Quaderni del volontariato
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a cura di Angela Fanelli
Il corpo come teatro delle emozioni: la partitura della comunicazione multimodale nel palcoscenico terapeutico
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Sandro Penna 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel.075/5271976 fax.075/5287998 www.pgcesvol.net cesvol@mclink.it pubblicazioni@pgcesvol.net
Pubblicazione a cura di
Con il patrocinio della Regione Umbria
Progetto grafico e videoimpaginazione Chiara Gagliano
Š 2009 CESVOL ISBN 88-96649-00-8
I quaderni del volontariato, un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.
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INTRODUZIONE
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CAPITOLO I LA COMUNICAZIONE UMANA
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1.1 La comunicazione come attività complessa 1.2 Gli approcci teorici alla comunicazione 1.3 Il processo comunicativo 1.4 Le funzioni di base della comunicazione 1.4.1 La funzione proposizionale 1.4.2 La funzione relazionale 1.4.3 La funzione espressiva
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CAPITOLO II LA COMUNICAZIONE NON VERBALE
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2.1 Definizione di comunicazione non verbale (CNV) 32 2.2 Lo studio scientifico dei sistemi di CNV 34 2.3 L’evoluzione dei sistemi di CNV 42 2.4 Le funzioni della CNV 43 2.5 Rapporto tra comunicazione verbale e non verbale 64 2.5.1 La contrapposizione tra verbale e non verbale 2.5.2 Autonomia e interdipendenza semantica tra i sistemi non verbali 67 2.6 Rappresentazione corticale dei sistemi verbali e non verbali 70 2.6.1 Verbale/non verbale: un’asimmetria di funzioni? 70 2.6.2 Modelli di indipendenza funzionale 71 2.6.3 Interdipendenza e coordinamento interemisferico tra il sistema verbale e i sistemi non verbali 72
Indice
CAPITOLO III LA CLASSIFICAZIONE DEI SISTEMI NON VERBALI 3.1 I lessici del corpo 3.2 Le classificazioni dei segnali non verbali di segnalazione e significazione 3.3 Il sistema vocale 3.4 I gesti 3.4.1 La cherologia: il dizionario dei gesti 3.4.2 Il gestionario 3.5 La postura 3.6 Il sistema prossemico 3.7 Il sistema aptico 3.7.1 Aptologia: il dizionario del contatto fisico 3.7.2 Il tocconario 3.7.3 Chi, dove e quando toccare: le norme d’uso 3.8 Lo sguardo 3.8.1.Optologia: la fonologia degli occhi 3.8.2 l’occhionario 3.9 Il viso 3.9.1 Le facce performative CAPITOLO IV NEUROPSICOLOGIA DELLA MIMICA EMOTIVA
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4.1 Le espressioni facciali delle emozioni 116 4.2 Processi di codifica e riconoscimento dei volti 121 4.2.1 Meccanismi strutturali e semantici dell’elaborazione della mimica emotiva: evidenze empiriche mediante rivelazioni ERPs 126 4.3 Vie corticali di riconoscimento dei volti 128 4.3.1 Specificità corticale nel decoding dell’espressione facciale delle emozioni 132
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Indice
CAPITOLO V LA PARTITURA DELLA COMUNICAZIONE MULTIMODALE NEL PALCOSCENICO TERAPEUTICO 134 5.1 Che cos’è la partitura 5.2 Come si scrive la partitura 5.3 A cosa serve la partitura 5.4 La partitura nel contesto teatrale 5.4.1 La compagnia teatrale “Elisa di Rivombrosa” 5.4.2 Analisi dei dati
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Conclusioni
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Ringraziamenti
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Bibliografia
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Introduzione
“Collera, vergogna, odio e amore non sono fatti psichici nascosti nel fondo della coscienza di un’altra persona (...) esistono su questo viso e in quei gesti, non sono celati dietro di essi” Merleau-Ponty, 1961-1964
Ciò che ha destato l’interesse e ha indirizzato il mio studio verso l’argomento della tesi, è stata la constatazione dell’enorme potere espressivo della comunicazione non verbale, osservata nell’interazione fra un gruppo di adolescenti, affetti da sindrome di Down, in contesti ludici e di vita quotidiana. In questi soggetti infatti, la dimensione dell’espressività non verbale rappresenta un canale privilegiato di comunicazione, canale attraverso cui dare spazio ai propri stati d’animo e all’espressione dei sentimenti. Dagli studi, presi in esame emerge infatti che tra le funzioni della comunicazione non verbale, quella espressiva, appare rilevante, in quanto mezzo attraverso cui è possibile manifestare gli stati emotivoaffettivi e in ultima analisi esprimere le emozioni. Considerare dunque, il canale non verbale, come chiave d’accesso alle emozioni, assume notevole importanza, in particolar modo nella pratica clinica. Il logopedista, per la peculiarità del proprio agire professionale, si può trovare coinvolto in situazioni comunicative e relazionali complesse e difficoltose anche per il fatto che il linguaggio dei pazienti può risultare gravemente destrutturato. La mancanza di una risonanza comunicativa non pregiudica soltanto lo scambio interattivo, ma, può mettere in crisi il rapporto di empatia e di fiducia tra terapista e paziente. L’obiettivo primario, di questo lavoro, è dunque, quello di analizzare le potenzialità comunicative ed espressive del linguaggio non verbale. Per raggiungere questo scopo, in primo luogo, è necessario capire cosa si intende per “comunicazione non verbale” e in un particolar modo, comprendere se è possibile rintracciare delle analogie strutturali con il linguaggio verbale. 9
Introduzione
In altre parole è necessario andare ad indagare se esiste e se è possibile individuare un lessico e una grammatica dei vari sistemi di comunicazione del corpo, come è stato possibile per il linguaggio verbale. Nel primo capitolo si illustrano le caratteristiche peculiari e le funzioni di base della comunicazione umana. Nel secondo capitolo si definisce il concetto di comunicazione non verbale secondo le teorie più recenti, si vanno a rintracciare i primi studi scientifici sull’argomento; l’evoluzione delle competenze comunicative nello sviluppo della specie; si definisce la funzione della comunicazione non verbale come mezzo privilegiato per esprimere gli stati emotivi e come mezzo potente per generare e definire le relazioni interpersonali. Inoltre, si tratta del rapporto tra i sistemi di comunicazione verbale e non verbale, della loro indipendenza o interdipendenza, e viene affrontata la complessa materia dell’implementazione neuronale. Il terzo capitolo tratterà dei compositi sistemi di classificazione dei segnali non verbali e dell’elaborazione dei “lessici” corporei, cioè della realizzazione di una sorta di dizionario di tutti i segnali e dei rispettivi significati. Più in particolare, verranno descritti i dizionari delle varie modalità espressive: dei gesti (Cherologia), del contatto fisico (Aptologia) e degli occhi (Optologia), e la relativa analisi semantica. Il secondo obiettivo di questo lavoro, è quello di andare ad indagare in che modo le emozioni si esprimono attraverso i segnali non verbali, ed in particolare vengono prese in esame le espressioni facciali. Il quarto capitolo è interamente dedicato alla neuropsicologia della mimica emotiva, per capire cos’è un’ “espressione facciale”, che tipo di funzione assume, come è possibile esprimere un’emozione mediante il volto, come è possibile comprenderne il significato e quali correlati corticali contribuiscono all’elaborazione della mimica facciale. Partendo dal presupposto che i sistemi della comunicazione non verbale sono organizzati come un vero e proprio “linguaggio verbale” composto da un impianto lessicale, ordinato in livelli grammaticali-sintattici, il terzo e ultimo obiettivo, è quello di individuare questi livelli attraverso uno strumento capace di rilevarne le caratteristiche analitiche e la complessità strutturale. In un’ottica in cui la comunicazione è un complesso sistema multimodale dove gesti, sguardi, espressioni facciali e posture interagiscono tra loro e contribuiscono a trasmettere il signifi-
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Introduzione
cato finale dell’atto comunicativo, lo strumento rintracciato è la “Partitura della comunicazione multimodale” secondo il modello proposto da Isabella Poggi ed Emanuela Magno Caldognetto. Il quinto capitolo sarà dedicato alla descrizione di questo sistema, utilizzato per trascrivere, analizzare e classificare i segnali di tutte le modalità prodotte in un frammento comunicativo. Ho identificato come luogo emblematico di sintesi, come palcoscenico delle emozioni e spazio in cui si realizza in tutto il suo potere la comunicazione multimodale, il contesto del teatro. Il teatro come luogo in cui l’empatia si realizza attraverso la capacità di esperire ciò che l’altro prova; di replicare come proprie, azioni, emozioni e sensazioni vissute da altri. Come afferma infatti G. Rizzolatti nel suo libro “So quel che fai”: “Qualche tempo fa Peter Brook ha dichiarato in un’intervista che con la scoperta dei neuroni specchio le neuroscienze avevano cominciato a capire quello che il teatro sapeva da sempre. Per il grande drammaturgo e regista britannico il lavoro dell’attore sarebbe vano se egli non potesse condividere, al di là di ogni barriera linguistica o culturale, i suoni e i movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un’evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e la propria giustificazione, ed è a essa che i neuroni specchio, con la loro capacità di attivarsi sia quando si compie un’azione in prima persona sia quando la si osserva compiere da altri,verrebbero a dare base biologica”. Lo studio per la tesi ha richiesto la mia presenza in un contesto teatrale e per questo ho avuto la possibilità e l’immenso piacere di essere accolta come osservatrice alla preparazione del prossimo spettacolo della compagnia teatrale “Elisa di Rivombrosa”, composta da 16 ragazzi Down e da un gruppo di attori impegnati in questo compito. Il tema portante di questo spettacolo è l’amore, declinato in tutte le possibili e infinite varianti: dalla sofferenza alla pena d’amore, dalla felicità all’innamoramento, passando attraverso la passione e l’affetto. Tutti questi stati d’animo vengono rappresentati dai ragazzi utilizzando la tecnica delle improvvisazioni: ecco perché questo particolare contesto ha dato ampio spazio all’espressività individuale di ognuno, evitan-
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Introduzione
do ogni tipo di finzione; inoltre ha permesso a me, di cogliere i frammenti comunicativi ed espressivi più spontanei di ciascuno. L’obiettivo di analizzare attraverso uno strumento di valutazione, la comunicazione non verbale delle emozioni, si realizza applicando lo strumento della “Partitura della comunicazione multimodale” al contesto teatrale, dove corpo ed emozioni vanno in scena.
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La comunicazione umana
CAPITOLO I LA COMUNICAZIONE UMANA
Pensieri di luce Luce che filtra nell’acqua. Raggio di sole che illumina il mare. Faro che taglia l’aria Come il canto di una sirena. Mattino freddo e gelido Che porta con sé una luce che scalda. Il calore del mio intimo Che scalda l’anima. Mare che si infrange. Abisso che si apre. Effetto luce che riscalda il cuore. Luce dei miei occhi Che guardano lontano Verso orizzonti incantati Senza malinconia. Dal libro “Pensieri di luce” di Marilisa Grifani
La comunicazione (in quanto atto comunicativo) può essere definita come “uno scambio interattivo osservabile fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento” (Anolli, 2002). 1.1 LA COMUNICAZIONE COME ATTIVITÀ COMPLESSA “Il soggetto umano è un essere comunicante, così come è un essere pensante, emotivo e sociale. La comunicazione non va pertanto considerata semplicemente come un mezzo e uno strumento, bensì come una
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dimensione psicologica costitutiva del soggetto. Egli non sceglie se è essere comunicante o meno, ma può scegliere se e in che modo comunicare” (Anolli, 2002). A tal proposito quattro definizioni sono da ritenersi essenziali: - La comunicazione è un’attività eminentemente sociale: per definizione, infatti, si ha comunicazione soltanto all’interno di gruppi o comunità, in quanto il gruppo rappresenta una condizione necessaria e un vincolo per la genesi, l’elaborazione e la conservazione di qualsiasi sistema di comunicazione. A sua volta, quest’ultimo alimenta, influenza e modifica in modo profondo la vita stessa del gruppo. In questa prospettiva la comunicazione è alla base dell’interazione sociale e delle relazioni interpersonali. - La comunicazione è partecipazione: essa infatti prevede la condivisione di significati e di sistemi di segnalazione, nonché l’accordo sulle regole sottese a ogni scambio comunicativo. Per sua natura, la comunicazione si fonda su processi di condivisione e negoziazione fra i soggetti comunicanti, di conseguenza, essa ha una matrice culturale, in quanto rappresenta un esito degli accordi e delle convenzioni culturalmente stabilite all’interno di una data comunità, e possiede una natura convenzionale in quanto assume una funzione attiva nell’elaborazione e modifica delle medesime convenzioni sociali e culturali. - La comunicazione è un’attività eminentemente cognitiva: essa è in stretta connessione con il pensiero e con i processi mentali superiori, in quanto manifesta in maniera ostensiva e pubblica le proprie idee (conoscenze, credenze, interessi, emozioni ecc.) a qualcuno diverso da sé. Pensiero e comunicazione si articolano in modo reciproco, poiché per comunicare occorre che i soggetti siano capaci di rendere esplicito il proprio pensiero e la propria intenzione, nella consapevolezza di prendere parte a uno scambio comunicativo con qualcun altro. - La comunicazione è strettamente connessa con l’azione: in quanto, qualsiasi atto comunicativo si colloca alla base di una sequenza di scambi interpersonali fra due o più partecipanti, all’interno di un processo di influenza reciproca. La comunicazione rappresenta un’attività umana sofisticata, comples-
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sa e articolata, costitutiva dell’identità dei soggetti partecipanti e delle culture di riferimento. È naturale allora che essa abbia costituito l’oggetto di studio scientifico da parte di numerose discipline, quali la matematica, la filosofia, la semiotica, la sociologia, l’etologia, l’antropologia, la linguistica e la psicologia. 1.2 GLI APPROCCI TEORICI ALLA COMUNICAZIONE L’argomento viene affrontato secondo diverse prospettive e punti di vista differenti, che analizzano e affrontano la realtà della comunicazione, facendo riferimento ad assunti teorici e a criteri distinti. I principali fra questi sono: - Approccio semiotico: la comunicazione come significazione e come segno Secondo questo punto di vista, occorre affrontare innanzitutto in che modo avviene il processo di significazione, inteso come la capacità di generare significati e come la proprietà fondamentale di ogni messaggio di veicolare un senso e un significato condivisi tra i soggetti, attori della comunicazione. Questo processo di significazione, da un lato, fa riferimento al referente (gli oggetti e gli eventi su cui comunicare); dall’altro, fa riferimento a un codice, cioè ai sistemi impiegati dagli attori per comunicare fra loro. Ogden e Richards (1923) propongono questa versione del diagramma della significazione: referenza
simbolo
referente
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Esso pone in relazioni tre aspetti diversi: 1. l’Espressione: consiste nell’immagine acustica o iconica di un oggetto o evento (ad esempio, la stringa di suoni /c-a-n-e/); 2. la Referenza: consiste nella rappresentazione mentale di un determinato oggetto o evento (ad esempio l’idea, il concetto di “cane”); 3. il Referente: dato dall’oggetto o evento nella sua realtà fisica (ad esempio, “un cane chiamato Dik”). Occorre definire ora che cosa si intende per segno; al riguardo esistono due principali accezioni: A) il segno come equivalenza: secondo De Saussure (1916) il segno è “l’unione di un’immagine acustica (il significante o espressione; per esempio, la stringa di suoni: /c-a-n-e/) e di un’immagine mentale” (il significato o contenuto; nel nostro caso, il significato di cane). Il segno è inteso in termini di equivalenza, poiché vi sarebbe una corrispondenza piena e stabile fra espressione e contenuto, regolati da una relazione di identità. Il segno, così concepito, presenta un carattere: * Arbitrario: cioè convenzionale in quanto legato a una data cultura e non motivato dalla realtà a cui fa riferimento; infatti, non vi è niente della parola “luna” nelle stringhe sonore/l-u-n-a/; * Oppositivo: ossia, un dato segno è se stesso non per le proprietà positive segno, in quanto si oppone a tutti gli altri segni di un certo sistema linguistico; per esempio, /pera/ si oppone a /vera /o, /cera/ ecc. - il segno come inferenza: secondo Pierce (1868) il segno è “qualcosa che per qualcuno sta al posto di qualcos’altro”. In quanto tale, il segno assume la funzione di rimandare a qualcosa di diverso da sé (funzione di rimando). Sulla base del rapporto con il referente, Pierce individua tre tipi di segni: * le icone: caratterizzate da una relazione di somiglianza con le proprietà del referente; * gli indici: caratterizzati da un rapporto di contiguità fisica con l’oggetto o con l’evento cui si riferiscono; * i simboli: per i quali la connessione con il referente è stabilita per contiguità ed è appresa, quindi risulta arbitraria; 16
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Il segno come inferenza consente di spiegare lo scarto fra ciò che è detto e ciò che è implicito in ciò che è stato detto; infatti, in linea di principio, “un soggetto comunica di più di quanto dica” (Anolli, 2002). - Approccio pragmatico: comunicazione come interazione fra testo il contesto La pragmatica si occupa dell’uso dei significati, ossia dei modi in cui i significati sono impiegati dai comunicanti nelle diverse circostanze. Per sua natura, essa pone in evidenza la relazione fondamentale fra segni e interpretanti, basata su uno scambio comunicativo contingente. In particolare, la pragmatica esamina i rapporti che intercorrono fra un testo e il contesto in cui esso è manifestato. L’attenzione è spostata dall’analisi della struttura del sistema di comunicazione all’atto concreto di comunicazione. Per definizione, parlando di uso dei significati, la pragmatica prende in esame i processi impliciti della comunicazione, i quali comportano rilevanti processi inferenziali necessari per inferire dal contesto ciò che il testo dice, anche se non lo dice espressamente. Il punto di vista pragmatico pone in evidenza, anzitutto, la comunicazione come “azione fra due o più partecipanti”, come “fare” e come “processo dinamico”. In questa direzione Austin (1962) ha proposto la teoria degli atti linguistici, con l’obiettivo di attirare l’attenzione proprio su questi aspetti. Egli ha posto in evidenza che “dire qualcosa è anche, fare sempre qualcosa” e ha individuato tre tipi di azione che compiamo simultaneamente quando parliamo: - Atti locutori: cioè atti “di dire qualcosa”, si tratta di azioni che si compiono per il fatto stesso di parlare e comprendono gli atti fonetici, gli atti fatici e gli atti retici; - Atti illocutori: cioè atti “nel dire qualcosa” che si compiono attraverso il parlare medesimo e che corrispondono alle intenzioni comunicative del parlante; - Atti perlocutori: cioè atti “con il dire qualcosa” che consistono nella produzione di determinati effetti da parte del parlante sul sistema delle credenze, sui sentimenti ed emozioni, nonché sulla condotta dell’interlocutore.
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Approccio sociologico: comunicazione come prodotto della società La sociologia della comunicazione fornisce un punto di vista interessante e fecondo di idee nei riguardi della comunicazione, in quanto sottolinea la prospettiva sociale e istituzionale nell’analisi dell’azione sociale, del soggetto e dell’interazione. Negli ultimi trenta o quaranta anni si è assistito in sociologia alla cosiddetta “svolta comunicativa”con il conseguente passaggio dalla teoria dell’azione alla teoria della comunicazione (Bovone, 2000). Il pensiero di Goffman è quello che fra tutti rappresenta maggiormente la svolta innovativa nello studio sociale della comunicazione. Egli focalizza la sua attenzione sullo studio dei fenomeni comunicativi della vita quotidiana che erano ignorati dalla sociologia tradizionale, ed elabora una “sociologia delle occasioni” e delle “situazioni trascurate” come studio delle circostanze in cui hanno luogo le esperienze quotidiane e ricorrenti. In particolare, egli sceglie come luogo emblematico di interazione, la conversazione, nella quale si combinano “comunicazioni verbali” e “mosse non verbali”. Poiché la conversazione è una “situazione sociale”, a Goffman interessa verificare in che modo la dimensione sociale influenza l’organizzazione della conversazione e gli scambi comunicativi che in essa hanno luogo. Esistono dunque delle regole precise entro cui inquadrare le proprie sequenze comunicative ed esse consentono di definire il significato e la struttura dell’interazione e della comunicazione in corso. Tali regole organizzano, per esempio, il modo di iniziare e di terminare uno scambio comunicativo, il comportamento adeguato in relazione allo spazio, al tono della voce ecc. La scelta delle regole è determinata dal “frame”, vale a dire dalla cornice (o contesto) entro cui si realizza lo scambio comunicativo. Il “frame” consente, pertanto, ai partecipanti di sapere in ogni momento che cosa stia accadendo o quale sia la condotta da seguire. - Approccio psicologico: comunicazione come relazione Le scienze psicologiche hanno aperto un altro punto di vista nello studio della comunicazione. Esse hanno esaminato come la comunicazione entri nell’esistenza del singolo individuo, dei gruppi e delle istituzioni non solo attraverso i
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processi di significazione, di trasmissione delle informazioni e di connessione interpersonale, bensì anche come dimensione intrinseca che fonda ed esprime l’identità personale e la posizione sociale di ogni soggetto. Bateson (1972) ha osservato che gli individui non solo “si mettono in comunicazione”, né semplicemente “prendono parte alla comunicazione” ma “sono in comunicazione” e attraverso la comunicazione giocano se stessi e la propria identità. Dal punto di vista psicologico “essere in comunicazione” significa che nella e mediante la comunicazione le persone costruiscono, alimentano, mantengono, modificano la rete delle relazioni in cui sono immerse e che esse stesse hanno contribuito a tessere. In questa prospettiva la comunicazione non è un processo semplice ma si articola su più livelli: vi è il livello della comunicazione (i contenuti che si scambiano) e il livello della meta-comunicazione (la comunicazione che ha come oggetto la comunicazione stessa). In questo processo l’attenzione si sposta dalle informazioni e dai contenuti trasmessi, alla relazione interpersonale che si crea fra due o più interlocutori nel momento stesso in cui si instaura una relazione comunicativa. La comunicazione diventa, pertanto, il tessuto che crea, mantiene, modifica e rinnova i legami di qualsiasi tipo fra i soggetti. Infatti, ogni qualvolta un soggetto comunica qualcosa ad un altro, egli definisce nel medesimo tempo se stesso e l’altro, nonché la natura e la qualità della relazione che li unisce. La comunicazione è la dimensione psicologica che produce e sostiene la definizione di sé e dell’altro. In maniera più o meno esplicita, in ogni atto comunicativo ciascuno di noi è come se dicesse: “ecco come sono, ecco come mi vedo, ecco come mi presento; e contemporaneamente: ecco un individuo, ecco come tu sei secondo me; e ancora: ecco il tipo di relazione che ci lega”.
1.3 IL PROCESSO COMUNICATIVO La comunicazione nasce nel momento in cui l’individuo entra in rapporto con altri individui. La condizione necessaria perché sia in atto un processo comunicativo è questa: un sistema, chiamato mittente, ha lo scopo che un altro siste-
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ma, o destinatario, venga ad avere una certa conoscenza o significato, e per realizzare questo scopo emette un segnale (uno stimolo fisico percepibile), che viene prodotto e percepito secondo una determinata modalità ed è collegato a quel significato attraverso un sistema di comunicazione (Poggi, 2006). Lo scopo di comunicare Non si può parlare di comunicazione in presenza di una qualsiasi acquisizione di conoscenze: è necessario, “perché ci sia comunicazione, uno scopo di qualcuno di far sapere qualcosa a qualcun altro”, non semplicemente che l’altro venga sapere qualcosa. Secondo questa definizione, dunque, diversamente da quella dei modelli semiotici (Eco, 1975) e della “pragmatica della comunicazione” (Watzlawick, 1967) l’esistenza di uno scopo di comunicare è condizione necessaria della comunicazione. Tuttavia, la nozione di “scopo” è una nozione molto astratta e generale definita come “qualsiasi stato regolatore, cioè qualsiasi stato non realizzato nel mondo che determina un’azione di un sistema” (Castelfranchi, Parisi 1980). In questa accezione di comunicazione, dunque, lo scopo di comunicare non necessariamente deve essere deliberato e cosciente, come in genere avviene nel linguaggio verbale; ciò renderebbe troppo restrittiva la definizione stessa. I processi comunicativi si possono distinguere, dunque, per tipo di scopo comunicativo e per livello di consapevolezza. Lo scopo di comunicare può essere interno o esterno, cioè rappresentato o meno nella mente dell’individuo che comunica. Uno scopo di comunicare interno può essere cosciente, inconscio o tacito. Quando parliamo, o quando scriviamo, il nostro scopo di comunicare è in genere intenzionale e cosciente; non solo è rappresentato, cioè scritto, nella nostra mente, ma è anche meta-rappresentato (“non solo voglio farti sapere qualcosa, ma so di voler farti sapere”). Nella comunicazione verbale lo scopo di comunicare è quasi sempre intenzionale e cosciente. Quando invece la comunicazione è attuata con altri tipi di segnali, spesso lo scopo di comunicare è inconscio, ovvero è presente ma il soggetto non riconosce a se stesso di averlo.
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Vi è infine uno scopo di comunicare interno e tacito, come per esempio, quando si accompagna il discorso con segnali non verbali, ad esempio, alzare le sopracciglia per enfatizzare il discorso o cambiare postura quando si cambia argomento; in questo caso, tali segnali, vengono prodotti dal soggetto senza che lui se ne accorga e senza la consapevolezza di voler comunicare, tuttavia essi rappresentano dei segnali alquanto comunicativi. In altri casi, lo scopo di comunicare è uno scopo esterno, cioè non rappresentato nella mente di chi comunica. Ne sono un esempio gli artefatti (la spia della benzina che avvisa di essere in riserva e il cui scopo di comunicare è rappresentato nella mente del costruttore della macchina), le funzioni comunicative biologiche (il rossore, con cui chi si vergogna riconosce di essere in difetto) oppure divise, mode, simboli di status (il camice del medico, il velo islamico) che sono segnali governati da finalità sociali, il cui scopo è posto sull’individuo dal suo gruppo sociale. Il mittente Chi parla può essere mittente in diversi modi, a seconda di quanto, si assume la “paternità” dello scopo di comunicare; può essere un animatore, che pronuncia parole che non necessariamente ha pensato in prima persona, come per esempio, un attore che recita un copione; un autore, che pianifica e costruisce il discorso; oppure un mandante che, pur non avendo materialmente cercato di parole, è responsabile del senso generale del discorso formulato dall’autore. Il destinatario È necessario innanzitutto distinguere il destinatario da un semplice ricevente; quest’ultimo infatti può non coincidere con il destinatario, in quanto può ricevere l’informazione da parte del mittente ma non è a lui che si ha lo scopo di comunicare. Si può immaginare infatti che A e B stanno parlando in una stanza; A dà informazioni a B; ma nella stessa stanza è presente anche C che riceve l’informazione data da A ma non è colui a cui A voleva comunicare. Solo B è il destinatario, mentre C è un mero ricevente perché non è a lui che A comunica.
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I segnali Il segnale è uno stimolo fisico, percepibile con i sensi, che è collegato ad un significato sia nella mente del mittente che in quella del destinatario. Può fungere da segnale: - un’azione di un organismo (un gesto, un grido, una frase), di un gruppo (una manifestazione di piazza) o anche di un oggetto (la spia della benzina che si accende); - un oggetto prodotto da un’azione (un libro, un film); - un oggetto usato per/nel compiere un’azione (il distintivo del poliziotto, la maschera del rapinatore); - una parte di un oggetto (il verde del semaforo) o di un organismo (la barba di un uomo); - un aspetto di un oggetto (la fluorescenza degli stop di una macchina), di un organismo (il rossore di una persona imbarazzata) o di un gruppo; - una non azione (il silenzio). Ogni segnale è uno stimolo prodotto da movimenti muscolari o caratteristiche morfologiche del mittente che può essere percepito dai sensi del destinatario. Le parole sono segnali prodotti dei nostri organi fono-articolatori che si propagano tramite onde acustiche e sono percepiti con l’udito; gesti ed espressione del viso sono segnali ottici prodotti dai muscoli del corpo e della faccia e percepiti visivamente; le carezze sono prodotte con le mani e recepite dai recettori tattili del corpo. La modalità Il modo in cui un segnale è prodotto dal mittente e percepito dal destinatario rappresenta la modalità del segnale. Possiamo distinguere una modalità produttiva e una recettiva. Parliamo di modalità recettiva (o sensoriale) quando prendiamo in considerazione gli organi di senso con cui il destinatario riceve il segnale; si parla invece di modalità produttiva (o motoria) quando ci riferiamo agli organi del corpo del mittente che lo producono. Ma questi due sensi di modalità non sono sempre in un rapporto biunivoco: quando il mittente parla, ad esempio, l’interlocutore lo sente e lo vede parlare, cioè usa la modalità uditiva e quella visiva, ma se in quel22
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la uditiva percepisce i suoni che il mittente produce con la bocca, nella modalità visiva percepisce i gesti, l’espressione della faccia, le posture del corpo e i movimenti della bocca. Dunque gli esseri umani utilizzano per la comunicazione tante modalità recettive quanti sono i loro sensi (udito, vista, tatto, olfatto e persino il gusto); ma si possono usare altrettante modalità produttive quanti sono gli organi di produzione dei segnali; infatti ciascuna parte o sottoparte del corpo produce il suo specifico sistema di segnali (la testa produce i movimenti del capo; la fronte aggrottamenti e corrugamenti; la regione degli occhi produce tutti i segnali dello sguardo; la bocca produce parole con toni diversi, smorfie, fissati, sorrisi; spalle, braccia e mani producono gesti, e infine il tronco e le gambe producono posture e movimenti di collocazione nello spazio). Il significato Comunicare vuol dire trasmettere a qualcuno significati, cioè conoscenze. Ma quanti e quali sono le conoscenze che si possono comunicare?. Secondo Poggi (2006), tutte le volte che comunichiamo diamo agli altri conoscenze di tre tipi: sul mondo, sulla nostra identità e sulla nostra mente. A. Informazioni sul mondo: il mittente può dare conoscenze su eventi del mondo, ossia su azioni o proprietà di entità concrete o astratte, animate o inanimate. Si possono comunicare eventi concreti e reali, come “quel rapace sta volando”, ma anche affermazioni generali (“i rapaci sono uccelli”) o eventi immaginari (“gli asini volano”). Si può comunicare inoltre sul tempo e sul luogo in cui tali eventi accadono (“ieri”, “domani”, “in cucina”). Nelle conoscenze di formato proposizionale ogni conoscenza è formata da un predicato e dai suoi argomenti, dove il predicato può essere una proprietà, statica o dinamica, di un singolo argomento (“Giulia è bionda”) o una relazione fra due o più argomenti (“la casa è tra il fiume e il bosco”). Gli argomenti invece stabiliscono a chi o a che cosa si vuole attribuire una determinata proprietà o relazione. Per quanto riguarda i predicati nei sistemi di CNV alcuni gesti e persino alcuni sguardi possono comu-
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nicare proprietà e relazioni. Fra i gesti simbolici italiani, ad esempio, alcuni menzionano azioni (“tagliare”, “camminare”) altri proprietà fisiche o mentali (“magro”, “testardo”), altri ancora relazioni (“se l’intendono”), tempi (“ieri”) e quantità (“due”, “molto”). Fra gli sguardi, stringere le palpebre comunica la proprietà “piccolo, sottile”, spalancare gli occhi la proprietà opposta, cioè “grande”. Per quanto riguarda gli argomenti nei sistemi di CNV con un gesto o uno sguardo “deittico” si può indicare con le mani o con gli occhi un luogo o un oggetto nel contesto circostante. B. Informazioni sull’identità del mittente: tutte le volte che un soggetto si trova in presenza di un altro, che il soggetto lo voglia o no, l’altro “si fa un’idea” di chi gli sta di fronte, cioè acquisisce percettivamente, o inferisce, conoscenze sulla sua identità: sesso, età, radici etniche e culturali e personalità. Il suono della voce, l’accento, la forma del viso sono dunque segnali che portano conoscenze sul mittente della comunicazione: segnali governati, in genere, da scopi biologici e sociali che, colui che comunica, produce senza volerlo e senza accorgersene, addirittura, a volte, contro la sua volontà (Magli 1995; Lavater, 1772). Questi segnali sono un marchio, un’etichetta, una bandiera del mittente e servono al destinatario, anche se il mittente non vorrebbe lasciarli trapelare, perché forniscono le informazioni di sfondo con cui interpretare ciò che il mittente comunica. Ma oltre a questa identità “oggettiva”, impostata dalla natura e dalle radici del mittente, vi è l’identità che indica come lui vorrebbe apparire nei confronti degli altri; Goffman la definisce “un’autopresentazione”, cioè l’immagine che colui che parla vuole dare di se stesso. C. Informazioni sulla mente del mittente: mentre il mittente comunica sugli eventi del mondo esterno, comunica anche il perché intende parlarne, cosa ne pensa,che cosa sente riguardo a quegli eventi: cioè da informazioni sui suoi stati mentali: scopi, conoscenze, emozioni, relativi a ciò di cui sta parlando (Poggi, 2003). Riguardo alle conoscenze, il mittente fornisce due tipi di informazioni: - informazioni sul grado di certezza delle credenze che sta comunicando: nei sistemi di CNV, per esempio, per esprimere sicurezza si può
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fare il gesto di aprire le mani, a palme in su, per mostrare che ciò che si dice “è di fronte a tutti”, “è del tutto evidente” o al contrario alzando le sopracciglia o scuotendo il capo tentennando, si esprime dubbio o incertezza su ciò che si dice; - informazioni “metacognitive”, che indicano da quale fonte (percezione, memoria, inferenza, comunicazione) arrivano le credenze che il mittente sta comunicando. Un gesto come schioccare il pollice e il medio significa “sto cercando di ricordare”; oppure piegare due volte l’indice e il medio delle due mani, a palme in avanti, all’altezza del viso significa “virgolette” e cioè: “prendo le distanze dalle parole che sto dicendo”. Anche gli sguardi forniscono informazioni metacognitive; guardare in basso a sinistra prima di rispondere a una domanda vuol dire “sto ricordando”; guardare in alto “sto cercando di ragionare”. Nel comunicare, il mittente informa anche sugli scopi della frase, del discorso e della conversazione. - scopo della frase o dell’atto linguistico: informa sul performativo, cioè sull’intenzione comunicativa dell’atto che il mittente sta compiendo. Si può esprimere con un verbo performativo (ordino, supplico), con l’intonazione, o ancora con espressioni facciali o sguardi performativi: per dare un ordine per esempio “si aggrottano le sopracciglia tenendo il mento in su e il viso eretto”; - struttura informazionale della frase: in ogni atto di comunicazione c’è una parte data e una parte nuova: la parte data sono le credenze già condivise con l’interlocutore, la parte nuova sono quelle che il mittente vuole comunicare in quel momento. L’interlocutore deve quindi sapere cosa c’è di nuovo e che cosa c’è di dato in ciò che sta dicendo il mittente; così in genere è utile sottolineare la parte nuova (che alcune teorie linguistiche chiamano “comment”) con un veloce innalzamento delle sopracciglia, con un gesto batonico o con un’intonazione enfatica; - struttura del discorso: in un discorso le frasi sottendono una struttura gerarchica, che l’interlocutore deve ricostruire; e alcuni segnali danno informazioni proprio su tale struttura: cambiando postura, per esempio, viene segnalato il cambio di argomento;
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- struttura della conversazione: la conversazione è un atto di collaborazione e comunicazione reciproca in cui le persone a turno producono atti comunicativi concatenati; perché proceda fluida i partecipanti devono coordinarsi comunicandosi reciprocamente la presa di turno e il “back-channel”, ovvero il canale di ritorno che permette di capire se l’intervento dell’uno è stato percepito, capito, approvato dall’altro. Questi due elementi di coordinazione reciproca sono permessi o facilitati da tutta una serie di segnali senza parole: alcuni servono per “chiedere il turno” (alzare la mano, protendere il busto socchiudendo la bocca come per prendere il fiato) o “per passarlo ad altri” (indicare con il palmo in su il prossimo interlocutore); altri segnalano al mittente che si sta “seguendo ciò che dice” (annuire con il capo) o che “non si capisce” (aggrottare le sopracciglia chinando la testa di lato) o che “non siamo d’accordo con lui” (scuotere il capo). Durante la comunicazione, infine, il mittente esprime, oltre alle sue conoscenze e ai suoi scopi, anche le emozioni che sta provando riguardo a ciò su cui comunica: può servirsi di “parole emotive” (gioia, odioso, spaventarsi) o di intonazioni ed espressioni facciali dedicati proprio a esprimere emozioni. - I sistemi di comunicazione Un sistema di comunicazione è una serie di regole per mettere in corrispondenza segnali e significati. Il nostro corpo è depositario di molti sistemi di comunicazione. Prendendo spunto da Hockett (1960), un’importante linguista degli anni ’60 e Thorpe (1971), uno studioso di comunicazione animale, Isabella Poggi (2006) classifica i sistemi di comunicazione in base ad un certo numero di parametri: * Rapporto con gli altri segnali: in base al primo parametro, ogni segnale di un sistema di comunicazione può essere autonomo, perché si può usare solo mentre si parla (ad esempio i gesti batonici) oppure non-autonomo, cioè si può usare anche senza parlare (ad esempio i gesti simbolici); * Costruzione cognitiva: la costruzione cognitiva dei segnali di un
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sistema, dipende se essi siano rappresentati o meno, e in che modo, nella memoria a lungo termine dei suoi utenti. È codificato un segnale collegato stabilmente ad un significato specifico, che forma con esso una coppia “segnale-significato” rappresentato una volta per tutte nelle menti del mittente e del destinatario; una serie di segnali codificati costituisce un lessico (Parisi, Antinucci 1973) come per esempio i gesti simbolici. È un segnale creativo, invece, quello inventato in maniera estemporanea per comunicare un significato per cui non è già codificato in memoria alcun segnale. Ne sono un esempio i gesti iconici e le onomatopee originali, cioè nuovi suoni vocali inventati per imitare i suoni sconosciuti della natura o della tecnologia; * Naturale e culturale: fra i segnali codificati alcuni sono innati, cioè rappresentati nella memoria del mittente per via biologica, quindi sono universali (ad esempio per esprimere esultanza si scuotono le braccia in alto), altri sono codificati su base culturale, cioè esistono, e hanno quel particolare significato, solo in una determinata cultura e i bambini li imparano da piccoli (per esempio l’atleta che esprime esultanza con l’indice e il medio aperti a “V”); * Motivato e arbitrario: questo parametro indica il rapporto fra i segnali e i significati. Pertanto un segnale è motivato quando segnale e significato, anche prima e anche senza essere legati da una regola di corrispondenza codificata, hanno tra loro una relazione non casuale; in sostanza, c’è una “buona ragione” per cui quel segnale ha proprio quel significato: una ragione di somiglianza, di composizionalità o di determinismo meccanico. Vi è somiglianza tra segnale e significato negli segnali iconici (ad esempio il gesto di muovere l’indice e il medio a “V” davanti alla bocca significa “sigaretta” o “fumare”). Un altro caso in cui il significato può essere “indovinato” a partire dal segnale anche per chi non l’ha mai visto o sentito prima, ha a che fare con un tipico meccanismo della lingua, la composizionalità, che consiste nel ricavare sempre dagli stessi elementi di numero finito un infinito numero di possibili combinazioni (ad esempio il termine “ivato” riferito ad un oggetto significa “comprensivo di IVA”). Un’ultima relazione non casuale tra segnale e significato sia ha per determinismo meccanico quando l’apparenza percettiva del segnale è determinata da meccanismi fisiologici collegati al significato (ad esempio, il gesto di esultan-
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za di scuotere le braccia in alto deriva dall’intensa attivazione fisiologica dell’emozione di esultanza, che induce a energici movimenti di apertura, Anolli 2002). Il segnale, invece, è arbitrario quando il suo significato non è collegato al segnale né per somiglianza né per qualche altro meccanismo che permette di inferire il significato dal segnale senza conoscerlo (ad esempio il gesto della “mano a tulipano”, dita chiuse a mazzetto e mano che va su e giù in Italia significa “ma che vuoi?” e in Tunisia vuol dire “aspetta”); *Olofrastico e Articolato (segnali-frase e segnali-parola): “ogni atto comunicativo è costituito da un contenuto proposizionale (ciò che il mittente vuole far fare, far dire o far sapere al suo interlocutore) e da un performativo (l’intenzione del mittente nel comunicare, il tipo di azione sociale che compie verso l’altro, l’atteggiamento in cui si pone verso di lui e ciò che vuole che faccia” Poggi, Pelachaud 2000). Dunque un segnale è olofrastico (olos dal greco significa “intero”) se da solo porta il significato di un intero atto comunicativo, comprensivo di performativo e di contenuto proposizionale (ad esempio il gesto di stendere e piegare le dita della mano a palmo in su che significa “vieni qui”). Un segnale è articolato se veicola solo parte di un atto comunicativo, ad esempio solo il suo performativo o solo una parte del suo contenuto proposizionale (ad esempio il gesto di muovere avanti e indietro di fronte alla bocca l’indice e il medio divaricati, con il palmo verso il mittente, significa “fumare” o “sigaretta”) . “In base alle definizioni fin qui fornite, due condizioni sono necessarie perché sia in atto un processo comunicativo: che un mittente abbia lo scopo di far avere una conoscenza a un destinatario; e che per questo scopo produca un segnale che reputa collegato a quella conoscenza sia nella propria mente che nella mente del destinatario” (Poggi, 2006).
1.4 LE FUNZIONI DI BASE DELLA COMUNICAZIONE Secondo Anolli (2003) la comunicazione umana è caratterizzata da alcune dimensioni basilari: la funzione proposizionale, la funzione relazionale e la funzione espressiva. Si tratta di “metafunzioni”, poiché ciascuna di esse raccoglie sotto di sé altre funzioni specifiche.
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1.4.1 LA FUNZIONE PROPOSIZIONALE Grazie a questa funzione, la comunicazione “serve a elaborare, organizzare e trasmettere conoscenze fra i partecipanti. Tali conoscenze sono raccolte, organizzate e veicolate sotto forma di proposizioni. La totalità delle conoscenze disponibili nella memoria a lungo termine di un individuo, è detta conoscenza dichiarativa”. Essa svolge: - una funzione referenziale, in quanto consente una rappresentazione adeguata della realtà in base alla propria esperienza, e permette di riferirsi a oggetti e a eventi del mondo circostante; - una funzione predicativa, poiché consente di attribuire proprietà e qualità agli eventi o altri oggetti in esame. Parlare di funzione proposizionale della comunicazione, significa riconoscere la rilevanza del linguaggio per la specie umana, poiché esso consente di organizzare e di comunicare il pensiero. “Il linguaggio, infatti, rende comunicabile il proprio pensiero, in quanto gli fornisce una forma comprensibile agli altri. Esiste infatti, una stretta interdipendenza fra pensiero e linguaggio in quanto concettualizzazione, significazione e comunicazione si intersecano reciprocamente: i concetti sono traducibili in significati comunicabili e, a loro volta, i concetti sono compatibili con le informazioni elaborate dai differenti sistemi di rappresentazione mentale, da quella percettiva a quella motoria, a quella linguistica”. Grazie a tale interdipendenza, è possibile parlare di ciò che si vede, di ciò che si sente e di ciò che si prova. “Questo passaggio dai sensi al senso, ossia al significato, consente di tradurre in forme proposizionali, l’esperienza percettiva, affettiva e immaginativa”. Inoltre, il linguaggio consente l’elaborazione, l’organizzazione e la trasmissione delle conoscenze poiché, in quanto sistema di simboli, è caratterizzato in modo intrinseco dalla composizionalità, ossia dal fatto di essere costruito ricorsivamente, grazie a unità componibili (Bara, 1999; Jackendoff, 1999). La composizionalità del linguaggio comporta una serie di proprietà quali: - la sistematicità: ogni linguaggio è regolato da una struttura sintattica e gli enunciati di un dato linguaggio sono componibili solo seguendo le regole sintattiche previste da quella lingua;
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- la produttività: il linguaggio permette di generare e di comprendere un numero infinito di significati, in grado, a loro volta, di generare e di comprendere un numero infinito di enunciati; - la possibilità di dislocazione: la referenza spaziale o temporale cui un dato enunciato si riferisce può essere diversa da quella in uso durante l’enunciato medesimo. Ad esempio nella frase “ci vediamo martedì prossimo davanti all’università” (enunciato detto al bar), il referente spaziale non è “bar”, anche se la frase viene pronunciata in questo contesto, ma è “università”. In questa prospettiva, il significato costituisce la chiave di volta per comprendere gli aspetti proposizionali della comunicazione, poiché i significati non sono realtà discrete e unitarie, al contrario sono dinamici e componibili, nel senso che si possono analizzare, smontare nelle loro parti, ricomporre e comparare fra loro. 1.4.2 LA FUNZIONE RELAZIONALE Oltre a svolgere la funzione proposizionale, la comunicazione è deputata a realizzare la funzione relazionale, poiché la rete delle relazioni in cui un soggetto è inserito, è costruita, alimentata, rinnovata e modificata dalla comunicazione. Essa, lungo tutto l’arco dell’interazione umana, partecipa a generare e sviluppare, mantenere e rinnovare, modificare, restaurare ed estinguere una relazione fra due o più persone. L’efficacia relazionale della comunicazione dipende dalla stretta connessione fra interazione e relazione che, tuttavia, hanno significati distinti. “L’interazione consiste in un evento circoscritto in termini temporali e spaziali, nonché in uno scambio comportamentale direttamente osservabile fra i partecipanti. Essa può consistere in uno sguardo reciproco, in un saluto, in una conversazione al telefono, in una riunione. Per relazione, invece, s’intende una sequenza regolare e continua del medesimo tipo di interazione che genera nel tempo prevedibilità, e come risultato produce la formazione di un modello interattivo fra i partecipanti medesimi. Interazione e relazione dunque, sono in stretta interdipendenza reciproca: “le singole interazioni sono in grado di confermare e rafforzare, attenuare, modificare o smentire una certa relazione; d’altra parte la relazione suscita aspettative, genera credenze e previsioni, stabilisce regole e vincoli in grado di influenzare l’interazione
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in corso, in una determinata direzione piuttosto che in un’altra”. In conclusione si può affermare che l’aspetto relazionale della comunicazione è in grado di generare e rinnovare le relazioni fra gli individui ed è alla base “dell’intersoggettività dialogica”, ovvero della negoziazione dei significati e della condivisione di scopi. 1.4.3 LA FUNZIONE ESPRESSIVA La funzione espressiva della comunicazione è intesa come la modalità per manifestare i propri pensieri, sentimenti, emozioni e stati d’animo. La comunicazione, infatti, è alla base della creatività umana nelle sue diverse forme: pittorica, architettonica, musicale ecc... . La creatività comunicativa si fonda su alcuni aspetti basilari quali: - “la novità delle forme espressive e della combinazione degli aspetti comunicativi: ciò che non era mai stato comunicato prima, ora diventa oggetto di comunicazione linguistica (come un poema), iconica (come un quadro), sonora (come una sinfonia)”; - “la sensibilità soggettiva delle manifestazioni artistiche, poiché il comunicatore è in grado di rendere pubblico ciò che c’è di più profondo dentro di sé”; - “la comprensibilità delle modalità espressive, poiché, pur trattandosi di forme innovative di comunicazione, sono comprese da altri ed è possibile trovare in esse importanti e precisi percorsi di senso e di significato”; - “la partecipazione, intesa come risonanza cognitiva ed affettiva delle espressioni creative; grazie a questo processo di sintonia la comunicazione espressiva può generare un fenomeno unisono di condivisione e di concordia delle menti”. Anolli sostiene che la funzione espressiva attribuisce “sapore” alla comunicazione e consente di sfruttare in maniera ottimale le risorse psicologiche e sociali che l’individuo ha a disposizione.
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CAPITOLO II LA COMUNICAZIONE NON VERBALE
Amore La notte brilla per l’amore, le stelle hanno una potenza che si sente dentro. L’amore è una luce che si vede Dietro al Sole, è un uccello azzurro che vola. L’amore torna a far festa Ma non sempre le sue stelle Brillano in cielo Dal libro “Incanto di parole” di Fabrizia Lopilato
Al fine di dare una definizione univoca dell’espressione “comunicazione non verbale” risulta opportuno specificare il significato dei termini “comunicazione” e “non verbale” data la molteplicità dei loro significati. 2.1 DEFINIZIONE DI COMUNICAZIONE NON VERBALE Ognuno degli autori, che ha studiato la comunicazione non verbale (CNV), ha fornito una definizione peculiare di questo termine. Secondo Argyle (1992) la comunicazione non verbale, definita anche “comunicazione corporea” (bodily communication), riveste un ruolo centrale nel comportamento sociale dell’uomo e ha luogo ogni volta che una persona influenza un’altra attraverso l’espressione del volto, il tono di voce o uno qualsiasi delle seguenti modalità espressive: espressione facciale, sguardo e dilatazione delle pupille, gesti e altri movimenti del corpo, postura, contatto fisico, comportamento spaziale, abbigliamento e aspetto esteriore, vocalizzazioni non verbali, odore.
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Ognuno di questi segnali può essere suddiviso in una quantità di ulteriori variabili; lo sguardo, per esempio, presenta diverse fisionomie: guardare mentre si ascolta, guardare mentre si parla, sguardi reciproci, durata delle occhiate, ecc... . Queste sottocomponenti sono oggetto di accurate ricerche empiriche volte ad indagare quali effetti hanno queste variabili sull’efficacia della relazione comunicativa. Secondo l’autore questi segnali possono essere intenzionali, o non intenzionali; nel secondo caso possiamo parlare di “comportamento non verbale” o, in altri casi, di “espressione di emozioni”. Argyle inoltre afferma che “sfortunatamente è molto difficile decidere se un particolare segnale non verbale si propone di comunicare o no: in molti casi infatti essi sono una miscela di segnali intenzionali (diretti a un fine) e segnali non intenzionali (semplici risposte comportamentali o fisiologiche). Per esempio, le espressioni facciali dell’emozione sono costituite in parte dall’espressione spontanea dell’emozione (cioè, dal comportamento non verbale) e in parte da tentativi di controllarle, di conformarsi alle regole sociali, o di nascondere l’emozione vera (comunicazione non verbale)”. Secondo Anolli (2002) la CNV, oggi chiamata anche “comunicazione extralinguistica” comprende un insieme alquanto eterogeneo e disperso di fenomeni e di processi comunicativi che vanno dalle qualità prosodiche e paralinguistiche della voce, alla mimica facciale, ai gesti, allo sguardo, all’elemento prossemico (la prossemica è la scienza che studia lo spazio e le distanze come fatto comunicativo; lo studio, cioè, sul piano psicologico, dei possibili significati delle distanze materiali che l’uomo tende ad interporre tra sé e gli altri), al sistema aptico (inteso come contatto fisico tra i soggetti coinvolti nella comunicazione e definisce inequivocabilmente il loro grado d’intimità), alla competenza cronemica (intesa come la concettualizzazione e l’uso del tempo, nei comportamenti comunicativi da parte dei membri di una determinata cultura: il ritmo del parlato, i turni di parola nel dialogo [turn talking], la lunghezza delle pause in relazione al contesto e il senso di puntualità) per giungere fino alla postura, all’abbigliamento e al trucco. Secondo Bonaiuto e Maricchiolo (2006) “non verbale” significa semplicemente “tutto ciò che non è parola”, in pratica tutto ciò che non è linguaggio verbale.
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Dunque se per comunicazione si intende un interscambio dinamico, un inviare e ricevere informazioni e pensieri, un condividere e costruire significati, la CNV può essere definita come “una trasmissione di contenuti, una costruzione e condivisione di significati che avviene a prescindere dall’uso delle parole”. Alcuni autori, infatti, come ad esempio Greene (1980), alla distinzione linguistica tra “comunicazione verbale” e “comunicazione non verbale” contrappongono quella fra “comunicazione che fa uso di parole” e “comunicazione che non ne fa uso”. Isabella Poggi (2006), si riferisce alla CNV usando il termine “le parole del corpo” e ne fornisce una definizione piuttosto curiosa; affermando che tutti noi siamo “poliglotti” perché parliamo non solo con l’apparato fono-articolatorio, ma anche con le mani, con gli occhi, con il viso, con i movimenti e le posture del busto e delle gambe, con il contatto fisico e le distanze che mettiamo fra noi e gli altri. Secondo l’autrice è tutto il corpo che comunica, a volte i suoi messaggi si cumulano, si ribadiscono, si confermano a vicenda (come quando si dice “tutto il suo corpo esprimeva la sua gioia”), ma altre volte si contraddicono, l’uno smentisce l’altro, e li sentiamo stridere, (come quando “dici che mi ami ma sento che mi respingi”, oppure “mi sgridi, ma in modo bonario”). Secondo Michela Balconi (2008) i differenti i sistemi di CNV possono essere collocati all’interno della categoria della comunicazione extralinguistica, intesa come insieme di sistemi di segnalazione che, in aggiunta al verbale, contribuiscono a definire il significato “modale” della comunicazione, qualificandola. Alcuni di questi sistemi sono stati più ampiamente esplorati, costituendo un ambito di indagine avanzato, come nel caso della comunicazione mimica, soprattutto in relazione alle funzioni di comunicazione delle emozioni a essa connaturate; altri, al contrario, presentano un insieme di conoscenze ridotte e alquanto frammentate, come nel caso dei sistemi cinesici. 2.2 LO STUDIO SCIENTIFICO DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE Come è stato sottolineato da diversi studiosi della CNV, sia in trattati (Argyle, 1992), sia in approfondimenti specifici di psicologia sociale (DePaulo, Friedman 1998), non esiste una vera e propria teoria gener le della comunicazione non verbale, o unica disciplina che si occupa o si è occupata dello studio dei suoi aspetti e delle sue funzioni. 34
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Lo studio della CNV ha, infatti, origini e radici diverse che si ritrovano in varie discipline scientifiche le quali, nel corso dello sviluppo, si sono occupate, dello studio dell’uomo e della sua comunicazione e rea zioni. Pertanto in ambito scientifico si sono sviluppate diverse posizioni teoriche degne di attenzione. - La concezione innatista Nel 1872 Charles Darwin scriveva “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. Il volume, fra l’altro, discuteva le origini biologiche e innate della comunicazione non verbale. Mentre per quanto riguarda il linguaggio verbale, possiamo ritenere appurata l’influenza della componente culturale quale fattore costitutivo del linguaggio (sebbene per alcuni autori elementi innati siano imprescindibili;cfr. Chomsky, 1970), per quanto riguarda i comportamenti comunicativi non verbali questa influenza non è del tutto scontata. Il lavoro di Darwin è stato fondamentale per aver apportato diversi stimoli allo sviluppo della ricerca sulla CNV ed è stato il primo studioso a mettere in risalto l’apporto determinante di alcuni comportamenti sociali, per lo sviluppo della specie. Il comportamento sociale, negli animali ma anche nell’uomo, include infatti, segnali non verbali, che si esprimono utilizzando condotte cinestesiche e mimiche che coinvolgono il corpo e comportamenti adattivi biologicamente e socialmente rilevanti, quali la difesa collettiva del territorio, il procacciamento del cibo, l’intimità, l’affiliazione, l’attrazione e l’accoppiamento, la dominanza del gruppo, l’allevamento della prole ecc. A questo proposito, alcuni studiosi hanno supposto l’esistenza di un sistema generale di regole che governano i segnali non verbali; una sorta di grammatica universale del comportamento sociale non verbale umano, come quella ipotizzata da Chomsky per il linguaggio parlato. Secondo tale prospettiva, gli uomini dispongono di un repertorio di segnali, frutto di adattamenti filogenetici che regola e modula le loro relazioni e in ultima analisi ne influenza la coesistenza sociale. La prospettiva biologica, facendo riferimento ai lavori di Darwin, sostiene che le espressioni non verbali, sia nella manifestazione delle emozioni che nell’espressione dei comportamenti comunicativi non verbali, non solo avrebbero origine innata e dunque non
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sarebbero influenzati dall’esperienza individuale, ma assumerebbero connotazioni universali comuni alle varie culture e tra specie animali diverse. - Il modello neuroculturale Questa teoria è fondamentalmente ancorata alla concezione darwiniana dell’innatismo (la comunicazione è presente fin dalla nascita e scarsamente appresa) e dell’universalità (a parte casi ridotti di differenziazioni, è presente con modalità simili tra le culture) della comunicazione non verbale (Ekman, 1994). In quanto ereditata dai primati, essa preserverebbe solo alcune delle funzioni svolte in origine, non essendo attualmente più legata alle funzioni di mantenimento della sopravvivenza, ma sarebbe piuttosto deputata alla regolazione dei rapporti tra individui della stessa specie. Di particolare importanza è la funzione ancora attiva di espressione e comprensione delle emozioni, in quanto elementi che fungono da regolatori della condotta sociale (Izard, 1994). Secondo tale teoria le componenti culturali e apprese svolgerebbero un ruolo significativo unicamente nella fase di regolazione del comportamento per la sua manifestazione in un contesto pubblico, attraverso l’applicazione di regole denominate da Ekman “regole di esibizione” (display rules) che possono modificare la manifestazione non verbale delle emozioni attraverso quattro modalità: intensificazione delle espressioni, attenuazione, inibizione o soppressione, mascheramento o simulazione (Ekman, 1994). Tuttavia l’elemento critico di tale approccio è costituito dall’eccessiva importanza attribuita alle componenti innate, fatto che ne limita grandemente il potenziale esplicativo, data l’estrema varietà di modalità specifiche di produzione e di comprensione all’interno di ogni gruppo culturale. - Il modello culturale Secondo la prospettiva culturalista, “ciò che è mostrato dal volto e dal corpo è scritto dalla cultura”. Questo aforisma sintetizza correttamente la posizione antropologica, secondo cui l’origine di una buona parte dei comportamenti non verbali, utilizzati dagli uomini soprattutto a fini sociali, è appresa nel corso dell’infanzia al pari della lingua parlata e presenta variazioni sistematiche da cultura a cultura.
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L’enfasi è posta sui processi di differenziazione, che conducono a forme non verbali uniche ed esclusive proprie di ciascun popolo e in stretta relazione alle culture di riferimento. La maggior parte degli studi antropologici, con l’obiettivo di dimostrare l’origine culturale di molti segnali sociali non verbali, ha preso in esame culture e tribù indigene non del tuo “civilizzate”, nel senso occidentale del termine. Questo perché è difficile ai giorni nostri isolare le unicità culturali allo scopo di studiarne le differenze, dato l’alto grado di osmosi delle tradizioni da una cultura all’altra. Questa tendenza alle omogeneità è dovuta a diversi fattori: la diffusione dei mass media, la velocità e la facilità delle vie di comunicazione non solo fisiche, ma anche virtuali che avvicinano anche i paesi più distanti, la configurazione di società multietniche con il conseguente incremento di gruppi e famiglie multirazziali, la tendenza occidentalizzante e globalizzante che sta pervadendo l’umanità nelle sue manifestazioni economiche e culturali. Sebbene vi siano già evidenze empiriche a carattere scientifico nella seconda metà dell’800 (De Jorio, 1832) sul gesticolare dei napoletani), i primi studi antropologici sulla CNV risalgono prevalentemente alla prima metà del ’900, quando comunque certe differenze e specificità culturali erano ancora facilmente percepibili. Efron (1941) cominciò a esaminare la comune credenza che gli italiani e gli ebrei gesticolassero in misura maggiore rispetto agli nordeuropei. Egli, a seguito del fenomeno delle massicce immigrazioni verso il Nord America, studiò le comunità italiane ed ebree negli Stati Uniti e notò, come questi utilizzassero il linguaggio non verbale allo stesso modo di popoli d’origine, dimostrando così l’influenza culturale su tali espressioni. Birdwhistell (1970) porta all’estremo l’analogia tra CNV e lingua, asserendo che i movimenti non verbali, che egli chiama cinesici, hanno forme determinate e invarianti, ma che il loro codice è cultura-specifico; egli afferma che ogni segnale non verbale ha di per se poco o nessun significato e che ne assume uno solo in determinati contesti culturali. All’interno di questo approccio funzionale, uno dei contributi più interessanti e sicuramente quello di Hall (1968): egli, introducendo il termine “prossemica”(relazione dell’uomo con lo spazio fisico) analizza le differenze culturali della distanza interpersonale dimostrando che
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essa può assumere significati notevolmente differenti, a volte addirittura opposti, secondo la cultura. Infatti, mentre i Nord americani o comunque tutte le culture di origine anglosassone, permettono di entrare nel proprio spazio intimo solo alle persone con cui hanno un rapporto più confidenziale, gli arabi o quasi tutti i popoli di origine mediorientale, sopportano senza troppi fastidi contatti fisici, anche prolungati, con estranei. Hall spiega ciò, oltre che con le condizioni ambientali geografiche (la continua pressione esercitata dal deserto costringe questi popoli a vivere solo in certe zone e ad accettare come necessaria questa alta densità di popolazione), con la differenza culturale, basata sulla concezione diversa che hanno i due popoli dell’Io. I Nord americani e gli occidentali in genere riconoscono l’Io come un tutt’uno di anima e corpo: dunque tutto ciò che entra in contatto con il proprio corpo è come se invadesse tutta la persona. Gli arabi identificherebbero l’Io con l’anima, quindi con qualcosa che sta “dentro” il corpo, mentre considerano quest’ultimo, come facente parte dell’ambiente esterno: dunque non giudicano il contatto fisico con l’altro come una violazione del proprio spazio o come una minaccia alla propria persona. Ciò dimostra che esistono parecchie differenze tra popoli orientali e occidentali nei segnali non verbali: infatti, non soltanto le due aree culturali danno significati sociali diversi allo stesso comportamento non verbale, ma possono utilizzare comportamenti diversi con lo stesso significato sociale. La forte valenza culturalista assunta da tale prospettiva impedisce tuttavia in molti casi di cogliere l’aspetto universale di molti significati condivisi anche tra culture differenti. - La prospettiva dell’interdipendenza tra natura e cultura Sia la prospettiva innatista, sia quella culturalista si sono dimostrate parziali e unilaterali nell’enfatizzare un unico punto di vista. Oggi è diventata dominante fra gli studiosi la prospettiva dell’interdipendenza tra natura e cultura nell’origine e nella conformazione della CNV. Le strutture nervose e i processi neurofisiologici condivisi in modo universale a livello di specie umana, sono organizzati in configurazioni differenti secondo le culture di appartenenza. La CNV si fonda su circuiti nervosi specifici deputati all’attivazione, regolazione e controllo dei movimenti sottesi alle diverse forme della CNV (dalla mimica
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facciale ai gesti, alla paralinguistica, all’aptica ecc.). Intervengono a questo riguardo sia il sistema piramidale (che comprende l’area motoria e l’area premotoria) sia il sistema extrapiramidale (situato nel corpo striato e nel tronco encefalico) ad attivare, a gestire e a controllare l’enorme quantità e varietà dei movimenti nelle loro diverse configurazioni in termini di estensione, di precisione, di intensità, di plasticità ecc. I sistemi piramidale ed extra piramidale agiscono in modo coordinato e sincrono attraverso circuiti funzionalmente interconnessi e meccanismi interdipendenti, che facilitano o che inibiscono, l’attività dei motoneuroni, per l’esecuzione e gli aggiustamenti progressivi dei movimenti volontari, nonché per l’influenza sulle reazioni motorie automatiche (riflessi miotattici) che accompagnano tali movimenti. In quest’attività nervosa si integrano processi elementari automatici, di ordine inferiore, con processi volontari e consapevoli, di ordine superiore. Pertanto, la CNV pur essendo vincolata da meccanismi automatici di base, non esula dal controllo dell’attenzione e della coscienza ed è soggetta a forme più o meno consistenti di regolazione volontaria nelle sue espressioni. Questa plasticità della CNV pone le condizioni per le possibilità di apprendimento di alcune delle sue diverse forme. Per alcune di esse, come i gesti, si possono avere forme di apprendimento assai simili a quelle che si realizzano per il linguaggio; per altre l’apprendimento, pur essendo presente, è meno consistente (come la mimica facciale). Anche per i diversi sistemi di significazione e di segnalazione della CNV si attivano importanti processi di condivisione convenzionale all’interno di ogni comunità di partecipanti. Le predisposizioni genetiche sono declinate, di volta in volta, secondo linee e procedure distinte e differenziate che conducono a modelli comunicativi diversi e molto distanti fra loro sul piano dei sistemi non verbali di interazione. È sufficiente pensare alla grande distanza culturali fra la CNV dei giapponesi è quella delle popolazioni latine. - Il modello cognitivo Secondo tale approccio solo una parte delle competenze comunicative sarebbe di origine innata. Si tratta dell’insieme di competenze che contribuiscono alla costruzione del piano intenzionale e della capacità di formulare rappresentazioni circa le credenze, mentre le altre competen-
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ze di alto ordine, come la capacità di interpretare la mente altrui, sarebbero acquisite solo successivamente nel corso dello sviluppo (Bara BG, 1999). Inoltre, è possibile rilevare come la compromissione di alcune componenti linguistiche non influenzi la capacità di utilizzare la comunicazione rispetto ai sottosistemi comunicativi che la caratterizzano, segnalando una sostanziale indipendenza di due livelli. In termini evolutivi ciò sarebbe supportato da differenti fasi di acquisizione delle competenze linguistiche ed extralinguistiche. Tuttavia, anche in questo caso è possibile individuare elementi di criticità nella prospettiva teorica, in particolare per quanto concerne il processo di “sintesi” dei sistemi verbale e non verbale a favore di una sostanziale autonomia e indipendenza dei due domini. Infatti, la rilevazione di una differenziazione tra i sistemi neurali sottesi alle componenti linguistiche ed extralinguistiche appare non sufficiente per ipotizzare l’esistenza di un percorso evolutivo totalmente indipendente tra i due sistemi. - Il modello sociologico L’approccio sociologico allo studio della CNV prende ampiamente spunto dalle ricerche antropologiche ed etnografiche e, a sua volta, influenza le indagini in campo psicologico. I sociologi partono dall’assunto che certi segnali non verbali hanno funzioni importanti nel gestire diverse regole sociali. Secondo l’orientamento sociologico, infatti, esistono delle regole che governano gli stili di comportamento e le sequenze di eventi in contesti e situazioni particolari. Ogni cultura, infatti, ha regole diverse circa il comportamento da assumere in diverse situazioni chiamate dagli studiosi di questo approccio “contesti comportamentali”, in cui la CNV assume un ruolo fondamentale nel regolare le condotte sociali. Secondo i sociologi, infatti, tutti i segnali non verbali, possono essere spiegati sulla base di queste regole sociali, che essendosi sviluppate all’interno della storia culturale di una società in quanto ad essa funzionali, possono essere spiegate dimostrando quanto e come esse siano state utili a determinati gruppi. Un altro approccio sociologico, l’interazionismo simbolico, pone l’attenzione sui significati soggettivi che vengono assegnati ai segnali non verbali dalla cultura e da determinati gruppi. Goffman (1969) sostiene
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che gli individui utilizzano particolari comportamenti, come l’adozione di abbigliamento e accessori o l’esecuzione di gesti provvisti di un certo significato, come autopresentazione, vale a dire per comunicare agli altri una determinata immagine di sé; questo è possibile in quanto esistono degli atti non verbali dotati di particolari significati culturalmente definiti e pubblicamente condivisi. Goffman, inoltre, sottolinea come, all’interno di una stessa cultura, lo stesso segnale non verbale possa trasmettere significati differenti in contesti sociali diversi, come in una rappresentazione di ruoli. Questo approccio “teatrale” o “drammaturgico” alle relazioni sociali è stato esplicitamente adottato e sviluppato da Goffman più chiaramente nel suo primo lavoro “La vita quotidiana come rappresentazione”. - Il modello psicologico L’approccio psicologico allo studio della CNV si distingue i 2 orientamenti fondamentali: quello della psicologia sperimentale e quello della psicologia sociale. Lo studio sistematico della CNV, in psicologia sperimentale, si sviluppa rapidamente nei primi decenni del ’900 seguendo l’interesse della psicologia della Gestalt per i principi di organizzazione della percezione. Sin dagli anni ’20 alcuni ricercatori avevano studiato le espressioni facciali delle emozioni, le vocalizzazioni e i gesti spontanei rispetto a quelli simulati. L’obiettivo era quello di individuare i processi cognitivi sottostanti e, oltre alla produzione di segnali non verbali da parte del comunicante, si poneva l’attenzione anche sulla percezione e l’interpretazione degli stessi da parte del ricevente. Gli psicologi sperimentali si proponevano di verificare se le espressioni facciali delle emozioni fossero coerenti, o riconoscibili da altri, o veridiche rispetto allo stato emotivo sottostante. Nonostante la rilevazione di attendibilità e validità di tali studi, queste ricerche presentavano ambiguità concettuali e metodologiche che furono in seguito contestate agli studiosi di questo orientamento. Per esempio, non era facile distinguere l’espressione di gioia da quella di felicità, inoltre, questi esperimenti si basavano soprattutto sullo studio di processi interindividuali ed enfatizzavano i processi cognitivi interni rispetto all’importanza dei fattori contestuali. L’approccio psicologico-sociale, invece, sottolinea come i fattori contestuali possano avere un peso sui diversi modi in cui le espressioni non verbali possono essere “giudicate”. 41
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La ricerca in psicologia sociale mostra come la semantica, il contesto e i processi di attribuzione giochino un ruolo fondamentale nelle interpretazioni delle espressioni non verbali. Anche la psicologia clinica si è occupata dell’analisi della CNV: raramente però i clinici hanno affrontato l’argomento in modo sistematico. Bateson (1976) ha attribuito un ruolo importante alla CNV nella sua “teoria sulla schizofrenia”. Egli rifacendosi anche ai suoi studi sui livelli di apprendimento, ipotizza come possibile causa della schizofrenia l’esposizione a situazioni di doppio legame in ambito familiare. Il doppio legame indica una situazione in cui, tra due individui uniti da una relazione emotivamente rilevante, la comunicazione dell’uno verso l’altro presenta una incongruenza tra il livello del discorso esplicito (quello che viene detto) e il livello implicito (come possono essere i gesti, gli atteggiamenti, il tono di voce), e la situazione sia tale per cui il ricevente il messaggio non abbia la possibilità di decidere quale dei due livelli, che si contraddicono, accettare come valido, e nemmeno di far notare a livello esplicito l’incongruenza. Tale esposizione comporterebbe nello schizofrenico l’incapacità di saper valutare correttamente i legami tra comunicazione esplicita ed implicita adoperati dalle persone “normali”. 2.3 L’EVOLUZIONE DEI SISTEMI DEI CNV Il problema collegato alla questione dell’evoluzione dei sistemi di comunicazione non verbale è relativo alla continuità/discontinuità nell’acquisizione delle competenze non verbali rispetto alle forme comunicative presenti nei primati. Nel corso del tempo si sono succedute ipotesi alternative. Di particolare interesse è il modello proposto da Burling (1993) che suppone una forma di continuità evolutiva tra specie umana e primati per le componenti extralinguistiche e al contrario, una discontinuità sul piano linguistico. In altri termini, la comunicazione non verbale umana avrebbe molte caratteristiche comuni con quella di primati, in particolare per quanto concerne: - la gradualità di segnali, con una conversione sistematica senza continuità (sorriso e smorfia, ad esempio); - lo scarso apporto dell’apprendimento (determinazione genetica di alcune componenti come il sorridere),
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- la condivisione informativa (ovvero l’equivalenza semiotica di buona parte dei sistemi di comunicazione non verbale tra uomo e primati); - la ridotta controllabilità volontaria di alcuni segnali non verbali (come, ad esempio, le componenti vocali). Complessivamente, a fronte di una unicità e specificità delle caratteristiche comunicative tra le specie, è possibile individuare elementi di continuità rispetto al non verbale, con particolare riferimento alle funzioni di espressione e regolazione delle emozioni e, più in generale, della struttura sociale (Tomasello M.,Call J.,1997). A favore di una sostanziale discontinuità si pongono, invece, i modelli di Chomsky (1986), secondo cui il linguaggio è una forma di comunicazione evoluta e specifica della sola specie umana e di Lieberman (1991) che fonda la non comparabilità delle due comunicazioni sulla base delle differenze sostanziali esistenti tra apparato fonatorio dell’uomo e quello di altre specie. Una discontinuità cognitiva viene postulata dal modello di Bara, secondo cui le evidenti differenziazioni rispetto al contributo e allo sviluppo corticale impedirebbero di stabilire una continuità effettiva tra comunicazione umana e dei primati. In questa prospettiva le funzioni linguistiche ed extralinguistiche opererebbero indipendentemente l’una dall’altra con fasi di apprendimento differenziate. Queste ultime, in particolare, sarebbero istanziate per prime e supportate da aree cerebrali distinte da quelle sottostanti al linguaggio. 2.4 LE FUNZIONI DELLA CNV Secondo Anolli (2003) la CNV, pur facendo riferimento a referenti precisi e definiti, fornisce una rappresentazione spaziale e motoria della realtà, ma non una rappresentazione proposizionale (intesa come “la funzione proposizionale della comunicazione” che serve per elaborare, organizzare e trasmettere conoscenze fra i partecipanti; conoscenze che sono raccolte, organizzate e veicolate sottoforma di proposizioni, costituite a loro volta da un predicato e dai suoi argomenti), che sarebbe invece esclusiva del linguaggio verbale e del linguaggio dei segni. Di conseguenza, la CNV risulta poco idonea a definire e a trasmettere conoscenze; concetti e idee astratte (come, per esempio, “eventualità”, “libertà”, “verità” ecc...) sono pressoché impossibili da rappresentare
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attraverso i segni non verbali; ma anche eventi o oggetti concreti (come, per esempio, “duomo”, “capanna”, “foglia”) sono abbastanza difficili da trasmettere facendo ricorso solo ed esclusivamente ai segnali non verbali. È altrettanto difficile pensare di rappresentare aspetti qualitativi degli oggetti o degli eventi (come, per esempio, “vecchio”, “lucido”, “intrigante”) attraverso questa unica modalità. Questa condizione è dovuta al fatto che la “CNV presenta un grado limitato di astrazione, pur essendo convenzionalizzata”. Ecco perché secondo Anolli, la specie umana, al pari di altre specie animali, fa ricorso in maniera continua e sistematica alla CNV, per ragioni essenzialmente relazionali. Infatti, alla CNV è affidata in modo predominante la componente relazionale della comunicazione. È necessario ricordare infatti, che la comunicazione è costituita da una componente proposizionale che informa su “che cosa” viene comunicato, cioè sui contenuti e le conoscenze condivise con l’interlocutore, e da una componente relazionale, che stabilisce “come” un’informazione viene comunicata. Questa funzione prioritaria assunta dalla CNV si esplica nei seguenti modi: A. I segnali non verbali concorrono a generare e a sviluppare un’interazione con gli altri; il contatto visivo, il sorriso, il tono della voce o una sequenza di gesti possono favorire l’avvio di uno scambio comunicativo e di una conoscenza anche fra estranei; in funzione della disponibilità psicologica reciproca, tale avvio può proseguire nel corso del tempo e diventare un rapporto più profondo di vicinanza e di intimità; B. I segnali non verbali risultano fondamentali nel mantenere e rinnovare le relazioni nel corso del tempo; una volta stabilita la relazione con un’altra persona infatti, essa va alimentata in continuazione attraverso gli scambi comunicativi. “Una relazione non può vivere nel vuoto ma va costantemente sostenuta con segnali che confermino e rafforzino il tipo di relazione in atto fra due o più persone, sia essa di dominanza o di amore o di cooperazione”; C. Inoltre, i segnali non verbali sono particolarmente efficaci nel cambiare una relazione in corso; infatti non è detto che un certo tipo di relazione debba rimanere immutata nel corso del tempo. Il cambiamento psicologico delle relazioni passa in modo prevalente attraverso il cambiamento dei segnali non verbali che alimentano e regolano le rela-
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zioni stesse. Infatti, la modificazione dei gesti, dello sguardo, delle qualità della voce ecc. è conforme e proporzionale con la modificazione di un certo tipo di relazione. “Per esempio, nel passaggio da una relazione di sottomissione a una di dominanza, in numerose specie animali, compresa quella umana, i segnali non verbali di potere, di forza e di aggressione, attivati dai neurotrasmettitori (come l’aumento dell’adrenalina e la riduzione dei cortisolo), indicano un nuovo assetto sociale dei ranghi degli individui”; D. Infine, anche l’estinzione di una relazione, di norma, è gestita e regolata dalla CNV. In questa condizione si assiste a una riduzione progressiva o ad una interruzione repentina dei contatti, a una presa di distanza fisica, a una diminuzione degli aspetti affettivi. L’autore inoltre, afferma, che i sistemi non verbali sono in parte appresi dalla propria cultura di appartenenza e sono, a loro volta, modificabili nel corso del tempo. È possibile, infatti, intervenire sulle modalità comunicative non verbali e procedere ad una vera e propria “educazione al non verbale”, finalizzata a migliorare le capacità di gestione della relazione, come avviene già in teatro e nello spettacolo o nel training di politici e manager. Essa riguarda infatti l’impostazione della voce e della gestualità, la regolazione della mimica facciale, dello sguardo e della postura. La comunicazione non verbale, che risulta fondamentale sul piano relazionale, interviene anche in diversi ambiti psicologici, all’interno dei quali svolge particolari funzioni: A. La manifestazione delle emozioni: la CNV svolge un ruolo importantissimo nell’esprimere le emozioni. La voce, la mimica facciale, lo sguardo, i gesti, la postura, la distanza fisica ecc. convergono insieme agli aspetti linguistici per manifestare una data esperienza emotiva, in funzione di un determinato contesto di interazione. Questo medesimo quadro di segni non verbali consente di operare di opportune inferenze per procedere all’attribuzione di una certa emozione all’interlocutore (Anolli, 2002; Belelli, 1995); B. La manifestazione delle relazioni di intimità: in questo tipo di relazioni la distanza interpersonale diventa molto ridotta, aumentano la frequenza e l’intensità dei sorrisi, dei contatti oculari e corporei, lo spazio prossemico si riduce e la voce diventa flessibile, modulata e calda; anche il ritmo degli scambi diventa maggiormente sincronizzato. 45
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Tutti questi aspetti generano e incrementano il livello di armonia fra i due partner. Di norma, esiste una notevole differenza di genere poiché, se è la donna a comportarsi in modo amichevole e a prendere l’iniziativa dell’interazione, i suoi segnali non verbali sono percepiti come più compromettenti sul piano sessuale, rispetto ai medesimi segnali realizzati da un uomo. Anche quando una relazione di intimità si deteriora e diventa conflittuale, la CNV, segnala questo cambiamento: i partner fanno ricorso a segnali non verbali stilizzati e stereotipati, spesso formalizzati, improntati alla distanza, alla rigidità, all’incomprensione e a cercare di evitare di assumersi le proprie responsabilità comunicative; C. La manifestazione della relazione di potere: la CNV nella specie umana, come per altre specie animali, assume una funzione essenziale nella definizione, nel mantenimento e nella difesa della relazione di dominanza. Innanzitutto è l’aspetto esteriore, quindi l’abbigliamento, l’altezza e la dimensione corporea, che suscita la percezione di potere. Un chiaro segnale non verbale di dominanza è rappresentato dalla postura espansiva e rilassata, con la disposizione asimmetrica degli arti superiori e inferiori, mentre invece chi è in posizione di sottomissione tende a mantenere una configurazione rigida e simmetrica, collegata con uno stato di tensione e di ansia. Chi è sottomesso esibisce il sorriso in modo più frequente, e nei momenti chiave della conversazione tende a distogliere lo sguardo; chi è dominante invece, mantiene un’espressione facciale più seria, con il mento proteso in avanti, guarda più a lungo l’interlocutore, mentre parla tende ad articolare in modo più chiaro le parole, la sua voce presenta un ritmo veloce, un volume abbastanza elevato e un tono basso, nella conversazione interviene più spesso, tiene il turno di parola per una porzione di tempo più lunga, interrompe più frequentemente gli altri e fa prevalere il suo ritmo di eloquio. Anche la territorialità è un segno non verbale importante di potere. Chi è dominante segnala la sua posizione mediante un uso attento dello spazio: egli dispone di uno spazio personale più ampio che rende poco accessibile gli altri. Ad esempio nelle aziende, chi è dominante lavora in un ufficio più grande e meglio arredato, nel corso delle riunioni occupa la posizione focale, fa ricorso a una serie di segnali visibili (dall’auto aziendale ai quadri appesi alle pareti ecc.) per confermare la sua posizione di dominanza. 46
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Grazie a questa serie di segnali non verbali, la relazione di potere può essere mantenuta in termini impliciti, come qualcosa di scontato e di acquisito, che non può essere messo in discussione; D. La comunicazione persuasiva: questo tipo di comunicazione ha lo scopo di influenzare e modificare lo stato mentale (credenze, valori, atteggiamenti ecc.) degli altri. Essa svolge una funzione basilare per la formazione della rete di rapporti all’interno di un gruppo, poiché serve a mantenere l’identità del gruppo, a impedire movimenti di devianza, a influenzare i processi di decisione. L’efficacia della comunicazione persuasiva consiste nella capacità di cambiare gli atteggiamenti dei destinatari dell’atto comunicativo, in condizioni di assoluta libertà e non di costrizione. Questo processo è notevolmente influenzato dall’impiego di una serie di segnali non verbali: “ Chi guarda di più l’interlocutore, lo tocca lievemente ogni tanto, non si tiene distante da lui e veste in modo convenzionale o elegante ha maggiore probabilità di ottenere condiscendenza e di avere successo nella sua azione di comunicazione persuasiva”. Secondo Bonaiuto e Maricchiolo (2003) i comportamenti non verbali, assumono diverse funzioni all’interno dell’interazione sociale. Essi sono impiegati sia per inviare messaggi, sia per interpretarli; anche per la CNV esiste quindi una codificazione da parte del mittente e una decodificazione da parte del ricevente. Purtroppo però, a differenza della comunicazione verbale, nella CNV non esistono, codici stabiliti e universalmente condivisi che regolarizzino i due processi di codificazione e decodificazione. Ciò porta, nella comprensione dei messaggi, ad un’ambiguità potenzialmente maggiore rispetto a quella che si potrebbe verificare tra due parlanti nel corso di una conversazione. I due autori, prima di elencare le innumerevoli funzioni assunte dalla CNV, si sono soffermati ad analizzare la diatriba inerente all’intenzionalità comunicativa dei segnali non verbali: il quesito che si sono posti è il seguente: “I comportamenti non verbali possono essere considerati realmente comunicativi?”. Per rispondere a questa domanda essi hanno esaminato tutta la letteratura al riguardo e hanno riportato i dati ottenuti: alcuni studiosi del settore, sostengono che tutti i comportamenti non verbali potrebbero essere considerati comunicativi.
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Altri studiosi, invece, sostengono che solo i comportamenti realizzati con “l’intenzione” di comunicare, possono essere considerati comunicativi. Entrambi questi punti di vista sono stati criticati da altri autori, i quali hanno sostenuto che, affinché un comportamento non verbale sia considerato comunicativo, è necessario dimostrare che esso venga utilizzato sia per trasmettere sia per ricevere informazioni: essi hanno utilizzato i concetti di “codificazione sistematica” e “decodificazione appropriata”. Per quanto riguarda l’intenzione comunicativa, infatti, è difficile stabilire esattamente se una persona che esegue un determinato comportamento non verbale intende comunicare qualcosa e che cosa. Il mittente, d’altronde, può essere consapevole o meno, ossia, può o meno avere l’intenzione di comunicare, ma il suo comportamento non verbale può comunque assumere dei significati indipendentemente dalla sua volontà. Sembra, dunque, più indicato non parlare di separazione tra comportamento comunicativo e non comunicativo, bensì accettare la proposta di Ricci Bitti (1987) di un continuum, detto “scala di specificità comunicativa”, a un estremo del quale troviamo i comportamenti strettamente “comunicativi” e all’altro i comportamenti puramente “espressivi”. La comunicazione non verbale, infatti, può anche andare contro le reali intenzioni espresse dal decodificatore. Per esempio, negli studi di Bull (1987) sugli atteggiamenti e le emozioni degli ascoltatori espresse attraverso la postura, durante un’interazione comunicativa, è stato dimostrato che alcune posture sedute, caratteristiche della noia, includono, rilassarsi all’indietro, lasciar cadere la testa sul collo o appoggiarla a una mano e allungare le gambe. Però una persona dell’uditorio può mostrare, al parlante o a un altro osservatore, questi comportamenti senza nessuna consapevole intenzione di comunicare il suo stato di noia; anche se, questo può essere il messaggio che il parlante o l’oratore riceve. D’altra parte, un ascoltatore può anche tentare di sopprimere questi segnali “spia” cercando di apparire il più attento possibile e tuttavia potrebbe non riuscire a sopprimere uno sbadiglio “accidentale”. Al parlante, dunque, l’ascoltatore potrebbe anche comunicare di essere annoiato dal discorso, a dispetto delle sue migliori intenzioni di non esserlo e/o di non comunicarlo. Inoltre, non sempre le persone sono realmente consapevoli di quali segnali, verbali o non verbali, utilizzano per formarsi un’impressione sul tipo di atteggiamento o di emozioni che caratterizzano la persona con cui stanno interagendo. 48
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Questa concezione è suffragata anche dagli studi sulla dilatazione della pupilla. Questo segnale infatti, indica uno stato di eccitazione e di interesse; le pupille delle donne tendono a dilatarsi di fronte a immagini di uomini attraenti o di madri con i propri bambini; le pupille degli uomini, invece, tendono a dilatarsi alla vista di immagini di donne attraenti è stato dimostrato che quando gli uomini guardano immagini di donne attraenti che hanno le pupille dilatate, le loro pupille tendono a dilatarsi maggiormente rispetto a quando guardano immagini delle stesse donne che non abbiano le pupille dilatate. Gli stessi uomini, inoltre, dichiarano di non notare alcuna differenza tra le due immagini. Dunque, inconsapevolmente, gli uomini sono più attratti da quelle donne che danno loro l’impressione di essere interessate a loro; ciò implica che la dilatazione delle pupille è un segnale non verbale utilizzato inconsapevolmente sia da parte del “codificatore” sia del “decodificatore”, per la comunicazione e l’interpretazione delle intenzioni altrui e per la creazione dell’immagine dell’altro. Inoltre, questo segnale, essendo una risposta automatica del sistema nervoso, non è sotto il diretto controllo della volontà, dunque non può neanche essere considerato una forma di comunicazione intenzionale. Anche Argyle (1992) afferma che “sfortunatamente è molto difficile decidere se un particolare segnale non verbale si propone di comunicare o no: ci sono comunicazioni che sono motivate, senza però una precisa consapevolezza dell’intenzione. Un criterio è quello di vedere se il segnale è modificato o no in funzione delle condizioni (per esempio quando si telefona invece di comunicare de visu), o se il segnale viene ripetuto anche quando non ha alcun effetto. Un altro criterio è quello di verificare se l’emittente varia o no il suo segnale, allo scopo di provocare la risposta corretta del destinatario”. In molti casi, però, i segnali non verbali sono una miscela di “espressione spontanea e intenzionalità comunicativa”. D’altra parte, l’autore sostiene che “la distinzione tra segnali consci e inconsci è una questione di grado e vi possono essere gradi intermedi di consapevolezza”. Tornando a parlare delle funzioni della CNV, Bonaiuto e Maricchiolo (2003) affermano che i segnali non verbali, vengono utilizzati dalle persone soprattutto durante le interazioni sociali. Ciò significa che la CNV assume funzioni importanti nelle varie situazioni interattive, tant’è che essa può essere considerata
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un “linguaggio di relazione”. La loro ricerca, dunque, si è focalizzata ampiamente sul ruolo della CNV nell’interazione sociale, che secondo gli autori, si esplica attraverso le seguenti funzioni: - caratterizzazione delle relazioni interpersonali; - presentazione di sé; - persuasione, dominanza, potere e status; - differenziazione individuale di personalità e di genere; - espressione e riconoscimento delle emozioni; - comunicazione di atteggiamenti interpersonali; - CNV nel linguaggio verbale. Questa classificazione prende spunto dalle descrizioni e dagli approfondimenti di Argyle (1992), di Bull (2002), di De Paulo e Friedman (1998) i quali però non hanno fatto riferimento ad alcun tipo di criterio classificatorio esplicito. A. Caratterizzazione delle relazioni interpersonali: infatti il ruolo dei segnali non verbali, nel definire il tipo di relazione interpersonale che si realizza durante le interazioni sociali, assume un’importanza centrale. Ekman e Friesen (1969), ad esempio, parlano del comportamento non verbale come di un “linguaggio di relazione” utilizzato per segnalare i cambiamenti di qualità nello svolgimento dei rapporti interpersonali. La CNV è fondamentale, dunque, non solo nel generare e sviluppare le relazioni con gli altri, ma anche nella percezione dall’esterno delle relazioni stesse. Alcuni studi hanno dimostrato che se si chiede a degli osservatori, di giudicare il tipo di rapporto che esiste tra due persone che interagiscono in un video, i loro giudizi cambiano, risultando più o meno vicini all’autopercezione dei partecipanti all’interazione, a seconda del mezzo utilizzato per osservare l’interazione stessa. Lo studio ha dimostrato infatti, che quando gli osservatori esprimevano giudizi sull’interazione, osservandola solo attraverso il video, senza audio e senza trascritto del verbale, questi giudizi correlavano positivamente con i punteggi di valutazione sulla relazione, dati dagli stessi interagenti, a fine interazione. Le correlazioni erano più basse in caso di osservazione attraverso il solo trascritto verbale della conversazione, in caso di osservazione attraverso il video e il trascritto e in caso di osservazione attraverso il video e l’audio. 50
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Ciò significa che gli indici non verbali hanno una rilevanza notevole, anche maggiore di quella degli indici verbali, nell’influenzare la percezione e il giudizio sul tipo di rapporto che esiste tra due persone. Altri studi hanno dimostrato che l’osservatore può cogliere il tipo di rapporto che c’è tra una persona e il suo interlocutore anche senza vedere quest’ultimo, vale a dire guardando solo il comportamento non verbale del primo, durante l’interazione. Ad esempio, i bambini sono molto sensibili nella percezione del tipo di rapporto (amicizia, inimicizia, estraneità) che la madre intrattiene con un’altra persona, semplicemente guardando i segnali non verbali della madre che interagisce con il suo interlocutore. La coordinazione dei movimenti tra le persone, è un altra importante caratteristica delle relazioni interpersonali: il processo secondo cui, durante un’interazione, parlante e ascoltatore sembrano muoversi in armonia viene detto “sincronia interazionale”. Tale fenomeno sembra essere una caratteristica specifica delle interazioni intime e familiari di tipo quotidiano. Un concetto simile è la “congruenza posturale”: durante interazioni familiari e amichevoli, le persone adotterebbero posture simili; questo sta a significare la similarità delle opinioni e dei ruoli delle persone; mentre una “non congruenza posturale” suggerisce divergenze marcate tra le persone, sia negli atteggiamenti che nello status sociale. Alcuni studi, addirittura, distinguono tra “postura speculare” (in cui la parte sinistra del corpo di una persona è in posizione identica alla parte destra dell’altra e viceversa) e “postura identica” (il lato destro di una persona è uguale al lato destro dell’altra e il sinistro è uguale al sinistro), dimostrando che nei rapporti più positivi, le posture assunte dagli interagenti sono principalmente di tipo speculare piuttosto che identico. Inoltre, da parte di osservatori esterni, le interazioni dove sono presenti posture speculari piuttosto che identiche o non sincrone, vengono percepite come indice di buoni rapporti tra gli interagenti. Anche il concedere, durante una conversazione, feedback costanti al parlante da parte dell’ascoltatore, circa il suo livello di attenzione e di interesse, ma anche di accordo/disaccordo, fornisce indicazioni eloquenti sul tipo di relazione esistente tra i due. Il feedback continuo da parte dell’ascoltatore, essendo rappresentato
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per la maggior parte da segnali non verbali (cenni del capo, vocalizzazioni, gesti ect...), rappresenta una funzione importante della CNV. Infatti, in presenza di molti feedback da parte dell’ascoltatore, aumenta, dal punto di vista di un osservatore esterno, la percezione di positività del rapporto, mentre dal punto di vista degli stessi interagenti, si accresce il grado di soddisfazione della relazione. La soddisfazione nella relazione è un predittore importante dell’abilità delle persone a riconoscere il significato dei messaggi inviati dal proprio interlocutore attraverso gli indicatori non verbali. Molti studi, svolti in contesti matrimoniali, hanno dimostrato che le coppie felici e con maggior grado di soddisfazione nella relazione, riconoscono più facilmente i segnali non verbali del proprio partner, rispetto alle coppie infelici oppure con bassi punteggi di soddisfazione del rapporto. Sembrerebbe dunque che la decodifica della CNV possa essere impoverita oppure ostacolata dall’insoddisfazione della relazione; B. Presentazione di sé: il linguaggio del corpo, rivela anche gli atteggiamenti personali verso la propria immagine e partecipa alla presentazione di sè agli altri. La metafora di Goffman (1969) dell’uomo come attore che interpreta una “parte” mostrando al “pubblico” l’immagine migliore di sé, illustra bene questo tipo di funzione comunicativa. Una questione importante da considerare quando si parla di comportamenti non verbali che trasmettono indici di presentazione di sé è, quanto e in che modo le impressioni di sé che si vogliono trasmettere agli altri siano più o meno consapevolmente controllate. Secondo il senso comune, le persone considererebbero la maggior parte degli indici non verbali, come espressioni incontrollate di reazioni spontanee. Ma ciò non è ritenuto del tutto vero da molti ricercatori: De Paulo (1992), per esempio, sostiene che nelle interazioni sociali, le persone esercitano un certo controllo sui loro comportamenti non verbali, come nel caso in cui gli adulti, molto spesso, tendono a controllare le proprie emozioni davanti agli altri. Il grado in cui le persone controllano le impressioni di sé che trasmettono agli altri, varia, come notato da Leary (1995), passando attraverso i seguenti stadi: - “l’oblio dell’impressione”, quando le persone sono completamente incuranti e non coscienti delle impressioni che suscitano negli altri;
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- “un’analisi preattentiva dell’impressione”, quando la consapevolezza delle reazioni degli altri sopraggiunge senza un vero e proprio processo di attenzione; - “la consapevolezza dell’impressione”, quando le persone pongono attenzione alle impressioni di sé che stanno trasmettendo; - “la focalizzazione sull’impressione”, quando le persone sono completamente concentrate sulle impressioni di sé che trasmettono agli altri. Le persone che si trovano interamente in quest’ ultimo stadio, sono solo gli attori, i truffatori e/o le persone “comuni” in particolari situazioni interattive (come, ad esempio, i colloqui di selezione o i primi incontri, in cui l’impressione che si vuole trasmettere di sé diventa fondamentale per l’esito successivo dell’interazione stessa). Ma, nella maggior parte dei casi, i segnali non verbali comunicano messaggi sulla presentazione di sé in condizione di bassa consapevolezza. I comportamenti non verbali riguardanti la presentazione di sé, variano notevolmente e significativamente con il variare delle caratteristiche delle persone cui sono indirizzate, ma anche in base alle situazioni e alle circostanze in cui un soggetto si trova. Ad esempio, quando si deve chiedere aiuto a un estraneo, si tende maggiormente a imitarne la postura oppure a sorridere più frequentemente o a guardare negli occhi il potenziale soccorritore, allo scopo di fare buona impressione sull’altro e provocare un atto benevolo da parte sua. Non sempre, comunque, è facile realizzare una regolazione efficace dei comportamenti non verbali allo scopo di trasmettere impressioni di sé all’altro. Ci sono infatti alcune eccezioni: qualche volta le persone non sanno quali siano i comportamenti non verbali più utili per trasmettere informazioni su se stessi, e anche quando lo sanno, non sempre sono capaci di produrre deliberatamente questi comportamenti, né di inibire comportamenti inefficaci per i loro obiettivi (De Paulo, Friedman, 1998). Alcuni problemi nella regolazione dei comportamenti non verbali sono dovuti alle caratteristiche particolari di tali indicatori. Ad esempio, non è facile monitorare il tono della voce o le espressioni del viso, dato che le persone non possono guardare il proprio viso o ascoltare la propria voce nello stesso modo in cui lo fanno gli altri. Altre incertezze nella regolazione dei propri messaggi non verbali possono essere originate da caratteristiche fisionomiche o espressive proprie della persona: ad esempio, un viso dalle caratteristiche fisiche
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infantili diventa svantaggioso quando lo scopo della persona è quello di apparire severa e rigorosa. Esistono poi degli indicatori non verbali dinamici che è quasi impossibile utilizzare “a comando”, quando e come si vuole. Per esempio, Ekman (1985) ha notato che il sollevamento e la tensione insieme di entrambe le sopracciglia, che si verificano quando si è impauriti, sono per molte persone impossibili da simulare quando non sono realmente spaventate. Inoltre, contribuiscono al successo espressivo non verbale, anche la motivazione e la sicurezza: un livello moderato di motivazione può essere utile nell’alimentare lo sforzo e l’attenzione necessaria a produrre performance non verbali convincenti. La questione della regolazione deliberata dei comportamenti non verbali, porta dunque inevitabilmente ad analizzare anche il “fenomeno dell’inganno”, che si verifica nel momento in cui un soggetto vuole comunicare, anche attraverso altri canali, informazioni su di sé che non sono vere. Nell’inganno, la CNV assume un ruolo preminente, in quanto molti degli indicatori che possono svelarlo, sono di tipo non verbale. Lo stesso Freud (1970), ad esempio, sosteneva che “tutto il corpo (ogni poro) è capace di svelare ciò che è tenuto nascosto dalla bocca”. Il comportamento non verbale riveste infatti un ruolo particolarmente importante nella valutazione della menzogna, in quanto lo si ritiene più spontaneo e più difficile da dissimulare o fingere: così nel caso in cui si ricevano messaggi verbali in contraddizione con quelli non verbali, si tende generalmente a considerare più affidabili i secondi. Tuttavia, alcune strategie, sia verbali sia non verbali, possono essere utilizzate ai fini della “copertura” della menzogna da parte dell’emittente. Un esempio può essere quello di ridurre o intensificare le emozioni in modo esagerato; oppure si può falsificare un’espressione emotiva simulando uno stato d’animo non realmente provato oppure neutralizzarne l’espressione per non mostrare nulla di quanto si sente. Chi mente, a volte, quando si accorge di essere sospettato, controlla meglio il proprio comportamento non verbale e vocale. Molti studi hanno infatti mostrato che chi dice una bugia produrrebbe significativamente meno gesti delle mani e movimenti del corpo di quando invece dice la verità. Ekman (1985) sostiene che, se da una parte, quando si mente, diminuiscono i movimenti maggiormente visibili e controllabili del corpo, dall’altra, quando si dice una bugia, si verificherebbero in
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chi mente dei micromovimenti, soprattutto del viso e dei muscoli sovraoculari, i quali rivelerebbero la menzogna. C. Persuasione, dominanza, potere, status: la funzione di persuasività della CNV è legata al fenomeno della menzogna. Infatti, mentendo, si cerca di convincere gli altri di qualcosa che non è vero, e per poterlo fare è importante che lo stile comunicativo utilizzato sia di tipo persuasivo. Persuadere il proprio interlocutore non significa solo convincerlo eventualmente su ciò che è falso, come nel caso della menzogna, ma anche esercitare su di lui una certa influenza sociale o una “dominanza comunicativa”. Dominare, nell’interazione comunicativa, significa, influenzare la condotta degli altri, portare gli individui a svolgere un compito o ad accettare un’idea, secondo le proprie preferenze. Infatti, durante un’interazione, un soggetto con uno stile comunicativo persuasivo, assume un ruolo dominante, quindi centrale rispetto agli altri partecipanti. Lo stato di leadership esercitato, si manifesta attraverso una serie di tipici indicatori non verbali: innanzitutto, l’apparenza fisica, in termini di altezza, costituzione e abbigliamento, giocano un ruolo predominante; inoltre gli individui di status più elevato, si impegnano maggiormente in contatti fisici rispetto a soggetti di status inferiore, utilizzano maggiormente il proprio spazio personale, utilizzano delle “intrusioni fisiche” (incluso il toccare o colpire gli altri), assumono posture più “aperte” e rilassate, sorridono di meno, tendono a guardare maggiormente gli altri mentre loro stessi parlano, piuttosto che mentre ascoltano e accompagnano il loro discorso utilizzando dei gesti finalizzati ad enfatizzarlo. Queste osservazioni sono supportate da numerosi studi che hanno analizzato alcuni discorsi tenuti da politici (Heritage e Greatbatch, 1986; Atkinson, 1984 ; Bull, 1986; Ghiglione, 1989; Ancora, Argentin, Ghiglione e Dorna, 1990). D. Differenziazione individuale e di genere: comunicare aspetti della propria personalità, ha un’importanza considerevole nelle interazioni sociali, ma anche intuire l’identità degli altri è determinante per capire come bisogna interagire: i segnali non verbali possono essere una risorsa da cui trarre informazioni sull’identità personale e sociale del nostro interlocutore (Argyle, 1992).
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D’altra parte esiste anche un consistente numero di differenze di genere nel comportamento non verbale, le quali possono essere utilizzate per ricavare informazioni sull’identità di genere degli altri (Bull, 2002). Le donne sono, in generale, più brave degli uomini nel decodificare e, quindi, interpretare gli indici non verbali e codificano in modo più chiaro i propri messaggi non verbali, vale a dire che sono anche più espressive e il loro comportamento non verbale è più facilmente interpretabile. Esse, guardano maggiormente le altre persone, sorridono di più, preferiscono distanze interpersonali minori e utilizzano movimenti del corpo distintivi (Bull, 2002). Tali comportamenti non verbali caratteristici, hanno un’importanza specifica nel trasmettere informazioni circa l’identificazione sessuale delle persone. Ad esempio, il modo di tenere le braccia (l’angolo fra braccio e avambraccio è minore di 135 gradi nella donna) quando si cammina oppure il modo di trasportare gli oggetti (ad esempio, i libri sul fianco nell’uomo, sulle braccia nella donna), oppure i tipi di gesti, sembra che servano come segnale di identificazione di genere. Le differenze tra uomini e donne nella CNV sono state generalmente interpretate come una funzione dei loro ruoli nella società. Le abilità di decodifica nella donna possono essere dovute alla sua posizione di inferiorità nella società. Dato questo basso potere sociale, le donne devono stare più attente ai messaggi contenuti nei comportamenti non verbali degli altri e contemporaneamente devono sviluppare modi più sottili per esercitare un’influenza sociale. Allo stesso modo, cioè in quanto atteggiamenti di sottomissione, può essere interpretato il maggior uso del sorriso, dello sguardo e una minore distanza interpersonale da parte della donna. Un’altra interpretazione delle differenze di genere nell’utilizzo della CNV sostiene che le donne sarebbero state educate a essere più compiacenti nei riguardi degli altri. Tuttavia le differenze di genere nella codifica/decodifica della CNV non sono spiegabili solo in termini di potere o di socializzazione dei ruoli sessuali, perché anche tra i neonati, le femmine guardano significativamente più a lungo un adulto rispetto ai maschi. Inoltre, non esistono soltanto delle differenze di genere nell’utilizzo dei segnali non verbali. Le persone differiscono molto anche individualmente, ad esempio nel grado in cui trasmettono informazioni attraverso indicatori non verbali: alcuni sono altamente espressivi, altri meno. 56
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Sono stati identificati (Jone, 1960) due pattern distinti di espressività che si riferiscono rispettivamente a coloro che “internalizzano” le espressioni non verbali (internalizers) e a coloro che invece le “esternalizzano” (externalizers). I primi mostrano conduzioni galvaniche della pelle molto alte, un comportamento sobrio e vengono giudicati calmi e posati nelle loro relazioni sociali; i secondi hanno più bassa conduzione galvanica, tendono ad essere più loquaci e animati, mostrando maggiore attività motoria. In accordo a ciò, le espressioni non verbali degli externalizers sono più facilmente riconoscibili rispetto a quelle degli internalizers. Infatti, osservatori esterni riescono con maggiore precisione a interpretare le emozioni trasmesse dalle espressioni facciali degli externalizers. Oltre che nella codifica, esistono delle differenze individuali anche nella decodifica degli indici non verbali. Ciò è importante nelle relazioni sociali in quanto, se le persone non riescono a decodificare i segnali non verbali appropriatamente, l’importanza del significato di tali segnali come forma comunicativa, “potrebbe essere limitata ad alcune porzioni della popolazione” (Bull, 2002). Alcuni indici non verbali di disapprovazione, ad esempio, potrebbero risultare inutili su individui non sensibili a un tale tipo di comunicazione. In questo caso, la CNV perderebbe ogni potere comunicativo e la sua importanza come sistema di comunicazione dipenderebbe dalle capacità percettive e di decodifica di colui che riceve il messaggio. Per identificare queste differenze individuali nelle abilità di decodifica sono stati effettuati diversi strati attraverso la somministrazione del test PONS (Profile Of Non verbal Sensitivity, Rosenthal, 1979). Questi studi hanno dimostrato che esistono delle differenze nella decodifica della CNV rispetto all’età (la sensibilità non verbale è maggiore negli adulti rispetto ai bambini), al genere (le donne sono più sensibili che gli uomini), alla psicopatologia (i pazienti psichiatrici sono meno sensibili delle persone “normali”), alla cultura. In quest’ ultimo caso, alcune ricerche svolte negli Stati Uniti, hanno trovato una differenza tra americani e non americani: questi ultimi risulterebbero meno sensibili, con punteggi comunque molto alti. Un altro importante aspetto individuale è la personalità. Tra i primi studi sulla personalità e lo stile espressivo, figurano quelli di Allport (1961), il quale distingueva i comportamenti espressivi, dall’espressione delle emozioni.
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“L’espressività rappresenta la facilità con cui i sentimenti e le emozioni delle persone possono essere letti dai loro comportamenti non verbali, quando non cercano di comunicare deliberatamente i propri sentimenti agli altri.” Dunque, il modo di utilizzare il proprio corpo per comunicare, trasmette informazioni sulla propria identità anche a livello di tratti e caratteristiche di personalità; E. Espressione e riconoscimento delle emozioni: una delle principali funzioni della comunicazione non verbale è quella di esprimere emozioni. I segnali non verbali emessi in modo spontaneo e costante manifestano con molta efficacia gli stati emotivi di una persona e sono molto più espliciti delle parole (Mehrabian, 1972): nonostante i tentativi di controllo o di dissimulazione delle emozioni, infatti, i segnali non verbali possiedono, rispetto al linguaggio, una maggiore efficacia comunicativa e veridicità grazie alla loro maggiore visibilità, e inoltre possono essere controllati consapevolmente in misura minore rispetto alle parole. “Inoltre, se la comunicazione delle emozioni fosse affidata esclusivamente al sistema verbale, esse non avrebbero la possibilità di essere espresse in modo completo, in quanto anche le emozioni comunicate verbalmente possono assumere significati differenti a seconda del comportamento non verbale che accompagna l’enunciato (Anolli, 2002)”. Ci sono però canali che rivelano meglio di altri le emozioni: il volto, in particolare le espressioni facciali e lo sguardo, non essendo direttamente controllabili dall’emittente, possono essere considerati i più importanti veicoli per l’espressione degli stati emotivi. Un altro canale, difficilmente controllabile, che, quindi può rivelare meglio le emozioni è la voce. Segnali ben visibili di uno stato di nervosismo sono, ad esempio, il tremolio della voce e l’abbassamento del tono; l’imbarazzo è contrassegnato da un rallentamento nella pronuncia degli enunciati, pause più frequenti e più lunghe tra una locuzione e l’altra, diminuzione del tono e del volume della voce. Le emozioni più comuni, comunque, sono espresse dall’intero complesso dei segnali non verbali. In generale però, le espressioni facciali delle emozioni sono quelle che sono state più studiate e che hanno suscitato maggiore interesse, specialmente per quanto riguarda il dibattito sul loro carattere universale/culturale, in modo particolare per le emozioni di base (gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa) descritte da Ekman (1972). 58
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Secondo il modello neuroculturale delle espressioni emotive (Ekman, 1972), queste possono essere modificate attraverso l’apprendimento di norme culturali che regolano le modalità di espressione delle emozioni nei diversi contesti sociali. Queste regole sono chiamate da Ekman “display rules” (regole di esibizione). Esistono, dunque, quattro modi con i quali un’emozione può essere modificata: attenuazione (riducendone l’intensità), amplificazione (esagerandone l’intensità), nascondimento (adottando un’espressione neutra), sostituzione (mostrando un’espressione diversa rispetto a quella che si sta provando). Il modo in cui le emozioni sono modificate nei diversi contesti sociali viene appreso culturalmente. Ad esempio, i giapponesi, generalmente sostituiscono emozioni negative con espressioni di gioia quando interagiscono con altre persone della stessa cultura, mostrandole invece, quando si trovano da soli; mentre gli occidentali non nascondono segnali di sentimenti negativi alla presenza di altre persone, anzi a volte tendono a esagerarli. Le espressioni facciali possono essere distinte anche in base al loro carattere spontaneo o controllato. Da alcuni studi condotti su pazienti affetti da paralisi dei movimenti facciali volontari, è risultato che il sistema corticale media il comportamento volontario, mentre il sistema sottocorticale regola il comportamento involontario. Dunque, i comportamenti corticali varierebbero da cultura a cultura (secondo le display rules di Ekman), mentre i comportamenti sottocorticali sarebbero universali (come le espressioni delle emozioni di base). I due sistemi, però, non agirebbero separatamente, bensì simultaneamente, ognuno influenzando a suo modo il pattern finale di contrazione muscolare del viso durante l’espressione delle emozioni. Il modello neuroculturale ha rilevanti implicazioni sul significato che si attribuisce alle espressioni facciali degli interlocutori. Se queste fossero soltanto innate, consentirebbero di comunicare in modo univoco e chiaro le emozioni. Tuttavia, poiché è possibile apprenderne il controllo attraverso le display rules, non è sempre facile capire se alcune espressioni siano spontanee o simulate, genuine o false. Alcuni studi, comunque, come ad esempio quelli di Ekman e Friesen (1982) hanno mostrato che, almeno in alcuni casi, è possibile identificare delle differenze tra espressioni genuine e false. Per quanto riguarda i sorrisi, per esempio, quelli veri si distinguono da quelli falsi per le parti del viso
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che vengono attivate (angoli della bocca, zigomi e sopracciglia nel sorriso vero; solo i primi nel sorriso falso) per la tempistica (il sorriso falso appare troppo presto o troppo in ritardo e dura di più), per la forma (il sorriso falso tende ad essere più asimmetrico di quello vero). Fridlund (1997) ha proposto un’alternativa al modello neuroculturale di Ekman, nei termini di ciò che egli chiama “behavioural ecology” (ecologia comportamentale). Secondo tale modello, le espressioni facciali non hanno un significato proprio, ma dipendono dai contesti sociali e sono manifestazioni di intenzioni sociali. Secondo la behavioural ecology non esistono né emozioni fondamentali, né espressioni fondamentali delle emozioni, ma soltanto comportamenti, i quali sono manifestazioni di intenzioni sociali e sono influenzati dal contesto. F. Comunicazione degli atteggiamenti interpersonali: anche per quanto riguarda gli atteggiamenti, i canali non verbali sembrano dotati di maggiore efficacia comunicativa rispetto al linguaggio. Argyle (1992) sostiene che “gli indici non verbali influenzano i giudizi sugli atteggiamenti, molto più degli indici verbali, che svolgerebbero soltanto una funzione di intensificatori, cioè rafforzerebbero la natura percepita del messaggio”. In alcuni esperimenti è stata studiata la percezione degli atteggiamenti di amicizia e di ostilità. I primi sono stati codificati dalle persone attraverso un tono di voce caldo e dolce, un sorriso aperto, uno sguardo reciproco, una maggiore vicinanza e contatto fisico, una postura rilassata e aperta nei confronti degli altri; per trasmettere non verbalmente atteggiamenti di ostilità, invece, i partecipanti alla ricerca hanno utilizzato voce dura e stridente, fronte aggrottata, sguardo accigliato, mostrando i denti e assumendo una postura tesa; invece gli atteggiamenti neutri sono stati espressi attraverso un tono di voce piatto, espressione del viso indifferente e sguardo vacuo e immobile. Tutti questi indicatori non verbali, sono risultati anche significativamente più efficaci rispetto al contenuto verbale nel trasmettere i rispettivi atteggiamenti interpersonali. Oltre alla dimensione amicizia/ostilità, Argyle (1992) ritiene che esista un’altra dimensione di atteggiamenti nei confronti dei propri interlocutori, che può essere comunicata non verbalmente: la dimensione dominanza/sottomissione, vale a dire superiorità/inferiorità.
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Sono state condotte alcune ricerche con l’obbiettivo di studiare i segnali non verbali di atteggiamenti di inferiorità e superiorità. Gli stili impiegati dai partecipanti alla ricerca, per trasmettere atteggiamenti di superiorità, sono stati principalmente, un’espressione severa con testa alta; gli atteggiamenti neutri sono codificati con sorrisi sottili e posizione dritta della testa; atteggiamenti di inferiorità sono codificati con sorrisi nervosi, testa bassa e movimenti veloci e continui nel corpo. Anche in questo caso, gli indicatori non verbali risultano essere più potenti rispetto al contenuto verbale nella trasmissione e nel riconoscimento dei relativi atteggiamenti. In altri studi più approfonditi, è stato notato che i segnali non verbali sono maggiormente presi in considerazione dai decodificatori per l’interpretazione di atteggiamenti interpersonali, soprattutto quando sono incoerenti con il contenuto del messaggio verbale: in questi casi, il messaggio di atteggiamento trasmesso attraverso canali non verbali prevale sul contenuto del messaggio verbale; G. CNV nel linguaggio verbale: il linguaggio e i segnali non verbali pur essendo considerati come aspetti differenti, all’interno di uno stesso processo comunicativo dipendono e interagiscono l’uno con l’altro. Secondo questa prospettiva la comunicazione è vista come un “fenomeno multimodale”, cioè comprensiva di indici, verbali e non verbali, che caratterizzano lo scambio fra due o più interlocutori e che partecipano alla costruzione del significato dell’atto comunicativo. Condon e Ogston (1966) affermano che “il corpo del parlante si muove in stretto coordinamento con il suo parlato”, chiamando questa coordinazione self-synchrony (autosincronia); essa riguarda i movimenti di tutte le parti del corpo, che accompagnano e sono connessi al parlato, come ad esempio, i movimenti ampi delle braccia che coincidono con accenti enfatici del tono della voce. Una prima funzione che gli aspetti non verbali possono assumere nella comunicazione, è quella referenziale. Essa è la funzione preminente della comunicazione, in generale, e consiste nello scambio di informazioni tra gli interlocutori su un oggetto detto anche “referente”. Nonostante il canale privilegiato per questa forma di trasmissione sia quello verbale, anche gli elementi non verbali possono adempiere a tale funzione. Sherer (1980), sottolinea che i segnali non verbali assumono una funzione referenziale sia, quando essi stessi
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“stanno per” un referente (come nel caso dei gesti simbolici che possono sostituire del tutto la comunicazione verbale, in quanto il loro significato è codificato in modo univoco entro una stessa cultura, sono direttamente traducibili in parole e hanno una funzione comunicativa esplicitamente utilizzata e riconosciuta come tale, ad esempio, mettere l’indice sulla bocca significa “silenzio”) sia, quando vengono utilizzati in co-occorrenza con il parlato, in questo caso il comportamento non verbale può sostenere, modificare, chiarire e completare il discorso. Ne sono alcuni esempi, le pause, usate per conferire importanza a un discorso o per segnalare un momento di riflessione su ciò che viene detto, i movimenti del capo, come scuotere vigorosamente la testa per accompagnare le parole enfatiche “molto” o “grande”, i cambiamenti di postura che accompagnano durante una conversazione i cambiamenti di argomento, i gesti delle mani che vengono pianificati contemporaneamente all’enunciato e sono sincronizzati con le unità linguistiche. Ma anche lo sguardo nella conversazione è un elemento importante; in molti studi infatti è stato dimostrato che “il parlato e la direzione dello sguardo risultano essere parti di un sistema comportamentale integrato”. Un parlante, in una conversazione, deve eseguire contemporaneamente diversi compiti cognitivamente impegnativi, tra cui pianificare e formulare le espressioni verbali, monitorare i propri interlocutori attraverso segnali visibili che mostrano la comprensione di ciò che viene detto. Quando la fluidità del parlante nel trasmettere le informazioni è ridotta dal carico cognitivo, i cambiamenti nello sguardo possono riflettere, momento per momento, il maggiore o minore sforzo di elaborazione: in particolare, quando le esigenze di pianificazione del parlato, sfruttano maggiormente le risorse cognitive, i parlanti distoglieranno lo sguardo dall’ascoltatore per ridurre gli stimoli visivi che si aggiungerebbero al carico del trasferimento dell’informazione. Un’altra funzione della CNV in relazione al linguaggio verbale è quella metacomunicativa, che riguarda il modo in cui il messaggio deve essere interpretato. Tale funzione consiste nel qualificare l’atto di comunicazione stesso, vale a dire una comunicazione inerente alla comunicazione. Spesso infatti, quando si parla, non s’intende dire ciò che è trasmesso verbalmente con determinate parole o frasi, ma si chiede all’interlocutore di “leggere tra le righe” di ciò che si sta dicendo:
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ciò significa che se il ricevente vuole capire quale sia realmente il significato del messaggio trasmesso, deve interpretarlo tenendo conto di alcuni segnali non verbali co-occorrenti all’enunciato verbale. Così, una frase di rimprovero pronunciata con un sorriso può assumere un significato più mite; oppure, un divieto accompagnato da una strizzata d’occhio, è da interpretarsi come un permesso. In questi casi, è evidente che la CNV, assume un significato opposto al messaggio che si sta inviando con le parole; e a volte questa sorta di contraddizione serve all’emittente per inviare informazioni all’altro sul proprio atteggiamento nei suoi confronti o sul tipo di relazione che vuole instaurare con lui. Inoltre, nello scambio comunicativo esiste una serie di regole che i partecipanti all’interazione dovrebbero rispettare per rendere efficace la comunicazione. I segnali non verbali svolgono un’importante funzione di regolazione dell’interazione e di controllo del flusso della conversazione. Essi veicolano, innanzitutto la turnazione, cioè i passaggi del turno conversazionale, come ad esempio l’interruzione dell’uso dei gesti da parte del parlante che può essere usato per cedere il turno, ma contribuiscono anche ad assolvere una funzione di feedback per entrambi gli interlocutori, come ad esempio alcuni cenni del capo che sottolineano interesse per la conversazione e fungono da rinforzo per il parlante.
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2.5 RAPPORTO TRA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE Secondo Argyle (1992) esistono alcune ovvie e importanti analogie fra il linguaggio e la comunicazione corporea. Entrambi sono modi di comunicazione ed è molto difficile separare questi due sistemi, dal momento che la comunicazione verbale è così strettamente legata ai gesti, agli sguardi, alla qualità della voce. L’obiettivo che si pone l’autore è quello di individuare in che misura la CNV possiede le caratteristiche proprie di un linguaggio. Per rispondere a questa domanda, egli ha analizzato alcuni degli aspetti chiave che contraddistinguono il linguaggio descrivendo fino a che punto siano condivisi con la CNV. · vocabolario: le lingue possiedono un vasto vocabolario di parole dai significati generalmente condivisi, i segnali NV possiedono un vocabolario molto più ridotto; quello più esteso è quello di gesti. Inoltre la maggior parte delle parole ha un significato arbitrario, mentre i segnali NV sono prevalentemente iconici, cioè molto simili a ciò che rappresentano; i segnali non verbali che più si avvicinano al linguaggio sono i gesti simbolici; · Dualità del modello: in tutte le lingue esistono due livelli di organizzazione: i suoni e le parole; i suoni sono fondamentalmente privi di significato, ma possono combinarsi in una varietà di modi al fine di formare le parole. Le parole hanno un significato e a loro volta possono essere variamente combinate a formare delle frasi (Lyons, 1972). La comunicazione corporea degli esseri umani non possiede questo doppio livello di organizzazione, piuttosto un certo numero di segnali di significato simile vengono usati insieme, ad esempio vicinanza, sguardo, sorriso. · Sintassi: le lingue hanno delle regole grammaticali, in base alle quali le parole vengono ordinate in combinazioni e sequenze, al fine di trasmettere un messaggio. Tuttavia, anche i segnali non verbali possono, essere combinati in una varietà di modi, veicolando significati più complessi: - gli animali combinano espressioni facciali e posturali, con la direzione dello sguardo e la posizione spaziale, indicando chi è il destinatario prescelto; - emozioni e atteggiamenti interpersonali sono di solito espressi da un insieme armonioso di segnali attraverso l’espressione del volto, il tono 64
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della voce e così via. Infatti se viene presentato un modello incoerente, l’intero segnale viene considerato strano o buffo; - la presentazione di sé di solito implica un messaggio complesso,una combinazione di segnali quali l’aspetto esteriore, la postura e l’orientamento spaziale, che pongono in rilievo particolari aspetti della personalità del soggetto. · Significato: “il linguaggio, non è semplicemente un complicato tipo di comportamento vocale, esso ha un significato”, ossia comunica delle informazioni a un’altra persona. “È vero che le espressioni hanno un aspetto illocutorio, cioè hanno la funzione di influenzare in qualche modo il comportamento dell’interlocutore. Tuttavia, possono agire soltanto grazie al significato che comunicano”. La maggior parte della CNV non ha un significato in questo senso. Gli studiosi di semiotica, tuttavia, mettono in risalto che i segni hanno due tipi di significato: denotazione e connotazione. Essi denotano una classe di soggetti o di eventi e connotano l’insieme astratto di idee che definisce questa classe; la connotazione dipende infatti dal legame di un segno con altri segni all’interno del sistema di comunicazione. Così, un gesto che esemplifica un grosso pesce, rappresenta la classe del grande pesce e insieme connota questo determinato tipo di animale. La connotazione implica dei legami con gli altri concetti e agisce spesso in termini di opposizione (grande-piccolo) e di gerarchie di classi (il pesce come una parte del regno animale). Inoltre, secondo Argyle, nella comunicazione corporea vige il “principio dell’antitesi”, in base al quale un segno assume il suo significato in contrapposizione ad un altro: ne sono un esempio i gesti per dire “sì” e “no” e l’espressione facciale di “distogliere lo sguardo” per indicare sottomissione, con il suo opposto “lo sguardo diretto” per segnalare un’azione di minaccia. · Il significato dipende dal contesto: il significato delle parole molto spesso dipende dal contesto, infatti intere frasi possono risultare ambigue se non è chiaro il modo in cui devono essere interpretate. Per rendere chiaro il significato di una frase ambigua occorre che sia specificata la sua struttura profonda; per rendere chiaro il significato di un segnale non verbale ambiguo occorre che siano mostrate le sequenze di eventi e la struttura della situazione. Ad esempio se una persona alza il proprio dito, il significato di questo segnale dipende dal fatto che essa
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sia un arbitro ad un incontro di cricket, o un offerente a una vendita all’asta, o in qualche altra situazione, e dalla posizione di questo atto nella sequenza complessiva dell’atto comunicativo. · Parti del discorso: i linguaggi gestuali hanno chiare somiglianze con i linguaggi verbali. I nomi, che designano oggetti o persone, possono essere comunicati con gesti indicatori o illustratori. I verbi, che significano azioni, possono essere comunicati con le azioni stesse. Gli avverbi sono rappresentati dal modo in cui queste azioni vengono compiute, le preposizioni (dentro, sotto, ecc.) con i gesti. Queste parti del discorso possono essere messe insieme in sequenze che rappresentano le frasi e possono essere dunque sostituite, anche da segnali non verbali. Secondo Anolli (2003) ogni atto comunicativo è prodotto dal mittente e interpretato dal destinatario, sulla base di una molteplicità di sistemi di significazione e di segnalazione. Infatti insieme al codice linguistico, chi comunica fa contemporaneamente riferimento a una serie coerente e unitaria di sistemi non verbali di significazione e di segnalazione, come quello vocale, cinesico, prossemico e cronemico. Ognuno di questi diversi sistemi contribuisce alla generazione e all’elaborazione del significato di un atto comunicativo, producendo una specifica “porzione di significato” che partecipa alla configurazione finale del significato stesso. Questa condizione è stata interpretata secondo due impostazioni sostanzialmente antitetiche: da un lato quella proposta dalla psicologia tradizionale, ritiene che esista una distinzione dicotomica fra ciò che è linguistico e ciò che non è linguistico in un’ottica di antitesi e di contrapposizione; dall’altro, l’impostazione elaborata più recentemente, prevede un processo di integrazione e di interdipendenza semantica fra i diversi sistemi di segnalazione, pur conservando ciascuno la propria autonomia.
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2.5.1 LA CONTRAPPOSIZIONE FRA VERBALE E NON VERBALE Nella psicologia tradizionale, la scoperta dell’importanza degli aspetti non verbali nella comunicazione, ha coinciso con l’ipotesi di una distinzione dicotomica fa fra ciò che è linguistico e ciò che non lo è. Secondo questa teoria, la comunicazione è considerata come la somma fra le componenti verbali e quelle non verbali, ritenute entrambe autonome e non connesse in alcun modo fra loro. All’interno di questa prospettiva alcuni studiosi, fra i quali Birdwhistell (1970), hanno sottolineato il contributo essenziale delle componenti non verbali nella comunicazione e hanno sostenuto che il 65% del significato di un messaggio è veicolato proprio da queste componenti. Il non verbale, assumerebbe quindi, un ruolo predominante nella determinazione del significato di un atto comunicativo, e la parte di significato prodotta da questo, sarebbe di gran lunga superiore a quella veicolata dal verbale. Al contrario, altri studiosi come Rimè (1984) hanno difeso la tesi opposta e hanno affermato che il non verbale incide molto poco sul piano del significato, mentre interviene maggiormente sul piano affettivo ed emozionale. In questo senso “il non verbale è inserito dentro al linguaggio e costituirebbe unicamente una sorta di coloritore del verbale. Il non verbale aggiungerebbe soltanto sfumature di significato al linguistico che manterrebbe così un valore primario ed esclusivo nella determinazione del significato In questa prospettiva la CNV avrebbe soltanto una funzione di ancella rispetto al linguaggio”. Questa contrapposizione fra i sistemi di significazione e di segnalazione nella determinazione del significato di un atto comunicativo, ha permesso di studiare in modo più approfondito le discrepanze esistenti fra il verbale e il non verbale; Anolli ha individuato delle differenze secondo tre assi fondamentali: · Funzione denotativa/Funzione evocativa: secondo questa distinzione il codice linguistico esplica una funzione prettamente denotativa, in quanto è in grado di trasmettere informazioni e conoscenze sul mondo in modo preciso e definito; inoltre esso ha una funzione propriamente semantica, in quanto designa e veicola i contenuti della comunicazione; in altre parole il linguaggio ha il compito di informare su “che cosa viene detto”. Al contrario il non verbale svolge una funzione esplicativa o connotativa, in quanto è caratterizzato dal fatto di essere sponta-
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neo e poco controllato dal soggetto; esso ha il compito di informare sulle modalità in base alle quali i contenuti sono veicolati, cioè sul “come viene detto”. · Arbitrario/Motivato: in base a questa distinzione il segno linguistico, in quanto combinazione di un significante (rappresentazione iconica o acustica di un oggetto o di un evento, come la stringa di suoni/l-un-a/) e di un significato (rappresentazione mentale di quell’oggetto o di quell’evento come il concetto di “luna”) è considerato un segno arbitrario, perché l’associazione tra significato e significante deriva da una specie di “accordo sociale” convenzionale: ad esempio nella lingua italiana, per convenzione (e non per una legge di natura) al “concetto” di “luna” corrisponde il significante /l-u-n-a/. Al contrario gli elementi della CNV hanno un valore motivato, in quanto esiste un rapporto di similitudine fra l’unità non verbale e quanto viene espresso. Per esempio, un urlo di dolore esprime lo strazio di questa emozione, e tanto più lo strazio e forte quanto più l’urlo diventa lacerante. Tuttavia, questa distinzione dicotomica è stata messa in dubbio dallo studio sull’“iconismo fonosimbolico” secondo cui i suoni di una lingua, oltre al carattere di arbitrarietà, hanno anche un valore motivato (Dogana, 1990). È sufficiente pensare alle onomatopee, come ad esempio “sussurrare, tintinnare, tamburellare”, nelle quali la stringa sonora è in stretta relazione all’oggetto o all’evento cui il suono si riferisce. · Digitale/analogico: secondo la psicologia tradizionale il codice linguistico è considerato digitale, perché ogni fonema è caratterizzato da un insieme di tratti distintivi che lo definiscono e lo collocano in opposizione a tutti gli altri fonemi. Al contrario, gli aspetti non verbali hanno un valore analogico, in quanto presentano variazioni graduate in modo proporzionale e “analogo” a ciò che intendono esprimere: ad esempio, tanto più un’emozione di gioia cresce, tanto più i gesti di soddisfazione e il sorriso che l’accompagnano, diventano ampi e distesi. Sotto questo profilo, dunque, gli aspetti non verbali sarebbero più spontanei, “naturali” e immediati, rispetto agli aspetti verbali. Tuttavia, in questa prospettiva, non si tengono in considerazione le variazioni culturali sottese alla produzione e alla comprensione della CNV.
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2.5.2 AUTONOMIA E VERBALI
INTERDIPENDENZA SEMANTICA TRA I SISTEMI NON
Oggi prevale una concezione in base alla quale gli aspetti verbali e non verbali si integrano in modo armonico, coerente e unitario, nel determinare il significato di un atto comunicativo, grazie al processo della sintonia semantica e pragmatica. Infatti, ognuno dei sistemi di segnalazione e di significazione (quali il sistema linguistico, quello prosodico e paralinguistico, quello mimico e gestuale, quello prossemico e aptico) partecipa alla costruzione del significato finale di un determinato atto comunicativo contribuendo, in modo autonomo, con la propria componente specifica, a determinarlo e a definirlo. Questa unitarietà è resa possibile dal processo di sintonia semantica e pragmatica (Ssp) che coordina in modo convergente e coerente, i diversi sistemi di comunicazione, facendo in modo che ogni atto comunicativo si presenti in modo armonioso e unitario, grazie alla fusione momentanea delle diverse parti del messaggio, le quali concordano le une con le altre. Questa fusione avviene sia a livello orizzontale (fra gli elementi del medesimo sistema di significazione e di segnalazione), sia a livello verticale (fra gli aspetti che appartengono ai diversi sistemi di significazione e di segnalazione) [Anolli, 2003]. In questo modo, i contributi provenienti dai diversi sistemi comunicativi sono assemblati e convogliati in modo sincrono nella produzione di un dato messaggio. Entra in azione anche un processo di interdipendenza semantica che costituisce l’esito della sintonia semantica e pragmatica: essa garantisce la coerenza del significato dell’atto comunicativo e conduce alla definizione del significato modale. Con questo termine si intende “il significato predominante e ricorrente di un determinato atto comunicativo in una situazione convenzionalmente stabilita all’interno di una data comunità (Anolli, 2003)”. Inoltre grazie all’interdipendenza semantica il soggetto ha la possibilità di attribuire pesi diversi alle singole componenti dell’atto comunicativo; può quindi, accentuare il valore di una certa componente, dando ad essa prevalenza, o di attenuare quello di un’altra. Per esempio, nel pronunciare una frase di rimprovero, un soggetto può aumentare la durata delle pause per dare solennità a quanto sta dicendo, oppure può fare un gesto di ammiccamento del tipo: “non posso non fare questa osservazione”. 69
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Nel medesimo tempo, la sintonia e l’interdipendenza semantica consentono al parlante di giungere ad un’attenta calibrazione situazionale del suo atto comunicativo: essa consiste nel produrre un “messaggio giusto al momento giusto”, ovvero un messaggio in linea con il contesto comunicativo. Interdipendenza, sintonia semantica e calibrazione situazionale sono alla base dell’efficacia comunicativa. Quest’ultima può essere considerata come un “indice di sintesi del valore comunicativo di un messaggio e consiste nella capacità di individuare un percorso comunicativo che massimizzi le opportunità e che minimizzi i rischi contenuti all’interno di un’interazione. La massimizzazione è associata a una comunicazione in grado di aumentare la fiducia, la credibilità e la forza di attrazione del comunicatore; la minimizzazione è associata invece all’evitamento di condizioni comunicative imbarazzanti, come una gaffe o un messaggio inopportuno (Anolli, 2003). 2.6 RAPPRESENTAZIONE CORTICALE DEI SISTEMI VERBALE E NON VERBALE
Un obiettivo generale posto alla neuropsicologia rispetto alla distinzione tra comunicazione verbale e comunicazione non verbale riguarda la formulazione della complessa architettura cognitiva e dei singoli processi sottesi a questi sistemi di segnalazione e di significazione (Balconi, 2006). 2.6.1 VERBALE/NON VERBALE: UN’ASIMMETRIA DI FUNZIONI? Allo stato attuale delle conoscenze, la localizzazione di specifiche funzioni implicate nei sistemi non verbali risulta prematura. Ciò è dovuto al fatto che individuare una corrispondenza biunivoca fra le funzioni di input e di output e i relativi correlati neurali, risulta poco praticabile a fronte della complessità dei processi in esame. Inoltre, i sistemi non verbali di segnalazione rappresentano un insieme molto vario ed eterogeneo. Una serie di studi, con pazienti destri e sinistri ha rilevato la presenza di una specializzazione emisferica destra per le componenti non verbali (extralinguistiche) della comunicazione (Cutica I., Bucciarelli
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M., Bara BG., 2006). Tuttavia, il modello tradizionale dell’asimmetria emisferica fra le funzioni verbali e quelle non verbali, in base al quale è valida l’equazione “verbale = emisfero sinistro e non verbale = emisfero destro” appare oggi in parte superato. Da un lato infatti, è possibile rilevare che l’emisfero sinistro può supportare alcune funzioni non verbali, e dall’altro è stato osservato che l’emisfero destro è in grado di svolgere anche funzioni eminentemente linguistiche. A livello neuropsicologico, il superamento del modello tradizionale è stato dimostrato da alcuni studi condotti sul linguaggio dei segni (LS). È stata infatti, rilevata una compromissione delle funzioni di comprensione e di produzione del LS, in seguito a lesioni delle aree corticali dell’emisfero sinistro deputate al linguaggio, e ciò induce a ritenere che tale emisfero sia idoneo a svolgere il controllo di alcune funzioni non verbali che hanno un preciso valore simbolico. La presenza di una doppia dissociazione tra i disturbi prassici (relativi alla pianificazione e all’esecuzione di atti motori complessi implicati nel LS) in cui l’emisfero sinistro è dominante, e disturbi afasici (relativi esclusivamente alle funzioni linguistiche) confermerebbe ulteriormente la specificità dell’emisfero sinistro per i sistemi non verbali, almeno per quello cinesico. D’altra parte, una serie di ricerche ha sottolineato la funzione linguistica svolta dall’emisfero destro rispetto all’elaborazione di parole. Attraverso un’indagine PET è stata rilevata l’attivazione della corteccia posteriore destra per la lettura di stringhe di lettere di non parole e di stimoli simili a lettere, rispetto alla condizione di controllo (visione di un punto) (Peterson SE, Fox PT, Poster MI,1988). Più in generale l’emisfero destro sarebbe deputato all’elaborazione della forma delle parole (Marsolek CJ. M 1995). 2.6.2 MODELLI DI INDIPENDENZA FUNZIONALE I modelli di indipendenza funzionale si propongono di spiegare in che termini va intesa la specializzazione emisferica sinistra: infatti, se da un lato, la superiorità dell’emisfero sinistro per i compiti verbali, è stata dimostrata e confermata in ambito neuropsicologico da numerosi studi, dall’altro occorre chiarire se “la sua specializzazione sia legata esclusivamente a specifici processi linguistici (come la rappresentazione unilaterale della fonologia e delle proprietà sintattiche) o se, al contrario, 71
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la dicotomia verbale/non verbale sia connessa con una specializzazione più profonda e più estesa, attribuibile alle competenze simboliche dell’emisfero sinistro rispetto a quello destro” (Balconi, 2006). Tre ipotesi hanno cercato di illustrare questa distintività: - innanzitutto, si è ritenuto che la superiorità dell’emisfero sinistro sia generale, in quanto sistema di elaborazione simbolica. Il modello del sistema simbolico ipotizza che l’insieme dei comportamenti non verbali non sia presieduto da un sistema separato, ma piuttosto sia originato da un unico sistema che opererebbe in parallelo. Da questo punto di vista la specializzazione emisferica sinistra per i processi simbolici non è ristretta ai simboli verbali ma riguarderebbe anche l’uso di quelli non verbali; - la seconda ipotesi prevede una dominanza dell’emisfero sinistro per quanto concerne l’organizzazione dei movimenti sequenziali; secondo questa teoria sia le forme verbali che le forme non verbali di comunicazione comportano la presenza di azioni motorie, entrambe gestite da un sistema di controllo. Un danno a questo sistema, provocherebbe deficit a entrambe le forme; - la terza ipotesi sottolinea il ruolo centrale della dicotomia fra emotivo e cognitivo, considerati come aspetti distinti, attribuibili rispettivamente all’emisfero destro e a quello sinistro. La specializzazione destra per le proprietà emotive non consente, tuttavia, di rendere conto più in generale delle competenze non verbali di natura non emotiva, che caratterizzano la comunicazione non verbale. 2.6.3
INTERDIPENDENZA E COORDINAMENTO INTEREMISFERICO FRA IL SISTEMA VERBALE E I SISTEMI NON VERBALI
Nello studio della rappresentazione emisferica dei sistemi verbale e non verbale di segnalazione, merita attenzione il problema circa la loro indipendenza funzionale, in relazione alle modalità di rappresentazione delle informazioni. L’ipotesi classica si è concentrata sulla distinzione fra le differenti modalità di rappresentazione del significato: vi sarebbe una modalità linguistica, propria dell’emisfero sinistro (secondo la quale le informazioni sarebbero rappresentate in un formato linguistico o verbale) e una modalità non linguistica, specifica dell’emisfero destro (secondo cui le informazioni sarebbero rappresentate in un forma-
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to diverso da quello linguistico, quindi non verbale, per esempio, per quanto riguarda le immagini, in un formato visivo-spaziale). In base a questa teoria, i due emisferi avrebbero la possibilità di cooperare nell’attribuzione del significato, benché a svolgere un ruolo prioritario, sia l’emisfero dominante per quella specifica modalità di rappresentazione dell’informazione. In questo modo viene confermata l’ipotesi di una interdipendenza tra i sistemi verbali e non verbali di segnalazione, nella produzione e nella definizione dei significati di un atto comunicativo. Una seconda questione, riguarda l’effettiva possibilità di organizzazione e di coordinamento tra i due emisferi. Infatti, “se l’emisfero sinistro è preposto principalmente a elaborare le informazioni in una modalità verbale (analitico e temporale) mentre quello destro informazioni non verbali (olistiche e spaziali), come è possibile che si realizzi la comunicazione come processo unitario? E in che modo possono essere coordinate delle azioni di risposta?” Tutto ciò è possibile perché gli emisferi interagiscono in modo flessibile secondo un processo dinamico e variabile: innanzitutto, l’interazione tra i due emisferi, resa possibile grazie alle strutture del corpo calloso, non avviene soltanto in termini di semplice trasferimento delle informazioni da un emisfero all’altro, ma anche come aumento della capacità di elaborazione, soprattutto nei casi in cui il processo sia particolarmente complesso ed è necessario trattare simultaneamente molte informazioni in breve tempo. Inoltre, la presenza di sub-processi separati, ma tra loro integrabili, può costituire un’alternativa funzionale all’attivazione di un unico processo complessivo (Banich MT., 1997). Occorre ora stabilire come, effettivamente, operino i sistemi di coordinamento delle informazioni. Al riguardo sono state proposte tre ipotesi, lungo un continuum: - posto ad un estremo c’è il modello della dominanza emisferica, secondo il quale, in funzione dei diversi compiti, uno solo dei due emisferi presiede alla regolazione dell’attività complessiva, mentre l’altro svolge le operazioni per cui è preposto; - il modello dell’alternanza, al contrario, suppone che ci sia un “miscelamento” nell’attività di due emisferi, ovvero che essi operino con funzioni di metacontrollo simultaneamente, per cui ciascun emisfero dominerebbe un aspetto specifico del processo; - posto all’altro estremo invece, si colloca il modello dell’unicità inte-
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remisferica, secondo cui entrambi gli emisferi contribuirebbero alla realizzazione dell’intera prestazione, anche se in maniera differente. “Pertanto il prodotto finale dell’integrazione interemisferica deriverebbe dalla calibrazione delle operazioni mentali gestite in parallelo dall’emisfero sinistro e da quello destro” (Banich MT, Nicholas CD ., 1998).
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CAPITOLO III LA CLASSIFICAZIONE DEI SISTEMI NON VERBALI Lacrime Goccioline di pioggia Tristezza nel mio cuore. Grandine che batte Come la malinconia di un amore Consumato. Bollicine d’acqua congelata e fredda Che sono in me Nel mio cuore triste e solo. È così buio dentro di me E cammino verso te dal mio profondo. Speranza che cerca rifugio E si perde. Dal libro “Pensieri di luce “di Marilisa Grifani
3.1 I LESSICI DEL CORPO Allo stato attuale, in letteratura sono presenti diverse classificazioni della CNV, in quanto non solo si rivolgono ad ambiti disciplinari distinti, ma hanno anche criteri classificatori differenti. Nonostante questo, il presupposto che le unisce è quello di effettuare una ricerca sull’immenso patrimonio comunicativo del corpo umano, con lo scopo di individuarne il lessico, cioè l’insieme di tutti i segnali di un sistema con i loro rispettivi significati, e individuarne l’alfabeto, cioè trovare quegli elementi che, in molteplici combinazioni, danno luogo a tutti i segnali possibili. L’obiettivo finale delle diverse classificazioni esistenti è dunque quello di realizzare un dizionario dei segnali non verbali, cioè una
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lista di “voci lessicali” di cui, per ognuna, si può descrivere il segnale (lo stimolo fisico, percepibile con i sensi) e definirne il rispettivo significato. Nel costruire un dizionario, per ogni sistema di comunicazione non verbale è necessario analizzarne la “semantica” e la “fonologia”. Trovare la semantica vuol dire enucleare il significato e gli usi di un segnale di quel determinato sistema di comunicazione; trovare la fonologia significa individuare gli elementi minimi che, combinati insieme, compongono ogni segnale di quel sistema di comunicazione. Un primo problema che si pone nel realizzare un dizionario dei sistemi di comunicazione non verbale è quello di riuscire a “trovare le parole del corpo”, ovvero partire dai diversi tipi di segnali non verbali esistenti e ricavarne il loro specifico significato. Questo compito risulta abbastanza difficile, essenzialmente per due motivi principali: - in primo luogo, non è semplice persino nelle lingue verbali individuare le parole (cioè i segnali) nel flusso continuo del discorso e quindi effettuare una “segmentazione della catena parlata”, ciò risulta assai più difficile nella CNV, in quanto è ancora più delicato enucleare un gesto fra i movimenti che accompagnano il parlato, o capire in quale preciso istante un’espressione facciale di attesa si trasforma in una di delusione; - inoltre, le espressioni verbali sono per definizione sotto il controllo della coscienza, mentre molto spesso un gesto, ad esempio, viene eseguito senza una reale intenzionalità comunicativa. Isabella Poggi (2006) propone una strategia di tipo deduttivo, che permette di trovare una soluzione a questi problemi; il metodo da lei proposto è quello di chiedersi innanzitutto quali sono, in linea di principio, i significati che un soggetto ha lo scopo di comunicare al suo interlocutore e poi, per ognuno dei significati ipotizzati, vedere quanti e quali segnali ne sono portatori nei diversi sistemi di comunicazione. Il contenuto semantico di un segnale non verbale pertanto, può essere individuato in base al tipo di informazione veicolata, e ne vengono identificati tre tipi: - informazioni sul mondo e sulla realtà esterna: ossia su azioni o proprietà di entità concrete o astratte, animate o inanimate, in formato proposizionale; - informazioni sull’identità del mittente, acquisite percettivamente o inferite dall’interlocutore in base al sesso, l’età, le radici etniche e cul-
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turali, la personalità del mittente o in base all’autopresentazione, ovvero all’immagine che il mittente vuol dare di sé; - informazioni sulla mente del mittente, che riguardano le sue conoscenze, i suoi scopi e le sue emozioni. Un secondo problema si pone nell’individuare la semantica dei segnali non verbali ed è dovuto ad alcune caratteristiche proprie del lessico quali i fenomeni della sinonimia (più segnali per un solo significato), dell’omonimia e della polisemia (un segnale per più significati). Questi aspetti vanno a inficiare l’efficacia dell’atto comunicativo, in quanto compromettono la stabile corrispondenza segnale-significato. Tuttavia, si può dimostrare che anche un segnale non verbale, così come le parole, pur essendo polisemico possiede un suo preciso significato che “non varia all’infinito anche nei possibili infiniti contesti”. Infatti in tutti i significati che un segnale può assumere, c’è un nucleo semantico comune, ossia una parte di significato che ricorre in tutti i possibili contesti; in altre parole esiste “un legame semantico fra i significati che il segnale acquista in essi” (Allwood, 2003). Il legame fra due o più significati (a,b,c) di un segnale polisemico può essere di due tipi: componenziale o inferenziale. - Il legame componenziale si instaura fra due o più significati (a,b,c...) che hanno in comune uno stesso componente semantico (x), cioè un pezzo o una parte di significato, a cui ciascuno di essi aggiunge componenti diversi: a significa x+y, b significa x+z, c significa x+k. Ad esempio il gesto simbolico in cui gli indici tesi in parallelo con i pugni a palme in giù si avvicinano e si allontanano, nel significato più comune è parafasato come “se l’intendono”: questo gesto comunica quindi un legame furtivo, nascosto, fra due persone. Tuttavia a volte viene parafasato come “c’è del tenero”, che ancora implica un legame nascosto fra due persone, ma con in più il significato di un legame affettivo. Si può concludere quindi, che questo è un gesto polisemico, poiché ha 3 significati in parte diversi, ma questi hanno tutti in comune alcune componenti semantiche: l’idea di un legame, nascosto, fra due fatti o persone. - Un legame inferenziale invece presuppone che il significato b può essere inferito dal significato a, c si può inferire da b, e così via. È questo il caso dei significati indiretti.
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Infatti le parole e le frasi di una lingua, così come gli altri segnali non verbali, oltre al loro significato letterale, possono avere anche uno o più significati indiretti (Castelfranchi, Parisi 1980; Poggi, Magno Caldognetto, 1997). Il significato letterale di un segnale è quello che gli si può attribuire in base alle regole lessicali e sintattiche del sistema di comunicazione cui appartiene. Il significato indiretto deve essere necessariamente inferito dal significato letterale, ovvero non può essere, per definizione, compreso semplicemente grazie alla conoscenza delle regole lessicali e sintattiche. Ad esempio, la parola “mare” letteralmente significa “distesa di acqua salata in quantità illimitata”; ma nella frase “ho versato un mare di lacrime” si può inferire che “ho versato moltissime lacrime”. Il significato indiretto può essere idiomatico, quando l’inferenza dal significato letterale a quello indiretto, è in qualche modo obbligata, ed è la stessa in tutti i contesti (ad esempio nell’espressione “un mare di lacrime” il significato indiretto “moltissime lacrime” è sempre quello e non varia a seconda dei contesti) oppure creativo, quando dal significato letterale si possono trarre inferenze diverse, e quindi significati diversi a seconda dei contesti (nell’espressione “il tappeto di conoscenze nella mia mente” il significato è stato inventato estemporaneamente, e per capirlo, il destinatario deve fare un’inferenza che non ha mai fatto). Anche i segnali non verbali come gesti, sguardi, espressioni facciali, possono avere significati indiretti, cioè inferibili dal loro significato letterale. Il gesto di applaudire in certi casi è utilizzato ironicamente: dal suo significato letterale di approvazione e lode si inferisce cioè un significato opposto, di critica o rimprovero. Inoltre nei segnali non verbali, un legame inferenziale collega il significato letterale non soltanto a quello indiretto, che da esso deriva, ma anche a quello definito “significato originario”, cioè quello da cui a sua volta il significato letterale deriva. Il significato letterale di un segnale non verbale, infatti, o molto spesso ha origine da un’azione fisica, un’azione che in primo tempo non aveva un valore comunicativo (Poster, Serenari, 2001; Serenari, 2001; Poster, 2003). Ad esempio l’innalzamento delle sopracciglia, che comunica sorpresa (Ekman, 1979), deriva probabilmente dall’azione fisica di aprire molto gli occhi per vedere di più, per acquisire più informazioni.
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Quest’azione, che mira ad una più ampia comprensione, fa inferire che ci sia qualcosa di sorprendente, qualcosa che non si sa, che esige spiegazioni. Così l’azione non comunicativa di cercare di veder meglio, si ritualizza e diventa azione comunicativa, acquistando il significato di “mostrare sorpresa”. Molti segnali del corpo, dunque, hanno tre significati diversi, ma inferenzialmente collegati: il significato letterale, quello indiretto che da esso è inferibile e infine un significato primitivo, spesso un’azione non comunicativa (Poster, 2003) da cui quello letterale è nato. In conclusione si può affermare che “tutti questi significati possono essere ricondotti ad un comune nucleo semantico, in quanto collegati per via componenziale o inferenziale, di conseguenza l’unità semantica fra i diversi significati di una parola o di un segnale non verbale, e la sistematicità dei rapporti fra segnali e significati, rimane integra e giustifica la possibilità di costruire dei lessici delle parole del corpo” (Poggi, 2006). L’esistenza di significati indiretti e di inferenze, permette di spiegare anche altri fenomeni quali la sinonimia nei segnali non verbali del corpo. Per esprimere perplessità, incredulità o disaccordo, ad esempio, si possono usare comportamenti opposti delle sopracciglia, aggrottandole o sollevandole. Letteralmente, aggrottare significa incomprensione, mentre innalzare le sopracciglia significa sorpresa; se invece si considera il significato indiretto attraverso un legame inferenziale, entrambi i significati comunicano: “non accetto completamente ciò che dici”. Infatti, nella sorpresa, innalzando le sopracciglia, il soggetto esprime incredulità, quindi indirettamente comunica che non crede a ciò che sta affermando o facendo il suo interlocutore; d’altra parte, mostrare di non capire aggrottando le sopracciglia come per “cercare di vedere meglio”, è spesso un modo cortese che il soggetto utilizza per esprimere disaccordo. Ecco perché questi due segnali delle sopracciglia, apparentemente opposti, possono entrambi significare non totale accettazione di ciò che l’altro sta dicendo: a livello del loro significato indiretto dunque possono addirittura essere sinonimi. Un ulteriore questione su cui porre attenzione, riguarda la natura universale o culturale dei lessici: il quesito al quale si vuole trovare risposta è infatti quello di capire se le corrispondenze fra segnale e significato sono
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innate e quindi inscritte nel patrimonio genetico di ogni individuo, oppure sono convenzionali e acquisite con l’apprendimento dalla propria cultura di appartenenza. Secondo Poggi (2006) nei sistemi di comunicazione non verbali come le espressioni facciali, lo sguardo e il contatto fisico, queste corrispondenze sono per la maggior parte innate e quindi universali. Questa ipotesi deriva dall’osservazione che in ogni sistema di comunicazione, si possono distinguere due tipi di regole: le regole semantiche e le regole interazionali o norme d’uso. Le regole semantiche stabiliscono la corrispondenza tra segnali e significati, in base alle regole lessicali e sintattiche di quel sistema di comunicazione (ad esempio, se si vuole comunicare il significato “ti saluto”, è necessario scuotere la mano, a palmo verso l’interlocutore, da destra a sinistra); queste regole stabiliscono dunque “come comunicare un determinato significato”. Le norme d’uso invece stabiliscono se un certo significato può o non può, deve o non deve essere comunicato in una certa situazione, quindi decidono se e quando comunicare un determinato significato è prescritto, proibito o permesso (ad esempio stabiliscono che, se si incontra una persona che si conosce, si applica la regola per il significato “ti saluto”, se si incontra una persona che non si conosce, non si applica la regola per il significato “ti saluto”). Da ciò si deduce che in un sistema di comunicazione non verbale, le regole semantiche sono in gran parte universali, quindi si può affermare che esiste un lessico universale degli sguardi, dei gesti, delle espressioni facciali; la variazione culturale riguarderà piuttosto le norme d’uso, che stabiliscono se e quando un determinato segnale può o non può essere utilizzato in quella particolare cultura. Ad esempio un occhio languido, uno sguardo seduttivo o un guardare dall’alto in basso, in tutto il mondo sono prodotti nello stesso modo e hanno lo stesso significato; ma se in una cultura considerare qualcuno con sufficienza è molto insultante e in un’altra, mostrarsi troppo scopertamente innamorati è reputato sconveniente od osceno, in quelle culture quei tipi di sguardo saranno fortemente disapprovati e sarà molto più raro vederli. In ultima analisi è necessario capire in che modo si costruiscono i “lessici delle parole del corpo” (Poggi, 2006). Costruire un lessico richiede un lavoro estensivo, che consiste nella raccolta delle entrate lessicali e nell individuare la struttura generale di quel lessico, e un lavoro intensivo, necessario per fornire un’analisi semantica di ogni entrata lessicale. 80
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Quest’ultima viene effettuata utilizzando il metodo Chomskiano dei giudizi del parlante, basato sull’intuizione linguistica del parlante nativo: infatti, per ogni entrata del lessico si danno giudizi di accettabilità (ci si chiede in quali contesti quel tipo di segnale non verbale sia accettabile e in quali no), di ambiguità (se possiede più significati e quali) e di parafrasi (se e quali altre voci di un lessico, della stessa o di altra modalità, hanno lo stesso significato; (Parisi, 1979; Poggi, 1983). Questo è un metodo molto economico, perché la ricerca può essere condotta da un ricercatore anche sulla base dei suoi soli giudizi e delle proprie intuizioni comunicative; è anche molto efficiente, perché permette di analizzare aree di lessico molto vaste e di condurre un’analisi approfondita dando infine il quadro della competenza comunicativa di quel ricercatore; ed è anche molto rilevanti dal punto di vista scientifico, perché anche una singola competenza costituisce un sistema coerente di regole comunicative. Dopo aver analizzato in modo introspettivo, le voci del lessico indagate, il ricercatore può verificare su dati reali le sue intuizioni. Ad esempio, con un’indagine empirica, somministrando al parlante di un determinato gruppo sociale o culturale, interviste o questionari sulle entrate del lessico e sui loro significati (Morris, 1979; Serenari, 2004), oppure con una ricerca osservativa, analizzando in dettaglio materiali reali audio e videoregistrati e cercando di capire e confermare con il contesto il significato dei vari segnali (Kendon, 19952004; Muller, 2004; Brookes, 2004). 3.2 LE
CLASSIFICAZIONI DEI SEGNALI NON VERBALI DI SEGNALAZIONE
E SIGNIFICAZIONE
Tra le classificazioni sui sistemi non verbali di significazione e di segnalazione, riferendoci alle concezioni più recenti, possiamo identificarne essenzialmente tre. La prima risale al 1998 ed è una classificazione adattata da Mastronardi che prende spunto dalle ricerche svolte da diversi autori, tra i quali Ekman e Friesen (1969) e si avvicina a quella classica di Argyle (1972). Gli elementi della comunicazione non verbale, in questa classificazione, sono disposti idealmente secondo una scala che procede dall’alto verso il basso e si sposta dal generale al particolare: ovvero dai segna-
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li più manifesti (aspetto esteriore e comportamento spaziale), quindi più facilmente percepibili da parte dell’interlocutore, a quelli meno evidenti, più mutevoli (movimenti del volto, segnali vocali). Aspetto Esteriore Comportamento spaziale
Comportamento cinesico Volto Segnali vocali
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Conformazione fisica Abbigliamento Distanza Interpersonale Contatto corporeo Orientazione Postura Movimenti di busto e gambe Gesti delle mani Movimenti del capo Sguardo e contatto fisico Espressione del volto Segnali vocali verbali Segnali vocali non verbali Silenzio
La classificazione dei sistemi non verbali
Anolli (2002) invece, distingue due livelli fondamentali: il piano vocale che comprende la componente verbale, paralinguistica (relativa all’aspetto prosodico e alle qualità vocali) ed extralinguistica (che si riferisce alle caratteristiche anatomiche del parlante e al modo in cui regola il proprio apparato vocale) e quello non vocale relativo al sistema cinesico che include i movimenti del corpo (gesti, postura, prossemica e aptica) del volto (sguardo) e degli occhi (mimica facciale). Verbale VOCALE
LINGUISTICO
Paralinguistico (Prosodico – Qualità vocali) Extralinguistico
NON VOCALE
NON LINGUISTICO
Cinesico a) MIMICA FACCIALE b) SGUARDO ·Direzione dello sguardo ·Durata ·Reciprocità ·Fissazione Oculare c) GESTI E POSTURA ·Gesticolazione(gesti iconici) ·Pantomima ·Emblemi(gesti simbolici) ·Gesti Deittici ·Gesti Motori ·Linguaggio dei Segni ·Postura del corpo d) PROSSEMICA E APTICA
·
·Territorialità ·Contatto Corporeo ·Distanza Spaziale
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In ultima analisi Isabella Poggi (2006), parla di Gestionario, per indicare il dizionario dei gesti, di Tocconario per indicare il dizionario del toccare, e di Occhionario per indicare il dizionario dello sguardo. Nonostante i criteri classificatori siano differenti, ognuna delle tassonomie precedentemente illustrate, ha lo scopo di descrivere le diverse tipologie dei segnali non verbali, le caratteristiche specifiche di ognuna, le funzioni, nonchè le variazioni culturali e le norme d’uso che regolano tali sistemi.
3.3 IL SISTEMA VOCALE Durante una conversazione, i parlanti fanno uso, oltre che di messaggi verbali, anche di una serie di elementi non propriamente linguistici che sono in parte indipendenti dalle parole pronunciate. Argyle (1992) al riguardo, ha proposto una suddivisione tra segnali vocali connessi al discorso (prosodici, di sincronizzazione e di disturbo dette anche non fluenze) e segnali vocali indipendenti dal discorso (suoni emotivi, segnali paralinguistici, che esprimono cioè emozioni ed atteggiamenti interpersonali, qualità personale della voce e della pronuncia). Facendo riferimento a questa distinzione, Anolli e Ciceri (2002) definiscono l’atto fonopoietico come “la sintesi degli aspetti vocali verbali e degli aspetti vocali non verbali”. La componente vocale verbale (o linguistica) comprende: - la pronuncia di una parola o frase (fonologia); - il vocabolario quindi il lessico e la semantica la grammatica; - la grammatica (morfologia e sintassi); - il profilo prosodico (che specifica se una frase è affermativa, interrogativa o esclamativa); - la prominenza, ovvero il rilievo enfatico o l’accentuazione di un elemento. La componente vocale non verbale, invece determina la qualità della voce di un individuo; pertanto essa va intesa come la sua “impronta vocalica”, rappresentata dalle caratteristiche extralinguistiche e paralinguistiche della voce. Per caratteristiche extralinguistiche, si intende l’insieme delle caratteristiche anatomiche permanenti ed esclusive del-
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l’individuo; esse sono suddivise in caratteristiche organiche (la specifica configurazione anatomica e le dimensioni dell’apparato fonatorio dell’individuo) e in caratteristiche fonetiche (le modalità con cui egli impiega il suo apparato fonatorio, come ad esempio la voce nasalizzata o palatalizzata). Le caratteristiche paralinguistiche invece vengono definite come l’insieme delle proprietà acustiche transitorie che accompagnano la pronuncia di qualsiasi enunciato e che possono variare in modo contingente da situazioni a situazione. Esse sono determinate da diversi parametri: - il tono: è dato dalla frequenza fondamentale (Fo) della voce ed è generato dalla tensione delle corde vocali (più esse sono tese, più il tono è acuto; più sono distese, più il tono è basso). Esso varia frequentemente, fornendo colore ed espressione al discorso e determinando, attraverso tali modificazioni, il “profilo di intonazione” del discorso. - l’intensità: corrisponde all’energia con la quale vengono prodotti i suoni, in quanto è determinata dalla pressione sottoglottica e dalla funzione di risonanza esercitata dagli organi del vocal tract; essa è direttamente proporzionale all’ampiezza delle vibrazioni delle corde vocali. La sua funzione principale è quella di segnalare l’accento enfatico, con cui il soggetto intende sottolineare un determinato segmento linguistico dell’enunciato rispetto agli altri. - il tempo: determina la successione dell’eloquio e delle pause; esso comprende diversi fattori come la durata (il tempo necessario per pronunciare un enunciato, comprese le pause), la velocità di eloquio (il numero di sillabe al secondo, comprese le pause) la velocità di articolazione (il numero di sillabe al secondo escluse le pause) e la pausa, intesa come sospensione del parlato, che viene distinta in pausa piena (cioè riempita da vocalizzazioni del tipo mmh,ehm ecc.) e pausa vuota (che corrisponde ai periodi di silenzio). Merita infatti particolare attenzione, nello studio del sistema vocale di significazione e di segnalazione, il silenzio. Infatti, in quanto assenza di parola, esso costituisce un modo strategico di comunicare e il suo significato varia in base alle situazioni, alle relazioni e alla cultura di riferimento.
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In generale, il valore comunicativo del silenzio è da attribuire alla sua ambiguità, poiché può essere l’indizio di un ottimo rapporto e di una comunicazione intensa, oppure il segnale di una pessima relazione e di una comunicazione deteriorata. Ecco perché il silenzio può assumere una connotazione sia positiva sia negativa sotto diversi aspetti: - i legami affettivi: il silenzio può unire due persone in una profonda condivisione o può separarle attraverso sentimenti di ostilità e di odio; - la funzione di valutazione: il silenzio può indicare consenso e approvazione o segnalare dissenso e rimprovero; - la funzione di attivazione: il silenzio può indicare una forte concentrazione mentale o può segnalare, al contrario dispersione e distrazione. Data la sua natura ambigua, il silenzio è governato da standard sociali definiti “le regole del silenzio”. Esse stabiliscono dove, quando, come e a quale scopo viene utilizzato; in generale si può affermare che il silenzio è associato a situazioni sociali in cui la relazione tra i partecipanti è incerta, poco conosciuta, vaga o ambigua, l’interazione stessa quindi indica che è prudente non esporsi troppo. Il silenzio assume un importante significato nelle relazioni asimmetriche in termini di gestione del potere e della dominanza sociale: le persone in una posizione di subordinazione stanno maggiormente in silenzio ad ascoltare rispetto alle persone con uno status sociale più elevato. Inoltre una funzione importante del silenzio, soprattutto se associata ad altri segnali non verbali, è quella di attirare l’attenzione. Quando una persona sta in silenzio all’inizio del proprio turno conversazionale, impegna gli altri a concentrarsi sul suo discorso. Ciò può avvenire soprattutto nei discorsi in pubblico dove l’oratore utilizza la strategia del silenzio interrompendo bruscamente la sua conversazione e proponendo un netto distacco, allo scopo di generare sorpresa e di attirare l’attenzione. In funzione della sua complessità, esistono, infine, delle differenze culturali nell’attribuzione di significato al silenzio e nel suo utilizzo. In generale, le culture occidentali (maggiormente individualiste) comunicano attraverso rapide successioni di turni conversazionali, con una conseguente riduzione dei periodi di silenzio, il quale viene considerato come una “minaccia” alla gestione dell’avvicendamento di turni. Nelle culture orientali (più collettivistiche), i parlanti possono invece utilizzare lunghissime pause
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di silenzio come segno di riflessione e saggezza: il silenzio diventa in questo modo un indicatore di armonia, fiducia, confidenza e intesa tra i parlanti (Anolli, 2002). 3.4 I GESTI Le definizioni di “gesto” fornite dalla letteratura sono molteplici. Alcuni autori evidenziano l’aspetto di intenzionalità comunicative del gesto: Morris (1990), per esempio, definisce gesto “qualunque azione che invii un segnale visivo a uno spettatore ed è rivolta a trasmettere un’informazione”. Vi sono invece autori che non sono d’accordo nel ritenere l’intenzionalità, un elemento discriminante del gesto poiché nell’interazione l’emittente può produrre un comportamento non verbale significativo indipendentemente dalla sua consapevolezza o intenzione (Ekman e Friesen, 1969; Poggi, Magno Caldognetto, 1977). Bonaiuto, Gnisi e Maricchiolo (2002) affermano che gesti delle mani e/o delle braccia, sono movimenti generalmente realizzati all’interno della semisfera che si trova di fronte al parlante, costruita dall’incrocio di tre coordinate, l’origine delle quali si colloca indicativamente al centro del petto della persona. Le tre coordinate o assi che costituiscono questa semisfera sono: a) parlante-esterno; b) destro-sinistro; c) alto-basso. Questo spazio diventa per il parlante, metaforicamente, lo spazio del discorso. Isabella Poggi (2006) definisce il gesto come “qualsiasi movimento fatto con le mani, le braccia o con le spalle”, e sostiene che un gesto è comunicativo quando la forma e il movimento delle mani hanno lo scopo di comunicare, dunque quando si forma una coppia segnalesignificato. Per quanto riguarda invece le classificazioni, Ekman e Friesen (1969) sono gli autori di una delle più storiche e note; gli autori prendono in esame tre criteri principali: - l’uso (usage) del gesto, si riferisce alle circostanze esterne che possono inibire, causare, o qualificare il significato del gesto stesso, in base al tipo di relazione con il parlato, al grado di consapevolezza di chi lo compie, all’intenzionalità di comunicare, al feedback esterno che il gesto può ricevere e al tipo di informazione veicolata; - l’origine (origin), si riferisce alla natura intrinseca del gesto, ovvero
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se esso sia una risposta specifica e innata della specie umana a stimoli esterni, o se viceversa, sia appreso all’interno di specifiche culture e comunità; - la codificazione (coding) del gesto è la corrispondenza del segno con il proprio significato: “può essere di natura intrinseca, quando il gesto sta per qualcos’altro, estrinseca, quando la forma del gesto coincide con il suo stesso significato”. Un’altra classificazione è quella di McNeill (1992), secondo il quale è errato considerare la componente gestuale come un canale espressivo indipendente da quello verbale: di conseguenza i due canali non possono essere analizzati separatamente. Il criterio utilizzato dall’autore, dunque, riguarda la diversa collocazione del gesto all’interno del discorso; egli distingue il repertorio gestuale in “gesti proposizionali”, detti anche “gesti appartenenti al processo di ideazione”, in quanto rappresentano diversi tipi di referenti linguistici, (oggetti concreti, rappresentazioni mentali o collocazioni spaziale) e “gesti non proposizionali”, chiamati anche “gesti caratterizzanti l’attività discorsiva”, in quanto accompagnano la conversazione e partecipano alla costruzione della coesione del discorso. Bonaiuto, Gnisci e Maricchiolo (2002), facendo riferimento alla tassonomia di McNeill, classificano i gesti in base al legame che intrattengono con il discorso; distinguono quindi i “gesti connessi al discorso”, eseguiti durante la conversazione, dai “gesti non connessi al discorso”, che non hanno nessuna relazione con questo, né strutturale né di contenuto. Tuttavia in ognuna delle classificazioni elaborate in letteratura, ci sono almeno quattro tipi di gesti che ricorrono in maniera evidente: * Gesti deittici (dal greco dèicnumi = indicare): sono movimenti compiuti con l’indice o con la mano aperta, per indicare un oggetto, una persona, una direzione o un evento; * Gesti iconici (dal greco èicon = immagine): consistono nel raffigurare nell’aria la forma di un oggetto, di un animale o di una persona, o nell’imitarne i movimenti tipici .Tali gesti sono stati definiti anche “illustratori” da Ekman e Friesen (1972) o “gesti ideativi” (Hadar e Butterworth, 1997). In questa categoria McNeill (1992) ha distinto fra i “gesti iconici” quando si riferiscono a realtà concrete e i “gesti metaforici” quando fanno riferimento a concetti astratti.
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I gesti iconici hanno la funzione di rendere più preciso e completo il significato di un enunciato, poiché forniscono importanti informazioni di natura spaziale, per illustrare concetti e situazioni. Ad esempio, se la frase: “Tutte le volte che andavo a Milano in centro, mi colpiva il Duomo con le cento guglie e in cima la Madonnina”, viene accompagnata da movimenti simmetrici in progressiva espansione, ascendenti e discendenti di entrambe le mani (che raffigurano il Duomo) e terminano con un gesto ascensionale della mano destra (che raffigura la Madonnina), viene fornita una rappresentazione spaziale di ciò che si sta dicendo. I gesti iconici, accompagnano il discorso in modo sistematico e sincronizzato, e di solito non sono ridondanti rispetto ai significati espressi dalle parole, ma aggiungono porzioni rilevanti di significato per la determinazione del senso dell’enunciato nella sua globalità. Ciò è dimostrato dal fatto che, se il parlante interrompe all’improvviso il discorso perché si accorge di fare un errore,interrompe simultaneamente anche il gesto che lo accompagna. Di conseguenza, “gesto e discorso sono generati dalla medesima rappresentazione di ciò che si comunica, manifestano la medesima intenzione comunicativa, sono pianificati dal medesimo processo e sono realizzati in modo sincronico in riferimento a un dato contesto d’uso” (Agliati, Vescovo, Anolli, 2005). * Gesti simbolici o emblematici: sono movimenti in grado di esprimere un significato facilmente traducibile in parole o frasi. Ad esempio, l’indice e il medio a V avanti e indietro davanti alla bocca, significa “fumare” o “sigaretta” oppure la mano che si muove su e giù con le dita riunite (la “mano a tulipano”), significa “ma che vuoi?”. Sul piano semiotico, essi costituiscono delle “unità segmentate”, in quanto implicano azioni motorie discrete e complete per poter trasmettere il significato di loro pertinenza: per esempio, il gesto OK può veicolare il suo significato di approvazione soltanto se il “segmento” motorio (il contatto fra l’indice e il pollice) è completato e presente. Un gesto simbolico può essere facilmente riconoscibile in quanto le sue caratteristiche principali sono: è un gesto autonomo, che si può usare anche in assenza del parlato; è codificato, cioè rappresentato stabilmente nella mente di chi lo usa, ed è rappresentato come una voce di un lessico gestuale, cioè come una regola di corrispondenza fra una certa forma di movi-
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mento delle mani e un significato; è culturalmente codificato, perché è condiviso solo dai parlanti di una determinata cultura e si impara per imitazione; ad ognuno di essi, corrisponde nella cultura in cui è usato, una “traduzione verbale”, a differenza di quanto avviene per i gesti “batonici”, gli sguardi, le posture o le espressioni facciali, che hanno un preciso significato ma non dispongono di una traduzione canonica; * Gesti batonici: sono movimenti delle mani eseguiti dall’alto in basso, allo scopo di enfatizzare e scandire il parlato; * Pantomime: “sono gesti che consistono nella rappresentazione motoria e nell’imitazione di azioni, scene o situazioni” (Anolli, 2002). Possono essere semplici o complessi e di durata variabile. Di norma, non accompagnano il discorso, non sono convenzionalizzati e a livello semiotico sono caratterizzati dalla globalità e dall’analiticità, in quanto la pantomima è scomponibile in una sequenza di azioni motorie distinte. Bartolo e Della Sala (2004) definiscono le pantomime (dal greco: “rappresentare imitando”) come “gesti che simulano l’uso di un oggetto pur non avendolo in mano, ma tenendo conto delle sue caratteristiche fisiche”. Ad esempio, per simulare l’uso delle forbici attraverso una pantomima, la maggior parte delle persone tenderebbe ad allungare e battere fra loro l’indice e il medio della mano, come se queste due dita si fossero magicamente trasformate in lame che stanno tagliando qualcosa; eppure questo gesto non rappresenta una pantomima in quanto consisterebbe nella sostituzione di una parte del corpo (la mano e le dita) all’oggetto (forbici), mentre invece la corretta esecuzione di una pantomima richiede di comportarsi “come se si avesse l’oggetto in mano”; in questo caso il gesto esatto sarebbe quello di fingere di infilare il pollice e l’indice nei due anelli e poi produrre i tipici movimenti di avvicinamento e allontanamento degli stessi fra loro. Una pantomima può in parte ricordare un gesto simbolico; infatti essa si esegue senza tenere in mano alcun oggetto. Tuttavia, se fosse davvero assimilabile ad un gesto simbolico, i pazienti che non sono in grado di simulare l’uso di un oggetto non dovrebbero neppure essere in grado di compiere gesti simbolici. Dall’osservazione di alcuni pazienti in seguito ad ictus cerebrale, sono emerse doppie dissociazioni tra la capacità di compiere gesti simbolici, la capacità di produrre pantomime e l’uso effettivo degli oggetti: questi casi clinici evidenziano chia-
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ramente che queste tre capacità sono indipendenti l’una dall’altra. Infine, è necessario soffermarsi sull’analisi dei processi e dei meccanismi che intervengono nel momento in cui un soggetto esegue una pantomima: in primo luogo è indispensabile che esso abbia a disposizione le informazioni relative all’oggetto ma anche al suo uso; tuttavia queste non sono sufficienti, perché è necessario mettere insieme e integrare le due conoscenze. Ecco perché la produzione delle pantomime richiede l’intervento della memoria di lavoro, in quanto sistema che sopraggiunge nell’esecuzione di quelle prove che prevedono il monitoraggio e l’integrazione, momento per momento, delle informazioni in entrata; * Gesti motori (o percussioni): sono movimenti semplici, ripetuti in successione e ritmici (come il tamburellare con le dita) che possono accompagnare il discorso o essere prodotti da soli. Rientrano a far parte di questa categoria anche i “gesti di autocontatto” che, di norma, svolgono una funzione automanipolatoria in condizioni di ansia, di tensione fisica o psichica e che comportano la ripetizione del medesimo tipo di movimento (per esempio, grattarsi la nuca). Oltre a questa classificazione, i gesti possono essere distinti anche in base ad un certo numero di parametri che si incrociano fra loro: * Contenuto semantico: in base a questo parametro si possono distinguere i gesti a seconda che diano informazioni sul mondo (ad esempio i gesti iconici e deittici); sull’identità del parlante (ad esempio il gesto simbolico di scuotere il pugno per proclamare “sono comunista”) o sulla sua mente (ad esempio il “gesto di Wittgenstein) che significa “chi se ne frega” e seguito attraverso il dorso della mano che scivola ripetutamente sotto il mento leggermente alzato; * Tipo di scopo: può essere individuale, se è uno scopo interno dell’individuo (ad es. dare indicazioni a gesti a chi sta cercando un luogo ad esso sconosciuto), biologico, se esprime emozioni primarie (come aprire le braccia per la sorpresa) o sociale se è governato da norme sociali (ad esempio mettersi la mano davanti alla bocca nel tossire rappresenta un gesto di cortesia); * Livello di consapevolezza: può essere conscio, se il parlante mentre esegue il gesto ne è completamente consapevole (ad esempio nei gesti simbolici), inconscio, se eseguito inconsapevolmente, oppure tacito, se
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il gesto viene eseguito senza che il parlante se ne accorga (come nel caso dei gesti batonici); * Costruzione cognitiva: in base a questo parametro i gesti possono essere codificati, se memorizzati stabilmente in un lessico gestuale, come se costituissero un linguaggio a parte e a volte autonomo dal parlato (ne sono un esempio le lingue dei segni utilizzate dalle persone sorde, i gesti simbolici ma anche i gesti batonici, perché quando la mano sale verso l’alto indica il “comment”, cioè la parte nuova della frase), oppure creativi, cioè inventati estemporaneamente sulla base di poche regole di inferenza condivise (ad esempio i gesti iconici poiché con le loro forme, posizioni e movimenti rappresentano oggetti e azioni, o i gesti deittici). Un gesto creativo, nasce quando è necessario “costruire” un nuovo referente, cioè quando ci si riferisce a qualcosa di cui non si è mai parlato prima. Ci sono due modi per costruire un referente: attraverso l’indicazione, quando il referente è presente nell’immediato contesto spazio-temporale, oppure dando un nome al nuovo referente attraverso i gesti; ciò vuol dire estrarre una o più caratteristiche distintive di quel referente e rappresentarle con le mani. Le caratteristiche distintive devono rispondere a due requisiti: essere specifiche, quindi distinguibili da altre e facili da mimare. Così, per dare un nome con un gesto, si può imitare la forma dell’oggetto (per riferirsi a una “chitarra” si può disegnare nell’aria il suo profilo), rappresentare le azioni che si collegano ad esso (per riferirsi ad un “volatile” si possono battere le mani come ali), mimare le azioni che si fanno con esso (per comunicare il significato di “sale” si strofinano pollice, indice e medio come se lo si spargesse sul cibo) o indicare il luogo in cui in genere quel referente si trova (per “montagna” si indica lontano e verso l’alto). Quando invece il referente è un concetto astratto (come “menzogna” o “democrazia”) oppure un oggetto concreto che pur essendo percepibile, non si può rappresentare con le mani (come “vento”, “caldo”, “rumore”), è necessario lanciare un “ponte” fra astratto e concreto (Galantucci, 2005), ovvero riuscire a comunicare il significato del referente, attraverso una serie di regole di inferenza che connettono l’astratto e il concreto (ad esempio per rappresentare “democrazia” un soggetto può rappresentare l’antitesi della democrazia cioè la dittatura, resa attraverso la figura di Mussolini di cui si possono mimare le pose e le movenze tipiche con i pugni sui fianchi e il mento sollevato). 92
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3.4.1 LA CHEROLOGIA: IL DIZIONARIO DEI GESTI La cherologia (dal greco chèir = mano) del Gestionario italiano ha lo scopo di creare un alfabeto dei gesti descrivendone la fonologia e la semantica. Per individuare la fonologia dei gesti, Stokoe (1978), uno dei pionieri nello studio scientifico delle lingue di segni, ha introdotto la nozione di “parametri formazionali” del segno: questi rappresentano dei criteri di classificazione in base a cui è possibile analizzare tutti i segni di un lessico dei gesti. In un particolare sistema di gesti ogni parametro può assumere un certo numero di valori, per cui in quel sistema, ogni gesto è caratterizzato univocamente dalla combinazione dei valori che assume rispetto ai diversi parametri. I parametri formazionali del gesto sono: - la forma della mano - l’orientamento - il luogo - il movimento che è un parametro molto complesso e articolato in sottoparametri fra cui direzione, durata e tensione muscolare. Ad esempio nel gesto che significa “se l’intendono”, la forma della mano è rappresentata dagli indici delle due mani tese, l’orientamento è a palme in giù, con il metacarpo verso l’ascoltatore, il luogo è rappresentato dallo spazio neutro della persona, il movimento è dato dagli indici paralleli che si avvicinano e si allontanano ripetutamente. 3.4.2 IL GESTIONARIO Inoltre, le informazioni semantiche contenute nel Gestionario possono essere suddivise in base a: * Formulazione verbale: per ogni gesto simbolico infatti vi è una traduzione verbale che lo accompagna o lo parafrasa; * contesto: indica il contesto in cui più tipicamente un determinato gesto viene usato (il gesto “se l’intendono” viene di solito utilizzato fra due persone); * sinonimi: indicano i gesti che hanno più o meno lo stesso significato (il sinonimo del gesto “c’è del tenero” viene effettuato con il pollice e l’indice aperti e curvi che ruotano ripetutamente sul polso);
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* significato: è la definizione vera e propria che mira a enucleare il significato comune agli usi del gesto in contesti diversi; * classificazione grammaticale: è possibile distinguere gesti olofrastici e articolati, cioè “gesti-frase” e “gesti-parola”, a seconda che abbiano il significato di una frase intera o solo di una parte di frase (ad es. muovere l’indice e il medio a V vuol dire “fumare”, cioè porta il significato di una sola parola, mentre battere le mani ha il significato di una frase intera, “ti lodo”); * classificazione Pragmatica: i “gesti-frase” vengono classificati, in base al loro specifico performativo, come gesti di domanda (ad esempio il gesto “ma che vuoi?”), richiesta (il gesto “vieni qui”), minaccia (l’indice teso mosso su e giù, “guai a te!”), lode (l’applauso, “bravo!”); * classificazione semantica: fra i gesti simbolici, molti danno informazioni sul mondo: animali (“cavallo”, “asino”), oggetti (“forbici”, “sigaretta”), azioni (“camminare”), proprietà fisiche e mentali (“magro”, “stupido”), tempi (“ieri”), quantità (“due”). Altri gesti danno informazioni sulla mente del parlante: sul grado di certezza delle conoscenze (“no”, “sono perplesso”); sulla fonte delle conoscenze comunicate (“cerco di ricordare”); sul performativo dei propri atti di comunicazione (“attenzione”, “chiedo scusa”); sui legami logici tra le frasi del discorso (“quindi”); sulla presa di turno (“chiedo la parola”); sulle emozioni (“vittoria” per esprimere esultanza, “che vergogna”). Infine, un gesto simbolico dà informazioni sull’identità del parlante: mettersi la mano sul cuore significa “sono nobile”; * figure retoriche nei gesti: secondo questo parametro i gesti si possono suddividere in gesti metaforici (ad es. battersi la mano sul petto, col palmo in giù e le dita che si toccano vuol dire “mi sta qui”, cioè letteralmente “non lo digerisco”) gesti iconici, ad esempio il gesto di applauso inteso sia in senso letterale per approvare e lodare, ma anche in senso ironico per esprimere, al contrario, un sarcastico elogio, cioè una critica, una forte disapprovazione; gesti che utilizzano la figura retorica dell’iperbole, cioè dell’esagerazione (ad es. per comunicare “sono triste” l’indice striscerà la guancia dallo zigomo in giù, come raffigurando una lacrima che scende, e quindi il pianto), gesti che utilizzano la figura retorica della sineddoche (ad esempio per intendere “prigione” si rappresentano le sbarre con le cinque dita della mano davanti alla faccia). 94
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L’applicazione dei meccanismi retorici ai gesti, ha due importanti funzioni per il lessico: da un lato contribuisce al cambiamento storico del significato dei gesti, perché l’operare di una figura retorica fa cambiare il significato del gesto, al punto che il nuovo significato soppianta il vecchio; d’altra parte, in alcuni gesti coesistono il significato letterale e quello retorico (come nel gesto di applauso che mantiene, insieme al suo significato di lode, quello di critica). La coesistenza di due significati, in parte collegati, in uno stesso gesto costituisce la polisemia dei gesti e cioè la duplicità di significati. I gesti presentano rilevanti variazioni culturali, soprattutto in riferimento agli emblemi e al linguaggio di segni. Morris (1979) ha studiato le tipologie di gesti emblematici in quaranta regioni dell’Europa occidentale, e ha notato che pochissimi di questi sono in comune tra le diverse popolazioni; neppure i cenni del capo per dire sì o per dire no sono universali. Infatti, mentre nelle regioni settentrionali dell’Europa si scuote il capo in avanti (in senso verticale) per dire sì, e di lato (in senso orizzontale) per dire no, in alcune regioni della Bulgaria avviene il contrario e in alcune regioni dell’Italia meridionale si dà un colpo della testa indietro per dire no (come succedeva nell’antica Grecia). Il gesto della mano a borsa (la mano si muove su e giù con il palmo in alto e con le dita che si toccano sulle punte), sconosciuto in Inghilterra ha un significato di interrogazione e di perplessità nell’Italia meridionale, significa buono in Grecia, lentamente in Tunisia, paura nella Francia meridionale e molto bello presso alcune comunità arabe. Anche per i gesti iconici esistono notevoli differenze culturali. Gli italiani del sud fanno ampio uso di “gesti fisiografici, dotati di un elevato valore pittorico descrittivo, mentre gli ebrei di lingua yiddish impiegano i gesti ideografici per sottolineare la direzione del pensiero, collegando una frase all’altra: si tratta di gesti contenuti e di estensione limitata” (Efron, 1941).
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3.5 LA POSTURA La postura rappresenta la posizione del corpo consapevolmente o inconsapevolmente assunta dal soggetto in relazione al contesto o e al suo interlocutore. In ogni cultura esistono molti tipi di postura anche se le principali sono: eretta, distesa, rannicchiata, in ginocchio. Specifiche norme culturali definiscono quali sono le posture adeguate ad ogni circostanza il contesto sociale (per esempio in chiesa o in moschea si assume la postura in ginocchio). Esiste una relazione tra postura, ruolo e atteggiamento interpersonali. Ad esempio, Mehrabian (1972) ha trovato che il significato della postura si delinea lungo le dimensioni di dominanza-sottomissione e rilassamento-tensione. Egli ha descritto una serie di elementi che indicano il “rilassamento posturale”: posizione asimmetrica degli arti, inclinazione obliqua o reclinata, rilassamento delle mani e del collo. Tali segnali vengono generalmente utilizzati nei confronti di persone di status sociale inferiore: questa posizione viene considerata infatti “dominante”. Al contrario, in situazioni in cui ci si trova a contatto con persone di status superiore, nei confronti delle quali si assume un atteggiamento di subordinazione, la postura sarà più tesa e rigida tipica delle situazioni di “sottomissione”. In altre situazioni, invece, la postura rigida, eretta con le mani sui fianchi e il capo all’indietro esprime dominanza; così come gli inchini, lo sguardo e il capo abbassati indicano invece sottomissione o riverenza. La postura è stata studiata anche in relazione allo stato emotivo. Ekman e Friesen (1969) sostengono che la postura sia indicativa dell’intensità dell’emozione provata, più che del tipo di emozione: infatti, mentre l’espressione del volto trasmette un maggior numero di informazioni su espressioni specifiche, la postura del corpo comunica l’intensità dell’emozione. La postura sarebbe dunque un segnale non verbale più spontaneo, meno sottoposto al controllo volontario e cosciente, rispetto al volto. Sarbin e Hardyck, invece, studiando il rapporto tra stato emotivo e postura, hanno messo in evidenza una specifica correlazione tra il tipo di postura e alcune specifiche emozioni fondamentali. A sostegno di tali argomentazioni si può notare come la postura possa essere strettamente connessa al tono muscolare.
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La funzione tonica sarebbe un mezzo peculiare di espressione e di comunicazione di affetti di emozioni: nell’“imbarazzo” o nell’“ansia”, abitualmente il soggetto riferisce di “essere in tensione” o di “sentirsi bloccato”, e a ciò fa realmente riscontro uno stato generale di ipertonia muscolare. Al contrario, nella “tristezza” si riscontra una rilassamento del tono muscolare. 3.6 IL SISTEMA PROSSEMICO Con il termine “Prossemica”, si intende la branca della psicologia che studia la percezione, l’organizzazione e l’uso dello spazio e della distanza nei confronti degli altri e dell’ambiente circostante. Ogni individuo infatti necessita di creare e mantenere dei rapporti interpersonali con gli altri, la vicinanza spaziale costituisce dunque una premessa psicologica e fisica indispensabile. Nello stesso tempo, la distanza fisica permettere ad ognuno di definire e di proteggere la propria riservatezza e il proprio spazio personale. Inoltre la gestione della propria “territorialità” (Anolli, 2002) assume risvolti e significati psicologici nel corso degli scambi comunicativi: il proprio spazio personale rivela infatti non solo lo status sociale, il sesso e la personalità di ogni individuo, ma anche il tipo di relazione e il rapporto di dominanza o di sottomissione intrattenuto con l’interlocutore. Hall (1969) ha distinto quattro forme diverse di distanza interpersonale, ognuna delle quali delimita un’area attorno a ciascun individuo, entro cui è permesso entrare, solo, seguendo alcune regole socioculturali, di volta in volta determinate dal contesto e dal tipo di relazione che si instaura con l’interlocutore: · distanza intima: (da 0 a 45 centimetri circa, a seconda della cultura di appartenenza) è la distanza propria dei rapporti di intimità, come quelli fra partner o tra madre e bambino. È la distanza in cui si può toccare, sentire l’odore dell’altra persona, avvertire l’intensità delle sue emozioni, e parlare sottovoce; · distanza personale: (da 45 centimetri a un metro circa): è l’area invisibile che circonda in maniera costante il corpo; è una sorta di “bolla invisibile” che circonda ogni individuo, nella quale è sgradita l’intrusione degli altri e la cui distanza varia da interazione a interazione. È propria delle relazioni fra amici ed è la distanza in cui è possibile toccarsi, vedere l’altro in modo distinto, ma non sentirne l’odore; 97
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· distanza sociale: (fra 1 e 3,5-4 metri) è la distanza caratteristica delle relazioni formali è impersonali; rappresenta il territorio in cui l’individuo sente di avere libertà di movimento, prova un senso di agio e ne possiede il controllo (può essere la propria casa, l’ufficio o il clan degli amici); in questa distanza non è presente il contatto fisico con l’altro, ma vengono attivati soltanto gli apparati visivo e uditivo; · distanza pubblica: (oltre 4 metri) è la distanza tipica delle situazioni pubbliche e ufficiali come, ad esempio, in un comizio in cui l’oratore si trova sul palco; è la distanza entro la quale, rispetto all’interlocutore, è principalmente attivato l’apparato visivo e solo in parte, anche quello uditivo (se è presente l’amplificazione del suono attraverso dei microfoni). Naturalmente, queste distanze non sono così rigide e universali poiché, non soltanto risentono delle variazioni culturali (ad esempio le popolazioni europee settentrionali, quelle asiatiche e quelle indiane, sono caratterizzate da una “cultura della distanza”: in esse infatti la distanza interpersonale è maggiore rispetto alle popolazioni arabe, sudamericane e latine che invece sono caratterizzate da una “cultura della vicinanza”) ma anche delle caratteristiche socio-ambientali del contesto in cui avviene l’interazione, non sempre nelle relazioni interpersonali si instaura la distanza ad esse adeguata; ad esempio, ci si può trovare a distanza intima, anche con persone con cui non si ha nessun tipo di rapporto; ciò avviene, di norma, in un contesto “pubblico” come l’ascensore, oppure all’interno di un autobus, in cui si è costretti ad assumere una distanza intima o personale con degli sconosciuti. Tale distanza ravvicinata, è comunque abbastanza tollerata, poiché segue principi e norme sociali tipiche di quelle particolari situazioni e quindi socialmente condivise. Inoltre, esistono degli espedienti per ristabilire, anche solo a livello psicologico, la distanza ritenuta consona; ad esempio evitando il contatto visivo, che rappresenta un modo per aumentare la distanza psicologica con l’altro e impedirgli di percepire le proprie emozioni e i propri stati d’animo. Ricci Bitti e Costa (2003), hanno analizzato l’organizzazione spaziale e le distanze che si instaurano all’interno di una triade di amici. Se la triade è formata da due ragazze e un ragazzo, è il ragazzo che si posiziona a lato delle due ragazze, quindi alla loro destra o alla loro sinistra
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ma non al centro, inoltre, mantiene con loro una distanza maggiore rispetto a quella che le ragazze tengono fra di loro; in questo modo esso sottolinea la sua diversità di genere. Se la triade invece è composta da due ragazzi e una ragazza, la disposizione più frequente è quella in cui la ragazza si colloca al centro e i ragazzi le si pongono a destra e a sinistra. 3.7 IL SISTEMA APTICO Con il termine “Aptica”, si intende il contatto fisico che si instaura fra due persone: esso rappresenta la forma più primitiva di azione sociale, che nasce da un’esigenza innata di rassicurazione e affetto. In base alla definizione di Isabella Poggi, tale sistema di comunicazione è definito “non-residente”, in quanto tutto il corpo può essere soggetto e oggetto di contatto fisico. Il contatto fisico assume notevole importanza soprattutto nel periodo neonatale e dell’infanzia, in cui attraverso il tatto, i bambini comunicano con la propria madre, sia per ragioni fisiologiche (come l’allattamento) sia psicologiche (per rassicurazione); è da ciò che si sviluppa il processo di attaccamento. Ma mano che si cresce, diminuisce il bisogno di contatti corporei interpersonali, anche con le figure genitoriali, e le azioni di contatto assumono via via significati diversi, legati all’ambiente e alla specifica situazione comunicativa entro la quale vengono attuate. 3.7.1 APTOLOGIA: IL DIZIONARIO DEL CONTATTO FISICO Per descrivere la “fonologia” del contatto fisico sono stati individuati quattro parametri formazionali: * Parte toccante, ovvero la parte del corpo del Toccante che tocca il Toccato; può essere una “mano” nella carezza, un “piede” nel calcio, la “bocca” nel bacio. I valori trovati per questo parametro nel Tocconario (Poggi, 2006) sono 23; * Parte toccata, ovvero la parte del corpo del Toccato che viene toccata; i valori individuati sono 32; luogo e Spazio toccato, di cui sono stati individuati tre valori: un “punto” (nel caso di un calcio o di uno schiaffo), una “linea” (nel caso di una carezza) oppure un’“area”;
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* Movimento: si può distinguere un movimento 1 quello della parte Toccante prima del contatto con il Toccato e un movimento 2 (durante il contatto), che può essere o meno presente: ad esempio, in uno “schiaffo” dopo il contatto, la mano si allontana. Entrambi i movimenti sono articolati in sotto parametri: - la direzione: (4 valori), cioè il tragitto designato dalla parte toccante alla parte toccata; - la pressione: cioè la forza del movimento, semanticamente rilevante perché distingue contatti amichevoli da contatti aggressivi, e dipendente a sua volta dalla tensione muscolare della parte toccante (4 valori) e dall’impatto fra parti Toccante e Toccata (3 valori); - il tempo: cioè la lunghezza, la frequenza o la ripetizione del contatto fisico tra parte Toccante e Toccata, che ha come dimensioni la durata (3 valori), la velocità (3 valori) e il ritmo, con 5 valori: unico, quando il contatto è molto breve e non ripetuto (per esempio in uno schiaffo, un pugno, un bacio sulla fronte); singolo, quando il contatto persiste per un po’ e può essere ripetuto, ma in maniera continua (nell’accarezzare, strofinare o asciugare le lacrime dell’altro); ripetuto a scatti, quando il contatto si ripete due o più volte (come nel battere due volte sulla spalla); stabile, se il contatto persiste a lungo senza staccare la parte toccante (come nel tenersi per mano o camminare a braccetto); continuo, se il movimento si ripete senza pause (come nel massaggiare o strofinare).
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TAB 1: Il toccare. Analisi del segnale
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3.7.2 IL TOCCONARIO Anche per i segnali di contatto fisico, è possibile individuare e classificarne i significati, e quindi farne un lessico. Nella ricerca condotta da Isabella Poggi, presso l’Università Roma Tre, per ognuno dei 104 “atti di tocco” individuati, sono state enucleate informazioni riguardanti: * il Nome o la Descrizione verbale: ovvero parole o espressioni della lingua italiana che menzionano segnali di contatto fisico (come ad esempio “bacio”, “schiaffo”, “carezza”); * la Parafasi verbale: cioè l’espressione verbale che accompagna l’atto di tocco (ad es., “asciugare le lacrime dell’altro” può essere accompagnato dall’espressione “su, non piangere”); * Significato letterale: corrisponde all’informazione semantica contenuta nel segnale di contatto fisico (ad es. una “carezza” significa “voglio darti piacere e serenità”); * Significato Indiretto: corrisponde al significato che deve essere inferito da quello letterale (nella “carezza” il significato indiretto è “voglio che tu stia calmo”); * Significato originario: corrisponde al significato originario del segnale di contatto fisico, ovvero quello che ha origine da azioni non comunicative (ad esempio “abbracciare” deriva probabilmente dal desiderio di circondare l’altra persona, quasi a incorporarla e renderla parti di sé); * Scopo sociale: esprime la disposizione sociale del Toccante verso il Toccato; vi può essere uno scopo aggressivo, quando l’atto di toccare mira a danneggiare l’altro, (ad esempio nello schiaffo) e tre tipi di scopi positivi, che si distinguono per la relazione di potere cui fanno appello nei confronti del Toccato: il contatto fisico è protettivo se offre aiuto o affetto (ad es. il marito che “porge il braccio” alla moglie), affiliativo se chiede aiuto o affetto (ad esempio la moglie che “si appoggia il braccio” del marito) oppure amichevole quando offre aiuto o affetto ma senza implicare una differenza di potere (due amiche che “vanno a braccetto”).
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3.7.3 CHI, DOVE E QUANDO TOCCARE: LE NORME D’USO Le norme d’uso stabiliscono se un determinato significato può, non può, deve o non deve essere comunicato in una certa situazione; ovvero stabiliscono se e quando comunicarlo è prescritto, proibito o permesso. Le norme d’uso del Tocconario dipendono da: * il tempo, ovvero in quale momento di un incontro faccia a faccia si produce in genere il segnale di contatto fisico: all’inizio, alla fine o durante l’incontro; * il tipo di interazione, cioè gli scopi per cui i partecipanti interagiscono, indicano come deve essere interpretato il segnale di contatto fisico; il contatto è affettivo, se usato per stabilire un tipo di interazione in cui comunicare un affetto, sia positivo che negativo; il contatto è rituale, se è governato da norme cerimoniali o da regole di cortesia (ad esempio il “bacio sulla guancia” fra i presidenti di due stati) oppure è scherzoso, se il contatto fisico è usato violando ostentatamente queste stesse regole per instaurare una relazione di familiarità e un clima giocoso (ad esempio una “pacca sulla spalla”); * il grado di intimità, indica se il gesto di contatto fisico è usato fra amanti o amici, conoscenti o sconosciuti; * la relazione di potere fra Toccante Toccato, indica se il gesto si può usare solo con persone di status inferiore, tra pari o anche con persone di status o superiore. 3.8 LO SGUARDO Lo sguardo rappresenta uno dei più potenti segnali non verbali; infatti proverbialmente “gli occhi sono lo specchio dell’anima”, ma non solo, anche della mente, dell’identità del soggetto e persino uno specchio del mondo. L’occhio, infatti, costituisce una struttura nervosa molto importante se si pensa che circa i due terzi delle fibre sensoriali (circa 3 milioni) provengono dall’occhio e che fra i dodici nervi cranici, sei sono coinvolti nell’attività oculare. A loro volta, i muscoli extra-culturali, che sono tra i più innervati dell’organismo, possono scontrarsi centomila volte al giorno senza affaticamento. Inoltre l’eccitazione delle cellule della fovea, che ha la dimensione di un millimetro e mezzo, si
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propaga in una regione cerebrale centomila volte più estesa. In base a questa dotazione biologica, la percezione visiva diventa il segnale comunicativo privilegiato. Isabella Poggi, definisce lo sguardo come un sistema di comunicazione “residente” perché interessa una piccola parte del corpo, cioè la regione degli occhi, comprese le palpebre, le ciglia e le sopracciglia, e ne individua 5 funzioni fondamentali: - vedere: cioè utilizzare gli occhi semplicemente per immagazzinare informazioni attraverso la percezione visiva; questa funzione ricettiva permette di acquisire informazioni sul mondo; - guardare: cioè vedere avendo l’intenzione di farlo ad esempio “scrutare”, “dare uno sguardo” o “tenere d’occhio”; - sentire: in quanto la percezione visiva è anche un canale per provare sensazioni positive e negative, e piaceri estetici (Argyle, Cook, 1976) ad esempio l’espressione “rifarsi gli occhi” si riferisce a ad una vista piacevole; In tutti questi casi gli occhi svolgono una funzione recettiva, cioè volta ad immagazzinare e acquisire informazioni dal mondo alla mente del parlante. - pensare: in quanto gli occhi aiutano i processi di pensiero, quando c’è la necessità di concentrarsi, gli occhi si alzano al cielo oppure si chiudono, quando invece si è assorti nei propri pensieri l’occhio vaga perso nel vuoto; - comunicare: gli occhi vengono mostrati allo scopo di far avere informazioni agli altri (ad esempio l’espressione “fulminare con lo sguardo” è utilizzata per far capire all’altro che si è in disaccordo con ciò che ha fatto o detto. Lo sguardo assumendo una notevole importanza durante la conversazione, in cui occupa la quota preponderante del tempo trascorso, serve per inviare e raccogliere informazioni, nonché per acquisire il feedback del partner. Chi parla, in genere guarda (circa il 40% del tempo totale) di meno rispetto a chi ascolta (circa il 75% del tempo) e senza contatto oculare le persone non hanno l’impressione di essere in comunicazione fra loro nel corso delle conversazioni quotidiane. Lo sguardo inoltre è una segnale efficace per gestire la regolazione dei turni: all’inizio del turno della conversazione, il parlante è portato a distogliere lo sguardo dall’ascoltatore; durante il turno, la direzione dello sguardo si
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sposterà sistematicamente a intervalli verso l’ascoltatore o lontano dallo stesso; quando il turno sta per finire, lo sguardo tende a essere rivolto verso l’interlocutore e in questo modo si favorisce il passaggio di turno senza pause. Sia per il parlante che per l’ascoltatore, lo sguardo svolge la funzione di sincronizzazione (come strumento per evitare sovrapposizioni e per gestire l’avvicendamento dei turni), di monitoraggio (come dispositivo per controllare l’interazione) e di segnalazione (come mezzo per manifestare le proprie intenzioni). Lo sguardo è un segnale comunicativo efficace anche per generare e gestire un determinato profilo della propria immagine personale. Chi guarda il partner è percepito come più attento e coinvolto di chi evita lo sguardo, dimostra maggiore competenza in termini di intelligenza, di intraprendenza e abilità nelle interazioni sociali, nonché di fiducia e di sincerità. Inoltre, lo sguardo serve a regolare il rapporto di vicinanza o di distanza con le altre persone nella gestione dell’intimità; appare più frequente tra i familiari e tra le persone che si conoscono che non con gli estranei. Tuttavia, si evita maggiormente lo sguardo quando si parla di argomenti “intimi”. È soprattutto attraverso le variazioni e la frequenza degli sguardi che si trasmettono indizi relativi all’intensità delle emozioni: le emozioni positive, come gioia o tenerezza, sono caratterizzate da una maggior frequenza di sguardi; mentre le emozioni negative quali il disgusto o l’imbarazzo, richiedono un evitamento o uno spostamento del contatto oculare. Attraverso lo sguardo è anche possibile comunicare gli atteggiamenti interpersonali, come le relazioni di dominanza e di status; ad esempio, i contatti visivi sono più frequenti negli scambi e nelle interazioni cooperative piuttosto che in quelle competitive. Nelle interazioni asimmetriche solitamente, chi si trova in una posizione subordinata rispetto al proprio interlocutore ha maggiormente la tendenza a evitare lo sguardo. Chi si trova in una posizione di potere, invece, guarda più a lungo l’altro quando parla e molto meno quando invece ascolta. La fissazione oculare è invece uno sguardo prolungato e duraturo fra due persone che può diventare motivo di disagio e può essere percepito, in determinate situazioni, come un segnale di minaccia e/o di pericolo. Al contrario, lo sguardo fisso reciproco è caratteristico delle situazioni di seduzione e di innamoramento; in questo modo la fissazione oculare reciproca conduce a condividere la cosiddetta “intimità oculare” in uno scambio senza parole. 105
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Oltre alla fissazione, nella seduzione assume particolare importanza anche lo “sguardo laterale”, soprattutto da parte delle donne, come gesto non verbale di interesse verso il partner. Esistono poi delle importanti differenze culturali nell’utilizzo dello sguardo: i popoli nordeuropei e i giapponesi tendono a evitare di guardare in modo prolungato i propri interlocutori; mentre nelle culture latine lo sguardo prolungato è segno di sincerità e di interesse verso l’altro. 3.8.1 OPTOLOGIA: LA FONOLOGIA DEGLI OCCHI Allo scopo di creare “un alfabeto dello sguardo”, Isabella Poggi (2006) ha analizzato 300 casi di sguardo in materiali videoregistrati, in modo tale da individuarne i parametri formazionali, ognuno con un certo numero di valori possibili, che combinandosi insieme danno vita ai mille sguardi che popolano la vita quotidiana. La regione del viso rilevante per la comunicazione attraverso lo sguardo, comprende: sopracciglia, palpebre superiori e inferiori, occhi e occhiaie. Per ognuno di queste parti o loro sottoparti, si considerano alcuni aspetti, movimenti o tratti morfologici. Per quanto riguarda le sopracciglia si considera la loro parte interna, quella centrale e quella esterna. Esse sono importanti perché non solo esprimono emozioni come rabbia, sorpresa, preoccupazione, ma servono anche per enfatizzare il discorso fornendo informazioni sul topic e sul comment della frase, o per far capire all’altro la propria disapprovazione. In particolare l’abbassamento delle sopracciglia, comunemente chiamato “aggrottare”, viene prodotto avvicinando le une alle altre verso l’interno. Tale abbassamento produce l’effetto di comprimere la pelle e di formare brevi rughe verticali sopra al naso, nell’area chiamata glabella. L’aggrottamento delle sopracciglia viene utilizzato principalmente nei seguenti contesti: - per mancanza di una conoscenza: nel caso in cui il parlante fa una domanda, comunica al proprio interlocutore di non riuscire a capire ciò che dice oppure vuole comunicargli la sua disapprovazione; - per prestare attenzione: nel caso in cui si guarda attentamente qualcosa, si cerca di ricordare qualcosa oppure si afferma con certezza il proprio discorso; - per trasmettere emozioni quali preoccupazione, rabbia, minaccia e aggressività; 106
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Tuttavia ognuno di questi significati può essere ricondotto ad un unico elemento che li accomuna; mancanza di conoscenze, attenzione ed emozioni presuppongono infatti un elevato livello di “concentrazione”. Originariamente però, l’abbassamento delle sopracciglia può essere ricondotto ad una funzione puramente fisiologica, ovvero quella di protezione dagli attacchi degli agenti esterni (pioggia, polvere, luce eccessiva o improvvisa ecc.), ogni qualvolta si verifichi una minaccia per gli occhi. Nei momenti di pericolo l’abbassamento delle sopracciglia non è tuttavia una protezione sufficiente e perciò spesso, tale azione e accompagnata da un’attivazione del muscolo orbicolare dell’occhio, un muscolo che lo circonda completamente e che determina un innalzamento delle guance, la formazione di rughe a “zampe di gallina” ai lati degli occhi ed una parziale o totale chiusura degli stessi. L’azione congiunta delle sopracciglia e dell’orbicolare si traduce nello “strizzare” gli occhi, tipico di una faccia che si ritrae in previsione di un’aggressione fisica o a esposta ad una luce troppo intensa che ferisce gli occhi. L’innalzamento delle sopracciglia invece si produce sollevandole entrambe, in maniera simmetrica. Il loro sollevamento assume quattro significati principali: - sorpresa: nel caso in cui ci si trova di fronte ad una situazione imprevista ; - enfasi: nella conversazione, innalzare le sopracciglia, ha la funzione di enfatizzare il “comment” della frase che corrisponde alla parte più importante del discorso su cui porre l’attenzione. In recenti ricerche è stato dimostrato che l’innalzamento delle sopracciglia è associato soprattutto alla pronuncia di aggettivi e sostantivi che rappresentano le parti semanticamente più salienti di un discorso e che contribuiscono maggiormente a dare significato alla frase; - funzione avversativa: il sollevamento delle sopracciglia può accompagnare nel discorso, una parola pronunciata con funzione avversativa, come “ma”, “tuttavia”, “invece”, “al contrario”, ed ha lo scopo di avvertire l’ascoltatore a non trarre, da ciò che si è detto fino a quel momento, le inferenze più prevedibili ma a concludere esattamente l’opposto; - perplessità o dubbio: per comunicare incredulità rispetto ciò che si sta dicendo.
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In questo caso, l’elemento semantico che appare comune a tutti questi significati è quello di un’informazione nuova e inattesa che non può essere inferita dalle conoscenze precedenti. Tuttavia, l’aggrottamento e l’innalzamento delle sopracciglia possono essere considerati come due segnali simmetrici, altrettanto quanto i loro significati: esse infatti vengono sollevate quando è necessario aumentare la quantità delle informazioni, al contrario, si avvicinano quando è necessario “aguzzare lo sguardo” e mettere più a fuoco per migliore la qualità della visione. E poiché la visione è subito metafora della comprensione, l’aggrottamento sta a significare non solo cercare di “vedere meglio” ma anche di “capire meglio”, quindi più in generale necessità di concentrazione. Anche i movimenti delle palpebre, che determinano l’apertura e la chiusura degli occhi, sono significativi; esse infatti possono essere chiuse per indicare concentrazione, a “mezz’asta” nell’“ occhio languido” dell’innamorato oppure semichiuse per esprimere odio. Le occhiaie hanno un valore involontariamente espressivo; se infossate, infatti rivelano stanchezza o esaurimento fisico. Per gli occhi, invece, l’umidità può rivelare gioia o entusiasmo (“occhi che brillano”) oppure dolore (lacrime); l’arrossamento può svelarne il pianto, cioè grande tristezza, o al contrario rabbia intensa (“occhi iniettati di sangue”). La pupilla dilatata invece è segno di eccitazione sessuale o d’altro tipo; l’occhio che non mette a fuoco, mostra vaghezza e imprecisione. Quanto al comportamento spaziale degli occhi, la direzione dell’iride è importante in relazione alla direzione del capo e del busto, nonché alla posizione dell’interlocutore. In caso di default (il caso “normale”) occhio, testa e busto sono tutti rivolti verso l’interlocutore; al contrario nell’espressione “guardare di traverso”, utilizzata per mostrare diffidenza, capo e busto sono rivolti nella direzione opposta a quella degli occhi. Anche la durata dello sguardo è sicuramente importante poiché “il tempo per cui si può sostenere uno sguardo è determinato da regole ferre (Argyle, Cook, 1976), uno sguardo più lungo di pochi secondi è per forza uno sguardo d’amore o uno di sfida”.
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TAB 2: I parametri formazionali dello sguardo
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3.8.2 L’OCCHIONARIO Per costruire un “lessico dello sguardo”, oltre all’analisi fonologica è necessaria anche un analisi semantica, allo scopo di individuare che tipo di significati possono essere veicolati attraverso gli occhi. Le informazioni semantiche contenute nell’Occhionario, si distinguono in tre grosse classi di significati: * Informazioni sul mondo: attraverso gli sguardi infatti si può comunicare circa gli eventi del mondo esterno: cioè su entità (oggetti, persone, animali, fatti e discussi), sulle loro proprietà e relazioni e sulla loro collocazione nel tempo e nello spazio. Due principali tipi di sguardo veicolano questo tipo di informazioni: gli sguardi deittici e gli sguardi attributivi. I primi si riferiscono ad una persona, un oggetto o un evento presenti nell’immediato contesto, hanno dunque lo scopo di indicare il referente. Essi, tuttavia, rappresentano un modo di indicare più furtivo e nascosto rispetto al gesto di indicazione; infatti vengono utilizzati dal parlante, quando questo non intende rivelare troppo chiaramente, che sta indicando qualcosa o qualcuno. Ecco perché nello sguardo deittico la direzione dell’iride non è la stessa di quella del volto: il viso è rivolto verso l’interlocutore gli occhi invece all’oggetto o alla persona indicata. Gli sguardi attributivi, invece hanno una “funzione aggettivale” (Poggi, 2006) ovvero informano e comunicano sulle proprietà fisiche del referente, in termini di dimensioni (ad esempio “strizzare gli occhi” per indicare oggetti piccoli o lontani e “spalancare gli occhi “ per indicare oggetti grandi) e di quantità (ad esempio “strizzare gli occhi” può essere parafrasato come “poco”, al contrario “spalancare gli occhi” può essere parafrasato come “molto o tanto”) oppure sulle proprietà astratte del referente stesso (ad esempio “strizzare gli occhi” può indicare un concetto specifico, “sottile” oppure un particolare o una sfumatura di un concetto); * Informazioni sull’identità del mittente: la comunicazione sulla propria identità spesso è tacita e inconsapevole e può essere veicolata dai tratti morfologici del viso (ad esempio le rughe svelano l’età, la plica palpebrale indica l’appartenenza ad una determinata etnia), ma anche da sguardi che esprimono i tratti di personalità del soggetto (ad esempio lo sguardo di una persona altezzosa è definito “dall’alto in basso”:
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cioè con il mento sollevato, tipico delle espressioni di dominanza, con una direzione del viso diversa da quella degli occhi e con le palpebre semichiuse); * Informazioni sulla mente del mittente: durante la conversazione, le informazioni inviate dal mittente all’interlocutore riguardano anche, le sue conoscenze, i suoi scopi, nonché le sue emozioni. - Conoscenze: il mittente può comunicare il grado di certezza delle sue conoscenze (“aggrottare le sopracciglia” indica certezza e serietà riguardo a ciò che viene detto) oppure informazioni metacognitive che segnalano i suoi processi di pensiero (“alzare gli occhi al cielo” significa fare inferenze, ragionare o escogitare soluzioni oppure “guardare nel vuoto” significa essere assorti nei propri pensieri); - scopi: gli sguardi informano sul performativo, ovvero sull’intenzione comunicativa del parlante (ad esempio “alzare le sopracciglia con un breve scatto all’indietro del capo” comunica l’intenzione di voler attirare l’attenzione dell’interlocutore, “ricambiare lo sguardo” significa accettare una richiesta d’attenzione, “fare l’occhiolino” esprime accordo e intesa con l’interlocutore), sulla struttura della frase (ad esempio “guardare fisso negli occhi” enfatizza la parte più importante della conversazione, ossia il comment), sulla struttura del discorso (“innalzare le sopracciglia” accompagna le espressioni avversative ma, tuttavia, al contrario) e sulla struttura della conversazione (“aprire di più gli occhi” viene utilizzato per richiedere il turno); - emozioni: ad esempio gli “occhi che brillano” esprimono felicità ed entusiasmo, le “sopracciglia oblique” esprimono tristezza, gli “occhi sbarrati” indicano terrore, gli “occhi abbassati” vergogna.
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3.9 IL VISO Il potere espressivo del volto è fra gli aspetti più studiati della comunicazione non verbale. La ricerca sull’espressività facciale ha indagato specialmente l’espressione delle emozioni; fra gli studi più conclamati vi sono quelli sulle emozioni primarie (gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto, sorpresa) per ognuna delle quali un programma neurale, innato nella specie umana, innesca i movimenti muscolari espressivi del volto (Ekman e Friesen, 1978; Ekman, 1982). Inoltre, al viso si attribuisce anche il potere di manifestare la personalità, ovvero le caratteristiche psichiche e mentali di ogni individuo; a ciò si rivolge lo studio della fisionomica (Lavater, 1772; Magli, 1995). L’espressione facciale però, non rivela soltanto emozioni e personalità, ma è anche un potente segnalatore del suo performativo, ovvero dell’intenzionalità comunicativa del parlante, del tipo di azione sociale che compie verso l’altro, dell’atteggiamento con cui si pone nei suoi confronti e delle sue aspettative circa il comportamento altrui. Il performativo di ogni atto comunicativo contiene in genere sei tipi di informazioni (Poggi, Pelachaud, 2000): a) lo scopo dell’atto comunicativo, che si identifica con una richiesta (quando si desidera che l’altro compi un’azione), con una domanda (quando si richiede un’informazione) o con un’ informazione (quando si trasmette una conoscenza); b) nell’interesse di chi è l’azione richiesta o l’informazione data, ad esempio “dare un ordine” è nell’interesse del Mittente, “dare un consiglio” è nell’interesse del Destinatario; c) il grado di certezza delle conoscenze comunicate, ad esempio “dichiarare” indica la certezza di ciò che si sta affermando; d) la relazione di potere fra mittente e destinatario: in un “ordine”, il Mittente ha potere sul Destinatario (M >D), in una “preghiera” avviene l’opposto (M < D), in un “consiglio” M si pone sullo stesso piano di D (M = D); e) il tipo di incontro sociale: cioè il livello di formalità della relazione Mittente-Destinatario e degli scopi del loro rapporto comunicativo; f) lo stato affettivo del Mittente: in un “ordine perentorio” il Mittente prova un’emozione di rabbia, in una “supplica” prova tristezza.
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Tuttavia, non tutte queste informazioni sono rappresentate in tutti i performativi: infatti soltanto l’informazione sullo scopo dell’atto comunicativo è sempre presente. 3.9.1 LE FACCE PERFORMATIVE Nell’espressione del viso, si possono individuare un certo numero di elementi ricorrenti che combinandosi fra loro, danno luogo all’espressione dei diversi performativi: - la posizione del capo (eretto, inclinato ecc.); - le azioni muscolari nella regione della bocca (che possono produrre risa, sorrisi e smorfie); - le azioni muscolari nella regione degli occhi (direzione dello sguardo, innalzamenti e aggrottamenti delle sopracciglia). Vi sarebbe così un doppio livello di composizionalità (cioè un ristretto numero di elementi che danno luogo a un gran numero di combinazioni): nel segnale e nel significato. Ma vi può essere anche una corrispondenza fra elementi del segnale e del significato; in molti casi cioè, un certo significato è espresso abbastanza sistematicamente da un particolare elemento del segnale facciale. Ad esempio in un “ordine perentorio”, il Mittente mantiene la testa dritta, con il mento un po’ sollevato (come espressione di dominanza) e le sopracciglia aggrottate (come espressione emotiva di rabbia e severità), nella “supplica”, invece il capo è un po’ inclinato lateralmente (come tipica espressioni di sottomissione) e le parti interne delle sopracciglia sono sollevate.
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TAB 3: Le facce performative
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CAPITOLO IV NEUROPSICOLOGIA DELLA MIMICA EMOTIVA
Amore per te Ogni desiderio è una parola al cuore È un incanto di allegria È un immenso di parole È un amore dentro agli occhi Brillanti come stelle, è una luce d’amore per te Dal libro “Incanto Di Parole” di Fabrizia Lopilato
L’emozione non costituisce un costrutto unitario, piuttosto è rappresentabile come un sistema multidimensionale: essa, infatti, è intesa come esperienza che include, modificazioni fisiologiche in risposta a determinati stimoli (un aumento del battito cardiaco, ad esempio), comportamenti osservabili che vanno dalle espressioni facciali ai segnali vocali, cambiamenti interni, indicati come sentimenti o affetti, così come componenti cognitive, che includono pensieri e credenze (Balconi, 2004). Tra le componenti espressive che contribuiscono alla comunicazione delle emozioni, le espressioni facciali sono considerate come specifici segnali comunicativi: esse costituiscono le componenti centrali dei comportamenti sociali di ciascun individuo e rappresentano stimoli significativi nella comunicazione umana. Inoltre, il volto costituisce un canale privilegiato di socializzazione, in quanto possiede un elevato valore emotivo che consente di decifrare le intenzioni altrui. In primo luogo, dunque, è necessario indagare, in che modo è possibile esprimere un’emozione mediante il volto e comprendere il significato di tale espressione; in altre parole, è utile studiare le modalità di produzione e comprensione della mimica facciale. In secondo luogo, un punto critico è costituito dall’analisi della relazione tra emozione ed espressioni facciali, ovvero circa il fatto che l’espressione facciale possa costituire un indicatore accurato di un’emozione o, piuttosto, possa costituire espressione di qualcos’altro. 115
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4.1 LE ESPRESSIONI FACCIALI DELLE EMOZIONI Indagini relative all’espressione facciale delle emozioni, secondo la prospettiva neuropsicologica, sono state condotte a partire dai lavori di Darwin (1872) che, con il suo contributo “Expression of emotion in man and animals” ha esplorato numerose questioni in merito allo sviluppo delle espressioni facciali in termini filogenetici. Secondo la sua prospettiva, di tipo innatista, le espressioni facciali sarebbero caratterizzate da un alto grado di universalità e avrebbero la funzione di riflettere uno stato motivazionale o un’intenzione, utile alla sopravvivenza e all’evoluzione della specie; ecco perché tali espressioni sono state definite come “inutili vestigia di abitudini ancestrali”. A partire dalla ripresa degli studi darwiniani è stata rilevata una rinascita di interesse intorno alla mimica emotiva: in alcuni casi è stato proposto un approccio evolutivo (Tomkins, 1980; Plutchik, 1962); in altri, è stato approfondito il contributo di componenti cross-culturali, che possono rendere conto della valenza universale di processi di comprensione delle emozioni. A tal proposito la teoria neuroculturale di Ekman (1982) ha proposto un modello cerebrale di produzione delle espressioni facciali, su base innata. Il programma delle espressioni facciali prevede alcuni aspetti centrali, tra cui la presenza di un numero ristretto di emozioni di base (felicità, tristezza, sorpresa, collera, paura, disgusto, disprezzo) determinati geneticamente, ciascuna delle quali avrebbe un particolare pattern, ovvero un comportamento facciale caratteristico, una differente esperienza cosciente, specifiche basi fisiologiche e funzioni cognitive e psicologiche distintive. Ekman, ha sottolineato inoltre, come ciascuna di esse attivi differenti percorsi di codifica a livello neurale, in quanto pattern di risposta emozione-specifici del SNC (sistema nervoso centrale) e del SNA (sistema nervoso autonomico). Secondo questa ipotesi, nello studio delle espressioni facciali vanno individuati due livelli distinti di analisi: il livello molecolare, che concerne i movimenti minimi e distinti di numerosi muscoli, che consentono l’elevata mobilità ed espressività del volto, e il livello molare, che riguarda la configurazione finale risultante e che si manifesta nell’assumere una determinata espressione facciale come corrispondente a una data esperienza emotiva.
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Facendo riferimento al livello molecolare, Ekman e Friesen (1978) hanno elaborato il Facial Action Coding System (FACS) come sistema di osservazione e di classificazione dei movimenti facciali visibili (anche quelli minimi) in riferimento alle loro componenti anatomofisiologiche. Dopo anni di ricerca è stato possibile distinguere i movimenti facciali, in 44 unità di azione (AU), mediante le quali sono stati indagati oltre 7000 movimenti mimici, in tutte le loro combinazioni. Inoltre, l’universalità delle espressioni facciali è stata dimostrata dalla presenza degli stessi pattern mimici per l’espressione delle emozioni, in differenti gruppi di soggetti appartenenti a culture molto diversi fra loro; d’altra parte, anche il processo di decoding presenta un ampio margine di omogeneità nelle diverse culture. La teoria neuroculturale di Ekman rientra a far parte della prospettiva categoriale, in base alla quale, è possibile identificare emozioni discrete e distinte le une dalle altre, ed è ragionevole supporre che il carattere universale dell’espressione facciale delle emozioni sia costituito dalla connessione tra precise configurazioni facciali e specifiche emozioni. Gli assunti principali del modello categoriale solo riassumibili nei punti seguenti: - ciascuna emozione è geneticamente determinata e discreta, poiché caratterizzata da un tipico comportamento mimico; - esistono emozioni di base, tra le quali sono ascrivibili la paura, la rabbia, la tristezza, la gioia, il disgusto e la sorpresa; - tali emozioni sono perlopiù riconosciute all’interno delle principali culture, poiché l’abilità di riconoscere un’emozione in un’espressione facciale è una competenza innata; - il significato di un’espressione facciale è definito per natura ed è invariante rispetto ai molteplici contesti in cui ha luogo; - la comprensione di espressioni facciali distinte sottende l’esistenza di un sistema di segnalazione, risultante da un processo di adattamento e apprendimento dell’organismo ad eventi passati. Come sottolineato anche da Ellsworth (1991) la rilevazione di espressioni facciali distinte, supporta l’ipotesi dell’esistenza di sistemi e di programmi olistici per ogni emozione, sistema che non può essere a sua volta suddiviso in unità più piccole. Più in generale, i modelli discreti assumono che le espressioni facciali di alcune emozioni di base siano
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innate, come dimostrato dalla presenza di tali espressioni discrete anche in bambini molto piccoli. In aggiunta esiste un accordo consistente circa l’esistenza di sistemi di segnali facciali distinti e prototipici che possono essere riconosciuti all’interno di una varietà di culture diverse, riconducibili essenzialmente ad almeno sei differenti emozioni (gioia, tristezza, sorpresa, disgusto, rabbia e paura). Il fatto che esse siano ampiamente riconosciute fa supporre che al loro interno, siano codificate alcune informazioni significative e di tipo invariante. Secondo la prospettiva dimensionale invece, le emozioni non rappresentano unità discrete e separate, piuttosto esse sono diversificate l’una dall’altra, in termini di variazioni di un gradiente di intensità, secondo alcune dimensioni continue, quali la valenza edonica (piacevolezza o spiacevolezza), la novità (o meno) degli eventi elicitanti, il livello di attivazione, il grado di controllo dei medesimi, la compatibilità (o meno) con le norme sociali di riferimento. Già Wund (1896) aveva avanzato l’ipotesi secondo la quale “i sentimenti” variano lungo tre dimensioni: gradevolezza/sgradevolezza, eccitazione/calma, tensione/rilassamento. Nella classificazione delle espressioni emotive, Woodworth (1938), attorno agli anni quaranta, individuò un ordinamento scalare lineare secondo sei gruppi di emozioni. Riprendendo questi studi, Schlosberg (1941,1952) elaborò una scala circolare, generata da tre assi o dimensioni: piacere/dispiacere, attenzione/rifiuto, livello di attivazione. Secondo questo approccio, le espressioni facciali non rappresentano segnali di specifiche emozioni, piuttosto il focus dell’analisi è rivolto al potenziale comunicativo che esse possiedono. L’elemento critico del modello proposto da Russel (1997) è costituito infatti, dalla risposta del decoder alle espressioni del volto, piuttosto che dai meccanismi di produzione di quelle espressioni. Pertanto, un aspetto rilevante di tale approccio è costituito dal significato emotivo inferito nella comprensione della mimica, ovvero dal ruolo che svolge il processo di valutazione ad opera del decoder, nell’attribuire un significato all’espressione facciale. Il giudizio del decoder è espresso in base al livello di attenzione richiesto, al grado di piacevolezza espresso dalla mimica facciale, nonché dal livello di arousal presente (cioè lo stato di attivazione generale dell’organismo che comporta specifiche variazioni di alcuni parametri fisiologici).
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La prospettiva dimensionale delle emozioni rientra a far parte delle teorie dell’appraisal, secondo cui un’emozione, non sarebbe determinata da uno specifico evento, ma dalla valutazione che l’individuo fa dell’evento stesso sotto forma di significato individuale attribuito. Poiché le emozioni sono profondamente intrecciate con i processi cognitivi, si può identificare l’appraisal con il processo di elaborazione cognitiva degli stimoli che caratterizzano la situazione emotiva. Infatti, le emozioni, non compaiono in modo gratuito, all’improvviso, senza una ragione di essere, come accadimenti imprevisti e casuali, bensì sono la conseguenza di un’attività di conoscenza e di valutazione della situazione, in riferimento alle sue implicazioni per il benessere dell’individuo e per il soddisfacimento dei suoi scopi, desideri, interessi e aspettative. Pertanto, come ha posto in evidenza Frijda (1988), nelle sue “leggi delle emozioni”, le emozioni sorgono in risposta alla struttura di significato di una determinata situazione. Esse non sono attivate dall’evento in sé, ma sono generate dai significati e dai valori che ogni individuo attribuisce a quell’evento. In particolare sorgono in risposta a situazioni valutate come importanti per il soggetto; eventi che soddisfano i suoi scopi e desideri, attivano emozioni positive; eventi che sono ritenuti dannosi o che minacciano i suoi interessi, conducono a emozioni negative; mentre eventi inattesi e nuovi producono sorpresa e stupore. Collegato al precedente, l’approccio componenziale elaborato da Smith e Scott (1997), ipotizza che almeno alcune componenti della mimica facciale possiedano un significato intrinseco; ovvero, le espressioni emotive possiedono una struttura sistematica, coerente e dotato di significato. Tale approccio si colloca in una posizione intermedia tra i modelli categoriali neuroculturali e quelli dimensionali. Tale approccio svolge infatti una funzione ponte tra i modelli categoriali e quelli dimensionali: si pone infatti in una posizione più “neutrale” rispetto all’esistenza di un insieme ristretto di emozioni di base, e introduce il concetto di insieme “sfocato” o “famiglia” di emozioni. Elemento costitutivo di tale approccio, come nel precedente, è l’intento di considerare la mimica facciale come un indicatore dei processi di valutazione o appraisal da parte del decoder. Smith e Scott, hanno individuato quattro dimensioni di significato lungo le quali si organizzano le componenti mimiche: la pia-
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cevolezza dello stato emotivo, l’attività attenzionale associata allo stato emotivo, l’attivazione o arousal e il controllo del soggetto sulla propria condizione (o agency). Ad esempio l’attività attenzionale associata allo stimolo riflette la valutazione della novità della situazione e il grado di incertezza percepita dal soggetto circa la situazione emotiva. Le espressioni facciali possono essere considerate come sistemi di segnali che possiedono la funzione di facilitare le interazioni tra i membri della specie e il più ampio rapporto con l’ambiente circostante. In particolare, esse possono essere intese come indicatori sociali, che definiscono la linea di azione che l’organismo intende perseguire in quella determinata situazione. Inoltre, la mimica facciale può essere definita come strumento sociale che facilita la negoziazione delle interazioni, poiché diviene manifestazione della direzione assunta da una determinata relazione. In secondo luogo, essa rappresenta un messaggio in grado di influenzare il comportamento altrui e assume un determinato significato in funzione dello specifico contesto sociale entro cui si realizza e in stretta relazione agli interlocutori sociali cui essa si rivolge. Fridlund (1991) ha portato l’esempio di come i patterns comportamentali del sorriso sono maggiormente presenti nel caso in cui chi lo mette in atto si trovi all’interno di un contesto sociale rispetto alla condizione di solitudine. l’approccio comunicativo, infatti sostiene che la mimica facciale assume un ruolo importante all’interno di un contesto interattivo, grazie alla propria valenza comunicativa. Essa possiederebbe cioè una funzione comunicativa in sé manifestandosi insieme ad altre componenti quali la gestualità, le componenti vocali, lo sguardo. Anche Chovil ha sottolineato il ruolo sociale comunicativo della mimica facciale; le espressioni facciali infatti si manifestano generalmente e con maggiore frequenza in situazioni sociali rispetto a situazioni non sociali. Ad esempio la presenza di un ricevente aumenta la probabilità che abbia luogo una modificazione della mimica emotiva, o, ancora, l’esibizione facciale è maggiormente presente nelle interazioni faccia a faccia rispetto alle interazioni a distanza. Nell’ambito della prospettiva comunicativa è inoltre possibile individuare due differenti modelli: un primo approccio, definito “approccio dell’espressione emotiva” (Emotional Expression Approach, EEA) e un secondo approccio, definito approccio comunicativo sociale
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(Social Communication Approach, SCA). In particolare, il primo modello ha focalizzato i processi individuali e psicologici correlati alla mimica emotiva, dal momento che la mimica è definita come espressione di componenti emotive sottostanti: la relazione tra le emozioni interne e il comportamento facciale diviene pertanto elemento centrale di analisi. Per il secondo modello invece, la mimica facciale è rappresentabile come atto comunicativo che può fornire informazioni agli individui (o ai decoder). In questa seconda prospettiva l’interazione sociale diviene l’elemento essenziale al fine di comprendere il significato reale dell’espressione facciale. I due modelli differiscono, inoltre, rispetto ai meccanismi sottostanti alla manifestazione di un’espressione. Da un lato per il modello EEA le espressioni mimiche si verificherebbero sia in caso di presenza che di assenza di un potenziale ricevente in grado di decodificarli. Secondo il modello SCA, la mimica facciale è invece identificabile come rappresentazione simbolica di un’ampia varietà di significati, che devono essere rilevati all’interno di un contesto. Tuttavia, per entrambi i modelli diviene centrale la relazione emittente-ricevente come elemento essenziale al fine di determinare le ragioni per cui un determinato comportamento mimico abbia luogo. 4.2 PROCESSI DI CODIFICA E RICONOSCIMENTO DEI VOLTI Il volto comunica una serie di informazioni circa gli individui. Alcune di queste informazioni possono essere derivate visivamente, ovvero è possibile accedervi unicamente sulla base di attributi fisici fisiognomici, indipendentemente dall’identità dell’individuo (come per il genere, l’età, il sesso ecc.), mentre altre informazioni appaiono derivate semanticamente, ovvero vi si può accedere solo dopo che la produzione della rappresentazione del volto sia stata confrontata con una precedente rappresentazione immagazzinata, da cui è possibile riattivare informazioni biografiche relative all’individuo. La domanda relativa ai processi sottostanti la percezione e il riconoscimento della mimica facciale, ha dato origine allo sviluppo di modelli che evidenziano la presenza di differenze nell’organizzazione delle informazioni derivate dal volto, infatti combinazioni differenti delle componenti facciali sono in grado di comunicare informazioni pertinenti rispetto al genere, l’età, la familiarità, l’identità o l’espressione emotiva. 121
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Quindi, che tipo di informazioni derivano dal volto?. E come avviene il riconoscimento dei pattern facciali?. La recente teoria di Goldman (2004) ha proposto una chiave di lettura cognitiva alla comprensione dei volti emotivi. Il modello da lui proposto detto modello simulativo prevede che gli individui, generalmente, mettano in moto un’attività di simulazione mentale per l’attribuzione di un’emozione al volto: il decoder seleziona un significato da attribuire all’espressione facciale altrui, soltanto dopo aver riprodotto o riattivato nella propria mente lo stato emotivo percepito. Ciò presuppone che nella mimica facciale ci siano informazioni sufficienti a selezionare lo stato emotivo corrispondente e appropriato. Il decoder procede nel ricostruire un’emozione, riproducendola a sua volta; un successivo confronto tra espressione osservata ed espressione simulata può condurre, in caso di diretta comparabilità, alla conferma del correlato emotivo con la conseguente attribuzione di quell’emozione al targhet.
1. Genera un’emozione ipotizzata 2. Produce un’espressione 3. Testa questa espressione facciale rispetto a quella del
4. Corrisponde?
SI 5. Classifica il proprio stato emotivo coerente e attribuisce questo stato al targhet
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NO
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Secondo il modello gerarchico funzionale di produzione e di comprensione dei volti proposto da Bruce e Young (1998), dal volto è possibile ricavare diversi tipi di informazioni: la sua struttura fisica che permette di ricavare caratteristiche come l’età e il sesso, il grado di familiarità dello stesso o l’analisi dell’espressione della mimica facciale. Dal volto, dunque, è possibile ricavare differenti tipi di informazioni, definite come “codici”. Tali codici non sono però componenti funzionali del sistema di processamento del volto, ma sono generati, e di conseguenza vi si può accedere, soltanto attraverso dei processi funzionali che consentono di attivare e collegare tra loro codici differenti. Specificatamente, nell’elaborazione del volto sono presenti sette differenti tipologie di codici: il codice pittorico, strutturale, visivo, semantico, identità-specifico, relativo al nome e relativo all’espressione. FIG 4: Il modello di elaborazione dei volti di Bruce e Young, 1998
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Il codice pittorico fornisce informazioni circa la luminosità dello stimolo e gli elementi di contrasto; esso quindi restituisce un’immagine bidimensionale del volto. Esso però, da solo non può consentirne il riconoscimento, ecco perché è necessario procedere a estrapolarne un codice strutturale, in grado di rappresentare gli aspetti configurazionali del volto che permettono di distinguerlo da altri. Questo codice permette inoltre, il riconoscimento di volti familiari rispetto volti non familiari. Ad esempio, le caratteristiche interne dei volti familiari assumono un ruolo privilegiato per il riconoscimento, mentre per i volti non familiari sia le caratteristiche interne sia quelle esterne risultano essere rilevanti in misura uguale. A partire da entrambe le tipologie di volti, familiari e non familiari, possiamo derivare non solo informazioni concernenti l’età e il genere, ma possiamo anche interpretare il significato delle espressioni facciali. Analizzando infatti la forma o la postura delle caratteristiche mimiche possiamo giungere a definire un individuo come felice, triste o arrabbiato. Secondo questo modello però il codice dell’espressione non risulta necessario e indispensabile per il riconoscimento del volto: l’espressione facciale è considerata infatti una descrizione prospettiva-specifica, variabile in funzione di differenti contesti e pertanto elaborata da parte del sistema cognitivo in maniera separata rispetto agli altri livelli rappresentazionali, al fine di estrapolarne il contenuto emotivo. Il modello assume pertanto un’indipendenza funzionale tra il processo di elaborazione dell’espressione e gli altri processi, quali quello di definizione dell’identità del volto. Un elemento distintivo di questa teoria è il presupposto dell’indipendenza funzionale di ciascun codice, grazie al contributo di evidenze neuropsicologiche rilevate in soggetti con lesioni corticali. I risultati sperimentali pongono in luce infatti una chiara dissociazione tra riconoscimento del pattern visivo, dell’espressione e dell’identità. Tale distinzione evidenzia la differenza tra le componenti relative alla struttura dello stimolo, che definiscono l’identità dell’individuo e che sono stabili nel tempo, rispetto al riconoscimento dell’espressione emotiva che invece rappresenta un elemento variabile nel tempo. Entrambe le componenti implicano l’attivazione dell’emisfero destro, seppure esse siano rappresentate in aree differenti dell’encefalo. Un esperimento realizzato da Etcoff, ha consentito di rilevare la specificità
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di alcune aree corticali in relazione a compiti di riconoscimento di volti e di emozioni. Nello specifico, i soggetti sperimentali sono stati suddivisi in tre sottogruppi: due gruppi di soggetti cerebrolesi destri e sinistri con specifico quadro clinico e specifica localizzazione della lesione e soggetti normali (gruppo di controllo). Gli stimoli utilizzati includevano volti femminili che esprimevano due distinte emozioni: gioia o tristezza. Il compito attribuito ai soggetti prevedeva la classificazione delle immagini in funzione del tipo di espressione (allegra o triste) o dell’identità del soggetto indipendentemente dall’espressione. I risultati sperimentali hanno consentito di rilevare la presenza di abilità cognitive e di percorsi cerebrali distinti per le due componenti, seppure entrambi mediati dall’emisfero destro. D’altro canto, alcuni studi di particolare interesse sul piano neuropsicologico, hanno rilevato la presenza di uno specifico deficit correlato all’analisi di volti. Il disturbo prosopagnosico prevede, infatti, che pur essendo preservata l’abilità di identificare gli oggetti in generale, risulti compromessa la capacità di elaborare caratteristiche specifiche di volti familiari. Analisi più approfondite hanno consentito di rilevare, tuttavia, come alcuni aspetti del riconoscimento siano preservati, in quanto processi automatici che avvengono indipendentemente dal contributo della coscienza. Ciò che andrebbe perduto sarebbe piuttosto la consapevolezza del riconoscimento delle proprietà dei volti. La distinzione tra le componenti consapevoli e inconscie nell’elaborazione dei volti viene regolata a livello anatomico da due differenti vie cortico-limbiche, deputate a supportare distinti processi di analisi. Una prima via, la via ventrale, danneggiata nei soggetti prosopagnosici, sarebbe deputata al riconoscimento conscio ed esplicito delle informazioni del volto, mentre una seconda via, quella dorsale, preservata nel disturbo prosopagnosico, garantisce l’attribuzione inconsapevole del significato emotivo al volto.
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4.2.I
MECCANISMI STRUTTURALI E SEMANTICI DELL’ELABORAZIONE DELLA MIMICA, EVIDENZE EMPIRICHE MEDIANTE RILEVAZIONE ERP
La rilevazione mediante potenziali evocati evento-correlati (ERPs) sono divenuti un importante strumento nello studio dei processi sottostanti alla percezione e al riconoscimento del volto. È possibile che differenti componenti ERP volto-specifiche possano riflettere differenti fasi di comprensione del volto, a partire dall’analisi percettiva e dalla codifica strutturale delle componenti del volto fino alla classificazione e all’identificazione degli stimoli facciali individuali. Tra le fasi di elaborazione che caratterizzano la comprensione del volto quelle più ampiamente esplorate sono state: la fase strutturale (implicata nel riconoscimento del volto) e quella semantica (implicata nell’attribuzione del significato all’espressione facciale). Dagli studi di Holmes, Caldara e Eimer è emerso che le regioni cerebrali implicate in aspetti distinti dell’elaborazione dei volti sono topograficamente separate, ed è stata supportata l’ipotesi circa la specificità funzionale dei meccanismi cerebrali responsabili dell’elaborazione del volto, grazie agli studi psicofisiologici che hanno impiegato potenziali evento-correlati a lunga latenza. Innanzitutto alcuni studi che hanno impiegato misure ERP hanno consentito di individuare correlati neurali specifici per l’identificazione del volto, ovvero indicatori che mostrano una maggiore ampiezza (intensità di picco) per il volto rispetto a molti altri stimoli, come case, macchine, occhi ecc... . Per quanto riguarda il processo di codifica strutturale, è stato individuato uno specifico marcatore ERP: l’effetto N170. Esso non risulta essere influenzato dalla familiarità del volto presentato piuttosto dall’orientamento dello stimolo. Alcuni recenti ricerche hanno mostrato che la N170 elicitata da volti capovolti, appare più ampia rispetto a quella elicitata da volti orientati correttamente. Una possibile interpretazione di tale effetto è che l’aumento di ampiezza, nonché una maggiore latenza di comparsa dell’indice N170, sia dovuto a una maggiore difficoltà di codifica dei volti invertiti. Ciò è ipotizzabile in primo luogo partendo dal presupposto che la codifica del volto sia basata su un processo di estrapolazione della gestalt complessiva, che nel caso di inversione del volto, risulta essere distorta e in secondo luogo, in virtù del fatto che gli
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stimoli non orientati normalmente sono più complessi da elaborare rispetto a quelli normalmente orientati. Ovvero, procedure che modificano i pattern facciali rispetto ai loro dettagli percettivi, dovrebbero influenzare la comprensione degli stimoli facciali, con un aumento dell’ampiezza di picco della N170. È stata, inoltre, rilevata una dissociazione funzionale tra uno specifico meccanismo visivo responsabile della codifica strutturale dei volti e un meccanismo di più alto livello responsabile dell’associazione della rappresentazione strutturale del volto con le informazioni semantiche, come l’espressione delle emozioni (Holmes, Vuilleumier e Eimer, 2003; Junghofer, 2001). Haxby e colleghi (2002) hanno proposto un modello del sistema neurale umano in grado di mediare la percezione del volto. Come nella prospettiva di Bruce e Young, il decoding facciale possiede una struttura gerarchica che distingue un sistema nucleare per l’analisi visiva dei volti e un sistema esteso che elabora il significato delle informazioni ottenute dal volto. Pertanto, il riconoscimento di un volto individuale è ottenuto grazie alla comparazione della descrizione strutturale ricavata dall’analisi percettiva, con le rappresentazioni precedentemente immagazzinate dei singoli volti (unità di riconoscimento del volto). Quando tali unità sono attivate grazie alla loro convergenza con la descrizione strutturale, è possibile accedere ai nodi dell’identità personali presenti nella memoria semantica, producendo l’identificazione del volto. Per tale processo è stata rilevata la modulazione di un effetto ERP a lunga latenza in risposta alla codifica semantica del volto. In uno studio in cui sono stati rilevati ERPs in risposta a volti familiari e a volti e ad altri oggetti non familiari, si è rilevato come i volti non familiari possono produrre una maggiore negatività tra i 300 e i 500 ms (definito come effetto N400), seguita da una maggiore positività circa 500 ms dopo la stimolazione (effetto P600). In virtù della loro responsività alla familiarità del volto, gli effetti N400 e P600 possono essere rappresentativi dei processi coinvolti nel riconoscimento e nell’l’identificazione dei volti. Nello specifico, essi rifletterebbero i meccanismi cerebrali coinvolti nell’attivazione delle rappresentazioni di volti immagazzinati e la successiva attivazione della memoria semantica, contrariamente all’effetto N170 che sarebbe legato all’analisi percettiva dello stimolo facciale.
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Da queste evidenze sperimentali si possono distinguere i profili ERPs che riflettono la dinamica dei pattern neurali coinvolti nella percezione del volto (fase di decoding strutturale) con gli ERPs correlati alla comprensione del volto (fase di decoding semantico). 4.3 VIE CORTICALI DI RICONOSCIMENTO DEI VOLTI Allo stato attuale sono stati condotti importanti studi per esplorare l’architettura funzionale dei meccanismi neurali implicati nella codifica strutturale del volto nel sistema visivo. I risultati empirici suggeriscono che una singola visione del volto possa contenere sufficienti informazioni invarianti per consentire il riconoscimento anche in presenza di cambiamenti modesti della posa o dell’espressione assunta. Precisamente è stata rilevata una specifica area, il giro fusiforme, attivata da stimoli facciali rispetto stimoli non facciali. È stato ipotizzato che tale regioni sia coinvolta selettivamente in alcuni aspetti dell’analisi percettiva del volto, come la codifica strutturale delle informazioni necessarie al suo riconoscimento. Recentemente Kanwisher (1997) hanno supposto che tale area possa essere interpretata come un modulo specializzato per la percezione del volto e per tale ragione è stata denominata area fusiforme del volto (FFA, Fusiform Face Area). In alcuni esperimenti è stato rilevato che la FFA risponde in modo più consistente alla vista di volti intatti piuttosto che non intatti e alla visione frontale di volti rispetto a quella dell’immagine di una casa. L’attivazione della FFA sembra anche dipendere dal livello di attenzione rivolto agli stimoli facciali. Infatti, quando i volti cadono al di fuori del fuoco attentivo, la sua attività risulta essere ridotta.
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Haxby e colleghi (2000) hanno elaborato un modello relativo ai network corticali implicati nellâ&#x20AC;&#x2122;elaborazione dei volti. FIG 5: Sistema neurale di elaborazione dei volti (Haxby, 2000)
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All’interno del modello, si ipotizza che gli individui elaborino due differenti componenti a partire dal viso: da un lato, l’insieme delle caratteristiche invarianti e strutturali, dall’altro gli aspetti modificabili del volto, come l’espressione facciale, lo sguardo, i movimenti delle labbra ecc... . A livello corticale, il modello appare di natura gerarchica, ed è suddiviso in un sistema nucleare e in un sistema esteso. In particolare, il sistema nucleare è composto da tre regioni bilaterali della corteccia extrastriata visiva occipitotemporale, che includono il giro occipitale inferiore, il giro fusiforme laterale e il solco temporale superiore. Un’ulteriore aspetto analizzato dal modello di Haxby (mediante l’impiego di rilevazioni PET) è costituito dalla distinzione tra le aree di attivazione in risposta alla codifica e al riconoscimento di volti. I pattern di attivazione rilevati durante i due processi mostrano una dissociazione dei sistemi neurali coinvolti. Il riconoscimento dei volti, in particolare ha fatto rilevare l’attivazione della corteccia frontale destra, della corteccia cingolata anteriore, della corteccia parietale bilaterale inferiore e del cervelletto. In particolar modo la corteccia prefrontale destra risulta essere attivata unicamente per compiti di riconoscimento e non per compiti di codifica. Un’ area particolarmente rilevante nell’elaborazione del volto è la corteccia orbitofrontale. Due differenti fonti confermano tale ruolo. Da un lato, ricerche condotte su soggetti con lesioni corticali hanno rilevato che danni orbitofrontali sono associati alla compromissione della capacità di identificare la mimica emotiva. Dall’altro, alcuni studi PET hanno posto in evidenza che la corteccia orbitofrontale è attivata in risposta alla presentazione di volti emotivi rispetto a volti neutri. Gli studi sulla mimica facciale generalmente si sono focalizzati sulla percezione statica del volto, mediante fotografie o riproduzioni dell’espressione stessa. Al contrario, altri approcci hanno supposto che una rappresentazione dinamica incrementi la possibilità di riconoscimento e di discriminazione rispetto a una rappresentazione statica. In aggiunta, la rilevazione di una dissociazione di effetti prodotti da danni cerebrali o psicopatologie sull’abilità di riconoscere le emozioni nelle espressioni facciali dinamiche o statiche, suggerisce il coinvolgimento di correlati neurali distinti. Infatti alcune ricerche hanno analizzato come pattern codificati in modo dinamico o statico attivino network
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corticali differenti nel riconoscimento. In ambito clinico Adolphs e colleghi (2003) hanno riportato il caso di un soggetto incapace di riconoscere le emozioni primarie, ad eccezione della gioia, quando le espressioni venivano presentate in modalità statica o come singole etichette verbali. Al contrario, egli era in grado di riconoscere correttamente tutte le emozioni primarie a partire da stimoli dinamici. Recenti acquisizioni hanno consentito di rilevare, inoltre, che la percezione di differenti espressioni facciali coinvolge regioni distinte del sistema nervoso centrale. In particolare, è stato evidenziato come la percezione di volti esprimenti paura, attivi regioni sinistre dell’amigdala. In secondo luogo, studi sulle lesioni corticali hanno fatto rilevare che la percezione di emozioni di diversa natura è associata a differenti regioni corticali. Lesioni bilaterali dell’amigdala compromettono la capacità di riconoscere le espressioni facciali della paura, mentre mantengono inalterate le abilità di decoding delle espressioni facciali della gioia, del disgusto e della tristezza. L’amigdala, possiede una collocazione anatomica funzionale all’integrazione di stimoli esterocettivi ed enterocettivi ed è in grado di modulare i processi di elaborazione sensoriale, motoria ed autonomica. Essa inoltre riceve input olfattivi, gustativi e viscerali: questi ultimi forniscono informazioni rispetto alle proprietà positive e negative degli stimoli e circa il loro valore biologico. Negli esseri umani, lesioni dell’amigdala possono produrre una generale riduzione della risposta emotiva ed in particolare, un deficit selettivo nel riconoscimento delle espressioni facciali della paura. Gli studi consentono di porre in rilievo il ruolo cruciale dell’amigdala nel mettere in atto comportamenti di risposta specifici a situazioni di minaccia. Più in generale alcune ricerche hanno dimostrato che l’amigdala gioca un ruolo importante nel riconoscimento delle emozioni a partire dall’espressione facciale (Adolphs, 1999). In aggiunta è stata riconosciuta una funzione prioritaria all’amigdala nell’elaborazione diretta dell’arousal emotivo e della valenza dello stimolo. Alcuni dati scientifici, infatti, forniscono dettagli rilevanti circa una compromissione nel riconoscimento della mimica emotiva della rabbia in soggetti con danno bilaterale dell’amigdala. Tale danno non comporta un deficit totale delle conoscenze relative all’emozione della paura, ma piuttosto implica una compromissione circa la consapevolezza che la paura
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abbia un valore di primo piano tra le emozioni, fatto che può costituire un fattore rilevante nell’abilità di prevedere un danno potenziale, poiché la presenza di una risposta automatica di fronte a situazioni di minaccia può costituire un vantaggio rilevante per la salvaguardia dell’individuo. Infine, l’attivazione dell’amigdala appare altamente correlata alla valenza emotiva dello stimolo. Ad esempio è stato rilevato un incremento di attività dell’amigdala sinistra associato alla valenza di espressioni negative come la tristezza e il grado di cambiamento della valenza negativa percepita appare proporzionale al grado di attivazione dell’amigdala sinistra. 4.3.1 SPECIFICITÀ CORTICALE NEL DECODING DELLE ESPRESSIONI FACCIALI DELLE EMOZIONI
Nell’elaborazione del volto e nella comprensione della mimica emotiva sono stati individuati specifici correlati cerebrali, corticali e sottocorticali. Evidenze sperimentali hanno sottolineato la presenza di singole cellule volto-specifiche in primati non umani. Da tali studi è stato possibile rilevare un quadro sintetico dei pattern di attivazione neurale in risposta ai volti nelle regioni temporali del cervello, sottolineando come cellule specifiche appaiono particolarmente responsive dell’identità e dell’espressione del volto. In aggiunta, la rilevazione dell’attività di singole cellule ha posto in luce l’indipendenza delle due componenti. Hasselmo, Rolls e Baylis, hanno esplorato il ruolo dell’identità e dell’espressione nella risposta volto-selettiva dei neuroni nella corteccia visiva temporale delle scimmie: alcuni neuroni appaiono rispondere all’identità indipendentemente dall’espressione del volto, mentre altri rispondono all’espressione del volto indipendentemente dall’identità. Risultati scientifici specifici sono stati individuati anche per il volto umano. Un numero crescente di ricerche ha esplorato le caratteristiche cognitive e neuropsicologiche della comprensione di volti (Posameinter e Abdi, 2003). In particolare, alcuni studi PET con risonanza magnetica funzionale e mediante potenziali evocati evento-correlati (ERPs) hanno evidenziato la specificità corticale nella decodifica delle emozioni; gli studi ERP negli umani hanno fornito evidenze rispetto a tale specificità,
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sottolineando la sua distintività rispetto ad altri processi cognitivi, infatti è stato evidenziato che i volti esprimenti emozioni elicitano specifici pattern di attività corticale. Ciò fornisce un supporto all’ipotesi dell’esistenza di un meccanismo cognitivo dedicato e specifico per il volto. Benché molti studi ERP abbiano preso in considerazione componenti endogene dell’ERP a lunga latenza, è possibile affermare che il processo emotivo abbia luogo in tempi brevi. Ad esempio, è stata rilevata una variazione d’onda (picco) positiva circa 100 ms dopo la presentazione dello stimolo, strettamente legata alla valenza emotiva della mimica facciale. Tale picco precoce pone in luce il fatto che la percezione emotiva può aver luogo pre-attentivamente e automaticamente. In aggiunta, alcuni recenti studi hanno rilevato una negatività distribuita posteriormente (con picco intorno ai 260-280 ms) che riflette un processo emozionale-specifico. È stato dimostrato infatti che i volti esperimenti emozioni (in particolare paura e gioia) producono una variazione negativa più ampia intorno ai 270 ms rispetto a volti neutri nelle aree corticali temporali posteriori.
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La partitura della comunicazione multimodale
CAPITOLO V LA PARTITURA DELLA COMUNICAZIONE MULTIMODALE
Polvere di stella Stella che illumini la notte e che riscaldi il mio cammino Lasci una scia di ogni nuovo giorno Stella che diventi calore di ogni sogno E che ricordi l’amore di ogni uomo. Dal libro “Pensieri di Luce” di Marilisa Grifani
Fin qui sono stati analizzati i vari sistemi di comunicazione non verbale, considerandoli separatamente l’uno dall’altro. Tuttavia la comunicazione è un complesso sistema multimodale in cui “chi parla dice parole, ma fa anche pause, fa sentire silenzi e intonazioni, produce gesti, sguardi, espressioni e posture” (Poggi, 2006); ed è grazie ad una complessa interazione, che ognuno di questi segnali non verbali, contribuisce e concorre in modo specifico e distinto, a generare e a comunicare il significato finale di ogni atto comunicativo. 5.1 CHE COS’È LA PARTITURA Allo scopo di individuare in che modo, i significati, si distribuiscono nelle diverse modalità comunicative, è necessario trascrivere una “partitura della comunicazione multimodale” (Poggi, Magno Caldognetto, 1997), ovvero un sistema per trascrivere, analizzare e classificare i segnali di due o più modalità prodotti in un frammento comunicativo, e rappresentarne i significati e le reciproche relazioni temporali e semantiche, proprio come una partitura d’orchestra. Ecco perché con una metafora musicale si può paragonare la comunicazione multimodale ad una “sinfonia di suoni” in cui i vari “strumenti” sono rappresentati dai diversi segnali non verbali, modalità per modalità 134
La partitura della comunicazione multimodale
(“le note del violino o del flauto rappresentano i segnali dello sguardo, dei gesti e del toccare”), gli “accordi” fra gli strumenti, corrispondono invece alla partitura, che ci permette di individuare assonanze e dissonanze tra segnali simultanei di varie modalità. Ecco che origina e prende vita il “brano musicale”, come una melodia che si snoda nel tempo, come note successive dello stesso strumento (un segnale non verbale) che forma al tempo stesso accordi (con altri segnali di altri strumenti) e che, secondo le leggi dell’armonia, si accompagnano, fanno da contrappunto e rispondono fra loro. In questa complessa sinfonia, si passa dunque da una “dimensione unica”, rappresentata dall’analisi segnale per segnale (cioè strumento per strumento), ad una “struttura bidimensionale”, attraverso l’analisi dei segnali concomitanti nelle diverse modalità (che corrisponde alla trascrizione della partitura.) Ma ogni “accordo” di più segnali, cioè ogni partitura, contribuisce a formare una “struttura tridimensionale”, in cui ogni azione comunicativa è costituita da una gerarchia di scopi. Ciò significa che dal significato letterale di ogni atto comunicativo si giunge, per via inferenziale, ad uno o più sovrascopi, che rappresentano il mezzo per raggiungere, lo scopo finale e la meta dell’intero discorso multimodale. Ad esempio, analizzando il comportamento non verbale di una piccola Rom che chiede l’elemosina, si può facilmente fare un’analisi degli scopi, dei sovrascopi e della meta finale di un atto comunicativo: Atto comunicativo Meta: Fammi l’elemosina ss: ho bisogno di aiuto s1: Mi rivolgo a te
s2: Sono triste
ss: tu puoi aiutarmi s3: Ho meno potere di te
s4: sono pronta a prendere ciò che mi darai
AC1: guarda il passante AC2: sopracciglia oblique AC3: capo reclinato CA4: mano a coppa
Legenda: AC = Atto Comparativo; s = scopo; SS = Sovrascopo
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In questa sequenza, la bambina guarda il passante (cioè comunica “mi rivolgo a te”) con le sopracciglia oblique (“sono triste”), il capo lievemente reclinato (“ho meno potere di te”), e mostra la mano aperta a coppa (“sono pronta a prendere ciò che mi darai”). I significati letterali di questi atti comunicativi non verbali, mirano tutti attraverso i sovrascopi che fanno inferire, al sovrascopo finale comune, la meta, di chiedere l’elemosina. “Si passa così dalle parole, alle frasi e ai discorsi del corpo, perché anche un frammento multimodale è una gerarchia di scopi, in cui ogni gesto, ogni espressione o postura è un atto di comunicazione che, insieme agli altri, attraverso un’intricata rete di scopi e sovrascopi, mira alla meta dell’intero discorso multimodale”. 5.2 COME SI SCRIVE UNA PARTITURA L’analisi dei segnali della comunicazione non verbale, attraverso la trascrizione di una partitura, è un metodo introdotto da Isabella Poggi, (docente di Psicologia generale e di Psicologia della Comunicazione presso l’Università Roma Tre) e da Emanuela Magno Caldognetto (CNR di Padova Sezione di Fonetica e Dialettologia dell’ISTC). Le autrici hanno applicato questo metodo a scenari e protagonisti di vario tipo, insegnanti e studenti, giudici e uomini politici, afasici, attori comici e drammatici. Quante e quali modalità prendere in considerazione nell’esaminare un frammento con la “partitura” dipende dagli scopi della ricerca che si sta conducendo, ma nella sua versione “classica” si scrivono e si analizzano su righi paralleli i segnali di cinque modalità: · verbale (v): le parole e le frasi pronunciate; · prosodico-intonativa (p-i): ritmo del parlato, pause, l’intensità, accenti, intonazioni; · gestuale (g): movimenti delle mani, delle braccia delle spalle; · facciale (f): movimenti del capo, sguardo, movimenti della bocca, espressioni facciali; · corporea (c): movimenti del busto e delle gambe, posture, orientamenti che movimenti nello spazio.
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Ogni segnale, di ogni modalità è sottoposto a cinque livelli di analisi: · descrizione del segnale (Ds); si descrive la lunghezza, l’intensità, la frequenza fondamentale e le pause per i segnali prosodico-intonativi; per gesti, sguardi e posture si descrivono i valori assunti rispetto ai vari parametri formazionali; · tipo di segnale (Ts); indica la tipologia del segnale utilizzato e la sua classificazione, ad esempio, si può trattare di un gesto batonico, di uno sguardo deittico, ecc.; · significato (S): di ogni segnale si scrive una “traduzione” verbale (ad esempio la mano aperta con le dita ravvicinate e il palmo verso l’interlocutore che si muove velocemente avanti e indietro significa “aspetta”). La formulazione verbale corrisponde al significato letterale dell’atto comunicativo, cioè quello costituito dal suo performativo e dal suo contenuto proposizionale; tuttavia ogni atto comunicativo sia verbale, che non verbale può avere, al di là del suo scopo letterale, uno o più sovrascopi, cioè significati indiretti che possono essere inferiti solo partendo dal significato letterale. Ecco perché una partitura che contempli un solo livello di significato non basta; è necessario una “partitura a due strati”, in cui analizzare ogni segnale dal punto di vista sia del significato letterale, che dei significati indiretti. Ecco perché da questa riga in poi (S), di ogni modalità ci saranno due strati di analisi, I e II, rispettivamente per il livello letterale e quello indiretto; · tipo di significato (TS): ogni significato è classificato come informazione sul mondo, sull’identità o sulla mente del mittente; · funzione (F): indica la relazione semantica tra il segnale che si sta analizzando e il concomitante segnale verbale o altro segnale che si prende come punto di riferimento; essa può essere: - ripetitiva: se i due segnali hanno lo stesso significato (ad esempio il parlante apre e lascia cadere pesantemente le mani aperte, per significare “molto” e al tempo stesso pronuncia la parola “molto”); - aggiuntiva: quando un segnale aggiunge significato congruente con quello dell’altro segnale (ad esempio pronunciando la frase “un grande terrazzo” al tempo stesso si disegna nell’aria una figura triangolare); - sostitutiva: quando il parlante sostituisce una parola, con un altro tipo di segnale non verbale (ad esempio dice: “a queste condizioni...” e poi taglia orizzontalmente l’aria come a dire “basta, io non ci sto”);
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- contraddittoria: il significato del segnale in questione contrasto con quello di un segnale concomitante; - indipendente: il segnale in questione non è in relazione con un altro, prodotto simultaneamente, perché due segnali fanno parte di due piani d’azione indipendenti. 5.3 A COSA SERVE LA PARTITURA Trascrivere e classificare in modo così analitico frammenti brevissimi di comunicazione serve a diversi scopi di ricerca: - nella costruzione dei lessici dei vari sistemi comunicativi: una volta analizzati numerosi frammenti infatti, si cercano le ricorrenze dei segnali: se il significato di un segnale è sempre lo stesso o è simile in contesti diversi, si può scrivere questa corrispondenza nel lessico; - nella ricerca sui meccanismi di pianificazione del parlato: infatti durante una conversazione, un parlante produce segnali in diverse modalità: trascrivere una partitura permette di capire a che punto della pianificazione comunicativa di un parlante, egli “decide” (nella maggior parte dei casi in maniera tacita e inconsapevole) che un significato è così importante, tanto da volerlo comunicare contemporaneamente in più modalità differenti, e quando invece comunicarlo in un’unica modalità. Capire dunque le relazioni temporali di simultaneità, anticipazione, successione fra i segnali e i loro rapporti di congruenza o contraddizione, può essere utile per studiare la pianificazione del parlato e la distribuzione dei significati tra modalità diverse; - nell’analisi di frammenti di comunicazione di soggetti e tipi diversi di interazione, così da differenziare ad esempio, stili di soggetti o categorie di soggetti, o tipi di interazione comunicativa. 5.4 LA PARTITURA NEL CONTESTO TEATRALE Luogo emblematico di sintesi, come palcoscenico delle emozioni e spazio in cui si realizza in tutto il suo potere la comunicazione multimodale, il contesto del teatro. Il teatro come luogo in cui l’empatia si realizza attraverso la capacità di esperire ciò che l’altro prova; di replicare come proprie, azioni, emozioni e sensazioni vissute da altri. 138
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5.4.1 LA COMPAGNIA TEATRALE “ELISA DI RIVOMBROSA” Lo studio per questa mia tesi ha richiesto la mia presenza proprio in un contesto teatrale e per questo ho avuto la possibilità e l’immenso piacere di essere accolta come osservatrice alla preparazione del prossimo spettacolo della compagnia teatrale “Elisa di Rivombrosa” - un mondo possibile per tutti” composta da 16 ragazzi Down (di cui 9 ragazze e 7 ragazzi di età compresa tra 18 e 30 anni) che si avvalgono della direzione artistica di cinque attori professionisti del gruppo “Teatro stabile di innovazione Fontemaggiore” di Perugia. Questo nome è frutto della creatività dei ragazzi stessi. Nel periodo in cui è stata fondata la compagnia, infatti, la fiction “Elisa di Rivombrosa”, era un appuntamento televisivo assolutamente da non perdere, per ciascuno di loro. In fondo, tutte le ragazze si identificavano nella bella Elisa e tutti i ragazzi nel suo bel principe azzurro il “Conte Ristori”, in una storia d’amore senz’altro non priva di ostacoli, ma sicuramente appassionante. Quindi il palcoscenico, diventa “un mondo possibile per tutti” in cui ognuno di loro può essere “Elisa” o il suo bel cavaliere, ognuno di loro può rivendicare il diritto di immedesimarsi in quel sogno di amore, bellezza e successo, ognuno di loro può recitare con il cuore ed esprimere gli stati d’animo e le emozioni più profonde. ...“Perché la vita non è una fiction, e la fiction non è vita, ma a volte è bello poterlo pensare e questo a teatro succede”... . La compagnia è stata costituita il 22 settembre 2007 a Perugia, nell’ambito delle attività educative promosse dall’Associazione Italiana Persone Down di Perugia (A.I.P.D.) per volontà non solo delle famiglie dei ragazzi ma, in particolar modo dei ragazzi stessi che ne svolgono all’interno dei ruoli di prim’ordine in quanto alcuni di loro sono stati nominati Presidente, Vicepresidente, Consigliere ecc...affiancati da altrettanti genitori. Lo scopo è quello di conoscersi, di condividere, di crescere insieme, di mettersi a disposizione degli altri e di ricevere emozioni vere dalla vita. Ma in realtà...tutto nasce quattro anni fa con l’avvio di un laboratorio teatrale, in seguito ad un corso di autonomia, una delle tante attività promosse dall’A.I.P.D. di Perugia.
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All’inizio si erano formati due gruppi che lavoravano due volte a settimana in maniera separata. Il primissimo impatto degli attori con i ragazzi era basato sulla conoscenza reciproca, sull’osservazione scrupolosa di ogni singolo ragazzo e delle dinamiche del gruppo ma soprattutto sull’imprevedibilità: non c’era nessun copione prestabilito, ogni volta il da farsi veniva deciso in base al contesto ma soprattutto in base alle dinamiche relazionali che si andavano instaurando. Il lavoro iniziale era basato su se stessi, sul proprio corpo, sulle proprie infinite modalità espressive, per poter infine conoscersi di più e raccontarsi meglio. La forte valenza relazionale del teatro, inoltre, ha permesso a tutti loro di padroneggiare un proprio spazio, all’interno del quale poter aprirsi ed essere ascoltati, rispettando ognuno i ritmi e i tempi degli altri. Dopo tanto lavoro e duro impegno, la fondazione della compagnia teatrale “Elisa di Rivombrosa”, nel 2007, ha rappresentato un collante, rendendo possibile l’unione dei due gruppi iniziali e favorendo la giusta coesione e compattezza. L’unità del gruppo si basa su alcuni cardini principali: il rispetto gli uni degli altri, l’affetto, l’empatia e la condivisione di emozioni, le responsabilità e i ruoli che ognuno di loro assume all’interno della compagnia (in qualità di Presidente, Consigliere ecc...), che legittimano il gruppo stesso e li fanno sentire partecipi di un’unica realtà. Lungo questo cammino sono nati e cresciuti capacità e talenti, i ragazzi hanno preso padronanza del palco e delle battute, hanno imparato i tempi e i ritmi giusti, fino al sogno che diventa realtà: il grande debutto al “Teatro Morlacchi” di Perugia con l’ultimo spettacolo “Esta tera est tota mea”, che rappresenta non soltanto il realistico tema dell’emigrazione, ma anche un esaltante banco di prova per i sedici attori protagonisti, che raccontano un po’ della propria vita reale, per sperimentare così concretamente, la possibilità di comunicare con il mondo senza difficoltà alcuna. Teatro e disabilità vanno in scena, per aprire una finestra sul mondo, che rappresenta un percorso di crescita autonoma e consapevole, dove trovare autostima e mostrare tutte le capacità e le potenzialità di un mondo che sembra diverso solo a chi si ferma alle apparenze. Io ho avuto la possibilità di partecipare e condividere un po’ di questo mondo, nella preparazione del loro prossimo spettacolo, di cui il titolo resta ancora un mistero. 140
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Ma in che modo viene ideato e preparato uno spettacolo nella compagnia “Elisa di Rivombrosa”?. Il contesto e il tema portante vengono stabiliti dagli attori del gruppo “Fontemaggiore”, i ragazzi poi, individualmente effettuano delle ricerche sul tema che hanno lo scopo di fornire degli spunti utili; il resto è basato sull’improvvisazione, ovvero sulla rappresentazione più spontanea e naturale di ogni singolo ragazzo, circa l’argomento proposto. Il prossimo spettacolo è così incentrato sull’amore, declinato in tutte le possibili e infinite varianti: dalla sofferenza alla pena d’amore, dalla felicità all’innamoramento, passando attraverso la passione e l’affetto. Ecco perché questa realtà, priva di ogni tipo di finzione, ha dato ampio spazio all’espressività individuale di ognuno e mi ha permesso di cogliere i frammenti comunicativi più spontanei di ciascuno . L’obiettivo di analizzare attraverso uno strumento di valutazione, la comunicazione non verbale delle emozioni, si realizza applicando lo strumento della “Partitura della comunicazione multimodale” al contesto teatrale, dove corpo ed emozioni vanno in scena. Nel frammento comunicativo-espressivo, da me preso in esame, ad ognuno dei ragazzi viene chiesto di improvvisare dapprima un “amore triste”, che provoca sofferenza ma che si trasforma pian piano in un pericolo, in una minaccia di fronte alla quale si prova una tremenda “paura”. All’improvviso però, nel palcoscenico la musica cambia e si intravede all’orizzonte qualcosa di nuovo che suscita “sorpresa”: è di nuovo l’amore, ma questa volta, in una nuova veste: è l’“amore felice”, che fa stringere il cuore e fa brillare gli occhi. Dall’osservazione di tutte le improvvisazione dei ragazzi sulle 4 emozioni di base, ho scelto di analizzarne quattro, trascrivendone per ognuna la rispettiva Partitura.
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La pena dâ&#x20AC;&#x2122;amore
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La paura
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La sorpresa
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Lâ&#x20AC;&#x2122;amore
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5.4.2 ANALISI DEI DATI 1) Espressione della “pena d’amore”: nella modalità verbale, la ragazza, non pronuncia alcuna parola o frase, di conseguenza non è possibile analizzare neanche la modalità prosodico-intonativa. Nella modalità gestuale, porta la mano sinistra a livello del cuore che è un gesto simbolico e letteralmente significa “Sto soffrendo, qui a livello del cuore”; è un informazione che indica il luogo in cui sente dolore quindi è un’informazione sul mondo (IMO), ma in particolare di luogo, e ha una funzione aggiuntiva rispetto al contesto. Il significato indiretto di questo gesto però non si traduce in un dolore fisico al cuore, bensì più profondo, inteso come “sofferenza d’amore”, per questo è un’informazione sulla mente del mittente (IMM), in particolare sulle sue emozioni ed è assolutamente congruente al contesto, quindi svolge una funzione ripetitiva. Nella modalità facciale il capo è inclinato lateralmente, le sopracciglia sono in posizione di default (normale) e gli occhi sono chiusi, ciò significa di nuovo “Sto pensando”, ma in particolare è segno di concentrazione e riflessione sul proprio stato d’animo: entrambe sono informazioni sulla mente del mittente (IMM), con funzione aggiuntiva. Nella modalità corporea, la posizione è seduta su un fianco, con il braccio destro che supporta tutto il peso del corpo, ciò a significare “La sofferenza è così talmente grande che mi fa cadere a terra, ed è necessario un appoggio”; è un’informazione sulla mente del mittente(IMM)che mostra un’emozione ed ha una funzione aggiuntiva. In questo caso, l’espressione dell’amore sofferente è rispecchiata in tutte le modalità corporee non verbali e soddisfa a pieno il sovrascopo comunicativo (cioè la manifestazione di un dolore emotivo). 2) Espressione della “paura”: nella modalità verbale e prosodico-intonativa, entrambe le ragazze non pronunciano alcuna frase, né parola. Nella modalità gestuale, la ragazza a sinistra tiene le braccia lievemente piegate con le mani semiaperte, poco distanziate tra loro e con i palmi rivolti l’uno verso l’altro a livello del bacino. Ciò significa “Voglio fermare e non far avvicinare l’eventuale pericolo”, è un informazione sulla mente del mittente (IMM) in particolare sul suo performativo (cioè sullo scopo o intenzionalità comunicativa). Nella moda-
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lità facciale le labbra sono leggermente aperte, le sopracciglia in posizione di default e lo sguardo è fisso, ad indicare “Mi rivolgo a te” (in questo caso non risulta chiaro ciò a cui si riferisce la ragazza);è un’ informazione sulla mente del mittente (IMM), in particolare sul performativo dell’atto comunicativo con funzione indipendente, in quanto non è in relazione con gli altri segnali prodotti simultaneamente. Nella modalità corporea, il busto si piega pesantemente in avanti come per “difesa”: una IMM con funzione aggiuntiva. In questo secondo caso, le informazioni non verbali nelle varie modalità sembrano essere incongruenti tra loro, non confermando il sovrascopo comunicativo. Infatti nella modalità gestuale e corporea la ragazza sembra voler allontanare l’eventuale pericolo o minaccia che destano paura, difendendosi da esso. Ciò però non è confermato dalla modalità facciale, in cui lo sguardo terrorizzato e le sopracciglia innalzate che avrebbero dovuto segnale paura, sono sostituite da uno sguardo fisso e sopracciglia in posizione di default. 3) Espressione di “sorpresa”: in questo caso non è possibile analizzare né la modalità verbale, né quella prosodico-intonativa, perché la ragazza non pronuncia alcuna parola. Nella modalità gestuale, la mano è a forma di semiluna con il palmo rivolto verso l’occhio destro; il braccio è piegato verso l’alto, la mano poggia sulla fronte, in particolare sul sopracciglio destro. È una tipologia di gesto iconico il cui significato letterale è quello di “delimitare il campo visivo”ed è un’ informazione sulla mente del mittente (IMM), in particolare sul suo performativo o scopo comunicativo ed assume una funzione aggiuntiva. Il significato indiretto è quello di “concentrazione” per focalizzare l’attenzione su un determinato punto ed escludere tutto il resto: un informazione sulla mente del mittente (IMM), di tipo metacognitivo, con funzione ripetitiva. Nella modalità facciale, il capo è eretto, le labbra chiuse, lo sguardo aguzzo e le sopracciglia aggrottate, segno letterale di “incomprensione”, di “ non riuscire a capire cosa si scorge in lontananza” (IMM con funzione aggiuntiva), e segnale indiretto che comunica “bisogno di concentrazione”, per porre particolare attenzione a ciò che non viene compreso: IMM con funzione aggiuntiva. In particolare è interessante notare la relazione di corrispondenza e congruenza, tra
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l’“aguzzare lo sguardo” e l’“aggrottamento delle sopracciglia” in quanto l’uno implica l’altro ed entrambi comunicano un unico scopo: mettere a fuoco l’immagine per migliorare la qualità della visione. Ma poiché la visione è subito metafora di comprensione, l’aggrottamento e l’aguzzare lo sguardo non significano solo “voler vedere meglio” ma anche “voler capire meglio”. In questo terzo caso i segnali non verbali nelle diverse modalità, disatendono il contesto e il sovrascopo comunicativo, cioè non rispecchiano l’espressione “canonica” dell’emozione della “sorpresa”; sembra piuttosto che si limitino al livello immediatamente precedente, cioè quello dell’espressione di “attesa” e di “ricerca di qualcosa o qualcuno”, che non appena appare, diventa motivo ed espressione di meraviglia, le cui tipiche espressioni, si manifestano attraverso l’innalzamento delle sopracciglia e gli “occhi sgranati”. 4) Espressione dell’amore: la parola “amore!” (modalità verbale) viene pronunciata con un’intonazione ascendente e picco intonativo sulla sillaba “mo”, (modalità prosodico-intonativa) che sta a significare “è importante ciò che sto dicendo”. Nella modalità gestuale le mani sono unite tra loro e aperte, con il palmo rivolto verso l’alto, al livello del petto. Questo tipo di gesto, iconico, letteralmente significa “aperto”, “evidente”, informazione sul mondo (IMO), in particolare su una proprietà fisica con funzione ripetitiva, ma indirettamente significa “ciò che dico è del tutto evidente”, e nello specifico “ ti offro il mio amore”: IMM con funzione aggiuntiva. Nella modalità facciale, il volto è rivolto in avanti verso l’interlocutore, le labbra semiaperte mostrano un ampio sorriso, gli occhi brillano, le sopracciglia sono innalzate e le palpebre semiabbassate. Questo sguardo deittico letteralmente viene interpretato come “mi rivolgo a te” (IMM circa lo scopo dell’atto comunicativo, con funzione ripetitiva) e indirettamente la lucentezza degli occhi rivela amore e innamoramento (IMM che rivela le emozioni del mittente ed ha funzione ripetitiva). Nella modalità corporea il busto è piegato in avanti come per dire “mi rivolgo a te”, IMM circa il performativo dell’atto comunicativo con specifica funzione ripetitiva. In questo tipo di espressione, l’amore, è rispecchiato in tutte le modalità corporee non verbali e soddisfa a pieno il sovrascopo comunicativo (cioè la manifestazione dell’innamoramento) così come è dimostrato dalla congruenza sia dei segnali che dei significati da essi veicolati. 152
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Legenda: v = modalità verbale; p-i = modalità prosodico – intonativa; g = modalità gestuale; f = modalità facciale; c = modalità corporea; Ds = descrizione del segnale; Ts = tipo di segnale; S = significato; TS = tipo di significato; F = funzione; IMO = informazione sul mondo; IMM = informazione sulla mente del mittente
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Conclusioni
CONCLUSIONI La comunicazione non verbale rappresenta un canale comunicativo ricco e complesso, la cui struttura incorpora componenti eterogenee, e i cui processi coinvolgono modalità espressivo comunicative differenti. I canali non verbali sono classificabili in diversi sistemi, che implicano: le qualità prosodiche e paralinguistiche della voce, la mimica facciale, i gesti, lo sguardo, l’elemento prossemico (lo spazio e le distanze materiali che l’uomo tende ad interporre tra sé e gli altri), il sistema aptico (inteso come contatto fisico tra i soggetti coinvolti nella comunicazione che definisce inequivocabilmente il loro grado d’intimità), la competenza cronemica (che riguarda la scansione temporale del linguaggio: ritmo del parlato, turni comunicativi [turn talking], lunghezza delle pause in relazione al contesto) per giungere fino alla postura, all’abbigliamento e al trucco. Tra gli obbiettivi inizialmente definiti, che si proponeva il seguente lavoro, c’era quello di indagare l’esistenza di un livello lessicale per i segnali non verbali, partendo dall’ipotesi che la comunicazione non verbale è costituita da un insieme di regole che permette di stabilire le corrispondenze segnale – significato. Si sono presi in esame numerosi modelli di classificazione dei segnali non verbali presenti in letteratura, si è fatto riferimento principalmente al modello proposto da Isabella Poggi che ha studiato tre particolari sistemi di significazione non verbali: lo sguardo, il contatto fisico e i gesti. Per ognuno di questi è stato descritto e analizzato il tipo di segnale, in base ad una serie di “parametri formazionali”, cioè in base a dei criteri di classificazione che permettono di attribuire ad ogni parametro un specifico numero di valori possibili. In questo modo ogni segnale di un determinato sistema di comunicazione è caratterizzato univocamente dalla combinazione dei valori che assume rispetto ai vari parametri. Per ogni segnale è stato identificato il corrispettivo significato, letterale o indiretto, e il tipo di informazione veicolata distinta in conoscenza sul mondo, sull’identità o sulla mente del mittente. Allo scopo di comprendere il rapporto tra emozioni e mimica facciale, si è presa in considerazione la prospettiva neuropsicologica. Sono stati presentati diversi modelli interpretativi circa la
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Conclusioni
definizione di “espressione facciale”, contrapponendo in particolare l’approccio neuroculturale, secondo cui le espressioni del volto rappresentano un veicolo diretto delle emozioni, in quanto geneticamente determinate e l’approccio dimensionale, secondo cui le espressioni facciali non rappresentano segnali di specifiche emozioni, piuttosto dipendono dal significato emotivo che il “decoder” (cioè l’interlocutore) attribuisce o inferisce da quella precisa espressione, in quel particolare contesto. Sono stati inoltre indagati specifici correlati neurali sottostanti alla comprensione della mimica emotiva, e si è evidenziata l’indipendenza funzionale dei correlati corticali deputati all’elaborazione di pattern emotivi. In quest’ottica i contributi più recenti, che hanno utilizzato la tecnica dei potenziali evento correlati (ERPs) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno consentito di ipotizzare la presenza di moduli corticali dedicati al riconoscimento delle espressioni emotive. In ultima analisi, è stato identificato uno strumento capace di indagare le sottocomponenti e i diversi livelli comunicativi dell’espressione non verbale delle emozioni, che si manifestano attraverso gesti, sguardi, espressioni facciali e contatto fisico. Lo strumento è quello della “Partitura della comunicazione multimodale” sistema di trascrizione dei rapporti tra i diversi segnali nelle cinque modalità Verbale, Prosodico-Intonativa, Gestuale, Facciale e Corporea, sottoposti ad altrettanti cinque modelli di analisi: Descrizione del segnale, Tipo di segnale, Significato, Tipo di significato e Funzione rilevati attraverso l’analisi di un unico frammento comunicativo-espressivo. Ho voluto applicare lo strumento della partitura all’analisi comunicativo – espressiva delle emozioni (con relativa trascrizione) ad un contesto particolare ed originale, il contesto teatrale: cinque ragazze Down (P.O; M.R; S.C. e M.G.; G.R.), esprimevano, improvvisando il tema dell’amore declinandolo secondo quattro emozioni di base: la tristezza, come sofferenza d’amore, la sorpresa dell’amore, la paura della perdita e l’amore realizzato. Lo studio, naturalmente, non ha ambizione di rilevazione scientifica, né il tipo di strumento sarebbe in toto adatto allo scopo. Lo strumento ci permette di raccogliere una serie di osservazioni che potrebbero essere alla base di ulteriori indagini, in una prospettiva di maggiore rilevanza scientifica. 156
Conclusioni
Dall’osservazioni rilevate attraverso la trascrizione della partitura, secondo il modello di Isabella Poggi, preso in esame, emerge che: - l’espressione dell’amore sia nella variante triste, sia in quella felice è manifestata secondo l’espressione “canonica” di questa emozione, coincidendo perfettamente con il sovrascopo del frammento multimodale (cioè con lo scopo finale, la meta ultima dell’atto comunicativo non verbale; in questo caso l’espressione di un amore felice e poi triste); ma non solo, l’espressione dell’amore risulta, accentuata, esasperata ed esagerata tanto da essere compresa in maniera evidente, chiara e manifesta fin da subito; - l’espressione di un’emozione diversa dall’amore, come, in questo caso, la sorpresa e la paura disattendono il contesto e il sovrascopo comunicativo, cioè non rispecchiano l’espressione “canonica” di queste emozioni; in particolare per quanto riguarda l’espressione della sorpresa, l’atto comunicativo non raggiunge il sovrascopo (cioè la manifestazione della sorpresa stessa), ma si limita al livello immediatamente precedente, cioè quello dell’espressione di “attesa” di “ricerca di qualcosa o qualcuno”, che non appena appare, diventa motivo ed espressione di sorpresa. Questo lavoro, ha utilizzato uno strumento atto alla rilevazione dei segnali comunicativi non verbali in un contesto originale, appunto quello della rappresentazione teatrale. Come già detto non ha velleità di rilevazione scientifica, vuole porsi come un primo momento di conoscenza per ulteriori approfondimenti per rispondere ai quesiti che il lavoro stesso ha suscitato. Da questo primo background possono scaturire nuovi obbiettivi per un lavoro futuro. Si potrebbe, attraverso lo strumento della partitura mettere a confronto l’espressione di una stessa emozione fra i diversi soggetti, allo scopo di rilevarne gli universali strutturali e le declinazioni personali. Il secondo obbiettivo potrebbe essere quello di effettuare un confronto con un altro gruppo di attori comparabili per età,utilizzando lo stesso contesto teatrale, lo stesso tema, e stessa richiesta, cioè l’improvvisazione sul tema delle emozioni e in particolar modo dell’amore, con l’intento di comprendere se l’espressione di un sentimento così forte, che dalle mie osservazioni appare manifestato in maniera evidente, si potrebbe dire “esagerata”, è una prerogativa dei ragazzi con sindrome di Down o se, al contrario sia una manifestazione tipica di tutti i ragazzi di età adolescenziale. 157
Ringraziamenti...
Grazie...a mio fratello Alessandro e a tutti I suoi amici, vera fonte d’ispirazione. È da loro che è partito questo mio lavoro e sono stati loro a renderlo possibile...con il loro affetto e la loro tenerezza unica... Grazie...ai miei genitori e ai miei nonni, sempre attenti, disponibili e pronti a darmi sostegno, soprattutto in questo ultimo periodo... Grazie...alla Professoressa Paola Arcelli che ha seguito questo mio studio con passione, come me e con tanta...tanta...dedizione; e grazie alla Professoressa Castelli per la collaborazione... Grazie...a Riccardo e Alessio per il “lungo” pomeriggio passato insieme a scrivere... Grazie...a tutte le compagne con cui ho condiviso questi tre indimenticabili anni...ma in particolare a Filomena per la sua presenza costante... Grazie...a Marilisa e Fabrizia...autrici delle poesie inserite all’inizio di ogni capitolo; a tutte le famiglie dei ragazzi della compagnia teatrale e al gruppo della “Fontemaggiore” che mi ha permesso di seguire tutte le prove dello spettacolo... Grazie al Cesvol di Perugia che mi ha dato la possibilità di realizzare questa pubblicazione... ...Ed infine un Grazie...non meno importante degli altri, anzi...a Quintino...prezioso tesoro da custodire...
Angela
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Bibliografia
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