrò nella stanza e, distogliendolo dal suo dolore lo invitò a seguirlo nel suo ufficio: “Signor Mirko si sieda la prego, la cosa che stò per dirle è molto delicata, si rilassi e mi ascolti con attenzione” “sono qui dottore...pronto a tutto” “sapeva che la signora è alla terza settimana di gravidanza?”

Mirko si sentì mancare, non sapeva niente, avevano desiderato un fi67

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glio ma Elena non lo aveva ancora messo al corrente e, saperlo ora così, gli raggelò il cuore. “tuttavia Mirko, se vogliamo tirare fuori il positivo da questa situazione grottesca, posso affermare che in alcuni di questi casi estremi è stato possibile portare avanti la gravidanza e salvare il bambino...questo potrebbe essere uno di quelli.”

Una pugnalata lo avrebbe sicuramente sconvolto di meno, restò per qualche minuto come inebetito senza nessun potere di reazione poi come un’automa si alzò e andò verso la camera della sua donna e del suo bambino.

“La vita è crudele Elena, stavamo per avere tutto anche un bimbo al quale regalare tutto il nostro amore, la nostra felicità..in un momento tutto è sfumato...io non ti abbandonerò amore mio e fin quando ci sarà anche un filo di speranza io sarò qua e lotteremo insieme” Con la testa racchiusa tra le mani si sciolse in un pianto lungo ed accorato non potendo così vedere che anche gli occhi di Elena erano diventati lucidi e umidi.

Passarono le settimane e i mesi la sua dedizione alla compagna fu totale questo era il momento di credere nei miracoli e con speranza e fede raddoppiò i suoi sforzi lottando per l’avvenire di tutti e tre.

Si recava in ospedale e parlava con Elena e il bambino come se potessero sentirlo, si mostrava sereno, faceva progetti, raccontava storie, non poteva abbattersi, non ora, avevano bisogno di lui, avevano bisogno che il miracolo avvenisse. Come concordato con il medico allo scadere del settimo mese Elena sarebbe stata sottoposta a taglio cesareo e, se per il bambino le previsioni erano ottimistiche, per la madre la possibilità di sopravvivenza era molto ridotta, arrivò il giorno Mirko non sapeva a quale stato d’animo dare spazio, la gioia per la nascita del figlio amato o il dolore per la probabile perdita dell’adorata compagna. L’attesa fu snervante come conciliare gioia e dolore, finalmente la porta s’aprì, madre e figlio vicini gli passarono davanti e si, adesso il miracolo era necessario un bimbo aveva bisogno della sua mamma. L’indomani mattina su volontà di Mirko i medici posarono il bambino vicino vicino ad Elena, il piccino si agitò 68

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cominciando a piangere vicino l’orecchio della madre ed ecco che due lacrime cominciarono a scendere dagli occhi di Elena, aveva risposto, stava cominciando a reagire...ora si trattava solo di saper aspettare..l’amore aveva vinto. ...Ăˆ la vita che ci corre incontro e noi dobbiamo essere li alla fermata pronti ad abbracciarla...

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Ottavo classificato Motivazione: con il registro paradossale dell’apologo fantascientifico, l’autore intinge nell’inchiostro dell’ironia una penna di grande talento narrativo, costruendo con bravura tempi e modi della narrazione.

“IO C’ERO - 2022” di Matteo Comastri Bologna

Non ho molto tempo e lo devo fare di nascosto ma devo raccontare come è andata perchè io c’ero e, sfortunatamente, ci sono ancora.

Siamo rimasti in pochi, qualche migliaio, forse più, non saprei dirlo con precisione. Ci tengono in un posto segreto ma non ci fanno mancare nulla, solo che non possiamo andarcene.Praticamente una galera. Loro la chiamano la “Riserva”. Chi non ha retto la situazione, anni fa, si è suicidato. Si racconta giù alla mensa che un tale, un certo Morris, è riuscito a scappare. Io son qui dal primo giorno e vi posso assicurare che è impossibile scappare, perchè l’unico modo per andarsene è dentro una bara. Devo fare in fretta, tra poco toglieranno la luce poi la ridaranno solo tra otto ore. Ci alterano i cicli biologici per renderci “più produttivi”, dicono, otto ore ad una luce quasi accecante e otto al buio completo. Son quasi cieco, dopo questi anni, e a loro fa comodo così, per quel che gli servo.

Evitano i tentativi di fuga di noi poveri ciechi e possono abbassare la sorveglianza. Ma vedo ancora abbastanza bene da poter scrivere e prima che sia la fine, anche se non so a cosa e a chi servirà, voglio raccontare tutto. Me l’ha chiesto Anna e dice che è importante.

Questo è il mio ciclo libero, uno ogni quattro alternanze luce/buio, e posso fare quello che mi pare. Spero di fare in tempo.

Tutto ha avuto inizio quando alcuni studiosi dissero che nel 2012 sarebbe dovuto finire il mondo.

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Io c’ero e vi posso assicurare che non è finito nulla, siamo ancora qui che pestiamo la terra e la fuori le cose credo vadano ancora come un tempo. Il giorno segue sempre la notte e ci sono ancora i mari, le montagne e le pianure. Così come gli animali e le piante stanno ancora li come le ricordo io. L’unico cambiamento è stato l’effetto Solange. Era poco prima di natale ed ero in un bar che aspettavo il mio caffè. Un giorno come tantissimi altri. Pochi avventori in fila ad attendere di essere serviti. Il barista iniziò a starnutire, un attacco di raffreddore di quelli che tolgono il fiato, una raffica incontenibile finita la quale svenne. Credo sia iniziata così un po’ ovunque.

A breve tutto il bar starnutiva, un contagio anomalo ma rapidissimo.

Svennero quasi tutti, per pochi secondi, poi si rialzavano come nulla fosse. Mesi dopo lo chiamarono Effetto Solange.

Finchè ho potuto leggere i giornali, quando ero ancora libero, l’OSM, l’Osservatorio di Sicurezza Mondiale, diffuse le stime che oltre l’85% della popolazione era stata colpita e secondo me erano stime molto prudenti. Gli effetti non si videro subito, ci volle qualche tempo.

Ma nel giro di sei mesi da quel Natale del 2012, gli uomini della terra avevano perso completamente la loro virilità e le donne erano diventate ninfomani. Albert Solange, lo scienziato svizzero che per primo si occupò di questa cosa, in diretta mondiale descrisse i fatti come gli esiti di un’epidemia di un batterio alieno e sentenziò che non c’era rimedio: il 97% della popolazione mondiale, di li a poco, avrebbe perso i suoi caratteri sessuali e la specie, in meno di 50 anni, avrebbe rischiato l’estinzione. I governi furono ribaltati e le lesbiche andarono al potere un po’ ovunque. Erano le uniche che avevano giovato degli effetti del Solange e le uniche a mantenere un certo equilibrio psicofisico. Le donne eterosessuali, chiamate in seguito dai giornali le “cagne”, persa la capacità di procreare, in un primo momento, finchè ancora non erano stati trovati rimedi farmacologici, aggredivano gli uomini nei supermercati, negli uffici, per la strada. Le più disperate si strusciavano contro i pali dei cartelli stradali, si masturbavano in pubblico, svaligiavano le dispense da wrustel e pannocchie di mais.

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Un allevatore di cetrioli della bassa ferrarese diventò ricchissimo.

Per gli uomini, i “fuchi”, andò anche peggio. Persa la virilità, il potere, tutto, moltissimi iniziarono un’estenuante cura del corpo, ore ed ore di palestra, ciglia rifatte, depilazioni totali, creme ed oli per il corpo, abbronzature di dodici mesi, fioccarono gli abbonamenti verso riviste un tempo dedicate alle donne e ci fu un boom di impiegati nella moda. Si formarono anche governi ombra, governi paralleli a quelli ufficiali formati solo ed esclusivamente da fuchi, che però decidevano solamente le linee guida delle case di moda.

Il mio ultimo anno di libertà fu deliberato che per quella stagione tutti fossero vestiti di color pesca. Poi c’eravamo noi.

A noi l’effetto Solange non ci aveva toccato. Appena il 3% della popolazione mondiale alla quale le pulsioni sessuali ancora si funzionavano come un tempo. Qui dentro, nella riserva, ci definiamo i “normali”, ma la fuori è impossibile usare questa parola.

Sarebbe vilipendio, i governi dicono che siamo tutti “normali”, quindi non è corretto specificare. A parte distinguere “gli ultimi”.

Per tutti siamo “gli ultimi” e dove son rinchiuso da anni siamo “gli ultimi” rimasti sulla terra. Tutti uomini. Ci selezionarono in seguito alle richieste di alcune “cagne” facoltose che non si rassegnavano a rimedi farmacologici o fittizi e volevano disporre di autentici amanti in carne ed ossa, efficenti come un tempo. Lo chiamavano il “rimedio vintage”. Inizialmente qualcuno dei “normali” vide possibilità infinite nel ritrovarsi così desiderato e ricercato. Alcuni si presentarono spontaneamente a casa di quelle “cagne” che offrivano più denaro.

Non ne è sopravvissuto neppure uno, tutti stroncati da infarti per “rimedi vintage” troppo prolungati ed estenuanti, sopraffatti dalle cagne ninfomani. Poi si aprirono le banche del pene ma subito i governi decisero che le cose andavano regolamentate meglio, a loro favore, anche perchè il mercato del sesso diventò più ricco ed ambito di quello del petrolio. Istituirono la “riserva”. Convocarono tutta la popolazione maschile nelle vecchie caserme dismesse e la sottoposero ad esami clinici e alla terribile “cura Federigo”.

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Impossibile omettere un’erezione spontanea se sottoposti alla “cura Federigo”. Mi catturarono così. Dopo gli esami di routine, anche se avevo tentato di nascondermi depilandomi completamente e ungendomi come un’orata, presentandomi con i mocassini di velluto fucsia, una copia di Men’s Healts e il tascapane di Louis Vuitton, cedetti alla cura Federigo. La cura ti obbligava a cinque ore di filmati di Moana e Cicciolina, Eva Henger, Ramba, tutta la filmografia di Rocco Siffredi e Milly d’Abbraccio. E io ressi bene senza nessun cedimento fino a quando iniziò Banana Meccanica, di e con Maurizia Paradiso, proprio nel momento in cui lei sorseggia il latte più. Una incredibile erezione confutò il mio presunto stato di “fuco” e fui deportato qui nella riserva. Abbiamo le nostre stanzine, ci danno dei ricostituenti, ci fanno una visita medica alla settimana, ci alterano i ritmi in modo da consentirci di essere sempre pronti per le richieste delle clienti.

Non percepiamo nulla, noi dobbiamo solo curare al massimo la prestazione nel “rimedio vintage”.

A volte va bene, la cliente è ancora giovane ed affascinante.

Altre volte è una vera fatica anche solo avere un’erezione ma debbo ammettere che non ho mai avuto difficoltà eccessive.

Poi questa luce che va e viene, la cecità che avanza, i “cicli” di lavoro ai quali ci obbligano e i medicinali che ci danno, non guardo neppure più le facce delle clienti, eseguo rimedio dopo rimedio poi attendo il riposo. Sempre pronto ed efficente.

Ogni tanto qualcuno non regge i ritmi e non gli bastano le cure.

Qualcuno si è anche evirato. Siamo sempre meno. Mi è giunta voce che da qualche parte alcune donne “normali” si stanno riunendo e attraverso i vecchi depositi delle banche del seme provano a riprodursi per dare una speranza al pianeta.

Queste informazioni me le da la Resistenza, qualche “fuco” redento ed interessato alle sorti del pianeta assieme ad un paio di spie donne “normali” che son riuscite ad infiltrarsi nella Riserva e lavorano come secondine. Anche i governi sanno della Resistenza e dei suoi piani, sono molto interessati. Ci vedono la possibilità di dare un ricambio all’eccessiva mortalità nella Riserva.

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Io ci vedo solo un appiglio per scappare. Anna, la “normale” infiltrata come secondina, dovrebbe arrivare tra poco. È tutto pronto da mesi, ma ci hanno fatto saltare i piani già tre volte. Ma questa volta credo non sospettino nulla, così dice Anna. Speriamo. Dovrò far finta di essere morto, mi metteranno in una bara e mi porteranno fuori di qui. L’unico modo per scappare, come dicevo. Non controllerà nessuno, all’ultima visita medica son risultato gravemente malato. Anna ha alterato gli esiti. Credo sia il 2022, son passati quasi 10 anni da quando mi hanno preso. Ho perso il conto delle donne con le quali son stato, delle ore, forse mesi, dedicati al sesso. Sono quasi cieco, stanco, arrabbiato. Non so cosa mi aspetta, sarà dura. Anna mi ha dato dei vestiti che userò quando sarò libero.

Quest’anno va di moda il beige. Sempre meglio che il giallo.

Dovrò fingere di essere un fuco, per un certo periodo, ma a questo punto della mia vita, non mi interessa più niente, basta uscire da questa galera. Anna dice che sarà tutto diverso nella comunità della Resistenza. Faremo un mondo nuovo e lo faremo come piace a noi. È tutto deciso – dice Anna – manchi solo tu.

Contano molto su di me, per questo mi han chiesto di scrivere questo resoconto. Vogliono sapere tutto della riserva. Forse ne libereranno altri. Poi sono curioso pure io di sapere chi è questo famoso “inseminatore” di cui parla sempre Anna, questa figura che attendono tutti loro con ansia. Vedremo, so solo che sarà tutto diverso.

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Nono classificato Motivazione: la quotidianità dei fruitori di un mezzo pubblico viene restituita con un gusto surreale e paradossale non lontano dal registro comico.

“LA MACCHINETTA INFERNALE” di Piero Pini Brescia Obliteratrice. Da “obliterare: annullare un francobollo o un titolo di viaggio apponendovi un timbro”. Una marcatura con ora e data per affermare che quella azione è stata compiuta in quel preciso momento. Macchinetta obliteratrice. Sugli autobus, sulle corriere. Sì, obliteratrice: è così, perché così si chiama. Poi un nome così orrido se lo merita proprio: è fetente nello stesso modo. Quella fessura dove si infila il cartoncino sembra che dica: “Provaci pure, tanto decidoio cosa fare”. E infatti decide. Alta percentuale di tentativi a vuoto: visi sconvolti, adirati, preoccupati, gesti di rabbia, sdegno, tentativi goffi, gentili, violenti. Ma lei segue la sua strada. La presenza di una obliteratrice particolarmente carogna permette di osservare i propri simili alle prese con il problema. Si finge di leggere un libro alcuni posti oltre la macchinetta e, ad ogni fermata dell’autobus, si ha a disposizione almeno una mezza dozzina di soggetti destinati all’impari lotta.

Bisogna dire che i possessori di un abbonamento mensile hanno un solo contatto ogntrenta giorni con questo virus. Di conseguenza minima possibilità di venirne contagiati, elevate speranze di godere ottima salute e un’espressione notevolmente più tranquilla e rilassata.

Diversa la sorte dei miseri, dei semplici, di chi si trova in mano un biglietto da obliterare. Anzitutto, pur potendolo prevedere, non ci si aspetta che la macchinetta faccia i capricci; perché proprio di capricci si tratta. Non è che non funzioni o sia guasta (cosa peraltro giustificabilissima). No, va e non va, il suo piccolo occhio luminoso lampeggia fino all’arrivo dell’utente, poi decide di riposare.

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Pochi secondi, magari; ma sufficienti per scatenare il panico nel candidato al timbro, che si sente pienamente responsabile della coda che sta provocando a causa della sua apparente lentezza e incapacità, e si vede additato quasi come un sovversivo della “marcatura”. La cosa più semplice sarebbe dare una voce al conducente affinché, con qualcuno dei pulsantini del suo mega quadro di comando, sblocchi macchina e situazione. Ma, per qualche ragione o blocco psicologico, in autobus non si riesce a dire assolutamente nulla a voce alta. “Non funziona la macchinetta dei biglietti” (nessuno oserebbe mai chiamarla con il suo vero nome, ne andrebbe della propria dignità). È un urlo sussurrato. Non arriverà mai all’autista. Rimane un’affermazione per pochi intimi. Quelli distanti tra loro non più di trenta, quaranta centimetri. Ci si vergogna a essere lì e, per di più, messi alla berlina da una stupida macchina. Ma il problema va risolto, oltre che per una questione di principio, anche per il fatto che, a un eventuale controllo, l’indisponibilità dell’obliteratrice potrebbe venire a costare una bella multa.

Ed ecco allora che si rivela l’eroe. Il coraggio sopito nel nostro animo ha il sopravvento. Con una sortita controcorrente si raggiunge il posto di guida (in questo modo si può continuare a parlare sottovoce) e si espone il problema all’unico responsabile presente sul mezzo.

Due colpi svogliati e scontati su un interruttore e la macchina riparte.

Il biglietto che viene annullato, però, è della signora che era in seconda posizione nella coda di attesa e che ora guarda con aria di sufficienza il poveretto che, con notevole sforzo fisico e psicologico, ha cercato e trovato la soluzione del problema.

L’autobus, intanto, è ripartito. Clack, clack, due, tre biglietti timbrati e di nuovo riposo. L’autobus, intanto, si è rifermato. Altra gente sale.

Altra coda. Stesso problema. Questa volta è un pensionato, o almeno sembra tale, che, vista la situazione e probabilmente con una certa esperienza, sbotta con voce tonante il rituale monologo: “Si è incantata la cosa lì dei biglietti”. Un arpeggio di tasti del conducente e si riparte. Fermata. Dramma incombente e prevedibile. Sale una sola persona.

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Un donnone con tre, e non una o due, ma tre sporte stracolme di spesa Coop. Barcolla alla partenza dell’autobus, sistema le sporte a terra lungo il corridoio, apre la borsetta con le fibbie ben allacciate (non si sa mai...gli scippatori...) e, dopo una relativamente breve ricerca, estrae il biglietto. Tutto questo movimento permette di giungere ad una ulteriore fermata senza che la signora abbia ancora potuto concludere nulla. Il suo destino, già segnato e individuato da tutti i presenti che, con un sorrisetto satanico, aspettano di godersi la scena, sarà quello di trovarsi schiacciata tra la folla in salita, le sporte sul pavimento e l’obliteratrice in pausa pranzo.

Sì, è vero, ci si pregusta la scena: carogne come la macchinetta. Alcuni addirittura con la testa che sporge lungo il corridoio per non perdersi un solo fotogramma.

Ecco, ci siamo, mancano solamente pochi centimetri e la signora soccomberà, travolta dalle persone e dalla vergogna per la poca destrezza. Colpo di scena! Ben piantata su due enormi piedi sui quali appoggiano caviglie, polpacci e ginocchia delle stesse dimensioni, la donna ulula un paio di frasi che zittiscono tutta la corriera e fanno rientrare le teste dal corridoio.

Prima: “Che cos’ha da spingere, lei!? Non vede che sto facendo il biglietto?”. Seconda: “Autista, questa stramaledetta macchina non funziona; devo stare qui tutto il giorno? Ormai sono arrivata a casa. Se sale il controllore, la multa la paga lei!”.

E l’obliteratrice riparte per magia. Un paio di altre fermate passano senza danni. Ora è la volta dell’uomo timido, seguito a ruota dalla donna elegante. Al silenzio della macchina il timido entra in crisi.

Rivolta il biglietto in quattro posizioni: anteriore, posteriore, sopra e sotto. Quattro tentativi andati a vuoto.

Le teste rispuntano nel corridoio. La donna elegante lo osserva da vicino con il suo biglietto in mano, come a dire: “Tu non hai speranza. Il mio funzionerà”.

Con gli occhi bassi, ma senza perdere la sua posizione, il timido sibila la notizia del malfunzionamento al “guru” dell’autobus.

Tic, colpetto e biglietto fatto. L’ometto si rilassa, non cerca nemmeno 77

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un posto a sedere. È già contento così. La donna elegante fa volteggiare il cartoncino perfettamente liscio, senza neanche un angolo rovinato, prima di infilarlo nella fessura per dare la dimostrazione che capacità, eleganza e stile viaggiano sempre insieme. Tutto ciò prima di fare un’eclatante figuraccia quando la macchinetta glielo risputa fuori, oltretutto discretamente spiegazzato. Non proverebbe tanta vergogna nemmeno mostrando uno strappo nelle calze o se le fosse sfuggito, aprendo la bocca, un rutto. Un insulto del genere fatto alla sua persona così perfetta, così studiata per dare una certa immagine di sé, e per di più da una macchina che solo un secondo prima ha assecondato un essere insignificante come l’uomo timido, questo no, non può sopportarlo.

Senza un solo cambio di espressione, e soprattutto senza chiedere nessun aiuto, la donna elegante rimane, con il biglietto seminascosto tra le mani, nelle vicinanze dell’obliteratrice.

“Se non mi vuoi, non mi meriti” sembra dire. Ma in realtà è soltanto in attesa del prossimo disperato che riesca nel suo intento, sperando che la macchina, in quel caso, abbia almeno un secondo colpo in canna.

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Decimo classificato Motivazione: divertente racconto che vive su una trovata originale. Quando l’osservazione è condizionata dalla condizione dell’osservatore, ciò che appare reale non sempre lo è.

Una riflessione ontologica non priva di profondità.

“GIURASSICO” di Costantino Mori Ascoli Piceno Il barattolo era appoggiato sul tavolo in cucina. Conteneva marmellata di mirtilli andata a male. Compresi che l’oggetto si trovava lì apposta, con finalità accusatorie. Una prova indiziaria a mio carico. E il pubblico ministero era impersonato da mia moglie. Mary mi aspettava in piedi, l’anca puntellata allo stipite della porta, braccia conserte ed espressione seccata. La pianta del piede, impaziente, faceva su e giù col pavimento. Il mio apparire le suscitò una smorfia di contrarietà. Sospirai, socchiusi gli occhi, inclinando il capo da una parte.

Volevo evitare battibecchi ma il mio tentativo fallì miseramente. Secondo “l’accusa” non sussistevano dubbi: la marmellata si era guastata in virtù di qualche mia grave omissione. Litigammo. Oltre al malumore, la conseguenza immediata fu la decisione di scaricare sulle mie spalle la visita con nostro figlio Tommaso al museo paleoantropologico. “Andateci voi due, senza di me!”, sentenziò Mary, dopo avermi voltato le spalle. Solo queste parole. Inutile insistere. Avevo promesso a Tommaso di accompagnarlo, appena se ne fosse presentata occasione. Così, malgrado la stupenda giornata di sole, il bimbo scartò subito l’ipotesi amo-canne da pesca-lago. Dovevo onorare l’impegno. E basta. Un tipetto preciso, il mio Tommaso. Lo presi per mano, afferrai le chiavi ed uscii.

In auto, durante il tragitto fino al museo, Tommaso pronunciò sì e no qualche parola smozzicata. Era immusonito per via della madre.

Sembrava avercela con me anche lui.

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Per fortuna, nel momento in cui ebbe varcato la soglia del museo, la musica cambiò. In un solo colpo, egli parve recuperare buonumore e loquacità. Avevo quasi tirato un sospiro di sollievo: dopo tutto ero riuscito a raddrizzare una giornata iniziata sotto pessimi auspici. Poi accadde una cosa davvero strana, direi quasi inusitata.

Ricordo che stavamo attraversando il padiglione che più interessava Tommaso – quello degli animali antidiluviani – quando, d’improvviso, il tirannosauro cominciò a tremare e ad accartocciarsi su se stesso. Con un tuffo al cuore notai che il cranio crestato si muoveva scompostamente verso di noi. E, devo dire, che al solo pensiero di vedersi piombare addosso due mandibole così, c’è da restarci subito secchi. Il primo pensiero, quello che mi ha attraversato la mente in un lampo accecante, lo formulai più o meno in questi termini: come diavolo ho fatto a finire in un film di Spielberg?

Già, perché subito, istintivamente ho associato il moto improvviso del tirannosauro a Jurassic Park.

Tommaso mi aveva obbligato a vederlo in cassetta almeno una decina di volte. Il primo della serie, naturalmente. Il migliore, a suo insindacabile giudizio. Per cui eravamo entrambi già sufficientemente sensibilizzati nell’immaginario da aspettarci in qualche modo che la testa ischeletrita di un tirannosauro si muovesse davanti ai nostri occhi.

Lo ammetto, ci misi qualche secondo di troppo per scrollarmi di dosso questa suggestione.

Se Mary fosse stata lì con noi, avrebbe certamente saputo cosa fare.

Ma, come detto, all’ultimo momento per un puntiglio aveva rinunciato; io invece mi limitai a guardare frettolosamente intorno. E la cosa, a dire il vero, non fu di grande consolazione.

Decisamente questo sembrava il museo del paradosso e dell’assurdo.

Notai, infatti, un altro fatto insolito e perturbante: ora non era più soltanto la testa ad oscillare dalla nostra parte. L’intera, traballante struttura del dinosauro sembrava essersi messa scompostamente a ballare la rumba. Quel mostruoso intrico di ossa e giunture corrose dal tempo – che volenterosi paleontologi avevano raschiato via da qualche ghiacciaio siberiano – pencolava adesso spaventosamente da una parte all’altra sopra le nostre teste.

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Si sentiva pure una specie di sordo clangore provenire da una zona tra il bacino e le zampe. Per la seconda volta fui sopraffatto dal timore che il bestione fosse pervaso da un soprassalto di vitalità vecchio di milioni di anni. Ogni cosa aveva preso a tremare sotto il suo potente attacco: sempre più Godzilla, mi dissi in preda all’agitazione montante, e meno Jurassic Park! O forse entrambi i film messi insieme nella delirante immaginazione di qualche regista emergente di Hong Kong. Fu in quel momento che Tommaso voltò la testa verso di me.

E mi ritrovai addosso due occhi divenuti profondissimi come lo sgomento in cui era precipitato mio figlio.

“Maledizione”, fui quasi tentato d’esclamare per rivalsa. “Lo dicevo io che era meglio andare a pesca!”.

E l’idea di mio padre e dei pesci tornò a balenarmi per la mente facendomi sussultare di nostalgia per la mia infanzia perduta. Ma sorprendentemente fui io ad essere pescato.

Senza tanti complimenti, una mano possente mi artigliò la spalla.

Girai su me stesso ritrovandomi a fissare uno dei guardiani del museo che gesticolava freneticamente al mio indirizzo. Ad un tratto la mente si snebbiò e finalmente fui in grado di capire cosa stava dicendo quell’uomo in tono ipertrafelato.

Le parole mi esplosero nelle orecchie in un boato assordante ma liberatorio.

“Cosa fa lì impalato?! Non ha sentito l’allarme?! C’è il terremoto, bisogna evacuare il museo!

Andiamo, mi segua verso l’uscita d’emergenza!”.

Presi per mano Tommaso e ci mettemmo a correre come centometristi dietro il guardiano-lepre. Prima dell’uscita, lanciai un ultimo sguardo verso il padiglione maledetto: alle nostre spalle, lo scheletro del tirannosauro continuava a dimenarsi, torcendosi per lo sciame sismico, opponendo la sua debole infrastruttura alla forza primigenia del caos.

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Finalisti Poesia

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Primo Classificato DOMENICO LUISO Bari “Molte parole�

Molte parole udimmo lungo gli anni alcune come biglie le lanciammo contro ombre di sagome accampate tenaci in un inerte semicerchio altre le scagliammo contro il cielo senza ritorno perse chi sa dove di altre ci facemmo giocolieri e ci smarrimmo chiusi dentro i sogni molte parole le gridammo forte come fossero urli di macigni e sigillammo gli antri di paura molte parole ruvide dicemmo per lastricare viottoli scoscesi ai passi balbuzienti del cervello molte parole e ci perdemmo quella che era un sospiro a forma di bisbiglio umido e dolce come la tristezza.

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Secondo Classificato MARISA PROVENZANO Catanzaro “Portami con te”

Portami con te quando andrai nei campi tra viole e ginestre profumate nel calore del sole e tra refoli leggeri di vento che mormora in mezzo agli ulivi.

Portami con te lungo l’arenile e sentirai lo sciabordio dell’onda che accarezza di spuma la riva.

Portami con te nelle notti di luna a contemplare l’argento che s’adagia sul campanile della vecchia chiesa.

Portami con te quando vorrai ritrovare ancora attimi assenti ricordi fatti di teneri sorrisi e giochi innocenti di bambino.

Se poi vorrai ascoltare la mia voce la troverai nel silenzio del cuore e nei tuoi sogni io sarò presente e discreta accompagnerò il tuo cammino.

Finirà un giorno il tempo della vita ma tu potrai avermi in ogni ora tra profumi antichi o in mezzo ai fiori oltre l’immaginario arcobaleno a cavalcare assieme ancora un sogno e ad inseguire un aquilone.

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Terzo Classificato ex-aequo GIULIO DARIO GHEZZO Venezia “Come un presagio”

Pensieri spogliati scandiscono passi nelle pianure di un destino sospeso in un’illusione.

Voci smarrite sbriciolano parole nei solchi disegnati tra le spire del sogno, scherzi di parole che inciampano nel buio a beffare l’incerto, a carpire un sussurro, respiri d’ombra a raccogliere la notte tra incroci di sospiri.

Nei sentieri della solitudine ho inventato un nascondiglio per bere il silenzio, trafiggere l’attesa, vestire il pianto, come un presagio di speranza nella brezza di una lacrima asciugata da un bacio.

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Terzo Classificato ex-aequo GIULIANO FILIPPINI Perugia “Il pollaio democratico”

C’era ‘n pollaio, in cima la collina, ch’era un modello de organizzazione, col gallo che cantava ogni mattina e garantiva la riproduzione.

‘Sta situazione, ch’ era n’paradiso, durò finchè quel gallo ‘n fu ammalato che allora le galline, d’improvviso, tramarono per fa ‘n colpo de Stato. “È ora de finì sta dittatura, stà agli ordini del gallo è ‘na pazzia !

La forma de governo più sicura Pole esse solo la democrazia”.

Gridò ‘na chioccia sopra ‘no steccato e l’altre che la stavano ascoltando, e fu così formato un comitato volendo ognuna ‘n posto de comando.

Per primo fu creato il parlamento, poi vennero d’appresso nominati per dare a la struttura un complemento, ministri, senatori e deputati.

E per non scontentà le altre comari, che se sentivon già tagliate fòri, la volta fu dei sottosegretari, sindacalisti, sindaci e assessori.

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Col fatto che ‘sta gran rivoluzione Portava ‘na ventata de aria nova, tra ‘na assemblea, ‘na giunta e ‘na riunione, nessuna se metteva più a fa l’ova.

Così ce scapitò la produzione, al punto che arrivò ‘n brutto momento che visto ‘l calo d’utili, ‘l padrone, decise de troncà l’esperimento.

Pensò a ‘na conversione alimentare (perché magnà è la cosa più importante), violò l’immunità parlamentare e le fece a lo spiedo tutte quante.

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Quinto Classificato INES SCARPAROLO Vicenza “Sassi de cavesàgna”

Sassi che sponcia soto i pìe e rento i se intana co fa le vece storie che me contava ‘a mama.

Pière da i caldi colori, tera crèa che tra ‘e man la dresfa grovéji de emossion da tamisar dasiéto ‘tel periòlo del tenpo.

Marugolòti stranbi che se trasforma in face daromài desmentegà.

A ghe péstolo par sora e me figuro le cavesàgne de na volta co i cavài de i siòri che pin pian, tegnendo ‘l passo i ‘ndava.

E, da i busi de i so nasi se spandeva torno via selvàdeghi vapori che a mi me paréa coasi nìbie grise so ‘l canàe che soto casa coreva remèngo.

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Traduzione

Sassi che pungono sotto i piedi e dentro trovano riparo come le vecchie storie che mi raccontava la mamma.

Pietre dai caldi colori, argilla che tra le mani scioglie grovigli di emozioni da setacciare lentamente nell’imbuto del tempo.

Grossi sassi strani che si trasformano in volti ormai dimenticati.

Ci pesto sopra impaziente e mi immagino le capitagne di un tempo con i cavalli dei ricchi che piano piano, tenendo il passo andavano.

E, dalle loro nari si spandevano tutto attorno selvatici vapori che a me parevano quasi nebbie grigie sul fiume che sotto casa correva ramingo.

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Sesto Classificato ARMANDO BETTOZZI Roma “Le grida senza voce”

Sfocia, il dolore del mare, in tempesta e orrido uragano, e lo ulula e lo frange addosso alla scogliera, e impresso rimane in chi lo vede e ascolta, non come il grido muto di chi piange e alla finestra si trascina a cogliere uno sguardo...

Ma il mondo, fuori, ad altro è affaccendato: nessuno ascolta, o sa, o s’interessa, ché il male implode tra quelle mura intrise di dolore, e non esplode, e lor non tocca, e non si danno pena.

E è come il rocciator che perde appiglio e annaspa e non lo trova, e mentre cade, sa... e però non grida...a chi? Nessuno sente, nessuno è lì presente ad aiutare.

Forse il cielo, Dio, se ci badasse.

Verranno...dopo il lungo tonfo a valle, a prendere il suo corpo inanimato.

Così, grida il malato, senza urla, senza voce affatto, ormai disfatto dal male, dal dolore – disperato e conforto non ha di voce amica, di voce che lo inviti alla speranza, contro ogni fato e la rassegnazione.

Il mare s’è placato. Il male è ormai trascorso, e calmo si distende, e si riposa.

Non il malato: lui è sì, disteso, ma è solo rassegnato e solo; e in sofferenza 92

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s’avvia a quella fine del suo male che come è arrivato, sconosciuto, sconosciuto se ne andrà attraverso il corpo, freddo, per dare a qualcun altro la sciagura: martirio, pena, bastarda indifferenza, solitudine di chi non ha più voce, intriso di dolore e di paura.

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Settimo Classificato ALESSANDRA SANTI Pesaro “La memoria dell’acqua”

La memoria dell’acqua che sgorga dal sasso, ha memoria del tempo passato nel buio e nel freddo del ventre terrestre ? dei campi e dei prati più volte irrigati, dei fiumi e dei rivi nel mare approdati ?

La goccia ha memoria di ghiacci perenni o vapori celesti aggrumati nei nembi grigiastri ?

E di scrosci improvvisi o cadute leggere, ha memoria la stilla dell’acqua che sgorga dal sasso ?

Avrà mai ritrovato una goccia sorella che in un tempo passato ha percorso con lei un pezzetto di vita ?

E la goccia che bevo con la quale mi lavo, si ricorda di me, 94

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della pelle che avevo degli odori che usavo ?

Di rugiade splendenti e di brine gelate, di scroscianti cascate nei dirupi dei monti, e di rane cantanti nei placidi stagni di acque dormienti, si ricorda la goccia che ora bagna la roccia ?

E del fiore che ha dissetato, della coltre di neve gelata, della spiaggia assolata dall’onda bagnata, dell’ardente calore che l’ha vaporata e poi fatta salire nei cieli sereni e di nuovo lasciata cadere a bagnare la terra, ha memoria di questo la stilla dell’acqua che sgorga impaziente dal sasso?

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Ottavo Classificato DANILO SACCOCCIA “Autunno”

Assisi

Pietosamente stordita dal forte odore dei mosti ecco che sta morendo l’ultima foglia del melo.

Nono Classificato FRANCA FIORUCCI Perugia “In quel viale”

Ho visto la solitudine negli occhi d’un vecchio inabissato nel fogliame delle sue stagioni.

Ho tessuto chilometri d’asfalto cadendo e rialzandomi.

Ho sentito un cane abbaiare alla luna, ho ascoltato il vento parlare a sé stesso come vascello vagabondo.

In quel viale di giugno tutto il silenzio dei sassi in un diluvio di sole.

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Decimo Classificato ALESSIA PALAZZOLI “Dopo il temporale�

Perugia

Lasciato il cancello, un odore bagnato si mescola al tuo, un braccio allontana i pensieri del giorno.

Come da bimba, un maglione turchino, i capelli che giocano nell’aria pungente.

Nel bosco sembra stia ancora piovendo: le foglie che filtrano un sole sbiadito come un traforo, ricamo prezioso.

Le lacrime del cielo dissetan la terra.

Mentre ti fermi a guardar il mio viso, in te prende forma uno spirito antico che indomito sorge da ogni tempesta.

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Vincitori Narrativa Giovani

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Primo Classificato MARIANNA FATTI Perugia “La breve notte”

Cuore dannato! Cuore dannato! – gridava con quanto fiato aveva in gola contro il buio. Tutto l’odio e la rabbia rimbombarono contro i muri e si persero in un vortice di nebbia. Un cane abbaiò. E mentre il petto gli si alzava e abbassava spinto dal cuore furioso, lui comparve ancora come un improvviso fotogramma. I lunghi denti scintillarono ghignanti nella penombra untuosa.

Melanio amava Filomena. L’amava con tutto lo slancio dell’anima e del corpo. L’aveva vista ad una festa, e subito si era sentito avvinto da catene troppo strette.

In quel momento si era ricordato di tutte le donne che in situazioni simili gli erano cadute senza resistenza sulle labbra. E, giunto accanto a lei, non aveva saputo cosa fare.

Le aveva preso una ciocca di capelli e l’aveva lasciata scivolare lentamente fra le sue dita, senza che lei se ne accorgesse: era fresca e fluida come il vino. Poi lei si era voltata, il suo corpo si muoveva sensuale contro il petto di Melanio. Il viso di mattina primaverile incorniciato dalle onde dei capelli, le gote come frutti succosi da mordere sopra i denti bianchi.

– Ciao – le aveva detto in un orecchio Melanio. Sentì il profumo dei suoi capelli mentre affondava avidamente il viso in essi.

– Ciao! – aveva risposto lei toccandogli la spalla.

Poi lui aveva percorso il suo corpo, trovato il polso e l’aveva condotta fuori, senza che lei si opponesse.

Fuori, era rimasto a osservarla e a sentire le catene che si stringevano sempre di più e gli mozzavano il respiro; la notte aveva origliato i loro nomi sussurrati. Guardandola negli occhi chiari, aveva fatto per portarsi le sue braccia alle spalle e avvicinare le labbra alle sue; ma come il suo sospiro le aveva sfiorate, il viso della ragazza si era rab101

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buiato, si era tirata indietro e lui non aveva opposto la minima resistenza. Allora, era arrivato un ragazzo, alto e moro, che chiamava Filomena. – Prometeo- gli aveva risposto lei. – Cosa succede? – aveva chiesto Prometeo. – Nulla, salutavo un amico – , aveva sorriso lei vagamente imbarazzata. I due, poi, si erano allontanati Filomena aveva guardato Melanio oltre il braccio di Prometeo, come fosse stato solo un miraggio. Melanio, era rimasto in silenzio. Per minuti infiniti aveva pensato di portarla via con sé oltre il il cielo. Ora gliela portavano via e la notte era tornata solo buio e le stelle fuochi lontani.

Ma le catene non si erano più sciolte e Melanio non aveva desiderato che Filomena. Sua sorella Angela la conosceva, sapeva dove abitava, ed era riuscita a procurargli il suo numero di cellulare. Anche lei aveva visto il suo amore, perchè i suoi occhi e la sua voce erano diversi quando parlava di lei. La cercava in ogni ombra e in ogni sogno.

In molti essi, poi, Melanio aveva visto Prometeo morto, immaginato di sferzargli una sola, mortale pugnalata nel petto e veder scendere il suo sangue. E a quel punto, pensava, Filomena sarebbe stata libera.

– Fratello mio – gli aveva detto la sorella, quando aveva visto ombre troppo lunghe sotto i suoi occhi, non essere triste. L’hai vista e la ami. Non puoi levarti quella freccia dalla schiena. Ma vorresti davvero costringerla ad amarti? Pensi a cosa significherebbe costringere chi si ama a riamarti? Quella sì sarebbe una ferita troppo grande! Quindi ora, fratello, sana fin che puoi la tua ferita.

Angela aveva ragione, non sarebbe mai riuscito a costringere Filomena ad amarlo, come avrebbe potuto vedere il suo viso spento? Eppure, quella notte era certo che anche lei si fosse persa, per un solo attimo, nel mescolarsi dei loro respiri, un momento prima di un bacio che non c’era stato.

– Filomena, dimmi allora, ami davvero il tuo Prometeo? Se avessi solo una possibilità se potessi capire e vedere nel tuo cuore cosa provi! Oh Prometeo, come sei perfido – aveva sospirato un giorno il giovane mentre sedeva su una panchina in solitudine – come hai potuto rubarmi Filomena? Ma certo, tu non lo sapevi, non potevi 102

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sapere che la Fortuna l’avrebbe messa sulla mia strada. Ed è lei la vera malvagia, perchè pensava di rendermi felice facendomela incontrare. Ma la Fortuna non si ricorda mai ciò che ha fatto prima; non si ricordava di te, Prometeo. E allora, cosa ha fatto? Mi ha fatto vedere un qualcosa che non posso avere, ed ora è troppo tardi per rimediare. Prometeo, Prometeo! Dove sei? Voglio ucciderti, voglio affrontarti e vederti morire! Con la morte sola, mia o tua, si può dimenticare un ingiusto amore e trovarne un altro.

– Chi vorresti uccidere, giovanotto? – aveva detto una roca voce accanto a lui. Gli alberi frusciavano. – Un rivale terribile – aveva Melanio senza sollevare il viso dall’incavo delle mani. – Quanto vorrei vederlo morire! Mai ho desiderato la morte di qualcuno.

– Lo sai che l’assassinio è peccato mortale, vero? La tua anima va dritta all’Inferno, senza guardare il Padre Eterno. Vorresti rischiare la perdizione per...una donna?

Gli occhi plumbei dell’uomo che gli sedeva accanto avevano sorriso grandi e avidi come davanti ad un buon libro.

– Tu la ami davvero, ragazzo, giusto? Lo vedo dai tuoi occhi, dentro vedo sangue e passione. Se qualcuno, Melanio, ti dicesse che puoi avere Filomena, che rimarrà sempre con te? Potrebbe amarti incondizionatamente senza che tu versi una sola goccia di sangue o vedi una sola fiammella dell’Inferno. Io, Melanio, ti offro la possibilità di farlo.

Chi era quell’uomo e come sapeva il suo nome Melanio non se lo era chiesto. Qualcosa gli aveva detto che non voleva saperlo.

– Leggo nei tuoi occhi il dubbio, mio giovane amico – aveva detto con un sorriso l’uomo. Poi gli aveva cinto le spalle con un braccio.

–Ma non devi temere! Provo simpatia per te, e voglio solo aiutarti, senza inganni. Vedo e sento la tua sofferenza, e non è affatto giusto che tu, giovane come sei, soffri così. Ascoltami dunque.

– Ti ascolto, allora. Cosa devo fare?

– Tu ami Filomena perchè senti che è la tua metà. Ma come puoi esserne certo? Nella tua vita, non avrai incontrato, né incontrerai solo 103

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lei. Il cuore umano è scosso da forti monsoni che spesso cambiano direzione. Per provare a te stesso e a me, che la ami davvero sopra ogni altra, ti offro una notte intera, una sola, lunga notte, in cui ogni donna sarà tua. Chiunque vorrai, cadrà ai tuoi piedi, farà tutto per te, ti amerà senza condizionamenti; cederà come una margherita raccolta. – Allora non ho dubbi. La passerò tutta con Filomena.

L’uomo aveva riso – Quanto arde il tuo cuore! Ma come puoi sapere se la ami davvero? Non potrà esserci nessun altra donna che ami più di lei? Che desidererai più di lei? Se accetti la mia offerta potrai scoprirlo, perchè io non ti do limiti, a parte quello delle tenebre. Finchè il Sole non guarderà, non avrai confini, potrai andare dovunque nel globo con la semplice forza del tuo pensiero, ed avere tutte le donne che desideri. Tutte, incondizionatamente tue. E poi, la mattina seguente non avranno ricordo alcuno. Non è il sogno di ogni uomo?

Melanio aveva esitato – E non temere – continuò l’uomo – potrai avere Filomena. Perchè l’ultima donna che sceglierai, l’ultima donna che bacerai prima che il primo filo del primo sole sorga sul mondo dei mortali, sarà per sempre tua. Per sempre. Non si dimenticherà di te come le altre, ma ti amerà per tutta la vita con la stessa passione.

Melanio lo aveva guardato con gli occhi sgranati e ammirati: l’idea di avere Filomena per tutta la vita lo estasiava. Ma come poteva sapere se era davvero Filomena la donna che amava? Solo se, giacendo con altre, non avrebbe fatto che pensare a lei. Non voleva rischiare che lui, dopo averla costretta ad amarlo per sempre, l’avesse fatta soffrire con l’eterna indifferenza.

– Accetto – aveva detto infine Melanio. – Ma chi sei, tu?

L’uomo si era avvicinato per poi sospirare: – Mi chiamano Lucifero, perchè porto la speranza. L’orologio aveva scoccato le sei. Il Sole, finalmente, era calato oltre i palazzi e le case. Melanio non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare, ma sapeva che all’alba avrebbe avuto Filomena. – Mamma, Angela, devo uscire con i miei amici.

Non aspettatemi alzate. Uscì, prese la macchina e uscì dalla città.

Raggiunto un grande prato, parcheggiò è uscì dalla macchina. Rimase 104

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in piedi nella luce viola, indeciso sul da farsi. Poi, chiuse gli occhi, e pensò intensamente alla usa ex ragazza. Non si parlavano da almeno un anno. Le sue pupille si erano dilatate in una camera da letto ampia, dove una giovane donna dormiva in un grande letto. Lui si era spogliato e si coricato accanto a lei. La ragazza si avvinghiò a lui.

Si era rivestito, e rimasto in piedi. Aveva chiusi gli occhi, e pensato ad un’altra donna, una completa sconosciuta, che aveva vista quel giorno per strada.

Lei stava camminando per strada. Melanio le aveva preso la mano.

Lei si era lasciata condurre in un vicolo, e senza che pronunciasse la minima parola, lui assaporò il sapore delle sue labbra e del suo corpo.

Ancora, aveva pensato ad un’attrice famosa ed era già in un’assolata Beverly Hills, steso su un divano di broccato e aveva accanto a sé una delle donne più belle del mondo.

Si era spinto sempre oltre, pensava a donne sempre diverse e più improbabili: amiche che erano come sorelle, madri di suoi amici, sconosciute, ragazze che aveva desiderato intensamente per pochi minuti. Le baciava, le guardava cadere davanti alla sua volontà come burattini, le accarezzava, le spogliava, e poi, annoiato, si alzava in piedi e pensava ad un’altra donna.

Aveva scoperto che nel piacere concessogli riusciva quasi a dimenticarsi Filomena. Se prima era convinto di non riuscire a toccare nessun’altra donna se non lei, il primitivo piacere dell’amplesso quasi lo aveva stordito. Ma sempre, come un filo di ragnatela, rimaneva il pensiero luminoso di Filomena. Ognuna di queste donne non vale nulla, in confronto a te, Filomena. Ogni bacio che do loro è solo un’insulsa e indegna attesa e un’affannosa ricerca delle tue labbra, Filomena.

Quando aveva visto le stelle iniziare ad impallidire, aveva sorriso guardando il cielo prefigurandosi l’abbraccio finale. Allora fu seduto sul suo divano. Non doveva aspettare un attimo di più, basta, tutte quelle donne, cos’erano state? Tutte insignificanti. Il suo amore era provato.

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Sua sorella era entrata nella stanza: – Melanio? Dove sei stato?

Lui si era alzato e, con un sorriso come non lei ne aveva più visti da tempo, le aveva preso le mani: -Che importa? Tra poco l’avrò, tra poco avrò Filomena! Lei mi amerà. Per sempre!

– Che vuol dire? Cosa hai intenzione di fare? Non giocare col tuo cuore, fratello –.

– Non preoccuparti più. Io la avrò – Detto questo, le aveva preso la testa fra le mani e l’aveva baciata in fronte. Poi l’aveva guardata negli occhi: erano lucidi e adombrati da qualche terrore.

– Ora vado da lei- disse, ma Angela aveva tentato di trattenerlo. Con un delicato gesto, si era liberato e uscito di corsa.

Era felice, finalmente. Ma mentre camminava verso la casa di Filomena, gli era corso incontro un amico. – Cosa c’è, Giulio, amico mio?

– gli aveva chiesto. – Mia madre, mia madre!-aveva risposto lui. Stava piangendo. – Che è successo? – chiese ancora. – È morta! Mia madre è morta! Un infarto, non so cos’è accaduto!

Con una perfida pugnalata di vergogna allo stomaco, Melanio aveva pensato che sua madre era stata una donna bellissima. E che quella notte se ne era ricordato. Perchè era morta? L’occhio in quel momento aveva focalizzato cosa stava vedendo senza guardare: “Deceduta per malore durante la notte, nella sua villa a Beverly Hills, la famosa attrice vincitrice di 2 premi Oscar” recitavano i giornali appena scaricati, e accanto c’era una foto di una donna luminosa e sexy.

Un terrore sordo e pulsante lo aveva percorso. Una coincidenza?

Un’ambulanza era sfrecciata accanto a lui verso la fine della strada fermandosi poco più in là. Lasciando Giulio senza parole, era corso verso l’ambulanza: un capannello di persone stava raccolto attorno all’imboccatura di un vicolo. Lo aveva riconosciuto subito, lì aveva baciato la seconda ragazza di quella notte. Lei era distesa a terra, gli occhi spalancati, vitrei, una posizione composta di chi sta solo giocando, come una bambola. Poi, un paramedico arrivò e le chiuse gli occhi.Melanio tremava. Aveva creduto in nell’opportunità di Lucifero come la conferma del suo amore; era diventato un dissennato e per-

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verso gioco, senza che lui se ne fosse accorto. Si era portato le mani al viso, ed era corso via; avrebbe voluto strapparsi la carne dal viso, che aveva accettato un patto con Lucifero, troppo vigliacco per combattere per il suo amore.

– Cosa ho fatto per te, Filomena?

– Cuore dannato! Cuore dannato!- gridava ora. Era certo che lo stesse sentendo. – Tu ce l’hai un cuore?! Tu ce l’hai un cuore?! – gridò ancora.

Lui comparve davanti a lui distinguendosi in un vortice di nebbiolina, gli occhi sereni degli angeli: – Mio giovane amico, solo la Morte fa dimenticare l’Amore, l’hai detto tu. Tutte loro, ora non sanno più chi sei. Allora Melanio si rese conto che doveva andare da Filomena.

Alzò gli occhi al cielo: aveva ancora qualche minuto forse qualche stilla di notte. Doveva essere lei l’ultima.

Si figurò la casa della ragazza, e fu davanti al suo portone. Quello si aprì al minimo tocco. Oh, allora vuoi davvero aiutarmi, Notte!

Aspetta ancora un po’ allora. Salì le scale. La porta del suo appartamento era aperta. Entrò col cuore che pulsava in ogni vena e gli comprimeva persino i sensi. Pochi secondi, pochi secondi.

Giunse nel soggiorno, e non capì immediatamente. Vedeva ma non guardava. Filomena, era sul pavimento. Il suo corpo incastonato nella penombra era in una posizione innaturale, le braccia spalancate, le gambe nude, i capelli sciolti e arruffati. Il viso bianco era piegato leggermente all’indietro; la bocca semiaperta era secca e bianca, come di stoffa stropicciata. Da lì, usciva un filo rosso, scuro e denso, che formava fra i suoi capelli, una piccola polla, in cui confluiva il rivolo che scendeva da una grossa terribile, macchia rossa sul petto.

Melanio rimase immobile. Poi si ricordò dell’aurora, e allora, sperando di ingannare il tempo e il diavolo, corse su quel corpo, carezzò quei capelli e baciò quella bocca, più e più volte, bagnandola di lacrime. Ma nulla si muoveva nel silenzio mattutino.

Tutte, tutte loro ma non lei, si disse. Alzò la testa e fra le lacrime vide una figura: – Angela! Che ci fai qui? Chi ha fatto questo?

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Angela era in piedi nell’ombra, lo sguardo fisso su di lui, anche lei i capelli arruffati e il vestito macchiato di rosso. Stretto in mano come un gioiello prezioso, teneva un coltello gocciolante.

Melanio si alzò e si avvicinò a lei: – Sei stata tu? Tu l’hai uccisa?

Nessuna risposta, solo uno sguardo fisso e un respiro affannoso sulla sua bocca. Melanio gridò e ringhiò insieme, diede un pugno alla parete. Tornò da Filomena e la baciò ancora. Poi saltò verso Angela, le prese il coltello di mano e glielo portò alla gola, senza che lei si opponesse.

– Perchè l’hai fatto, sorella mia? Perchè? Dimmelo o ti ucciderò con la stessa lama!

Lei allora scoppiò in lacrime, ma non parevano lacrime di disperazione, ma di chi ha ritrovato qualcuno che da tempo non vedeva.

– Perchè io ti amo! Ti amo, ma tu amavi lei! Non potevo permettere che te ne andassi da lei. Lei non poteva averti. E se tu non mi ami, allora sì, uccidimi con quel coltello, ora, o ricambiami come tu amavi lei. Ora è solo carne e sangue.

Melanio lasciò cadere il coltello, perchè Angela gli gettò le braccia al collo e tentò di baciarlo sulle labbra. Lui la schivò, le fermò le braccia.

– Ho mantenuto la mia promessa - una voce profonda si era svegliata dalla penombra. Lucifero sorrideva.

Melanio vide di fronte a se la fronte alta di Angela. L’aveva baciata.

Il sole non aveva aspettato, e lei era legata a lui, più di quanto lo fosse una sorella. Con la morte, aveva cercato di ottenere il suo novo amore. Melanio guardò negli occhi Angela. Le sfilò di mano il coltello, e la sua lama corse lungo la carne.

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Secondo Classificato ANDREA GUELFI Perugia “Il falco e il veggente”

Ricordo bene quel giorno. Se chiudo gli occhi mi ritorna ancora in mente la stanza buia e fredda dove io e mia madre Ismene eravamo stati rinchiusi. Poi, dopo tre giorni di silenzio, lo schianto della porta.

La luce che veniva da fuori della cella mi frastornò per un attimo.

Pochi istanti dopo, un uomo vestito con una cotta di maglia e una spada al fianco entrò. “Alzati” mi ordinò secco. “Che volete farci?” chiese mia madre e nella penombra sentii le sue mani stringermi a sé. “Taci, donna – la zittì lui – II re vuole solo il ragazzo”. La presa di mia madre si fece più forte mentre gridava: “Merlino?! No! Non ve lo permetto!” ma l'uomo armato non volle sentire ragioni e mi strappò dalle sue braccia, portandomi via. “Aspettate, aspettate!”!implorò nuovamente, ma la porta era già chiusa davanti a lei. Serrandomi la spalla in una morsa d'acciaio, il soldato iniziò a percorrere corridoi e scale illuminati dalla luce del giorno che si faceva strada dalle feritoie nelle mura. Vedendomi impallidito e silenzioso, l'uomo armato disse: “Tranquillo, piccolo stregone. Re Vortigern vuole solo parlarti”. “E poi?” domandai. Avevo nove anni, allora, ma non ero uno stupido. Sapevo che il re non ci avrebbe mai fatto portare nel suo castello soltanto per parlarmi.

Quello che non capivo era il perché. Mi chiusi dietro un muro di silenzio che il soldato non cercò di superare, finché non arrivammo davanti ad una massiccia porta di quercia sorvegliata da due uomini in armatura leggera. A un cenno dell’uomo che mi aveva scortato, i due aprirono la soglia imponente e soldato mi spintonò dentro. Vortigern sedeva su uno scranno intagliato nel legno, con l’aria di chi aspetta impazientemente qualcosa. Bastò un’occhiata al suo volto per capire perché venisse chiamato il’falco: occhi grigi venati di rosso, naso aquilino e una folta criniera di capelli brizzolati.

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Correva voce che fosse pazzo, e il suo sguardo pungente e iniettato di sangue non faceva che confermarmi quella diceria. “È lui?” inquisì scrutandomi sospettoso. Il soldato annui, mettendosi sull'attenti. “Sì mio signore. L’abbiamo trovato a Parven, vicino all’Isola del Diavolo.

Dalla descrizione che ci hanno dato, non può essere che lui”. Vortigern unì le punte delle dita con aria soddisfatta. “Bene. Puoi andare, Kay” e il soldato uscì. “Tu devi essere...”. “Merlino” completai io.

Vortigern si alzò dal trono e facendomi segno con la mano si diresse a una piccola vetrata. Con passo incerto lo raggiunsi, e quando mi strinse la spalla con una presa salda ma incerta sorrisi. Ha paura di me, pensai trionfante. “E così, sei un veggente” iniziò lui. Non risposi: tutto era iniziato con quelle visioni. Sogni durante la notte, solitamente. Non c’era voluto molto perché la notizia si diffondesse e con lei la paura; per le mie visioni che ogni volta si rivelavano veritiere e per me, che ero diventato il bambino della sventura... .

Nella mia testa potevo immaginare le voci che circolavano sul mio conto:“È pericoloso!”.

“Sua madre, poi...Dicono che è una strega”.

“Non c’è da stupirsi che abbia quello sguardo. È figlio del demonio, ecco cosa”. Evidentemente qualcuno doveva averle ascoltate attentamente e riferite al re. Vortigern mi strappò dal flusso di pensieri. “Ti ho chiamato qui perché voglio che tu abbia una visione per me”. Avere?

No! Non era così che funzionava. Lo sapevo bene: non ero io a chiamare quei sogni durante la notte, erano loro a venire da me.

“Perché vi serve...una visone?” chiesi. Vortigern lasciò andare la mia spalla e indicò una collinetta fuori dalla vetrata. “Le vedi quelle pietre?” mi disse. Feci sì con la testa: sul piccolo poggio si trovavano numerose pietre squadrate, la gran parte formava la base di una torre.

“Sotto quella terra c’è la tomba di mio padre. Un grand’uomo ...” spiegò. Da quel che raccontavano gli anziani del villaggio, Ulrich, il padre di Vortigern, si era distinto solo per aver provocato numerose guerre con i regni vicini. “Ho voluto innalzare questa torre per ricordarlo e per proteggere la sua tomba”. “Non capisco cosa c’entri 110

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tutto questo con me” sbottai involontariamente. Gli occhi da falco puntarono minacciosi contro la mia testa ma la voce del re rimase calma”. Ogni volta che ho fatto innalzare questa torre, le mura sono crollate: sempre. “Quando mi sono rivolto a dei saggi di corte loro mi hanno suggerito di mischiare alla malta sangue di innocenti senza padre”. Di bambini! gridò la mia coscienza. Ecco perché ultimamente correvano voci di misteriose sparizioni. Era stato lui, dunque. “Ho messo in atto il consiglio: ventuno bambini sono stati catturati e il loro sangue è stato gettato nella malta ma...non è servito a niente.

Ti ho mandato a cercare per questo, Merlino. Voglio sapere da te cosa devo fare perché il bastione sopra la tomba di mio padre non crolli”. Mentre Vortigern parlava mi resi conto di due cose. La prima era che non provava alcun rimorso per ciò che aveva fatto. Ventuno vite innocenti erano state recise come erbacce in un giardino per la follia di un uomo solo. E per cosa, poi? Per commemorare un sovrano la cui cupidigia non era minore a quella del figlio. La seconda: se la visione che lui pretendeva si fosse rivelata futile avrei fatto la stessa fine dei saggi di corte che, lo sapevo, erano stati puniti senza mezzi termini. “Allora?”. Non era una richiesta, ma un ordine. Deglutii in preda alla paura. Per un attimo pensai alla mia prima visione, quella che aveva dato il via alla catena: un agnello si avventurava nelle acque oscure di uno specchio d’acqua per poi annegare, belando disperato. L’agnello si rivelò essere Garo, uno dei ragazzi di Parven, che si era avventurato nelle acque troppo profonde del lago davanti al villaggio. Non so se fu la paura, ma per un attimo vidi una polla.

L’acqua bolliva sollevando nuvole di vapore verso la volta di una grotta sotterranea. Ad un tratto due teste di draghi, l’uno rosso e l’altro azzurro, emersero dall’acqua avvinghiandosi e eruttando fiamme a vicenda... . Quasi non mi accorsi di essere caduto a terra. Quando aprii gli occhi, Vortigern era sopra di me, gli occhi grigi fissi nei miei.

“Cosa è successo?” domandò. Delle guardie entrarono nella stanza, evidentemente fatte accorrere dal re. “Ho...ho visto qualcosa” riuscii a dire. “C – come?”. La voce di Vortigern era incredula. “Sì! – escla111

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mai alzandomi in piedi, le gambe ancora tremolanti – sotto la tomba c’è un piccolo lago!”. Gli uomini si guardarono stupiti l’un l’altro. “È così! E lì si trovano due draghi che lanciano fiamme. Ecco perché la torre crolla: è ìl loro fuoco a far tremare la terra”. Vortigern si passò la mano sulla mascella con aria assorta. “Voi – disse rivolto a due guardie – cercate degli operai, non importa chi, e scavate. Se quel che dice il ragazzo è vero...”. Non terminò mai quella frase. Gli scavi a ritmo intensivo durarono una settimana finché un uomo sulla quarantina affondò la pala nel terreno e un getto di acqua rovente schizzò verso l’alto. Vortigern avrebbe voluto che si scavasse di più, ma nessuno ebbe il coraggio di arrivare al ‘lago dei draghi’. Del resto, conclusero molti, che cos’altro avrebbe potuto rendere l’acqua così calda? Così, se ci fossero realmente dei draghi sotto quella collina, rimase un misteroVortigern ordinò che fosse preparata una stanza per me mia madre e cercò un maestro perché imparassi a leggere e scrivere. Una volta raggiunta la maturità, sarei stato io il suo unico consigliere. Non sapendo come reagire alla sua follia, accettai. Avrei dato buoni consigli: troppo dolore, troppe morti innocenti erano stato causati da Vortigern. Mia madre fu liberata il giorno della fine degli scavi. Appena mi vide le andai incontro, lasciandomi stringere da lei. Le raccontai tutto, naturalmente. Lei ascoltò ogni parola fino a che non giunse l’ora di andare a dormire. “Dormi bene, piccolo eroe” mi sussurrò e spense la candela.

Quella notte sognai un ragazzo. Capelli rosso fuoco, occhi castani e uno sguardo fiero. Si dirigeva verso un masso coperto di muschio dove confitta, saldamente, si ergeva una spada. Il ragazzo prese l’elsa con due mani e senza sforzo la estrasse levandola al cielo. Non sapevo ancora chi fosse quel ragazzo ma sentivo che avrebbe portato aria nuova in Britannia. Sì, l’avrebbe fatto.

Ma questa è un’altra storia... .

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Terzo Classificato ALICE CASAGRANDE MORETTI Perugia “Circo Baluardi”

La folla era tutta rivolta con gli occhi verso il cielo. Trepidante attendeva il gran balzo finale. Beatrice respirava forte mentre già pregustava gli applausi e le ovazioni della sua discesa. Era sicura di ciò che faceva, non riusciva nemmeno a ricordare quante altre volte aveva già compiuto quell’impresa. La vita cominciava ad annoiarla.

L’odore appiccicaticcio dei pop-corn spiaccicati sotto le suole delle scarpe le dava la nausea. Le ricordava la sua infanzia quando, sudicia, sgattaiolava tra le gonne delle signorone e scansava i pesanti scarponi dei bellimbusti. Fino all’età dei sette anni quella vita le era sempre piaciuta. Non dovere andare a scuola, rimanere alzata fino a tardi intorno ai falò, dormire ogni sera in una città diversa.

Poi, un giorno sua sorella si era innamorata. Aveva conosciuto un bel tipo distinto e anche lui era innamorato di lei, o almeno così dicevano. Se n’era andata.

Così lei, una povera bambina di sette anni appena, era stata costretta ad occupare il posto di sua sorella, lassù, in cima alle corde.

Si era allenata ed impegnata fino allo sfinimento e nulla importava delle bruciature su mani e piedi, delle cadute che le rovinavano la schiena del puzzo del pavimento quando sbatteva il viso in terra. In breve era diventata la più brava equilibrista di tutti i tempi.

Era un angelo che volava sospesa tra i nastri. Come una farfalla che si libera elegante dal bozzo. Ma lei non si era ancora liberata dal suo.

All’età di tredici anni capì sua sorella.

Desiderò anche lei di fuggire, di trovare un uomo che l’amasse o che almeno facesse finta, desiderò di morire e di lasciare per sempre questo mondo. Per la prima volta vacillò. Allentò la presa sui nastri e si lasciò trascinare fino a terra, fermandosi appena un secondo prima dello schianto.

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Diventò il suo numero migliore. Si trasferì in un altro circo, e in un altro e un altro ancora, ma niente riusciva a placarla. Solo lì, ad un centimetro dal luccicante pavimento di moquette quando poteva sentirne l’acro sapore sotto la lingua. Lì, era libera. Quella sera, appesa a venti metri sopra una platea scalpitante che, come un oracolo pretendeva di conoscere il suo destino, Beatrice sorrise alla vita, certa che alla fine qualcosa avrebbe colmato il suo vuoto.

Quella sera la luna splendeva più del solito illuminando il grande tendone scintillante e il ragazzo sembrava urlare più forte le meraviglie del “Circo Baluardi”. Quella sera qualcosa andò storto e il corpo di Beatrice inzuppò la luccicante moquette.Filippo si aggirava contrito per casa. La sua vita gli faceva schifo, lui si faceva schifo, perfino il cactus che gli aveva regalato sua zia gli faceva schifo.

Si accasciò sul divano. Aveva la pancetta, le gambe molli e una barbetta spelacchiata che non tagliava da quattro giorni, cioè da quando aveva cominciato a non uscire più da casa e a mangiare solo patatine confezionate. Ripensandoci si faceva ancora più schifo.

Alessia lo aveva lasciato e con lei la speranza di una serena vita futura.

Aveva seriamente pensato di sposarla. Pensava già di trasferirsi in una casa più grande, con un bel giardino dove far giocare i bambini e un terrazzo per guardare le stelle.

Lei non la pensava allo stesso modo. O meglio: aveva gli stessi progetti, ma non con Filippo. Voleva un vero uomo, qualcuno che la proteggesse e la coccolasse come una principessa. Aspettava che qualcuno le regalasse fiori, non i cactus della zia.

Filippo si consolava nell'idea che lei avesse trovato ciò che si meritava.

Un maschilista convinto che le aveva anche fatto lasciare gli studi per sfornare torte e bambini con la stessa facilità. Fortunatamente Alessia non era una buona cuoca. Sentì la chiave girare nella toppa.

Bice, la sua coinquilina, stava tornando dal lavoro e lui doveva inventare in fretta una scusa per giustificare il suo ozio. Non ne trovò.

Lei non gli avrebbe creduto in ogni caso. Continuò a guardare la televisione. Il bombardamento d’immagini che seguì gli fece credere 114

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che la soluzione a tutti i suoi problemi distasse una semplice telefonata. Poteva essere una coperta che si riscaldava da sola, una serie di pesi graduati oppure tutta la collezione dei Bee-Gees. Ma niente poteva colmare il vuoto insaziabile che la perdita di Alessia aveva lasciato nelle sue false speranze. Neanche una cena cinese.

Fortunatamente Bice era con lui, era la sua migliore amica e lo sosteneva sempre, anche quando non c’era ragione di farlo.

La ragazza provò ad intrattenere una conversazione con lui ma tutti i suoi sforzi restarono vani.

Lo trascinò in bagno e senza tanti preamboli lo gettò sotto la doccia ancora vestito con la promessa di una serata memorabile.

Filippo rassegnato cominciò prima a spogliarsi e poi a lavarsi senza spostarsi di un centimetro. Non era proprio dell’umore per uscire, voleva starsene ancora nella sua bat-caverna ma non aveva la forza di contraddire Bice. La verità era che gli faceva paura. Tanta paura.

I flash si susseguivano, uno dopo l’altro. Contavano, osservavano, pesavano ogni minimo particolare del corpo adagiato in terra.

Nessuno si era mosso. Tutti erano rimasti con il fiato sospeso quando elegantemente era precipitata al suolo. Le corde, cadute con lei, le erano rimaste accartocciate sopra, come a non volerla lasciare neanche alla fine. Suicidio, dicevano. Qualcuno giurava di averla vista sorridere nella discesa. La polizia aveva un’altra idea.

Erano arrivati in due. Uno distinto, alto, con un pronunciato pizzetto e un lieve accenno di pancetta. L’altro più sottile, vispo e armato di taccuino. “Credo mio esimio collega che potremmo trovarci di fronte ad un classico caso di sabotaggio!” Disse il primo.

“Aveva per caso qualche nemico? “Gli fece eco il secondo “Qualcuno che poteva desiderare la sua morte?”

“Dovremmo interrogare tutti i presenti, i colleghi, gli spettatori. Perfino l’elefante se necessario – rispose l’altro cominciando ad aggirarsi intorno alla mal capitata. “La vittima in questione, nome di battesimo Beatrice Carnevali, pare intrecciasse una relazione amorosa con il domatore di leoni, tale Umberto, il quale non sembra particolarmente 115

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turbato dall’accaduto.” Lo smilzo sfogliò il taccuino.” Testimoni dicono di averli visti litigare qualche ora prima della spettacolo. E cito: Egli le sventolava un plico di fogli giallastri sotto il naso. Sbraitava e usava parole poco gentili ma il senso del discorso mi restò incomprensibile.”

“Dunque pare le coppia abbia discusso riguardo a dei misteriosi fogli giallastri. Lettere d’amore? Appunti segreti? Bollette della luce? Presumo esimio collega che dovremmo fare una lunga ed attenta chiacchierata con il famoso domatore di leoni. Speriamo non ci aizzi contro le bestie. “Fece per allontanarsi quando l’altro lo bloccò. Ho appena scorto un appunto molto interessante. I colleghi della ragazza ci riportano che questo pomeriggio ha incontrato la sorella, Bluminda Carnevali, la quale era assente da molto tempo e che non vedeva da quasi venti anni. Potrebbe forse essere interessante rintracciarla e chiederle qualche informazione al fine di ricostruire l’ultimo giorno della vittima.”

“Esimio collega” “gli rispose l’altro” in vero siamo qui per risolvere un caso di omicidio e non per raccogliere le vicende di una pur sempre sfortunata ragazza. La sorella non ci sarà utile in nessun caso.

I due si allontanarono dal corpo e dirigendosi in direzioni opposte cominciarono ad interrogare i testimoni.

Il domatore di leoni era, a parer di tutti, il più buono e gentile degli uomini. Aveva conosciuto Beatrice appena arrivata al circo, l’aveva aiutata ad ambientarsi, a proseguire gli allenamenti e tra un filo e l’altro era nato l’amore. A quanto diceva lui l’aveva sempre sostenuta, nonostante il carattere bisbetico ed altalenante della ragazza la quale era perennemente esposta a crisi di nervi. Litigavano spesso ma tutto si risolveva in breve tempo. Vivevano e lavoravano sotto lo stesso tetto da quasi cinque anni. Si amavano è vero, ma proprio quella mattina egli aveva scoperto un plico di carte segrete nella valigia della vittima, la quale gliele aveva sottratte prima che lui riuscisse a capire di cosa si trattasse. A quanto ne sapeva erano una serie interminabile di lettere inviatele da qualcuno che lei voleva tenere nascosto. La di116

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scussione si era conclusa lì. Mentre uno dei due poliziotti svolgeva l’interrogatorio l’altro esaminò con più attenzione l’ambiente.

Tutto sembrava in ordine ma uno strano rumore, quasi un miagolio, catturò la sua attenzione. Scostò le tende e con passo felpato si diresse verso il retro da dove sentiva provenire quel suono.

Attraversò lentamente e con fare circospetto lo spiazzo che si erigeva di fronte a lui. Scansò un’altra tenda e si ritrovò in un’altra parte del tendone dove file e file di gabbie rinchiudevano animali avviliti.

La stanza non era illuminata e le luci esterne cominciavano già ad affievolirsi. Tuttavia superate le zebre e gli alpaca riuscì a scorgere una figura china su se stessa che piangeva sommessamente.

Si avvicinò piano e senza fare rumore cercò di inquadrare meglio la situazione. Era sicuramente un uomo, sulla trentina capelli corti, scuri, fisico atletico. Era chinato sulle ginocchia e nelle mani stringeva qualcosa di lucente, probabilmente un ciondolo. L’ispettore fece qualche passo indietro e cominciò a parlare: “Mi scusi...” . L’uomo si alzò di colpo e brandendo un minuscolo coltello fece un piccolo balzo verso l’altro puntandogli l’arma contro.

Dai suoi occhi uscivano copiose lacrime. Il poliziotto alzò istintivamente le mani e si spostò ancora di qualche passo. Poi, tranquillamente, gettò la pistola in terra e invitò l’altro a fare altrettanto.

L’uomo non rispose. I due si avvicinarono, lentamente, come due bestie che si scrutano prima di sbranarsi a vicenda. Ma questa volta nessuno dei due avrebbe fatto il primo passo e questo l’ispettore lo sapeva. Filippo e Bice erano appena usciti da casa quando un temporale estivo li sorprese, soli e senza neanche un ombrello. Sembrava la giusta conclusione di una pessima giornata, nonché di una pessima settimana. Tuttavia se per Filippo questo poteva essere un valido pretesto per tornarsene a casa sul divano e continuare coni suoi acquisti telefonici non lo era altrettanto per Bice.

Gli aveva promesso una serata memorabile e effettivamente quella avrebbero avuto se fossero riusciti a trovare un taxi o qualcos'altro che li avesse riportati in centro senza chiedergli di dover fare un 117

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mutuo. Si riparano sotto la pensilina di un negozio di fiori e mentre la ragazza faceva lavorare il suo cervello alla ricerca di qualcosa di divertente in quello sperduto angolo di periferia, Filippo era altrove.

Fantasticava sui mirabolanti viaggi che aveva pensato di fare con Alessia, sul suo sorriso, sui suoi capelli, su quanto fosse bella quando pioveva. Poi si ricordò che lei non era più nella sua vita e che era stata sostituita da cene da asporto e litri di alcol, i quali non erano altrettanto belli nelle giornate piovose. Bice continuava ad agitarsi, non ci fece troppo caso. Osservava l’orizzonte quando notò un grande scritta luminosa a pochi passi da lì.

I due uomini continuavano ad osservarsi, lenti. Il tempo sgocciolava intorno a loro come una grande tempesta, per disperdersi e defluire per sempre sotto i loro occhi assenti.

L’uomo abbassò il coltello. “Non volevo disse” non è stata colpa “mia” . L’ispettore si fece più vicino e lui subito gli puntò contro l’arma. Singhiozzava e il suo respiro era rotto da piccoli lamenti sommessi. Si calmò e con un voce febbricitante continuò: “Non è stata colpa mia, lei voleva solo che glielo regalassi. ‘Un regalo disse’ un regalo per la tua amata Beatrice. ‘Ma io, io non potevo sopportarlo, lei e quel... meschino! La teneva rinchiusa, per paura che si accorgesse di come fosse bello il mondo oltre il tendone. Voleva andarsene, si!

Voleva andarsene via , fuggire la puzza di sudore e pop-corn. Lei me lo ha detto e io... Io volevo solo aiutarla.”

Il coltello gli scivolò dalle mani e lui stesso cadde in ginocchio accanto ad esso. Vuoto, senza più la forza di reagire.

L’ispettore lo ammanettò e lo condusse in silenzio nel padiglione principale.

“Dunque alla fine...” . Cominciò l’altro poliziotto. “Pare che il nostro mirabile lanciatore di coltelli sia anche l'assassino della serata. La dichiaro in arresto. La sua confessione e il coltello che il mio collega ha recuperato la indicano chiaramente come maggiore indiziato e posso sperare che basteranno anche a condannarla ad una pena più che giusta. Ora, se non le spiace , la prego di seguirmi fino in com118

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missariato le mostrerò subito la sua nuova sistemazione. Sono sicuro che sarà di suo gradimento. Signori, il nostro lavoro è terminato.

Il caso è chiuso.” Il vento soffiava insistente fuori del tendone mentre piccole gocce scandivano il ritmo tamburellante dell’esistenza. Era ormai notte fonda. Tutti, stanchi e sconvolti si preparavano ad una notte di rimpianti quando un ragazzo, trasandato ed affannato entrò correndo dall’ingresso principale, inzuppando di acqua piovana la lucida moquette. Riprese fiato e raccontò la sua storia .

Era pomeriggio inoltrato quando Filippo e Bice oltrepassarono la grande scritta luminosa del “Circo Baluardi”.

Il ragazzo all’ingresso li avvertì che lo spettacolo era appena terminato e che avrebbero dovuto aspettare almeno un ora prima dell'altro.

Cominciava a spiovere e visto che non avevano comunque niente da fare decisero di sistemarsi in un angolino riparato. Il clima non era dei più miti e Filippo, che non aveva neanche una giacca, cominciava a risentire del freddo e dell’umidità. Si alzò per fare due passi.

Svoltato un angolo notò subito una ragazza. Era sola e stava fumando una sigaretta. Lei gli sorrise e lui decise di avvicinarsi.

Era molto bella. Di sicuro faceva parte dello spettacolo; portava un vestito molto corto, coperto di lustrini, ed era molto truccata. Gli offrì una sigaretta, lui rifiutò.

“Presto ricomincerà a piovere” disse lei alzando gli occhi verso il cielo. “Come lo sai?” le chiese.

“Lo sento nelle ossa. È un vero peccato” Gettò il mozzicone e lo spense col piede. Poi continuò: “Sei di queste parti?”

“No, sono uno studente fuori sede. Tu?” “Io non sono di nessuna parte. I miei genitori non si sono mai ricordata dove fossi nata. Credo siano gli inconvenienti di questo mestiere.” .“Sono anche loro nel circo?”

“In realtà non lo so più. Sono passati diversi anni da quando li ho lasciati.”Il suo sguardo si fece più cupo, poi continuò: “oggi è venuta a trovarmi mia sorella; non la vedevo da vent’anni. Sta divorziando.

Aveva una bella famiglia, due figli piccoli. Dice che non ci riusciva , 119

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che una volta che sei stato al circo non puoi lasciarlo. Ce l’hai nel sangue, nella aria che respiri, sulle mani, sotto la pelle... È per sempre.

“Sì voltò e prese un minuscolo coltello che aveva appoggiato dietro di lei. Cominciò a rigirarselo tra le mani e ad osservalo sorridente.

Molto carino, è tuo?”

Lei lo guardò e sorrise, ripose: “È un regalo di un amico. Beh in realtà qualcosa più di un amico. Dal primo giorno in cui è arrivato ho deciso che sarebbe stato mio. Ho cominciato io a mandargli delle lettere. E lui vedessi con quanta passione mi rispondeva. Ci vedevamo in gran segreto tutte le notti, e non ho mai smesso da amarlo da allora. Il mio Umberto, il mio fidanzato, non ha mai scoperto niente...

Fino a stamattina almeno. Ma ormai non ha più importanza. Perché?

Continuava lentamente a passarsi il coltello da una mano all’altra, controllava la lama, l’impugnatura e sempre più spesso lo scorreva con la punta della dita.

“Io e Umberto stiamo per sposarci, è questione di giorni ormai!”

“Ma tu non lo ami, o sbaglio?”

“L’abitudine è una brutta malattia. Non riesci a liberartene neanche con tutte le tua forze. “Gli sorrise di nuovo e tornò a guardasi le mani.”

“Non so perché ma mi sembra di averti già vista.” Gli disse lui pensieroso. Lei si scansò leggermente e si mise in posa davanti a lui.

“Tesoro sono la grande Beatrice Carnevali la più brava equilibrista del mondo. “Disse in tono pomposo.” E sono su tutti i manifesti.

“Rise. Poi tornò seria e sorrise un poco.”

“E dall'alto del mio prestigio voglio rivelarti un segreto!”

Beatrice gli si avvicinò splendente e bellissima come ogni altro giorno. Sorrise. Le sue bianche mani si posarono sulle sue guance, era una carezza celestiale. Lo avvicinò, delicatamente alla sua bocca rosata.

Sospirando sussurrò: Sarà la mia ultima notte lassù in cielo.

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Vincitori Poesia Giovani

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Primo Classificato URSULA MARTELLOTTI Perugia “A mio padre”

Osservo il tuo nome nel vuoto, ti spio, assordante presenza.

Inconsapevole, giochi un duello quotidiano.

Sono io il tuo avversario ?

Il mio viaggio verso te è già iniziato.

Sei dentro di me, impietoso corrodi il mio essere, mi abbracci e mi divori.

Mi sconvolgi...

Il mio viaggio verso te è già iniziato.

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Secondo Classificato MARTA MERCATI Perugia “Piccola profuga”

Jasmine era una bambola di porcellana dalle labbra rosse come il sangue, la pelle del colore della neve fresca e gli occhi definiti col pennello nero laccato Jasmine era una ninfa sfuggita con scaltrezza dalle mani sottili e impotenti del suo abile scultore in una tenera mattina di primavera Jasmine era la poesia mancata di un viandante indiano dagli aromi piccanti e dai sapori di spezie Jasmine nella gola aveva l’universo e se lo teneva stretto stretto, ogni giorno ingoiava un piccolo tassello del suo puzzle e lo posizionava con cura dove era necessario, Jasmine si inchinava elegante di fronte al mare tenendo in mano la luna con grazia, Jasmine accarezzava con amore le morbide labbra del sole e mentre lo baciava chiudeva gli occhi per non dimenticarlo mai Jasmine naufragava nei suoi stessi occhi e nelle sere d’inverno scorgeva le onde infrangersi sugli scogli, la spuma bianca che si spargeva qua e là ad accarezzare la sabbia tiepida, i gabbiani che libravano le ali lasciandosi cullare dalle danze del vento in festa, il fruscio degli alberi che suonava in lontananza una melodia sottile, Il sole che si nascondeva inquieto dietro i valzer delle nuvole pesanti.

Era uno di quei giorni in cui il mare sembrava acciottolato d’alluminio per la quantità di pesci portati a galla dal verbasco.

Era uno di quei giorni quando.

Ora Jasmine ha gli occhi vitrei persi nel vuoto Ora è soffocata dal cumulo di esseri accatastati là per caso dalla Grande Storia, tra le anime senza un nome...

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Ora è una bambola di pezza che non conosce il sole, col vestitino grigio e lacero… una creatura che stride l ‘urlo d’ un cigno nella gola…

Ora ha una lacrima che le riga di rosso il volto pallido, senza vita...

Ora ha il corpicino stanco e fragile di una bambola annegata, gettata via dalla Storia dei Grandi.

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Terzo Classificato MADDALENA BETTI “Spengo il cuore”

Perugia

Forse è la stanchezza Che fa venire a galla tutti i ricordi Che avevo accuratamente rimosso Per cercare di rielaborare, per dimenticare È passato troppo tempo Per poter ricordare Eppure ti sento!

Avevo promesso a me stessa Che avrei spento per un po’ il mio cuore Per provare a vedere Cosa c’è in realtà sulla terra E provare a desiderare qualcosa di più giusto Per me, per te.

Quando sei in fiamme è più facile Immaginare un mondo senza ragione Ma è anche facile rimanere bloccati In un mondo fasullo. È quello che ti è successo Non voglio caderci anch’io, per causa tua...

Avevo promesso a me stessa Che avrei spento per un po’ il mio cuore Per provare a vedere Cosa c’è in realtà sulla terra E provare a desiderare qualcosa di più giusto Per me, per te.

Ho paura di addormentarmi Perché so che ogni notte Sei lì, dentro la mia testa 126

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Pronto a darmi un piccolo indizio Che dovrebbe portarmi alla conclusione Che però vedo sempre sfuocata !

Avevo promesso a me stessa Che avrei spento per un po’ il mio cuore Per provare a vedere Cosa c’è in realtà sulla terra E provare a desiderare qualcosa di più giusto Per me, per te.

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Foto

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Alcuni componenti della Giuria Tecnica con, a partire da sinistra: Giovanni Zavarella (critico d’arte), Bruno Brunori (giornalista), Claudio Ricci (Sindaco di Assisi), Angelo Veneziani (Presidente associazione culturale il Corimbo), Fabio Melelli (giornalista/critico teatrale)

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Alcuni componenti della Giuria del Premio Letterario C’era L’acca - Fuori dal disagio - Cesvol: con a partire da sinistra Deanna Mannaioli (Associazione culturale Pegaso), Luciano Pellagrini (Alea), Luigi Lanna (Presidente Cesvol Perugia), Angelo Veneziani (Associazione culturale “Il Corimbo”)

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