Poesie di guerra e di pace

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Poesie di guerra e di pace La voce dei poeti dal Risorgimento ai conflitti del ‘900

a cura di Deanna Mannaioli

Poesie di guerra e di pace

Quaderni del Volontariato 2016

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Associazione Culturale Pegaso

sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni

CESVOL PERUGIA EDITORE

Quaderni del volontariato 2016

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Quaderni del volontariato 12

Edizione 2016


Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net

Edizione Ottobre 2016 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide

tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata

ISBN 9788896649565


Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Se poi i contenuti parlano di impegno, di cittadinanza attiva, di solidarietà, allora il piatto si fa più ricco. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i nostri cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio



Poesie di guerra e di pace La voce dei poeti dal Risorgimento ai conflitti del ‘900

a cura di Deanna Mannaioli

Associazione Culturale Pegaso



Indice Introduzione Ottocento p.11 Poesie p.13 - Marzo1821 Alessandro Manzoni p.13 - Giuramento Pontida 1829 di Giovanni Berchet p.16 - All’armi 1831 Giovanni Berchet p.18 - Il re Tentenna di Domenico Carbone p.20 - La spigolatrice di Sapri Luigi Mercantini p.23 - Il Plebiscito di Giosuè Carducci p.25 - All’Italia di Giacomo Leopardi p.27 - A Venezia di Arnaldo Fusinato p.32 - L’illuminazione degli Appennini di Arnaldo Fusinato p.33 - Viva Pio IX di Anonimo p.35 Canti - Coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, Libretto di Temistocle Solera p.37 - Coro da I Lombardi di Giuseppe Verdi, Libretto di Temistocle Solera p.39 - Fratelli d’Italia Goffredo Mameli Michele Novaro p.41 - La bandiera dei tre colori Cordigliani , Dall’Ongaro p.43 - Addio, mia bella, addio Carlo Alberto Bosi p.45 - Inno militare Goffredo Mameli - Giuseppe Verdi p.46 - Il Brigidino di Francesco Dall’Ongaro p.47 - O Venezia di anonimo p.48 - Passa la ronda di Tebaldo Ciconi p.49 - La bella Gigogin di anonimo p.50 - Inno di Garibaldi Luigi Mercantini-Alessio Olivieri p.52 - Mazzini di Francesco Dall’Ongaro p.54 - I cardinali di Francesco Dall’Ongaro p.55 - La livornese di Francesco Dall’Ongaro p.55 - Camicia rossa di Traversa e Pantaleoni p.56


Introduzione Novecento p.58 Poesie p.60 - Futurismo di Tommaso Marinetti p.60 - Il canto amebèo della Guerra da Maia,Laus Vitae Gabriele d’Annunzio p.62 - Guerra di Corrado Govoni p.64 - Notte a bandoliera di Clemente Rèbora p.66 - Voce di vedetta morta di Clemente Rebora p.67 - Viatico Clemente Rebora da Canti anonimi, in “Le poesie” p.68 - Dichiarazione di Piero Jahier p.69 - Ninna nanna di Trilussa p.71 - Natale di Trilussa p.73 - Milite Ignoto di Renzo Pezzani p.74 - Ospedale da campo 026 di Ardengo Soffici p.75 - La guerra è dichiarata di Vladimir Vladimirovič Majakovskij p.76 - Veglia di Giuseppe Ungaretti p.78 - Fratelli di Giuseppe Ungaretti p.79 - Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti p.80 - San Martino del Carso di Giuseppe Ungaretti p.81 - Solitudine di Giuseppe Ungaretti p.82 - Soldati di Giuseppe Ungaretti 1918 p.82 - Girovago di Giuseppe Ungaretti p.83 - Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo p.84 - Auschwitz Salvatore Quasimodo 1954 p.85 - Ai fratelli Cervi di Salvatore Quasimodo p.87 - Milano, Agosto 1943 di Salvatore Quasimodo p.89 - Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo p.90 - Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo p.91 - La guerra che verrà di Bertolt Brecht p.92 - La guerra di Jacques Prévert p.93 - Il sogno del prigioniero di Eugenio Montale p.94


Canti p.96 - Di qua, di lĂ del Piave di anonimo p.96 - Quel mazzolin di fiori di anonimo p.97 - La penna nera p.98 - Sul ponte di Bassano p.99 - La leggenda de Piave p.100 - La canzone del Grappa p.102 - Ta pum p.104



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Introduzione Le arti nobili come la letteratura e la musica hanno sempre rappresentato nell’evolversi del tempo i momenti più significativi di un periodo storico, interpretando non solo il pensiero dell’uomo ma anche e soprattutto il sentimento che ispira le azioni del popolo. A titolo esemplificativo sono state prese in considerazione le epoche più intense di avvenimenti che, proprio per la loro drammaticità, hanno segnato un momento di grandi trasformazioni e di forte impatto sulle passioni umane tali da travolgere intere popolazioni e capaci di ispirare poeti e musicisti. La scelta di brani letterari e musicali da riproporre all’attenzione è caduta sull’Ottocento per l’intensità del pensiero risorgimentale e sul Novecento per il dramma dei totalitarismi e dei conflitti mondiali. Ottocento Nell’Ottocento fiorì un grande risveglio di creatività, che spesso ebbe rapporti assai diretti con l’attività politica. Gli avvenimenti dell’epoca, di notevole impatto, anche perché implicavano un rinnovato sentimento della identità nazionale, erano infatti tali da incidere profondamente sull’animo degli artisti, tanto da stimolare in molti di loro afflati di forte patriottismo. Si può dire che gran parte della produzione letteraria nel periodo risorgimentale ebbe il merito di contribuire fattivamente alla realizzazione dell’unità d’Italia. E questo va attribuito all’attività poetica, in virtù delle doti di immediatezza, icasticità e della capacità di coinvolgimento emotivo che sono proprie di questo genere letterario. Questa attiva partecipazione dei poeti alle imprese del Risorgimento è stata di grande rilievo, non solo per aver avuto 11


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il privilegio di contribuire a suscitare ampio consenso anche nelle classi meno pronte a cogliere l’importanza del nascente periodo storico, infiammando gli animi dei cittadini con versi pieni di amor patrio, ma anche per aver lasciato tracce nella storia letteraria. Nel processo di trasformazione del movimento nazionalista da elitario a fenomeno popolare un ruolo determinante è stato svolto dai canti e dalle romanze che hanno avuto il merito di diffondere il tema del “nostro riscatto” e creare le basi del sentimento di identità nazionale. Non vi sono tracce di canti militari fino al sec. XVIII, anche se Svetonio nei “Carmina Triumphalia” riporta testimonianza di un canto dei legionari di Cesare, di cui non si conosce però la musica. Nel Risorgimento vi è un fiorire di composizioni musicali e canti corali per lo più adatti al ritmo delle marce.

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POESIE Marzo 1821 di Alessandro Manzoni

Il Manzoni scrive l’ode in occasione dei moti carbonari piemontesi del 1821, quando l’atteggiamento riformistico di Carlo Alberto aveva acceso le speranze di chi aspirava all’unificazione dell’Italia. L’ode è un appello alla libertà, a seguire la conquista del diritto dei popoli, rivolto proprio a quei governi che solo qualche anno prima l’avevano sbandierato per liberarsi dall’oppressione napoleonica. Proprio per questo è fondamentale il concetto che Dio protegge gli uomini oppressi: come aveva già esaudito a suo tempo i Tedeschi così avrebbe aiutato gli Italiani. Il Poeta dedica l’ode a Teodoro Koerner, patriota e poeta tedesco, autore di canti patriottici contro l’oppressione napoleonica, morto nel 1813 nella battaglia di Lipsia. Il Manzoni esprime il proprio ideale nazionale, basato sull’unità di lingua, di religione, di tradizioni, incentrando l’ideale patriottico sulla comunione di vita materiale e spirituale del popolo, sancita dalla tradizione. È la voce di un cattolico liberale, che esorta gli italiani a insorgere contro l’oppressione in nome di un Dio che è amore ma anche giustizia. Il diritto alla libertà diviene così un dovere, un momento della lotta per l’affermazione del bene contro il male. Soffermati sull’arida sponda Vòlti i guardi al varcato Ticino, Tutti assorti nel novo destino, Certi in cor dell’antica virtù, Han giurato: non fia che quest’onda Scorra più tra due rive straniere; Non fia loco ove sorgan barriere 13


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Tra l’Italia e l’Italia, mai più! L’han giurato: altri forti a quel giuro Rispondean da fraterne contrade, Affilando nell’ombra le spade Che or levate scintillano al sol. Già le destre hanno strette le destre; Già le sacre parole son porte; O compagni sul letto di morte, O fratelli su libero suol. …………………….. O stranieri, nel proprio retaggio Torna Italia e il suo suolo riprende; O stranieri, strappate le tende Da una terra che madre non v’è. Non vedete che tutta si scote, Dal Cenisio alla balza di Scilla? Non sentite che infida vacilla Sotto il peso de’ barbari piè? O stranieri! sui vostri stendardi Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito; Un giudizio da voi proferito V’accompagna a l’iniqua tenzon; Voi che a stormo gridaste in quei giorni: Dio rigetta la forza straniera; Ogni gente sia libera e pèra Della spada l’iniqua ragion. Se la terra ove oppressi gemeste Preme i corpi de’ vostri oppressori, Se la faccia d’estranei signori 14


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Tanto amara vi parve in quei dì; Chi v’ha detto che sterile, eterno Saria il lutto dell’itale genti? Chi v’ha detto che ai nostri lamenti Saria sordo quel Dio che v’udì? Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia Chiuse il rio che inseguiva Israele, Quel che in pugno alla maschia Giaele Pose il maglio ed il colpo guidò; Quel che è Padre di tutte le genti, Che non disse al Germano giammai: Va’, raccogli ove arato non hai; Spiega l’ugne; l’Italia ti do. …………………………. Oggi, o forti, sui volti baleni Il furor delle menti segrete: Per l’Italia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta. O risorta per voi la vedremo Al convito dei popoli assisa, O più serva, più vil, più derisa Sotto l’orrida verga starà. Oh giornate del nostro riscatto! Oh dolente per sempre colui Che da lunge, dal labbro d’altrui, Come un uomo straniero, le udrà! Che a’ suoi figli narrandole un giorno, Dovrà dir sospirando: «io non c’era»; Che la santa vittrice bandiera Salutata quel dì non avrà. 15


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Il giuramento di Pontida Romanza di Giovanni Berchet Il Berchet per bocca d’un esule, a cui appaiono nel sonno le epiche gesta dei Comuni contro l’imperatore, rievoca l’avvenimento del 7 aprile 1167, giorno in cui i rappresentanti di vari comuni lombardi si stringono in lega contro Federico Barbarossa. La poesia, ispirata all’ amor patrio, ha un fine didascalico ed educativo teso a trascinare gli animi degl’Italiani alla rivolta contro l’Austria e rimane come testimonianza delle alte idealità del poeta. Pervade ogni verso il sentimento di carità patria che indusse gli uomini del nostro Risorgimento a sfidare avversità e persecuzioni per fare l’Italia libera e indipendente. Per quanto concerne il valore artistico del passo, il ritmo incalzante s’effonde in una sentita oratoria rivoluzionaria ma non trova sempre rispondenza nelle immagini e nel linguaggio. L’han giurato. Gli ho visti in Pontida convenuti dal monte, dal piano. L’han giurato; e si strinser la mano cittadini di venti città. Oh, spettacol di gioia! I lombardi son concordi, serrati a una lega; lo straniero al pennon ch’ella spiega, col suo sangue la tinta darà. Più sul cener dell’arso abituro la lombarda scorata non siede. Ella è sorta. Una patria ella chiede ai fratelli, al marito guerrier. (…………….) Federigo? egli è un uom come voi, 16


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come il vostro, è di ferro il suo brando. Questi scesi con esso predando, come voi veston carne mortal. Ma son mille! più mila! - Che monta? Forse madri qui tante non sono? Forse il braccio onde ai figli fer dono quanto il braccio di questi non val? Su! nell’irto, increscioso Alemanno, su, Lombardi, puntate la spada, fate vostra la vostra contrada, questa bella che il ciel vi sortì. Vaghe figlie del fervido amore, chi nell’ora dei rischi è codardo, più da voi non isperi uno sguardo, senza nozze consumi i suoi dì Presto, all’armi! Chi ha un ferro, l’affili; chi un sopruso patì, sel ricordi; via da noi questo branco d’ingordi! Giù l’orgoglio del fulvo lor sir! Libertà non fallisce ai volenti, ma il sentier de’ perigli ell’addita; ma promessa a chi ponvi la vita, non è premio d’inerte desir! Gusti anch’ei la sventura e sospiri l’Alemanno i paterni suoi fochi: ma sia invan che il ritorno egli invochi, ma qui sconti dolor per dolor. Questa terra ch’ei calca insolente, questa terra ei la morda caduto; a lei volga l’estremo saluto, e sia il lagno dell’uomo che muor.

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All’armi! All’armi! di Giovanni Berchet L’opera è stata scritta, in occasione delle rivoluzioni di Modena e Bologna del 1831, da Giovanni Berchet (1783-1851), uno dei fondatori del Conciliatore, iscritto alla Carboneria ed esule, dopo i moti del 1821, prima a Parigi, poi a Londra. Rientrato nel 1845, partecipò all’insurrezione di Milano (1848). Con il termine “tricolore” s’indica la bandiera italiana, verde bianca e rossa, che fu adottata per la prima volta dalla Repubblica Cisalpina (Reggio Emilia, 7 gennaio 1797). Su, Figli d’Italia! Su, in armi! coraggio! Il suolo qui è nostro; del nostro retaggio Il turpe mercato finisce pei re ; Un popol diviso per sette destini, In sette spezzato da sette confini, Si fonde in un solo, più servo non è. Su, Italia! su, in armi! Venuto è il tuo di! Dei re congiurati la tresca finì! Dall’Alpi allo stretto fratelli siam tutti! Su i limiti schiusi, su i troni distrutti Piantiamo i comuni tre nostri color! Il verde, la speme tant’anni pasciuta; Il rosso, la gioia d’averla compiuta; Il bianco, la fede fraterna d’amor. Su, Italia! su in armi! Venuto è il tuo dì! Dei re congiurati la tresca finì! Gli orgogli minuti via tutti all’oblio La gloria è de’forti. - Su, forti, per Dio, Dall’Alpi allo stretto, da questo a quel mar! Deposte le gare d’un secol disfatto, 18


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Confusi in un nome, legali a un sol patto, Sommessi a noi soli giuriam di restar. Su, Italia! su in armi! Venuto è il tuo dì! Dei re congiurati la tresca finì! Su, Italia novella! su, libera ed una! Mal abbia chi a vasta, sicura fortuna L’angustia prepone d’anguste città! Sien tutta le fide d’un solo stendardo! Su, tutti da tutti! Mal abbia il codardo, L’inetto che sogna parzial libertà! Su, Italia! su in armi! Venuto è il tuo dì! Dei re congiurati la tresca fini! Voi chiusi nei borghi, Voi sparsi alla villa, Udite le trombe, sentite la squilla Che all’armi vi chiama del vostro Comun! Fratelli, a’ fratelli correte in aiuto! Gridate al tedesco che guarda sparuto: L’Italia è concorde; non serve a nessun.

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Il Re tentenna di Domenico Carbone La poesia fu scritta da Domenico Carbone (1823/1883) poeta e medico, volontario, dopo aver partecipato il 10 ottobre 1947 ad una dimostrazione studentesca a Torino, terminata con arresti e perquisizioni. L’opera vuole ironizzare sulle perplessità di promulgare lo Statuto da parte di Carlo Alberto che si identifica nel Re Tentenna, sempre in bilico tra riforme, da una parte, e conservatorismo dall’altra. Si tratta di una filastrocca satirica composta da otto strofe, che ebbe molto successo e, anche se costrinse l’autore all’esilio, riuscì a sollecitare la decisione di Carlo Alberto in merito della costituzione concessa nel 1848. In diebus illis c’era in Italia, Narra una vecchia gran pergamena, Un re che gli era, fin dalla balia, Pazzo pel gioco dell’altalena. Caso assai raro nei re l’estimo; E fu chiamato Tentenna primo. Or lo ninnava Biagio, or Martino; Ma l’uno in fretta, l’altro adagino. E il re diceva: m’affretto adagio; Bravo Martino, benone Biagio. Ciondola,dondola, Che cosa amena. Dondola, ciondola, È l’altalena; Un po’ più celere, Meno... di più... Ciondola, dondola 20


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E su e giù. Un dì, racconta quella scrittura, Mutò di pelle come la biscia... E qui una fitta cancellatura, Quasi di sangue vivida striscia. E raschia e fissa quel mio cronista. Crebbe la macchia, sciupai la vista. Del resto, ei segue, buttò la vita; Giovin, Gaudente; vecchio, Trappita. Vantava in aria da caporale Non so che impresa d’uno stivale. Ciondola,dondola, …….. (Ritornello) Dicea Martino: libera il corso, Sire, al gran veltro fin che ci lambe; O se la svigna, dando di morso, E Dio ci salvi garretti e gambe. Biagio diceva: strigni la corda; Cane che abbaja, raro è che morda. Ma, se il guinzaglio per poco smetti. Iddio ci salvi gambe e garretti. E il re: ministri, siate contenti; Un dì si stringa, l’altro s’allenti. Ciondola, dondola, ecc. Ciondola,dondola…….. (Ritornello) Dicea Martino: volgiti a Roma; L’Austro dà i tratti dell’agonia. Schianta la briglia; scuoti la soma, Prendilo a calci di dietrovia. Biagio diceva: Roma si vanta; Non si fa guerra coll’acqua santa. Tienti al Tedesco; contro ai cannoni 21


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E’ ci vuol altro che be’ crocioni. E il re: mi provo se ci riesco, Evviva il Papa, viva il Tedesco. Ciondola, dondola….…….. (Ritornello) Dicea Martino: stecchito in trono Agl’inni, ai plausi non fare il sordo. Guai se la musica cambia di tono! Gira, Tentenna, gira di bordo. Biagio diceva: spranga il portone, Senti che puzzo di ribellione «Saétte a Biagio, fora i Tedeschi ». Per Sant’Ignazio! staremo freschi. E il re, traendo la durlindana, Sguardò dai vuoti della persiana. Ciondola, dondola………….. (Ritornello). Qui chieggo invano dal mio Turpino: Si diede al presto? scelse l’adagio? Diresti un tratto: vinse Martino; Due righe sotto: la vìnse Biagio. Morì Tentenna; ma ancora incerto Di tener l’occhio chiuso od aperto; E fu trovato, forza dell’uso, Con l’uno aperto, con l’altro chiuso. Laudale pueri, s’intoni al bimbo; Strisciò l’Antènora, dorme nel limbo. Ciondola, dondola……….. (Ritornello)

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La spigolatrice di Sapri Luigi Mercantini Scritta da Luigi Mercantini, noto rappresentante della lirica patriottica risorgimentale, questa ballata è di grande valore storico perché ricorda la prima reazione della popolazione campana all’arrivo dei trecento uomini che sotto il comando di Carlo Pisacane cercarono di liberare il Sud dalla dominazione borbonica. La catastrofe cui andarono incontro fu dovuta all’ignoranza delle masse contadine. Le cinque strofe di quattro distici di endecasillabi in rima baciata sono concluse da un ritornello composto da un endecasillabo e un quinario a rima baciata con cadenza epica e funebre. La figura della spigolatrice richiama il mondo popolare che lascia trasparire il suo stupore nel vedere in mare una barca che sbandiera il Tricolore. Sul piroscafo vi erano trecento uomini, imbarcatisi a Ponza, armati sì, ma per donare la libertà al Sud. Si dice che quegli uomini “s’inchinaron per baciar la terra”; nobile gesto di chi avverte nell’animo il senso dell’unione di tutti i cittadini su un unico suolo patrio. Eran trecento: eran giovani e forti, e sono morti! Me ne andava al mattino a spigolare quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore, e alzava una bandiera tricolore. All’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco, e poi s’è ritornata; s’è ritornata ed è venuta a terra; sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra. Eran trecento … (ritornello) Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra, ma s’inchinaron per baciar la terra: 23


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ad uno ad uno li guardai nel viso: tutti aveano una lagrima ed un sorriso. Li disser ladri usciti dalle tane, ma non portaron via nemmeno un pane; e li sentii mandare un solo grido: -Siam venuti a morir pel nostro lido!Eran trecento … (ritornello) Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro un giovin camminava innanzi a loro. Mi feci ardita, e, presol per la mano, gli chiesi: -Dove vai, bel capitano? Guardommi, e mi rispose: - O mia sorella, Vado a morir per la mia Patria bella. Io mi sentii tremare tutto il core, né potei dirgli: - V’aiuti il Signore! Eran trecento … (ritornello) Quel giorno mi scordai di spigolare, e dietro a loro mi misi ad andare: due volte si scontrar con li gendarmi, e l’una e l’altra li spogliar dell’armi. Ma quando fûr della Certosa ai muri, s’udirono a suonar trombe e tamburi; e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille piombaron loro addosso più di mille. Eran trecento … (ritornello) Eran trecento, e non voller fuggire; parean tremila e vollero morire; ma vollero morir col ferro in mano, e avanti a loro correa sangue il piano. Finché pugnar vid’io, per lor pregai; ma un tratto venni men, né più guardai: io non vedeva più fra mezzo a loro quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro!… Eran trecento … (ritornello) 24


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Il Plebiscito di Giosuè Carducci dalla raccolta Poesia Juvenilia Fa parte della raccolta di poesie giovanili composte tra il 1850 e il 1860, alla vigilia dell’unità nazionale, sui temi civili e patriottici. Sia da un punto di vista stilistico che tematico l’opera si ispira ai modelli classici. Nella poesia la monarchia assume un ruolo protagonistico e determinante sul piano storico per l’unificazione dell’Italia e la Casa Savoia è vista come la salvezza della causa patriottica. Qui è evidente il concetto legato al diritto alla libertà che diviene un dovere per i popoli, un momento della lotta per l’affermazione del bene contro il male. Leva le tende e stimola la fuga dei cavalli; torna alle pigre valli che il verno scolorò. Via ! Su le torri italiche l’antico astro s’accende: leva, o stranier le tende il regno tuo cessò. Amor de’ nostri martiri de i savi e de’ poeti da i santi sepolcreti la nuova Italia uscì. Uscì fiera viragine de le battaglie al suono e la procella e ‘l tuono sul campo a lei ruggì. 25


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(……………………………) Sorgi Vittorio: a l’ultima gloria dei regi ascendi al popolo distendi la mano ed a l’acciar. T’accomandiamo i pubblici Diritti e le fortune i talami e le cune le tombe dei maggior: vieni invocato gaudio ai tardi occhi dei padri, speranza de le madri dei baldi figli amor. Vieni: anche i nostri parvoli ai fasti dì crescenti te con i dubbi accenti chiaman d’Italia RE. Vieni guerriero e principe tra il popolar desio: teco è l’Italia e Dio. Chi contro te starà ? Dio pose te segnacolo d’una fatal vendetta teco l’Italia affretta a la promessa età. …………………)

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All’Italia di Giacomo Leopardi Tema centrale della canzone con un’evidente richiamo ai valori della patria è quello della guerra come unico strumento di reazione alla dominazione straniera. Sono presenti altri temi correlati da una notevole presenza di figure retoriche che conferiscono alla canzone uno stile alto. Nelle prime strofe viene enfatizzata la contrapposizione fra presente e futuro con riferimento alla grandezza di Roma. Il tema della viltà viene espresso con una metafora sulla quale è costruita gran parte della canzone: l’Italia è paragonata ad una donna oramai schiava che non reagisce ai soprusi. La causa per cui l’Italia non si arma è la mancanza di coraggio per combattere. Sono presenti riferimenti a fatti storici, in particolare alle lotte che hanno portato i popoli ad ottenere la libertà: vengono citate la rivoluzione americana contro gli Inglesi e quella dei Greci contro i Turchi che rappresentano la dimostrazione evidente per cui l’unico modo di ritornare ad essere un paese libero, è quello di unirsi contro gli usurpatori. Altri cenni storici riguardano momenti in cui l’Italia si armò contro Federico Barbarossa. L’appello ai valori religiosi è evidente; Roma, sede della Chiesa, conferisce al primato d’Italia una sorta di necessità divina, perciò deve essere libera dal dominio straniero. Nella parte finale vi è il riferimento alla canzone di Petrarca “ Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”. Metro: canzone di dieci strofe di 14 versi ciascuna,in endecasillabi e settenari, secondo lo schema: AbCDbACdEFefGG ; congedo: aBCacB O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, 27


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Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo al cielo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Che di catene ha carche ambe le braccia; Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, Mai non potrebbe il pianto Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno; Che fosti donna, or sei povera ancella. Chi di te parla o scrive, Che, rimembrando il tuo passato vanto, Non dica: già fu grande, or non è quella? Perché, perché? dov’è la forza antica, Dove l’armi e il valore e la costanza? Chi ti discinse il brando? Chi ti tradì? qual arte o qual fatica O qual tanta possanza Valse a spogliarti il manto e l’auree bende? Come cadesti o quando Da tanta altezza in così basso loco? Nessun pugna per te? non ti difende 28


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Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo Combatterò, procomberò sol io. Dammi, o ciel, che sia foco Agl’italici petti il sangue mio. Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi E di carri e di voci e di timballi: In estranie contrade Pugnano i tuoi figliuoli. Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi, Un fluttuar di fanti e di cavalli, E fumo e polve, e luccicar di spade Come tra nebbia lampi. Né ti conforti? e i tremebondi lumi Piegar non soffri al dubitoso evento? A che pugna in quei campi L’itala gioventude? O numi, o numi: Pugnan per altra terra itali acciari. Oh misero colui che in guerra è spento, Non per li patrii lidi e per la pia Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui Per altra gente, e non può dir morendo: Alma terra natia, La vita che mi desti ecco ti rendo. Oh venturose e care e benedette L’antiche età, che a morte Per la patria correan le genti a squadre; E voi sempre onorate e gloriose, O tessaliche strette, Dove la Persia e il fato assai men forte Fu di poch’alme franche e generose! Io credo che le piante e i sassi e l’onda E le montagne vostre al passeggere 29


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Con indistinta voce Narrin siccome tutta quella sponda Coprìr le invitte schiere De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti. Allor, vile e feroce, Serse per l’Ellesponto si fuggia, Fatto ludibrio agli ultimi nepoti; E sul colle d’Antela, ove morendo Si sottrasse da morte il santo stuolo, Simonide salia, Guardando l’etra e la marina e il suolo. E di lacrime sparso ambe le guance, E il petto ansante, e vacillante il piede, Toglieasi in man la lira: Beatissimi voi, Ch’offriste il petto alle nemiche lance Per amor di costei ch’al Sol vi diede; Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira. Nell’armi e ne’ perigli Qual tanto amor le giovanette menti, Qual nell’acerbo fato amor vi trasse? Come sì lieta, o figli, L’ora estrema vi parve, onde ridenti Correste al passo lacrimoso e duro? Parea ch’a danza e non a morte andasse Ciascun de’ vostri, o a splendido convito: Ma v’attendea lo scuro Tartaro, e l’onda morta; Né le spose vi foro o i figli accanto Quando su l’aspro lito Senza baci moriste e senza pianto. Ma non senza de’ Persi orrida pena Ed immortale angoscia. 30


Poesie di guerra e di pace

Come lion di tori entro una mandra Or salta a quello in tergo e sì gli scava Con le zanne la schiena, Or questo fianco addenta or quella coscia Tal fra le Perse torme infuriava L’ira de’ greci petti e la virtute. Ve’ cavalli supini e cavalieri; Vedi intralciare ai vinti La fuga i carri e le tende cadute E correr fra’ primieri Pallido e scapigliato esso tiranno; Ve’ come infusi e tinti Del barbarico sangue i greci eroi, Cagione ai Persi d’infinito affanno, A poco a poco vinti dalle piaghe, L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva: Beatissimi voi !

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A Venezia di Arnaldo Fusinato Arnaldo Fusinato (1817-1889), volontario nel 1848, partecipò alla difesa di Venezia, per la quale scrisse l’ode A Venezia (di cui si riportano le prime cinque delle undici strofe). A Venezia E’ fosco l’aere,/ il cielo è muto,/ ed io sul tacito/ veron seduto,/ in solitaria/ malinconia/ ti guardo e lagrimo,/ Venezia mia! Fra i rotti nugoli/ dell’occidente/ il raggio perdesi/ del sol morente,/ e mesto sibila/ per l’aria bruna/ l’ultimo gemito/ della laguna. Passa una gondola/ della città./ “Ehi, dalla gondola,/ qual novità?”/ “Il morbo infuria,/ il pan ci manca,/ sul ponte sventola/ bandiera bianca!” No, no, non splendere/ su tanti guai,/ sole d’Italia,/ non splender mai;/ e sulla veneta/ spenta fortuna/ si eterni il gemito/ della laguna. Venezia, l’ultima/ ora è venuta;/ illustre martire,/ tu sei perduta./ Il morbo infuria,/ il pan ti manca,/ sul ponte sventola/ bandiera bianca!

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Poesie di guerra e di pace

L’illuminazione degli Appennini di Arnaldo Fusinato Che cos’è, là in fondo in fondo, quella fiamma ognor crescente, quell’accorrere giocondo d’affollata allegra gente, quegli evviva, quegli spari di moschetti e di mortari? È il buon popol di Romagna che festeggia il di solenne che le arpie dell’Alemagna, senz’artigli, senza penne fur da Genova scacciate a gran colpi di sassate. Come liberi stendardi van le fiamme in preda al vento; una folla di gagliardi getta al fuoco l’alimento e il pentito di Sardegna versa l’olio sulla legna. Ed intanto l’uomo-dio che risiede in Vaticano, voglio dire il Nono Pio, impartisce colla mano la papal benedizione a quell’ottime persone. Su, soffiate un altro poco, o redenti romagnoli, che la vista di quel foco le nostre anime consoli, che si sgelino le mani 33


Poesie di guerra e di pace

questi torpidi Italiani. Se la fiamma che risplende sulle vette agli Appennini un di o l’altro si distende anche all’Alpe dei vicini, amatissimi Tedeschi, state freschi, state freschi! Di quel fuoco la scintilla già riscalda il bel paese; alla pietra del Balilla mille braccia sono tese; tuoni solo una parola... o Tedeschi, che gragnuola! Ma peraltro, indovinate? M’è passato per la mente che i Tedeschi alle sassate non ci badino per niente; quelle care creature han le teste cosi dure! So ben io quel che ci vuole per quest’orsi oltramontani che al tepor del nostro sole van leccandosi le mani! Un deposito abbondante di cotone fulminante. Il cotone? Va benone, siam d’accordo; ma, perdoni: cosa farne del cotone se ci mancano i cannoni?

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Poesie di guerra e di pace

Viva Pio IX di Anonimo Pio IX (1792-1878) eletto papa nel 1846. divenne, nei primi anni del suo pontificato, il punto di riferimento delle speranze nazionali e liberali. La sua impronta riformista derivò in parte dalla necessità di fare fronte alle insurrezioni scoppiate nell’Italia centrale. Tra i provvedimenti si possono ricordare: la libertà di stampa, l’amnistia per molti prigionieri politici e una prima apertura dello Stato ad una esigua partecipazione laica. Quando di Piero sali sul trono il glorioso nunzio di Dio assunse il mite nome di Pio, e il primo accento fu di perdono. Viva Pio Nono! Mentre fra plausi, degli inni al suono le vie di Roma scorrea l’eletto, dicea: - Lasciate che il mio diletto popol s’appressi, poi ch’egli è buono -. Viva Pio Nono! Disse alle madri: - Quei che ridóno al vostro amplesso, tornan miei figli. Trascorsa è l’ora de’ lunghi esigli, dello sgomento, dell’abbandono -. Viva Pio Nono! Ohimè, repente contro il suo trono si sollevaron l’armi d’averno; ma sulla patria vegliò l’Eterno, sostavan gli empi, già più non sono. 35


Poesie di guerra e di pace

Viva Pio Nono! D’elmo e di spada l’ambito dono ai cittadini securo ei porse, già dei Quiriti l’aquila sorse, tien nell’artiglio folgore e tuono. Viva Pio Nono! O Dio di pace, Dio di perdono, a noi deh, serba quest’angiol santo! Siamo suoi figli! L’amiamo tanto! Le nostre vite sacre gli sono. Viva Pio Nono!

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Poesie di guerra e di pace

Canti Coro dal “Nabucco” di Giuseppe Verdi, Libretto di Temistocle Solera L’opera (titolo originario Nabucodonosor), rappresentata il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala, Milano, è letta come la più risorgimentale di Verdi, poiché gli spettatori italiani dell’epoca riconoscevano la loro condizione politica in quella degli ebrei soggetti al dominio babilonese. La lettura fu incentrata sul coro Va’, pensiero, sull’ali dorate, intonato dal popolo ebreo prigioniero in Babilonia, ma il resto del dramma è basato sulle figure drammatiche del re di Babilonia Nabucodonosor II e della sua presunta figlia Abigaille. Il coro è collocato nella parte terza del Nabucco. Il poeta Solera scrisse i versi ispirandosi al salmo 137, Super flumina Babylonis. Lo stile elevato rispetta una struttura metrica ben nota nella letteratura italiana ed europea. Si tratta di 16 decasillabi, divisi in 4 quartine. Tale schema, impiegato anche nelle canzonette da melodramma, è quello proprio dell’ode, che condivide con l’inno un rigido codice, rappresentando un modello riservato a testi “alti”, per significato e valore civile e religioso, epico e patriottico. Il tono oratorio è perciò solenne e ingiuntivo, destinato ad ottenere la persuasione e trascinare l’ascoltatore all’azione Va’, pensiero, sull’ali dorate; va’, ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano tepide e molli l’aure dolci del suolo natal! Del Giordano le rive saluta, di Sionne le torri atterrate... Oh, mia patria sì bella e perduta! 37


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Oh, membranza sì cara e fatal! Arpa d’or dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi? Le memorie nel petto raccendi, ci favella del tempo che fu! O simile di Solima ai fati traggi un suono di crudo lamento, o t’ispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù!

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Oh Signore, dal tetto natìo di Giuseppe Verdi Libretto Temistocle Solera Il coro è la preghiera tratta dal IV atto dell’opera “I Lombardi alla prima crociata”, composta subito dopo il “Nabucco” da Giuseppe Verdi su libretto di Temistocle Solera, e andata in scena al Teatro alla Scala l’11 febbraio 1843. L’azione, che si svolge fra gli anni 1097-1099, è incentrata sulla partecipazione dei Lombardi alla prima crociata e racconta della rivalità, per amore di Viclinda, fra due fratelli, Arvino e Pagano, figli del Signore di Rho. Sarà Pagano a guidare l’attacco contro Gerusalemme, restando ferito e morirà, perdonato, fra le braccia del fratello Arvino. Il coro è cantato nelle tende presso Gerusalemme dai cristiani che innalzano una preghiera a Dio che li ha chiamati dalla terra natia con la promessa di liberare Gerusalemme dal dominio degli “invasori” musulmani. Il brano si annovera tra i tre cori “patriottici” che Verdi compose: “O Signore dal tetto natìo” ne “I Lombardi alla prima Crociata”, citato da Giuseppe Giusti nella lirica “Sant’Ambrogio”, “Si ridesti il leon di Castiglia” nell’“Ernani”, e “Giuriam d’Italia por fine ai danni” ne “La battaglia di Legnano”. I tre cori si riferiscono sempre ad una patria unica, per storia, per costumi e per tradizioni (come in“Marzo 1821” di Manzoni ) e la chiamano “Italia”. Oh Signore, dal tetto natìo, ci chiamasti con santa promessa; noi siam corsi all’invito di un pio giubilando per l’aspro sentier. Ma la fronte avvilita e dimessa hanno i servi già baldi e valenti deh! non far che ludibrio alle genti 39


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siano Cristo, i tuoi figli guerrieri Oh fresche aure. volanti sui vaghi ruscelletti dei prati lombardi ! Fonti eterne ! Purissimi laghi! Oh vigneti indorati di sole Dono infausto, crudele è la mente che vi pinge sì veri agli sguardi ed al labbro più dura e cocente fa la sabbia di un arido suol! Fa la sabbia - fa la sabbia di un arido suol! D’un arido suol - d’un arido suol!

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Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli - Michele Novaro Canto risorgimentale scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847, inno nazionale della Repubblica Italiana. Il canto fu molto popolare durante il Risorgimento. Dopo l’unità d’Italia come inno del Regno, fu scelta la Marcia Reale, che era il brano ufficiale di Casa Savoia. Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia diventò una repubblica e il Fratelli d’Italia fu scelto, il 12 ottobre 1946, come inno nazionale. Il brano, un 4/4 in si bemolle maggiore, è costituito da sei strofe e da un ritornello che viene cantato alla fine di ogni strofa. Il sesto gruppo di versi, che non viene quasi mai eseguito, richiama il testo della prima strofa. Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò. Noi fummo per secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme: 41


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di fonderci insieme già l’ora suonò. Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò. Uniamoci amiamoci ! L’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero.

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La bandiera dei tre colori Cordigliani – Francesco Dall’Ongaro Canzone patriottica, musicata nel 1848 da Francesco Dall’Ongaro su testo di Cordigliani, di cui non vi sono notizie. Ne esiste una versione più lunga del 1859. La bandiera tricolore nacque per delibera dei deputati della Repubblica Cispadana di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia il 7 gennaio 1797: “Si renda universale la Bandiera Cispadana di tre colori Verde, Bianco e Rosso, e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana”. Il significato dei tre colori era mutuato dal giacobinismo francese e rappresentava gli ideali di indipendenza che animarono poi il Risorgimento. Non era più un segno dinastico ma simbolo del popolo, e della nazione: “Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci [...] ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’ Etna; le nevi delle alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani [...]: il bianco, la fede serena alle idee [...]; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch’ ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà” (Giosuè Carducci, discorso tenuto il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia per celebrare il centenario della nascita del Tricolore). Nell’ Italia del 1796 quasi tutte le repubbliche di ispirazione giacobina avevano adottato bandiere con tre fasce di uguali dimensioni ispirate al modello francese del 1790. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto annunciò per la prima guerra di indipendenza: “… vogliamo che le Nostre Truppe portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana.” Senza lo stemma sabaudo, il tricolore divenne la bandiera dei repubblicani. 43


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La bandiera dei tre colori è sempre stata la piÚ bella, noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà . E la bandiera gialla e nera qui ha finito di regnar! La bandiera gialla e nera qui ha finito di regnar! Tutti uniti in un sol patto stretti intorno alla bandiera, griderem mattina e sera: viva, viva i tre color!

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Addio, mia bella, addio di Carlo Alberto Bosi Il testo di Addio mia bella addio venne scritto da C. Alberto Bosi nel marzo 1848, in occasione della partenza di un gruppo di volontari fiorentini per la prima guerra di indipendenza. L’autore della musica è ignoto ma forse si tratta di un antico motivo popolare. Il brano, anche noto come l’Addio del volontario, divenne celebre tra i patrioti che iniziarono a cantarlo sempre più spesso al momento delle partenza e assunse grande popolarità già durante la prima guerra di indipendenza. Dal testo, risulta evidente la nascita non popolare di questo canto: nelle intenzioni degli autori, per i soldati di allora questa canzone doveva servire a rapportarsi con la patria da amare come la mamma e la fidanzata. Addio, mia bella, addio: l’armata se ne va; se non partissi anch’io sarebbe una viltà! Il sacco preparato sull’òmero mi sta; son uomo e son soldato: viva la libertà! Io non ti lascio sola, ti resta un figlio ancor: nel figlio ti consola, nel figlio dell’amor!

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Inno militare di Giuseppe Verdi - Goffredo Mameli Goffredo Mameli compose l’inno quando era a Bozzolo, per volere di Mazzini che lo considerava, dopo il successo di “Fratelli d’Italia”, l’interprete del Risorgimento. Si rivolse poi a Verdi per chiedere di musicare un inno militare che sarebbe dovuto diventare la marsigliese italiana. A Verdi piacque il testo di Mameli, lo musicò a Parigi e lo inviò a Mazzini così dicendo:” Possa questo testo tra la musica del cannone essere presto cantato nelle pianure lombarde.” In realtà l’inno, non si sa per quale ragione, non ebbe successo. All’armi, all’armi! Ondeggiano le insegne gialle e nere. Fuoco, per Dio, sui barbari, sulle vendute schiere! Già ferve la battaglia; al Dio dei forti osanna! Le baionette in canna! E l’ora del pugnar. Non deporrem la spada fin che sia schiavo un angolo dell’itala contrada, fin che non sia l’Italia una dall’Alpi al mar.

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Il Brigidino di Francesco Dall’Ongaro Stornello patriottico, composto nel 1847 da Francesco Dall’Ongaro, poeta e giornalista delle guerre di liberazione nazionale del ‘48-’49. Il Brigidino fu musicato da Luigi Gordigiani ed ebbe un’eco europea. Si tratta di uno tra gli stornelli più riusciti per la loro aderenza al linguaggio popolare e all’uso dell’endecasillabo come nella forma poetica popolare. Il brigidino, che è una pasta rotonda dispensata dalle monache di Santa Brigida di Firenze, fa riferimento alla coccarda amata dai patrioti. E lo mio amore se n’è ito a Siena, M’ha porto il brigidin di due colori. Il bianco è la fé che c’incatena, Il rosso l’allegria de’ nostri cuori. Ci metterò una foglia di verbena Ch’io stessa alimentai di freschi umori. E gli dirò: che il rosso, il verde il bianco Gli stanno bene colla spada al fianco. E gli dirò: che il bianco, il verde, il rosso Vuol dir che Italia il suo giogo l’ha scosso. E gli dirò: che il rosso, il bianco il verde Gli è un terno che si gioca e non si perde!

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O Venezia di anonimo Questa canzone, di autore ignoto, con una melodia vicina alle arie del melodramma, ricca di echi e suggestioni Verdiane, si riferisce al coraggioso biennio repubblicano (1848-49) di Venezia e alla drammatica repressione degli austriaci. Entrò poi nel repertorio delle mondine L’ultima strofa, delicata e misteriosa, di rara intensità poetica, vuole evocare il sogno dell’Unità d’Italia.. O Venezia che sei la più bella e di Mantova tu sei la più forte: gira l’acqua intorno alle porte, sarà difficile poterti pigliar. Un bel giorno, entrando in Venezia, tutto il sangue scorreva per terra, e i soldati sul campo di guerra e tutto il popolo gridava pietà. O Venezia, ti vuoi maritare? Per marito ti daremo Ancona, e per dote le chiavi di Roma e per anello le onde del mar.

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Passa la ronda di Tebaldo Ciconi Canzone militare composta da Tebaldo Ciconi nel 1848 e conosciuta con diverse varianti Appena giunti sul Monte Grappa, là si sentivano le cannonate. I nostri alpini son lì che battono battaglione per battaglion. Passa la ronda dei veci alpin: e la risponde “fiaschi de vin”! Nella notte nera nera, soffia il vento e la bufera! soffia il vento e la bufera: passa la ronda a vigilar passa la ronda a vigilar. Piano, piano, mio bell’alpino: devi usare precauzione. scendi abbasso nel burrone che il nemico sta ad aspettar. Spettiam, cantiam da baldi alpini, un sol grido, un sol pensier: prendi la mia borraccia, bevi nel mio bicchiere insieme dobbiamo bere, insieme dobbiam morir! Soffrir, morir, dovete voi nemici! questa è l’ultima vostra ora: dalle man dei veci alpini è difficile scappar! dalle man dei veci alpini è difficile scappar! è difficile scappar! ……………..

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La bella Gigogin di anonimo La canzone fu scritta nel 1858 dal compositore milanese Paolo Giorza che si ispirò ad alcuni canti popolari lombardopiemontesi e venne eseguita per la prima volta dalla Banda civica, diretta dal maestro Gustavo Rossari, al Teatro Carcano di Milano il 31 dicembre 1858, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza. Essendo il tema principale del canto, l’invito a Vittorio Emanuele II a fare avanti un passo, diventò quasi subito una canzone patriottica. Venne scritta in dialetto perché gli austriaci non ne capissero il significato. Si dice che La bella Gigogin ebbe un successo tale che le bande militari austriache avevano imparato a suonarla e quando a Magenta si trovarono di fronte i francesi, intonarono le note della canzone in segno di attacco. Il fatto divertente è che i francesi risposero col ritornello “Daghela avanti un passo” e quindi i due eserciti si affrontarono al suono della stessa canzone. Rataplan! Tamburo io sento che mi chiama alla bandiera. Oh che gioia, oh che contento, io vado a guerreggiar. Rataplan! Non ho paura delle bombe e dei cannoni: io vado alla ventura, sarà poi quel che sarà. Oh, la bella Gigogin, col tromilerillellera, la va spasso col so’ spincin, col tromilerillerà! Di quindici anni facevo all’amore... Dàghela avanti un passo, 50


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delizia del mio core! A sedici anni ho preso marito... Dàghela avanti un passo, delizia del mio core! A diciassette mi sono spartita... Dàghela avanti un passo, delizia del mio cor! La ven, la ven, la ven alla finestra, l’è tutta, l’è tutta, l’è tutta insipriata! La dis, la dis, la dis che l’è malada per non, per non, per non mangiar polenta! Bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza, lassàlla, lassàlla, lassàlla maridà!

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Inno di Garibaldi di Luigi Mercantini-Alessio Olivieri Fu Giuseppe Garibaldi a chiedere nel dicembre 1858 a Luigi Mercantini, autore de “La spigolatrice di Sapri” un inno che accompagnasse i suoi Cacciatori nell’impresa che stavano preparando: “Voi mi dovreste scrivere un Inno per i miei volontari: lo canteremo andando alla carica e lo ricanteremo tornando vincitori”. Il compositore fu Alessio Olivieri, capo musica del 2° reggimento della Brigata Savoia. Il 7 marzo dello stesso anno, a Torino, Garibaldi ebbe lo spartito, stampato come Inno nazionale dall’editore Armanino di Genova. Fu eseguito per la prima volta il 31 dicembre 1858 a Genova in forma privata e cantato in pubblico il 25 aprile 1859. L’inno, ribattezzato dai volontari come Inno di Garibaldi, costituito da otto strove di otto versi più il ritornello, accompagnò l’impresa dei Mille e poi l’unificazione d’Italia. Ristampato a Milano nel 1861 dalla casa editrice Ricordi, è stato uno degli inni più riprodotto e cantato con poche varianti. Era più popolare dell’Inno di Mameli. Esaurite le vicende risorgimentali che portarono all’unificazione dell’Italia, l’inno (e il mito di Garibaldi) venne utilizzato nel tempo seguente. L’Inno introdusse anche la notizia della apertura della assemblea costituente trasmessa dalla Settimana Incom del 27 giugno 1946. Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti! La spada nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome – d’Italia sul cor! Veniamo! Veniamo! Su, o giovani schiere! Su al vento per tutto le nostre bandiere! 52


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Su tutti col ferro, su tutti col foco, su tutti col foco - d’Italia nel cor! Va fuora d’Italia, va fuora ch’è ora, va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!

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Mazzini di Francesco Dall’Ongaro Deputato alla Costituente della Repubblica Romana nel 1849, fu poi costretto ad un decennio di esilio in Belgio e in Svizzera. Negli Stornelli Italiani (di cui diamo un esempio del 1851, anno delle cospirazioni mazziniane di Mantova) divulgò temi patriottici in forma piana e cantabile. Chi dice che Mazzini è in Alemagna, chi dice ch’è tornato in Inghilterra, chi lo pone a Ginevra e chi in Ispagna, chi lo vuol sugli altari e chi sotterra. Ditemi un po’, grulloni in cappa magna, quanti Mazzini c’è sopra la terra? Se volete saper dov’èMazzini, domandatelo all’Alpi e agli Appennini. Mazzini è in ogni loco ove si trema che giunga a’ traditor l’ora suprema. Mazzini è in ogni loco ove si spera versar il sangue per l’Italia intera.

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I cardinali di Francesco Dall’Ongaro O senator del popolo romano, se voi sete davvero un galantuomo, dite a Sua Santità che in Vaticano c’è tanti cardinali e non c’è un uomo. Son fatti come il gambero del fosso, che, quando è morto, si veste di rosso, e mentre è vivo cammina all’indietro per intricar le reti di san Pietro.

La livornese di Francesco Dall’Ongaro Addio, Livorno, addio paterne mura, forse mai più non vi potrò vedere! I miei parenti sono in sepoltura, e lo mio damo è sotto le bandiere. Io voglio seguitarlo a la ventura, un’arma in mano anch’io la so tenere. La palla che sarà per l’amor mio, senza ch’ei sappia, la piglierò io, si chinerà sul suo compagno morto, e per pietà vorrà vedello in vorto. Vorrai vedermi e mi conoscerai… Povero damo, quanto piangerai!

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Camicia rossa Testo di Traversa, musica di Pantaleoni Il canto popolare si diffuse immediatamente dopo la spedizione di Garibaldi in Sicilia nel 1860. Venne cantata anche durante la resistenza dai partigiani. Il testo originale comprende nove quartine di decasillabi. Dopo Aspromonte furono aggiunte altre otto quartine. Quando all’appello di Garibaldi tutti i suoi figli suoi figli baldi daranno uniti fuoco alla mina camicia rossa garibaldina daranno uniti fuoco alla mina camicia rossa garibaldina. E tu ti svegliasti col sol d’aprile e dimostravi che non sei vile per questo appunto mi sei più cara camicia rossa camicia rara e poi per questo appunto mi sei più cara camicia rossa camicia rara. E porti l’impronta di mia ferita sei tutta lacera tutta scucita per questo appunto mi sei più cara camicia rossa camicia rara per questo appunto mi sei più cara camicia rossa camicia rara. Fin dall’istante che ti indossai 56


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le braccia d’oro ti ricamai quando a Milazzo passai sergente camicia rossa camicia ardente quando a Milazzo passai sergente camicia rossa camicia ardente. Odi la gloria dell’ardimento il tuo colore mette spavento Venezia e Roma poi nella fossa cadremo assieme camicia rossa Venezia e Roma poi nella fossa cadremo assieme camicia rossa.

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Novecento Il Novecento è un secolo ricco di fermenti culturali che anticipano una moltitudine di eventi, alcuni dei quali molto tragici come i due conflitti mondiali che, partendo dai contrasti tra alcuni i paesi europei, si allargarono poi al resto del mondo. Si può dire che all’inizio del secolo un periodo di relativa pace e un risveglio delle attività sul piano economico hanno avuto una larga influenza sulla creatività artistica in modo tale da dare il via a nuovi movimenti come il Futurismo e da sviluppare un modo nuovo di vedere la vita. La propulsione verso orizzonti aperti e sconfinati, il desiderio dell’avvento delle macchine favoriscono il formarsi di movimenti letterari e l’affermarsi di personalità a livello culturale in grado di influenzare il modo di rapportarsi con la politica, la pace e la guerra. Accanto ad una vasta produzione letteraria, che riproporremo in queste pagine, spicca, in particolare nel periodo del I conflitto mondiale, un fenomeno ampio che vede affermarsi l’uso della musica e del canto come contributo al dramma della guerra. Mentre la poesia è in grado di influire sul pensiero e sulle azioni, il canto è da considerarsi un sollievo per chi si trova al fronte e sopporta fatiche, privazioni e dolori. Nel Corpo degli Alpini troviamo numerosi cori di guerra; molti parlano delle battaglie, alcuni sono un inno al valore o all’Italia, altri mettono in risalto i sentimenti e la sofferenza della guerra Oggi i canti e le liriche costituiscono per noi una memoria imprescindibile dalla storia e da quei dolorosi eventi per cui, ascoltando quelle musiche e leggendo quei testi, possiamo rivivere le stesse emozioni che hanno provato gli uomini durante il conflitto, con particolare riferimento ai soldati che hanno 58


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sacrificato gli anni della loro gioventù e a volte la stessa vita, ma con un pensiero anche delle donne che restavano sole e che dovevano sopportare il peso del lavoro e della famiglia. Comprendiamo inoltre come, avvicinandoci alla metà del secolo, in particolare durante la seconda guerra mondiale, il modo di vedere la guerra da parte dei poeti è profondamente mutato, vista la distruzione globale provocata dei potenti mezzi bellici e il coinvolgimento dei civili e degli innocenti. Il dolore umano porta dunque ad una considerazione di ripensamento e di catarsi aprendosi ad una politica di pace che influenzerà successivamente anche la formazione dell’unione europea.

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Poesie Dal “MANIFESTO DEL FUTURISMO” 1.Noi cantiamo l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2.Il coraggio, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia”. Malgrado la non più giovane età, Marinetti (1876-1944) non rinuncia al fascino della guerra, partecipa come volontario alla guerra di Etiopia (1936) e a 66 anni alla spedizione dell’ARMIR in Russia. Parole in libertà e parole in guerra. Le parole in libertà sono una tecnica poetica espressiva nuova, in cui è distrutta la sintassi, abolita la punteggiatura e si ricorre anche ad artifici verbo-visivi. Bombardamento di Marinetti (da “Zang Tumb Tumb”, reportage della guerra bulgaro-turca redatto in parole in libertà) “Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare spazio con un accordo tam-tuuumb ammutinamento di 500 echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all’infinito/ nel centro di quei tam-tuuumb spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati) balzare scoppi tali pugni batterie tiro rapido Violenza ferocia regolarità questo basso grave scandere gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia Furia affanno/orecchie occhi/ narici aperti attenti/ forza che gioia vedere udire fiutare tutto tutto tara-tatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sotto morsi schiaffffi traak-traak frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie salti altezza 200 m della fucileria Giù giù in fondo all’orchestra/stagni diguazzare buoi buffali pungoli/ carri pluff plaff impennarsi 60


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di cavalli/ flic flac zing zing sciaaack ilari nitriti iiiiii scalpiccii tintinnii 3 battaglioni bulgari in marcia croooc-craac [LENTO DUE TEMPI] Sciumi Maritza o Karvavena croooc craaac grida degli ufficiali sbataccccchiare come piattttti d’otttttone pan di qua paack di là cing buuum cing ciack [PRESTO] ciaciaciaciaciaak su giù là là in-torno in alto attenzione sulla testa ciaack bello Vampe/ vampe vampe vampe ribalta dei forti dietro quel fumo Sciukri Pascià comunica telefonicamente con 27 forti in turco in tedesco allò Ibrahim Rudolf allô allô attori ruoli/echi suggeritori scenari di fumo/ foreste applausi odore di fieno fango sterco non sento più i miei piedi gelati ……………… I tempi erano maturi per la guerra: oltre le cause politiche ed economiche, il terreno era stato preparato, anzitutto nel mondo della cultura, dalle avanguardie letterarie, che si esprimevano attraverso le riviste dell’epoca. Esse avevano determinato un clima in cui, come scrisse Benedetto Croce, la guerra non era oggetto di deprecazione ma si rivestiva di attrazione poetica. Si vagheggiava una guerra come sospensione del perbenismo borghese.

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Il canto amebèo della Guerra da Maia, Laus Vitae di Gabriele d’Annunzio Maia, in cui è inserito Canto amèbeo della guerra, composto nel 1903, è l’esaltazione panica della natura. Il sottotitolo, Laus Vitae, ne chiarisce i motivi ispiratori: una celebrazione dell’energia vitale e un naturalismo pagano impreziosito dai riferimenti mitologici. Il tema principale è quello del superuomo , incarnato nel poeta stesso, profeta di un nuovo mito. In questa poesia vi sono immagini adatte a solleticare istinti repressi, conferendo loro un’area di spregiudicatezza ed eroismo, attraenti per le ultime generazioni, che avevano sofferto per la delusione del mancato adempimento delle promesse risorgimentali: l’Italia uscita dalle guerre di liberazione non era il paradiso di giustizia e di vita sognato nel Risorgimento. Ecco, ecco, siamo la via palpitante sotto il galoppo di ferro. Ma il cuore vi tocchi pianto di vergini, vagito di pargoli, ululo di madri! Ardete le case, abbattete le torri, struggete dall’imo la città, le ceneri ai venti date e i nostri corpi agli uccelli voraci, ma fate che il gregge misero lasci le mura e lungi nasconda il suo lutto! Le vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto. Sul marmo dei ginecei violati sbatteremo i pargoli vostri 62


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come cuccioli. Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno germi nelle piaghe fumanti.

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Guerra di Corrado Govoni Un eloquente messaggio di aggressività era ripetuto da Corrado Govoni, nella poesia Guerra pubblicata nel 1915. In questi versi la guerra non ha nessun fine patriottico. È l’espressione di uno stato d’animo di profonda insoddisfazione per la propria condizione sociale e morale, un momento atteso di allentamento dei vincoli imposti non solo e non tanto dalla legge ma piuttosto dal super-Io. Il fascino della guerra è astorico, decontestualizzato, espressione di pulsioni che sono state represse per permettere la costruzioni di un’identità sociale. La poesia viene citata come esempio eloquente del “crudelismo” che circolava sulle riviste e proponeva la sovversione dei vecchi valori dominanti. Non è l’amore della famiglia della giustizia della civiltà che ci spinge all’eccidio ed al massacro alla distruzione ma il nostro oscuro istinto di conquista e di rapina e di stupenda ribellione contro tutte le false leggi della società, stato, religione: menzogne, menzogne, maschere, maschere; perché solo la voracità l’insaziabilità sono le vere forze vive della creazione della vita. Saccheggia, stupra, ammazza, massacra, stupra, incendia, rovina, devasta, sconquassa,strazia! Puoi sfondare se ti aggrada 64


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una porta con una tua spallata, salir le scale coi tappeti senza pulirti dal fango le scarpe, scannare i servitori pieni di bottoni più dei soldati, impiccare il proprietario e prenderti la sua bella figlia e godertela a sazietà tutta ignuda sul suo letto, calda e tremante come l’uccellino che si tien prigioniero nella palma; dopo, se ciò ti fa piacere, la puoi sgozzare e gettare come uno straccio nel cortile che i suoi cani le lecchino il suo sangue blu. Puoi riempirti le tasche di gioielli e regalarli tutti per un bacio come un prodigo milionario alla prima fanciulla scalza che incontri per la via. Ricordati: puoi far quello che vuoi.

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Notte a bandoliera di Clemente Rèbora In modo simile il giovane Clemente Rèbora univa la sua voce a quella dei “crudelisti” entusiasti, con un testo aggressivo pubblicato su La Voce nel 1915. Alghe di tenebra Sull’umida terra In romba di piena; Scaglie di vetro Dal rapido cielo Che stelle nel vento Librato riassorbe; Gesto falcato di forme Uscite a capirsi nell’ombra; Fissa follia dell’aria …………. Fischi strisciati in domanda, Drappello che annusa Frusciando carponi In una raffica chiusa, Chiostra di denti a lame di luce, Intenti occhi a dorso di coltello… – È giunta la razza assassina! Son giunti i violenti e gli eroi Che svelan momenti Dell’impossibile eterno: I buoni di prima, E i buoni di poi.

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Voce di vedetta morta di Clemente Rebora (Grande Guerra /4) “Le poesie 1913-1957” Rebora era entrato in guerra da interventista ma per lui la guerra finì la vigilia di Natale del 1915, quando esplose vicino a lui un colpo di obice che lo lasciò vivo ma scioccato, costretto a guardare l’orrore dentro di sé. Cambiò anche la sua vita, sfociata nel sacerdozio. Catapultato negli orrori del Carso, aveva saputo rendere l’umanità superstite in tanta bestialità, come si vede in “Voce di vedetta morta”, una delle sue poesie più accorate e più crude. C’è un corpo in poltiglia con crespe di faccia, affiorante sul lezzo dell’aria sbranata. Frode la terra. Forsennato non piango: affar di chi può, e del fango. Però se ritorni, tu, uomo, di guerra a chi ignora non dire; non dire la cosa, ove l’uomo e la vita s’intendono ancora. Ma afferra la donna una notte, dopo un gorgo di baci, se tornare potrai; soffiale che nulla del mondo redimerà ciò che è perso di noi, i putrefatti di qui; stringile il cuore a strozzarla: e se t’ama, lo capirai nella vita più tardi, o giammai 67


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Viatico di Clemente Rebora da Canti anonimi, in Le poesie Un soldato ferito, ormai in fin di vita, ha richiamato a sé, con le sue disperate grida di dolore, tre compagni che, a loro volta, sono stati uccisi. A lui si rivolge il poeta con la preghiera di porre fine alla sua agonia, concedendo così a chi è ancora salvo, sebbene affranto dalla pietà, il dono del silenzio. Invocazione atroce e umanissima È disumana la guerra: ci spossessa della nostra umanità. Scrive Rebora in un’altra lettera, indirizzata a Lavinia Mazzucchetti il 3 dicembre 1915: “Cento mila Poe, con la mentalità però tra macellaio e routinier, condensati in una sola espressione, potrebbero dar vagamente l’idea dello stato d’animo di qui. Si vive e si muore come uno sputerebbe”. O ferito laggiù nel valloncello tanto invocasti se tre compagni interi cadder per te che quasi più non eri. Tra melma e sangue tronco senza gambe e il tuo lamento ancora, pietà di noi rimasti a rantolarci e non ha fine l’ora, affretta l’agonia, tu puoi finire, e conforto ti sia nella demenza che non sa impazzire, mentre sosta il momento il sonno sul cervello, lasciaci in silenzio Grazie, fratello. 68


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Dichiarazione di Piero Jahier Introduzione al memoriale - Con me e con gli alpini Piero Jahier appartiene al gruppo della Voce fondata nel 1908 a Firenze da Giuseppe Prezzolini. In lui permane lo schema ideologico della nazione proletaria. Si tratta di un punto di vista ben diverso da quello dei giovani intellettuali che si precipitavano in guerra cantando: la guerra, per il “popolo digiuno” di cui parla Jahier, è una fatalità incomprensibile, come i disastri della natura, e i suoi alpini non sono interessati né alla gloria bellica né a risolvere in qualche modo i nodi esistenziali che spingevano in guerra i loro coetanei delle classi colte. Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita ma io è per far compagnia a questo popolo digiuno – Che non sa perché va a morire – popolo che muore in guerra perché “mi vuole bene” “per me” nei suoi 60 uomini comandati siccome è il giorno che tocca morire. Altri morirà per le medaglie e per le ovazioni ma io per questo popolo illetterato che non prepara guerre perché di miseria ha campato la miseria che non fa guerre ma semmai rivoluzioni. Altri morirà per la sua vita Ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli perché sotto coperte non si conosce miseria popolo che accende il suo fuoco solo a mattina popolo che di osteria fa scuola 69


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popolo non guidato sublime materia. Altri morirà solo ma io sempre accompagnato: eccomi come davo alla ruota la mia spalla facchina e ora, invece, la vita. Sono ragazzi, se non si muore si riposerà all’ospedale. Ma se si dovesse morire basterà un giorno di sole e tutta Italia ricomincerà a cantare.

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Ninna nanna di Trilussa Nel 1914 Trilussa il poeta romano, poco più che trentenne, era all’apice della sua fama. Amato e apprezzato dal popolo, dalla borghesia e dall’aristocrazia della capitale, temuto dai politici, benvoluto dagli intellettuali. Moderno Esopo, la sua ironia, la sua popolaresca sincerità, corrispondevano agli umori profondi del senso comune romano e nazionale: alla sua vena moraleggiante e priva di audacie ideologiche attingevano a piene mani comici, intrattenitori, artisti di varietà da Ettore Petrolini a Nicola Maldacea. Insomma, Trilussa apprezzato cantore di un buon senso vernacolo lontano da ogni furore, faceva opinione. A lui si deve una poco nota ma durissima testimonianza contro la guerra. Ninna nanna, nanna ninna, er pupetto vò la zinna, dormi dormi, cocco bello, se no chiamo Farfarello, Farfarello e Gujermone che se mette a pecorone, Gujermone e Cecco Peppe che s’aregge co’ le zeppe… …co’ le zeppe de un impero mezzo giallo e mezzo nero; ninna nanna, pija sonno che se dormi nun vedrai tante infamie e tanti guai che succedono ner monno, fra le spade e li fucili de li popoli civili. Ninna nanna, tu nun senti li sospiri e li lamenti 71


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de la gente che se scanna per un matto che comanda, che se scanna e che s’ammazza a vantaggio de la razza o a vantaggio de una fede per un Dio che nun se vede … ma che serve da riparo ar sovrano macellaro; che quer covo d’assassini che c’insanguina la tera sa benone che la guera è un gran giro de quatrini che prepara le risorse pe’ li ladri de le Borse. Fa la ninna, cocco bello, finché dura ‘sto macello, fa la ninna, che domani rivedremo li sovrani che se scambiano la stima, boni amichi come prima; so’ cuggini, e fra parenti nun se fanno complimenti! Torneranno più cordiali li rapporti personali e, riuniti infra de loro, senza l’ombra de un rimorso ce faranno un ber discorso su la pace e sur lavoro pe’ quer popolo cojone risparmiato dar cannone Questo suo testo conobbe una larga diffusione che secondo alcuni storici sarebbe arrivata fino alle trincee, resa ancor più ampia e penetrante dalla partitura di un musicista rimasto anonimo. 72


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Trilussa tornava sullo stesso tema nel Natale1915 scrivendo: Fa’ in maniera Gesù bello di Trilussa …Fa’ in maniera Gesù bello, che una scheggia de mitraja spacchi er core a la canaja ch’ha voluto ‘sto macello! Fa’ ch’armeno l’impresario der teatro de la guera possa vede sotto tera la calata der sipario. Fai ch’appena liberato dalli barbari tiranni ogni popolo comanni ne’ la Patria dov’è nato.

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Milite Ignoto di Renzo Pezzani Renzo Pezzani (1898-1951) fu volontario in guerra a 17 anni, ma all’entusiasmo iniziale subentrò ben presto una valutazione critica del conflitto con molti dubbi e rimpianti. La sua produzione letteraria riguarda libri per bambini; anche quella che si riferisce al tema della grande guerra e volge l’attenzione alle tombe dei militi ignoti, è scritta per i testi della scuola elementare con lo scopo di educare i più piccoli. Fratello senza nome e senza volto da una verde trincea t’han dissepolto. Dormivi un sonno quieto di bambino. Un colpo aveva distrutto il tuo piastrino. Eri soltanto un fante della guerra muto perché t’imbavagliò la terra. Ora dormi in un’urna di granito sempre di lauro fresco rinverdito. E le madri che più non han veduto tornare il figlio come te caduto, né sanno dove l’abbiano sepolto, ti chiamano e rimangono in ascolto se mai la voce ti donasse Iddio per dire – O madre, il figlio tuo son io!-

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Ospedale da campo 026 di Ardengo Soffici Ardengo Soffici (1879-1964) è stato poeta, saggista e pittore. Si arruolò volontario come ufficiale allo scoppio della guerra, partecipò a diversi combattimenti sul Carso e ottenne una decorazione al valor militare per le ferite riportate due volte. Aveva un’alta opinione dei soldati e del loro spirito di sacrificio. La poesia fu scritta nel 1917 quando era ricoverato in ospedale a Cormons. Ozio dolce dell’ospedale ! Si dorme a settimane intere; il corpo che avevamo congedato non sa credere ancora a questa felicità: vivere. Le bianche pareti della camera son come parentesi quadre. Lo spirito vi si riposa fra l’ardente furore della battaglia d’ieri e l’enigma fiorito che domani ricomincerà. Sosta chiara, crogiuolo di sensi multipli, qui tutto converge in un’unità indicibile; misteriosamente sento fluire un tempo d’oro dove tutto è uguale: i boschi, le quote della vittoria, gli urli, il sole, il sangue dei morti, io stesso, il mondo e questi gialli limoni che guardo amorosamente risplendere sul mio nero comodino di ferro, vicino al guanciale.

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La guerra è dichiarata di Vladimir Vladimirovič Majakovskij La guerra è dichiarata, scritta nel 1914 dal poeta russo Vladimir Vladimirovič Majakovskij, cantore della rivoluzione d’ottobre e interprete della cultura russa post-rivoluzionaria. Fa parte della raccolta “Semplice come un muggito” del 1916. Per Majakovskij la guerra non è altro che sangue, distruzione e morte. Egli assiste all’euforia della gente e dei soldati che raggiungono la piazza pronti a combattere. A questo entusiasmo si contrappongono le immagini che esprimono la condanna del poeta russo, che già vede la piazza di Mosca percorsa da rigagnoli di sangue, dal cielo piovere lacrime di sangue e dal fronte nevicare brandelli di carne umana. La follia che ha invaso tutti è espressa con toni grotteschi dalle immagini delle statue di bronzo dei generali che supplicano addirittura di voler essere liberati per andare a combattere. La posizione del poeta è pacifista ed umanitaria. <<Edizione della sera! Della sera! Della sera! Italia! Germania! Austria>> E sulla piazza, lugubremente listata di nero, si effuse un rigagnolo di sangue purpureo! Un caffè infranse il proprio muso a sangue, imporporato da un grido ferino: <<Il veleno del sangue nei giuochi del Reno! I tuoni degli obici sul marmo di Roma!>> Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio, e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava: <<Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!>> I generali di bronzo sullo zoccolo a faccette 76


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supplicavano:<<Sferrateci, e noi andremo!>> Scalpitavano i baci della cavalleria che prendeva commiato, e i fanti desideravano la vittoria-assassina. Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno la voce di basso del cannone sghignazzante, mentre da occidente cadeva rossa neve in brandelli succosi di carne umana. La piazza si gonfiava, una compagnia dopo l’altra, sulla sua fronte stizzita si gonfiavano le vene. <<Aspettate, noi asciugheremo le sciabole sulla seta delle cocottes nei viali di Vienna!>> Gli strilloni si sgolavano: <<Edizioni della sera! Italia! Germania! Austria!>> E dalla notte, lugubremente listata di nero, scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.

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Veglia di Giuseppe Ungaretti Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Si tratta della prima poesia di Ungaretti appena arrivato al fronte. Un suo compagno nella trincea viene colpito e muore. Il poeta è costretto a restare per tutta la notte, in silenzio quasi religioso, vicino a quel corpo inanimato illuminato dalla luna piena quasi a contrastare il dolore per la morte e ad avvalorare l’attaccamento alla vita. Tra i poeti italiani spicca Giuseppe Ungaretti, che fa tesoro della rivoluzione futurista, ma la piega a nuove tematiche e a differenti finalità. La punteggiatura è abolita, la sintassi ridotta all’essenziale, il verso suddiviso in brevi unità composte di una sola parola, che proprio perché isolata riacquista forza e significato Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita

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Fratelli di Giuseppe Ungaretti Mariano 15 luglio 1916 La vita di trincea è dura, pone i soldati gli uni contro gli altri fino alla morte per la propria sopravvivenza nella consapevolezza della fragilità della vita. La parola fratelli campeggia isolata e riacquista pienezza di senso nello spirito della solidarietà. Il pensiero corre a Leopardi e all’accorato appello di solidarietà che lanciava a tutti gli uomini nella Ginestra. Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli

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Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916 L’aridità della pietra del Carso è paragonata alla durezza della guerra e la pioggia assorbita dal terreno non è altro che il pianto del poeta, senza lacrime come la sua anima prosciugata. Come questa pietra del S. Michele cosi’ fredda cosi’ dura cosi’ prosciugata cosi’ refrattaria cosi’ totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo

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San Martino del Carso di Giuseppe Ungaretti Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916 Alla fine della battaglia il poeta resta a guardare la desolazione delle case distrutte. Allora il suo pensiero va a tutti i compagni morti combattendo in trincea. Nessuno manca nel suo ricordo e nel suo cuore che è il paese più straziato. Di queste case non e’ rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non e’ rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca E’ il mio cuore il paese più straziato

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Solitudine di Giuseppe Ungaretti Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917 Pur essendo poesia nata in contesto di guerra, quella del primo Ungaretti ha in realtà per tema centrale la condizione dell’uomo, il suo vivere in questo mondo. L’esperienza in trincea è una situazione limite, che illumina e permette di capire l’intera vicenda umana minacciata dalla morte Ma le mie urla feriscono come fulmini la campana fioca del cielo Sprofondano impaurite.

Soldati di Giuseppe Ungaretti (1918) La fragilità della vita al fronte è raffigurata da questa metafora che illustra chiaramente, al di là della situazione al fronte il senso dell’esistenza umana. «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie»

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Girovago di Giuseppe Ungaretti Campo di Mailly maggio 1918 In nessuna parte di terra mi posso accasare A ogni nuovo clima che incontro mi trovo languente che una volta gia’ gli ero stato assuefatto E me ne stacco sempre straniero Nascendo tornato da epoche troppo vissute Godere un solo minuto di vita iniziale Cerco un paese innocente

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Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo da Acque e terre 1930 Ed è subito sera è un’antologia le cui sezioni Acque e terre; Oboe sommerso; Erato e Apòllion; Nuove poesie rispecchiano tappe che hanno lasciato segni rilevanti. In Acque e terre il poeta elimina i riferimenti a una realtà che non sia quella intima, di esperienze esistenziali uniche, di illuminazioni private irripetibili sostenute dal clima ermetico. Una volta eliminati i dati esterni, narrativi o descrittivi, emerge un linguaggio prodotto dall’immaginazione solitaria e che diventa autonomo: la lirica che ne deriva è meditata, e la sinteticità delle impressioni è determinata dalla ricerca di effetti e di precisione assoluta. Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed e’ subito sera.

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Auschwitz di Salvatore Quasimodo Auschwitz non è tra le pagine più note di Quasimodo. Quando scrive questa poesia sono trascorsi già alcuni anni dalla scoperta del campo di sterminio e il discorso del poeta appare più eloquente che emotivo. Il dolore, l’immenso dolore che si prova ricordando i sei milioni di ebrei passati per le camere a gas dei lager tedeschi, resta vivo e si spera rimanga anche un monito contro l’antisemitismo. Laggiu’, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola, amore, lungo la pianura nordica, in un campo di morte: fredda, funebre, la pioggia sulla ruggine dei pali e i grovigli di ferro dei recinti: e non albero o uccelli nell’aria grigia o su dal nostro pensiero, ma inerzia e dolore che la memoria lascia al suo silenzio senza ironia o ira. Tu non vuoi elegie, idilli: solo ragioni della nostra sorte, qui, tu, tenera ai contrasti della mente, incerta a una presenza chiara della vita. E la vita e’ qui, in ogni no che pare una certezza: qui udremo piangere l’angelo il mostro le nostre ore future battere l’al di la’, che e’ qui, in eterno e in movimento, non in un’immagine di sogni, di possibile pieta’. E qui le metamorfosi, qui i miti. Senza nome di simboli o d’un dio, 85


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sono cronaca, luoghi della terra, sono Auschwitz, amore. Come subito si muto’ in fumo d’ombra il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa! Da quell’inferno aperto da una scritta bianca: “Il lavoro vi rendera’ liberi” usci’ continuo il fumo di migliaia di donne spinte fuori all’alba dai canili contro il muro del tiro a segno o soffocate urlando misericordia all’acqua con la bocca di scheletro sotto le docce a gas. Le troverai tu, soldato, nella tua storia in forme di fiumi, d’animali, o sei tu pure cenere d’Auschwitz, medaglia di silenzio? Restano lunghe trecce chiuse in urne di vetro ancora strette da amuleti e ombre infinite di piccole scarpe e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie d’un tempo di saggezza, di sapienza dell’uomo che si fa misura d’armi, sono i miti, le nostre metamorfosi. Sulle distese dove amore e pianto marcirono e pieta’, sotto la pioggia, laggiu’, batteva un no dentro di noi, un no alla morte, morta ad Auschwitz, per non ripetere, da quella buca di cenere, la morte.

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Ai fratelli Cervi di Salvatore Quasimodo (alla loro ITALIA) ll 28 dicembre 1943, 70 anni fa, Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi venivano fucilati a Reggio Emilia dai fascisti, in risposta all’uccisione da parte dei partigiani del segretario comunale di Bagnolo in Piano Davide Onfiani. In tutta la terra ridono uomini vili, principi, poeti, che ripetono il mondo in sogni, saggi di malizia e ladri di sapienza. Anche nella mia patria ridono sulla pieta’, sul cuore paziente, la solitaria malinconia dei poveri. E la mia terra e’ bella d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure di pietra e di colore, d’antiche meditazioni. Gli stranieri vi battono con dita di mercanti il petto dei santi, le reliquie d’amore, bevono vino e incenso alla forte luna delle rive, su chitarre di re accordano canti di vulcani. Da anni e anni vi entrano in armi, scivolano dalle valli lungo le pianure con gli animali e i fiumi. Nella notte dolcissima Polifemo piange qui ancora il suo occhio spento dal navigante dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo e’ sempre ardente. Anche qui dividono in sogni la natura, vestono la morte e ridono i nemici familiari. Alcuni erano con me nel tempo dei versi d’amore e solitudine, nei confusi dolori di lente macine e di lacrime. Nel mio cuore fini’ la loro storia 87


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quando caddero gli alberi e le mura tra furie e lamenti fraterni nella citta’ lombarda. Ma io scrivo ancora parole d’amore, e anche questa e’ una lettera d’amore alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani dei campi. Avevano nel cuore pochi libri, morirono tirando dadi d’amore nel silenzio. Non sapevano soldati filosofi poeti di questo umanesimo di razza contadina. L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda. Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.

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Milano, Agosto 1943 di Salvatore Quasimodo La lirica è tratta dalla raccolta -Giorno dopo giorno- (1947). Il poeta esprime il proprio impegno etico civile, volto ad una partecipazione attiva delle vicende storiche, politiche e sociali del suo tempo. I versi della poesia traggono spunto dal bombardamento di Milano, avvenuto nell’agosto del 1943 che portò distruzione e morte. Dal testo emerge l’immagine della città ferita dalla violenza distruttiva del conflitto bellico. Milano assurge quindi a simbolo di ogni città che viene devastata dalla guerra. Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la citta’ e’ morta. E’ morta: s’e’ udito l’ultimo rombo sul cuore del Naviglio. E l’usignolo e’ caduto dall’antenna, alta sul convento, dove cantava prima del tramonto. Non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno piu’ sete. Non toccate i morti, cosi’ rossi, cosi’ gonfi: lasciateli nella terra delle loro case: la città è morta, è morta...

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Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo Scritta nel 1946 in apertura della raccolta Giorno dopo giorno, è un manifesto della svolta artistica di Quasimodo, che nel dopoguerra passa a una poesia calata nella storia. Alle fronde dei salici si riferisce infatti agli ultimi anni della seconda guerra mondiale, nel periodo della resistenza e dell’occupazione tedesca. La poesia fa riferimento al Salmo 137, in cui gli israeliti, deportati a Babilonia nel VI sec. a.C., si rifiutano di cantare perché lontani dalla patria. Oppresso dall’invasore, il popolo non può abbandonarsi alla gioia del canto. Da notare come l’io lirico diventi un “noi” (v. 1), per esprimere una dimensione corale, popolare e non soltanto privata. Il testo può essere letto anche come una riflessione sulla poesia: davanti alla catastrofe della guerra i poeti appendono le loro cetre e smettono di “cantare” perché impotenti davanti al dolore. E come potevano noi cantare Con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.

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Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo (da Acque e terre 1947) È la constatazione della crudeltà dell’uomo che a distanza di tanti secoli è rimasto uguale a se stesso: primitivo, istintivo, spietato, al pari di quando per uccidere si serviva di strumenti approssimativi. Il progresso della civiltà non è servito a farne un uomo migliore e oggi si costruiscono armi sempre più intelligenti, destinate alla distruzioni di interi popoli. Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, – t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace, e’ giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore

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Poesie di guerra e di pace

La guerra che verrà di Bertolt Brecht Bertolt Brecht, principale drammaturgo tedesco del Novecento, nel 1933 dovette emigrare in America e solo dopo la guerra poté tornare. Qui il poeta si riferisce al secondo conflitto mondiale e mette in evidenza che la violenza della guerra colpisce in egual misura i vincitori e i vinti, ma sono soprattutto le masse dei poveri a subirne le peggiori conseguenze. La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.

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La guerra di Jacques Prévert Vous déboisez imbéciles vous déboisez Tous les jeunes arbres avec la vieille hache vous les enlevez Vous déboisez imbéciles vous déboisez Et les vieux arbres avec leurs vieilles racines leurs vieux dentiers vous les gardez Et vous accrochez une pancarte Arbres du bien et du mal Arbres de la Victoire Arbres de la Liberté Et la forêt déserte pue le vieux bois crevé et les oiseaux s’en vont et vous restez à chanter Vous restez là imbéciles à chanter et à défiler.

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Voi disboscate imbecilli voi disboscate Tutti i giovani alberi con la vecchia ascia voi li strappate Voi disboscate imbecilli voi disboscate. E i vecchi alberi con le loro vecchie radici le loro vecchie dentiere voi li serbate E attaccate un cartello Alberi del bene e del male Alberi della Vittoria Alberi della Libertà E la foresta deserta appesta il vecchio bosco crepato e gli uccelli se ne vanno e voi restate là a cantare Voi restate là imbecilli a cantare e a sfilare.


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Il sogno del prigioniero di Eugenio Montale da Conclusioni provvisorie - La bufera e altro (1956) E’ un’ allegoria, ricca di riferimenti danteschi, alla realtà della guerra fredda, ai crimini delle dittature totalitarie nel corso del Novecento, cui si oppongono, come strenua difesa, i valori umani dell’amore e della poesia. La critica ha infatti riconosciuto nel “prigioniero” montaliano un recluso dei campi di sterminio nazisti, o dei gulag staliniani, di cui in quegli anni si scopriva l’orrore. Più verosimilmente il protagonista del componimento è invece il poeta stesso - o meglio, un intellettuale cui, di fronte alla realtà oppressiva del mondo, resta aperta solo la via del sogno. La condizione di prigionia e di oppressione si riferisce quindi a tutta l’umanità, che vive intrappolata tra le trame della società moderna. Albe e notti qui variano per pochi segni Lo zigzag degli storni sui battifredi nei giorni di battaglia, mie sole ali, un filo d’aria polare, l’occhio del capoguardia dello spioncino, crac di noci schiacciate, un oleoso sfrigolio dalle cave, girarrosti veri o supposti - ma la paglia è oro, la lanterna vinosa è focolare se dormendo mi credo ai tuoi piedi. La purga dura da sempre, senza un perché. Dicono che chi abiura e sottoscrive può salvarsi da questo sterminio d’oche; che chi obiurga se stesso, ma tradisce e vende carne d’altri, afferra il mestolo 94


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anzi che terminare nel pâté destinato agl’Iddii pestilenziali. Tardo di mente, piagato dal pungente giaciglio mi sono fuso col volo della tarma che la mia suola sfarina sull’impiantito, coi kimoni cangianti delle luci sciorinate all’aurora dai torrioni, ho annusato nel vento il bruciaticcio dei buccellati dai forni, mi son guardato attorno, ho suscitato iridi su orizzonti di ragnateli e petali sui tralicci delle inferriate, mi sono alzato, sono ricaduto nel fondo dove il secolo è il minuto e i colpi si ripetono ed i passi, e ancora ignoro se sarò al festino farcitore o farcito. L’attesa è lunga, il mio sogno di te non è finito.

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CANTI Di qua, di là del Piave di anonimo Compositore anonimo. La struttura della canzone è semplice e il tema è caro agli Alpini tanto è vero che sono note molte varianti, in una delle quali l’osteria è di là dal Ponte (di Bassano) e non dal Piave Di qua, di là del Piave ci sta un’osterìa, là c’è da bere e da mangiare e un buon letto da riposar. E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, Lui disse: «Ohi bella, se vuoi venire, questa è l’ora di far l’amor». «Mi sì che vegneria per una volta sola, però ti prego lasciarmi sola, chè son figlia da maritar». «Se sei da maritare dovevi dirlo prima: or che stata coi veci Alpini, non sei figlia da maritar»

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Quel mazzolin di fiori Il canto popolare italiano di anonimo (1904), parzialmente in lombardo e in italiano, è composto da sei quartine. Il canto risale a prima della grande guerra ed era diffuso nell’Italia settentrionale. Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna e bada ben che non si bagna che lo devo regalar Lo voglio regalare perché è un bel mazzetto lo voglio dare al mio moretto questa sera quando vien. Stasera quando viene sarà una brutta sera e perché lui sabato sera non è venuto a me. Non è venuto a me è andato da Rosina e perché io son poverina mi fa pianger e sospirar. Mi fa pianger e sospirare sul letto dei lamenti cosa mai dirà la gente cosa mai dirà di me. Dirà che son tradita tradita nell’amore e a me mi piange il cuore mi fa pianger e sospirar. 97


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La penna nera Vecchio canto alpino divenuto popolare su un tema caro agli Alpini, il cappello con la piuma, che risale al 1873 per distinguerlo da quello delle truppe francesi. Sul cappello, sul cappello che noi portiamo c’è una lunga, c’è una lunga penna nera, che a noi serve, che a noi serve di bandiera su pei monti, su pei monti a guerreggiar. Oilalà! Evviva evviva il Reggimento Evviva evviva il Sesto degli Alpin Su pei monti, su pei monti che noi saremo, coglieremo, coglieremo stelle alpine, per donarle, per donarle alle bambine farle piangere, farle piangere e sospirar Oilalà! …….. Su pei monti, su pei monti che noi saremo, pianteremo, pianteremo l’accampamento, brinderemo, brinderemo al reggimento, viva il Corpo, viva il Corpo degli alpin! Oilalà! …… Farle piangere, farle piangere e sospirare nel pensare, nel pensare ai begli alpini che tra i ghiacci, che tra i ghiacci e gli scalini van sui monti, van sui monti a guerreggiar. Oilalà! ……

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Sul ponte di Bassano La canzone dedicata al Ponte di Bassano o ponte degli Alpini per essere Bassano un punto nodale sul fronte di guerra, conosce diverse varianti, tra cui questa è la più nota. Sul ponte di Bassano noi ci darem la mano noi ci darem la mano ed un bacin d’amor Per un bacin d’amor successer tanti guai Non lo credevo mai Doverti abbandonar Doverti abbandonare volerti tanto bene E’ un giro di catene che m’incatena il cuor Che m’incatena il cuore sara’ la mia morosa a Maggio la va sposa e mi vo fa el solda’ E mi faro’ soldato nel mio reggimento Non partiro’ contento se non t’avro’ sposa’

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La leggenda de Piave di E.A.Mario La leggenda de Piave di E.A.Mario (nome d’arte di Giovanni Gaeta) fu eseguita a Napoli per la prima volta il 29 agosto 1918. Nato come canto corale, ispirato alla sconfitta di Caporetto, si trasformò in melodia per voce sola ed ebbe un successo strepitoso. L’ultima strofa, che immagina il ritorno in vita degli eroi Oberdan, Sauro e Battisti fu aggiunta dopo la guerra. Il Piave mormorava, calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio; l’esercito marciava per raggiunger la frontiera per far contro il nemico una barriera... Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava, e andare avanti! S’udiva intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve il tripudiar dell’onde. Era un presagio dolce e lusinghiero, il Piave mormorò: «Non passa lo straniero!» Ma in una notte trista si parlò di un fosco evento, e il Piave udiva l’ira e lo sgomento... Ahi, quanta gente ha vista venir giù, lasciare il tetto, poi che il nemico irruppe a Caporetto! Profughi ovunque! Dai lontani monti Venivan a gremir tutti i suoi ponti! S’udiva allor, dalle violate sponde, sommesso e triste il mormorio de l’onde: come un singhiozzo, in quell’autunno nero, il Piave mormorò: «Ritorna lo straniero!» E ritornò il nemico; per l’orgoglio e per la fame 100


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volea sfogare tutte le sue brame... Vedeva il piano aprico, di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora... «No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti, «Mai più il nemico faccia un passo avanti!» Si vide il Piave rigonfiar le sponde, e come i fanti combatteron l’onde. Rosso di sangue del nemico altero, il Piave comandò: «Indietro va’, straniero!» Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento... E la vittoria sciolse le ali al vento! Fu sacro il patto antico: tra le schiere, furon visti Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti... Infranse, alfin, l’italico valore le forche e l’armi dell’Impiccatore! Sicure l’Alpi... Libere le sponde... E tacque il Piave: si placaron l’onde... Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi, la Pace non trovò né oppressi, né stranieri.

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La canzone del Grappa Il testo della canzone è del gen. Emilio del Bono, la musica del cap. Antonio Meneghetti. La Canzone del Grappa fu eseguita per la prima volta in pubblico il 24 agosto da 100 musicanti della Banda parrocchiale di Rosà e 300 soldati coristi, alla presenza del Re d’Italia Vittorio Emanuele III, del Duca di Aosta Emanuele Filiberto di Savoia e di numerosi generali. Il successo della Canzone fu assicurato. Il Monte Grappa aveva costituito un elemento di difesa per gli Alpini nella sconfitta di Caporetto dove ci furono molti atti di eroismo tanto che in quella sola battaglia furono date oltre seicentoquaranta medaglie. Monte Grappa tu sei la mia Patria, sovra a te il nostro sole risplende, a te mira chi spera ed attende i fratelli che a guardia vi stan Contro a te già s’infranse il nemico Che all’Italia tendeva lo sguardo, non passa un cotal baluardo affidato ad italici cuor. Monte Grappa tu sei la mia Patria, sei la stella che addita il cammino, sei la gloria, il volere, il destino, che all’Italia ci fa ritornar! Le tue cime fur sempre vietate Per il pié dell’odiato straniero. Dai tuoi fianchi egli ignora il sentiero Che pugnando più volte tentò. 102


Poesie di guerra e di pace

Qual candida neve che al vento Ti ricopre di splendido ammanto Tu sei puro ed invitto col vanto Che il nemico non lasci passar. Monte Grappa tu sei la mia Patria… O montagna per noi tu sei sacra, giù di lì scenderanno le schiere che irrompenti a spiegate bandiere l’invasore dovranno scacciar. Ed i giorni del nostro servaggio Che scontammo mordendo nel freno In un forte avvenire sereno Noi ben presto vedremmo mutar. Monte Grappa tu sei la mia patria….

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Ta pum di Nino Piccinelli Canto Alpino della I guerra mondiale [1916] attribuito a Nino Piccinelli. Tapum è una delle più note canzoni della Grande guerra. Il ritornello è ispirato al rumore degli spari della fucileria austro-ungarica. Il titolo della canzone originale era senza il trattino; quindi: ta pum A quel tempo tra gli uomini di bassa cultura i segni di punteggiatura non erano insegnati e quindi poco frequenti. Ho lasciato la mamma mia, l’ho lasciata per fare il soldà ta pum! ta pum! ta pum! ta pum! ta pum! ta pum! Venti giorni sull’Ortigara senza il cambio per dismontà. ta pum! …………….. E domani si va all’assalto, soldatino non farti ammazzar. ta pum! …………. Quando poi si discende a valle battaglione non hai più soldà. ta pum………….! Nella valle c’è un cimitero, cimitero di noi soldà. ta pum! ………………..

cimitero di noi soldà forse un giorno ti vengo a trovà. ta pum! ………… Battaglione di tutti morti Noi giuriam l’Italia salvar. ta pum!.....

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