2 di volontà unica e fenomenale, che può essere d'aiuto a molte persone, che non hanno il coraggio di reagire alle botte della vita. Quando si tocca il fondo, si pensa che ormai sia finita, ma non è cosi' e io sono la dimostrazione di questo. Niente è impossibile nella vita, basta credere e lottare per ciò che si vuole, superando gli ostacoli che si trovano davanti, senza perdere mai di vista, l'obbiettivo da raggiungere. O si accetta la sofferenza e il dolore in nome di qualcosa di più grande,
Quaderni del Volontariato 2015
Questa è la storia di Barbara, una ragazza semplice, ma dotata di una forza
! ! a t t a f o h ’ l Io ce
oppure è solo disperazione, angoscia e rabbia. Vorrei veramente che queste pagine fossero lette da chi ha perso la speranza. romanzo, ma penso che la mia storia possa toccare molti cuori. Quando il destino decide per te, non ti resta che accettare.
io ce l’ho fatta!!!
Non sono una scrittrice e neanche lo voglio diventare, quindi non sarà un
Barbara Gentile e Luca Bisdomini
sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni
CESVOL EDITORE
Quaderni del volontariato 2015
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Quaderni del volontariato 2
Edizione 2015
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net
Edizione Ottobre 2015 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Copertina di Valentina Scattini Stampa Digital Editor - Umbertide
tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata
ISBN 9788896649428
Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Se poi i contenuti parlano di impegno, di cittadinanza attiva, di solidarietà, allora il piatto si fa più ricco. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i nostri cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio
Io ce l’ho fatta!
di Barbara Gentile e Luca Bisdomini
Io ce l’ho fatta
DISCESA AGLI INFERI… Sono Barbara, ho 27 anni ed eccomi... sto aprendo gli occhi. Sento dei bip, sono continui, fastidiosi, il loro azionarsi così cadenzato mi innervosisce. La stanza è buia, ma questa... questa non può essere la camera dell’ appartamento dove vivo con mia sorella. Dove sono e cosa mi è successo? Mi accorgo di essere in un letto e sono completamente nuda, coperta solo da un lenzuolo, ma è strano: io non dormo mai nature e poi è inverno e in questo periodo io indosso sempre un pigiama per riposare. Ma c’ è altro che mi inquieta e mi fa riflettere: sono tutta incerottata e ho dei tubi che interagiscono con il mio corpo. Odo un rumore molto fastidioso, mi assilla, è strano, assordante, è quello del silenzio; è la prima volta che lo sento e non lo auguro a nessuno. Non riesco proprio a realizzare dove io sia e cosa mi sia accaduto. Ridatemi la mia stanza con i miei amati pupazzi e con la grande scrivania sulla quale ho trascorso molte ore per studiare e diventare una consulente del lavoro! Odo un rumore... dei passi? Sì sono proprio dei passi. Qualcuno sta arrivando, finalmente mi spiegherà, mi fare capire il perché io mi trovi in questo posto a me sconosciuto. Accende una luce, molto fioca a dire il vero, riesco ugualmente a vedere quella persona: è una donna con i capelli lunghi e rossicci, è vestita tutta di bianco e sul taschino e sulle maniche della giacca ha una striscia orizzontale verde. Tutto mi appare assurdo, sicuramente sono stata imbottita di sedativi e i miei sensi percepiscono veramente poco. Mi si avvicina, il suo volto mi appare non ben definito, comunque realizzo che è molto tenero e rassicurante, ma mi è 7
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chiaro che quella donna io non la conosco. Vorrei parlarle ma le parole mi rimangono in testa, non riesco ad emettere alcun suono. E’ lei che si rivolge a me, si chiama Melissa, è un’infermiera, cerca subito di tranquillizzarmi, capisce che io mi sento smarrita e mi spiega che mi trovo nel reparto di rianimazione dell’ ospedale. Mi dice che è il 5 marzo e che ho subito un intervento chirurgico molto importante alla testa della durata di 10 ore in seguito ad un aneurisma e che solo ora mi sto risvegliando dal coma farmacologico. Mi tocco il capo: i miei capelli? Che fine hanno fatto? Non sono completamente calva, ho come dei piccoli aghetti che mi spuntano fuori e comincio a ricordare. Era una normalissima mattina del 27 Febbraio 2003 e all’ epoca vivevo in un grande appartamento al terzo piano insieme a mia sorella Laura e a suo figlio Marco dell’ età di 2 anni. Come sempre mi svegliavo presto per andare al lavoro: le fatture, le deleghe di pagamento, le scadenze mi stavano attendendo; il suono della sveglia mi portò a dare un calcio alle coperte per correre in cucina a prendere frettolosamente un caffè. Mentre mi stavo vestendo, sempre molto elegante per mantenere la reputazione che mi ero faticosamente costruita, mi colpì un fortissimo mal di testa e io ingenuamente decisi che bastava un analgesico e tutto sarebbe passato, così corsi in cucina e sciolsi una bustina di Aulin in acqua. Quando mia sorella mi vide, si accorse che c’ era qualcosa in me che non andava: la bocca mi si stava storcendo; non poteva essere una semplice emicrania; la testa iniziò a girarmi vorticosamente, il dolore divenne lancinante e cominciarono anche i conati di vomito. Mia sorella, resasi conto della gravità della situazione, chiamò 8
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immediatamente l’ ambulanza che prontamente arrivò, ma in quei momenti i minuti che trascorrevano mi sembravano un’ eternità. Avrei voluto chiedere aiuto, ma non riuscivo a pronunciare alcun suono, non capivo cosa mi stesse succedendo, non ero più padrona del mio corpo e soprattutto della mia mente, tutta la stanza si muoveva e io non riuscivo a fermarla. Perché mi stava succedendo tutto questo? Ho avuto veramente paura di morire o forse era quello che desideravo per porre fine a quelle insopportabili sofferenze. Entrarono in casa due sconosciuti vestiti di arancione, mi puntarono negli occhi un piccolo congegno luminoso alquanto fastidioso: i flash si alternavano alle parole che loro pronunciavano e delle quali non capivo il senso. Non ricordo altro fino al risveglio. Melissa mi spiega che non può trattenersi oltre con me perché sono in rianimazione e devo riposare, solo il personale medico e infermieristico può venire qui in questo reparto che sembra la sala d’ aspetto per il treno che ti conduce a miglior vita. Le uniche persone pertanto con cui riesco ad interagire sono, oltre Melissa, Luca l’ infermiere che si alterna con lei nell’ assistenza dei pazienti della rianimazione e il professore B., il chirurgo che mi ha operato. Le visite delle persone care posso riceverle solo per due ore al giorno dalle 12 alle 13 e dalle 18 alle 19, ma i miei cari possono solo vedermi attraverso una finestra della camera; non posso sentirli e io non posso parlar loro e se anche volessi avere un dialogo mi sarebbe impossibile affrontarlo perché riesco ad emettere solo suoni incomprensibili. Ricevo però una quanto mai inaspettata e gradita sorpresa: il mio compagno Maurizio può venire nella mia camera al momento dei pasti per aiutarmi a mangiare quell’ insipida minestrina in bianco e l’immancabile mela cotta. 9
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Mi pare così strano vederlo vestito tutto di verde con quella buffa cuffietta in testa e gli zoccoli ai piedi. Quello che riesco a ingurgitare è davvero poco per non dire nulla, ciò che si sazia è invece la mia vista in quanto con gli occhi divoro tutto avidamente, ma sicuramente non è questo che mi preoccupa perché so di essere comunque alimentata. Le giornate non passano mai: il silenzioso rumore dell’ ospedale, intaccato solamente dai suoni dei macchinari mi fa capire che da qui in avanti avrò ha che fare con un nemico che non avrei mai immaginato, almeno per ora, di incontrare: la solitudine. Proprio io che ero sempre in movimento tra lavoro, piscina, affetti familiari, uscite con amici e con il mio uomo, ora sono costretta a stare incollata a quel letto nel peggiore dei reparti ospedalieri. D’ altronde in questo momento non posso fare altro che stare calma e tranquilla se voglio continuare a vivere. Devo fare i conti con la realtà ed accettare quello che è successo, ma non è facile, non è affatto facile e la cosa che mi chiedo insistentemente è quella più ovvia: perché è successo proprio a me? Passando le ore in solitudine, inizio a riflettere e comincio a guardarmi dentro, prima le mie giornate erano così impegnate che era impossibile farlo. Ora mi sento cambiata: seppur martoriato dalla malattia e dalle cure il corpo è sempre lo stesso, ma realizzo che la Barbara di prima non c’ è più, sto vedendo tutto quello che mi sta intorno con occhi diversi: esce prepotentemente fuori quell’ anima forte e grande dal cantuccio nel quale, inconsciamente, l’ avevo relegata. Il silenzio, la solitudine e la ricerca dell’ anima sono come dei fattori che si intersecano tra loro dando vita ad una strana forma di simbiosi pertanto, affermata la presenza dei primi 10
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due, il terzo viene di conseguenza. Trovare e coltivare la propria anima non è però un’ azione semplice e indolore: ti rendi conto che tutto quello che faticosamente hai costruito nella tua vita è stato fatto pensando ai propri bisogni materiali. Cosa conta una brillante carriera o un’ appagante vita mondana di fronte alla situazione che ora mi si prospetta e che non so nemmeno quale essa sia?
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IL PARADISO PERDUTO “… E vissero felici e contenti”. Questa è la frase con cui idealmente si conclude ogni favola che si possa definire tale, ma io non ci credo, come non ritengo possa esistere il paradiso sulla terra. Eppure, fino a quel maledetto giorno, la mia vita era stata colma di soddisfazioni, ero fiera di me, di quello che avevo fatto e degli appaganti risultati ottenuti; non era tutto rose e fiori, ma il mio angolo di paradiso ero riuscita a ritagliarmelo. Il lavoro era per me il maggior motivo di orgoglio: ero socia al 40% di uno studio di consulenza di lavoro. Tutto cominciò due anni prima, allorché dopo il diploma in ragioneria, decisi di affrontare l’ esame per iscrivermi all’ albo dei Consulenti del Lavoro. Avevo sicuramente timore ad affrontarlo, ero infatti convinta di non superarlo, ma ero decisa e determinata, tutto ciò voleva dire dare una svolta significativa alla mia vita. Quando mi presentai per le prove scritte non ero assolutamente tranquilla, e il mio nervosismo aumentò nel momento in cui osservai le facce dei membri della commissione: erano tutt’ altro che rassicuranti, sembravano belve che aspettavano pazientemente le prede per poi sbranarle. Mi sedetti accanto ad una ragazza che era la nona volta che si presentava; tra me e me pensai: farò anch’ io come lei? Munita di calcolatrice e codice civile, dopo aver consegnato il cellulare, cominciai le due prove; la prima riguardava l’ IRPEF, la seconda i conti correnti bancari. Delle sei ore a disposizione io ne utilizzai solo quattro, fu la mia solita fretta a consentirmi di consegnare con notevole anticipo, anche se subito dopo pensai che forse avrei potuto sfruttare meglio il tempo a disposizione, e mi sono detta: “Ho scritto tutto quello che sapevo, ormai però è fatta!” 12
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Nei giorni seguenti curiosavo sempre nella posta alla ricerca di quella lettera contenente l’ esito delle prove; ed ecco che precisamente dopo una settimana comparve una busta di colore giallognolo: non poteva non essere ciò che stavo aspettando. La presi immediatamente, ma non trovavo il coraggio di aprirla perché avevo paura dell’ esito negativo, così salii in casa, andai in camera da letto, chiusi la porta a chiave; ora, isolata dal resto mondo, non avevo altra scelta se non quella di affrontare la realtà. Era fatta! Entrambe le prove erano state superata col punteggio di 7/10 ed ero invitata a presentarmi per sostenere l’ esame orale. Sinceramente rimasi anche stupita, però in quell’ istante fu l’ entusiasmo a prendere il sopravvento, anche se dovevo rimanere coi piedi per terra e concentrarmi per la prova successiva, per non compromettere tutto ciò che di buono ero riuscita a costruire. Sei esaminatori erano là pronti ad attendermi il giorno dell’ orale, tre uomini e tre donne, queste ultime non promettevano nullo di buono. Dopo avermi fatto sedere, mi fecero estrarre un numero da una borsetta di velluto rosso, proprio come si fa per la tombola, poiché ad ognuno di essi corrispondeva un domanda; a me capitò l’ otto che riguardava l’ INPS. Fui molto convincente nella mia esposizione, infatti anche loro si dimostrarono piuttosto soddisfatti del modo in cui avevo trattato l’ argomento tanto che mi fecero smettere di parlare per rivolgermi una ulteriore domanda: “Signorina dica, chi è il Presidente della Repubblica Italiana?” Ma ad una prova così tosta vengono chieste cose così facili? Io con estrema naturalezza risposi “Clinton!” senza rendermi minimamente conto dell’ enorme gaffe commessa; ero 13
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talmente convinta di essere nel giusto che, malgrado l’ ilarità generale, sembravano loro gli ignoranti. La commissione però non dette troppo peso al mio clamoroso errore e mi rilasciò un attestato, su carta pergamenata, che recita: ”Si attesta che Gentile Barbara, nata ad Umbertide (Pg) il 24/01/1976, è iscritta al numero 467 nell’albo di questo consiglio dal 03 Aprile 2001. E quindi, può esercitare legalmente la libera professione di Consulente del Lavoro”. Fatta l’ Italia, bisogna fare gli italiani; e così dopo aver conseguito l’ abilitazione alla professione, occorreva svolgerla. Così mi recai ben presto all’ edicola per acquistare il giornale locale che si occupa di inserzioni; un annuncio in cui cercavano un ragioniere part-time colpì la mia attenzione, telefonai immediatamente e concordai un appuntamento col sig. Benito, il titolare dello studio. Quel posto doveva essere mio ad ogni costo e tanto per cominciare studiai il look adatto per poter impressionare favorevolmente il mio interlocutore: il tailleur rosa, acquistato per il matrimonio di una mia amica, fu l’ abito sul quale puntai, abbinato ad una camicetta dello stesso colore con righe avana, e per rendere il tutto più sofisticato, aggiunsi una cintura con pailletes bianche. Non potevo certo presentarmi in ritardo al colloquio, così ansiosa e trepidante, partii per tempo, tanto che arrivai con mezz’ ora di anticipo. Mi accolse un uomo di media statura, castano, occhi marroni e naso abbastanza pronunciato, il sig. Benito per l’ appunto che mi fece accomodare nel suo studio. Dopo le presentazioni di rito, dovevo sciogliere il ghiaccio e gli chiesi di darmi del tu, lui acconsentì ma volle che altrettanto facessi io nei suoi confronti; quindi testò la mia conoscenza riguardo la contabilità. A parole, dimostrai una certa competenza e padronanza della 14
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materia, ma non era affatto vero. Quel lavoro io lo volevo con tutte le mie forze che valeva la pena raccontare delle bugie, le mie lacune poi le avrei colmate in qualche modo, ora era importante ottenere quel posto. E così fu. Il rapporto instaurato con Benito si basava sulla stima e sulla fiducia reciproca, ben presto infatti mi fornì una copia delle chiavi dello studio in modo da poter gestire il lavoro in maniera autonoma, anche perché io arrivavo sempre in anticipo, avendo anche preso una certa confidenza con gli inquilini dello stabile con cui mi intrattenevo a scambiare qualche chiacchiera, specie con la Sig.ra Battisti che tutte le mattine mi offriva il caffè. Aprendo i libri contabili però, mi resi conto che non capivo nemmeno come leggerli, quindi tanto meno compilarli; ero cosciente dei miei limiti e quindi della mia ignoranza in materia, ma realizzai anche che un conto è la teoria che conoscevo abbastanza, un altro la pratica di cui ero a zero. Lo feci presente a Benito, il quale si dimostrò immediatamente comprensivo nei miei confronti, e munito di santa pazienza, mi insegnò il mestiere che non tardai ad apprendere. L’ insicura ed inesperta ragazza non esisteva più, aveva lasciato spazio ad una professionista seria e qualificata; anni luce separavano queste due figure, ma tutto invece avvenne molto rapidamente. Ormai mi ero guadagnata la fiducia di alcuni clienti che mi elessero a consulente personale, questo fece in modo che ricevessi una proposta inaspettata. Una mattina infatti Benito mi convocò nel suo ufficio e mi disse: “Senti che ne diresti di diventare socia al 40%?” Come mai non al 50% viene da chiedersi? Perché il locale era però sua proprietà e avrebbe comunque 15
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continuato a sostenere anche le spese, sulle quali, va detto, stava piuttosto attento, e anche se d’ inverno, per non patire il freddo lavoravo col cappotto addosso, cosa potevo pretendere di più? Nulla, quindi accettai con entusiasmo. Preparazione e competenza sono la condizioni necessarie per svolgere il proprio lavoro, ma per ottimizzarlo il rimedio migliore è l’ organizzazione, io seguii questa strada fino a raggiungere un risultato insperato: riuscivo a finire tutto in mattinata. …E il pomeriggio? Sicuramente non era da me trascorrerlo con le mani in mano, quindi decisi di prendere il brevetto come istruttrice di nuoto. L’ acqua, come i numeri, ha da sempre costituito una mia grande passione, quindi dato che il tempo disponibile non mi mancava, perché non sfruttarlo in tal senso? Il nuoto l’ avevo praticato sin da piccola e l’ ho sempre amato, perciò le lezioni, teoriche e pratiche, non le trovavo impegnative, piuttosto le consideravo divertenti, andavo solo due volte alla settimana, e non dovendo chiedere alcun permesso, ero sicuramente privilegiata sotto questo aspetto. Il professore col quale sostenni gli esami altri non era che l’ insegnante di quando praticavo agonismo, quindi, avvantaggiata anche sotto questo profilo, non fu difficile ottenere il brevetto. Cominciai così l’ insegnamento a grandi e piccini, questi ultimi li ho sempre preferiti in quanto desiderosi di apprendere e sempre disposti ad ascoltare ciò che viene detto loro, gli adulti invece, se va bene fanno finta di starti a sentire ma poi fanno quello che vogliono, nella maggior parte dei casi però pensano di essere già in grado di fare tutto. Una volta terminato il corso, liberatami della mia tuta rosa da istruttrice, tuffo in piscina con l’ immancabile costume olimpionico, anch’ esso rosa, per le mie trenta vasche quotidiane. 16
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A contatto con l’ acqua provo delle sensazioni indescrivibili, mi sembra il mio habitat naturale, non sento affatto la fatica, è come immergersi in mondo a parte da cui ero compresa e stimata senza dovergli alcuna spiegazione. Preferisco lo stile libero agli altri, però può essere rana invece che dorso, ma quello che conta è stare in acqua. E’ chiaro che di tempo libero non me ne rimaneva assai, ma sapevo come impegnarlo. Dal parrucchiere andavo una volta a settimana, dall’ estetista una volta al mese, a fare shopping ogni sabato. L’ armadio a sei ante non era più in grado di contenere il mio guardaroba, ma io imperterrita continuavo a comperare in quanto davo molta importanza all’ apparire. Le uscite con le amiche erano l’ occasione adatta per sfoggiare la minigonna ascellare o i tacchi vertiginosi, adoravo sentirmi dire frasi come “… ma quant’ è bello! Dove l’ hai preso?” E poi bisognava fare colpo sui maschi; l’ argomento uomini era sempre al centro delle attenzioni dei discorsi tra me e le amiche, davanti allo specchio le chiacchiere prendevano il sopravvento non permettendoci di finire in tempo. Regolarmente iscritte alle liste per entrare gratuitamente in discoteca, inesorabilmente arrivavamo tardi, così non ci restava altro da fare che “corrompere” un buttafuori; dato che a me la faccia tosta non è mai mancata io provavo sempre e nella maggior parte sono riuscita nell’ intento. Scatenata in pista o in giro per il locale, spesso accompagnata da un drink, precocemente scoccava l’ ora che decretava la fine della serata. Ho sempre pensato a come avrebbero reagito i miei clienti se mi avessero visto in queste mie uscite; forse non avrebbero più affidato a me la propria contabilità, ma mi sono anche detta che loro sono persone serie e che non era quella l’ occasione per poterli incontrare. 17
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Alcune volte esagerai con l’ alcool, anche quando ero io a dover portare l’ automobile, in un’ occasione fui riaccompagnata a casa dalle amiche e trascorsi il giorno successivo a letto col mal di testa. All’ epoca avevo già sfasciato un’ auto, un’ Opel Tigra blu guidando a velocità piuttosto elevata su strada ghiacciata, finii addosso ad un muro; mi era già andata bene però perché me la cavai con taglietto sulla fronte e una stecca all’ indice della mano destra. Solo ora mi rendo conto dei pericoli che correvo in quelle situazioni e di quanto incosciente e irresponsabile io sia stata, ma almeno quella volta capii che non era il caso di mettere a repentaglio la vita di qualcuno, né quella di ritrovarsi di nuovo ad affrontare una spesa importante come quella dell’ auto. Con le mie amiche andavo anche spesso a mangiare fuori, problemi economici non ne avevo ed era quindi uno sfizio che potevo concedermi ogni qual volta avessi voluto. Ho sempre avuto una peculiare predilezione per il ristorante cinese, non particolarmente gradito però al resto della compagnia; io lo proponevo sempre, ma non me la sono mai presa se poi si finiva altrove, perché l’ importante per me è con chi andare e non dove andare. Mio padre non è mai stato molto presente nella mia vita, ma entrava prepotentemente alla ribalta quando si trattava di vacanze: d’ inverno sulla neve e d’ estate sulla riviera romagnola: Sceglieva sempre i migliori alberghi, comunque dotati di piscina, ero costantemente servita e riverita; come se non bastasse mi portava a fare shopping nei migliori negozi del posto, naturalmente pagava lui. Il divertimento vero e proprio era però quando partivo in vacanza con le amiche, il soggiorno a Djerba in Tunisia è quello che ricordo con maggior piacere. L’ immagine che quindi io davo di me era quella di donna in 18
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carriera, sicura di sé, sempre indaffarata, a cui non bastava mai il tempo per curare i propri interessi e per dedicarsi a ciò che l’ appassionava; probabilmente qualcuno avrà anche pensato che me la tirassi un po’ e col senno di poi devo riconoscere che in parte è vero; ma tutti noi abbiamo delle fragilità. Un blocco di ghiaccio solido, compatto, impossibile da scalfire, è questo che io dimostravo di essere, ma si sa… quando fa caldo finisce inesorabilmente con l’ essere dissolto. La sfera affettiva, familiare in particolare, era il mio tasto dolente. Non mi va di trattare l’ argomento, e ancor meno di scendere in dettagli, perché non credo sia rilevante ai fini della storia che sto raccontando, ma un accenno devo pur farlo, altrimenti rischierei di non essere compresa. Il matrimonio dei miei genitori era naufragato da un pezzo, con mio padre Vincenzo che era rimasto nella casa coniugale (lo è tuttora), provando a ricostruirsi una vita con altre donne, tra cui una di queste mi ha dato alla luce un fratellino; con mia madre Mirella che si era trasferita in un monolocale dove ancora risiede (attualmente insieme a me); con la sottoscritta che abitava, insieme alla sorella maggiore Laura, in un appartamento di proprietà del padre; per la precisione va detto che a noi due si aggiunse anche il compagno di lei Alessandro, ed infine Marco, il figlio nato dalla loro relazione che all’ epoca del manifestarsi della mia malattia aveva due anni. In quella casa Laura era la donna, occupandosi dei lavori domestici, io l’ uomo, infatti svolgevo tutte le altre faccende che non riguardassero la casa in senso stretto. Non ero nemmeno riuscita a costruire una storia d’ amore con la A maiuscola, anche se non mi mancavano certo le occasioni per poter conoscere e frequentare. Una persona che poteva fare il caso mio l’ avevo anche trovata, era Maurizio, ma il suo difetto non era di poco conto: era 19
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sposato! Lui sosteneva di essersi separato dalla moglie; in principio gli credetti, ma iniziai a dubitare visto la modalità con cui si svolgevano i nostri incontri, quindi finì col ritenerlo un bugiardo sotto questo aspetto. I momenti trascorsi insieme furono veramente pochi, le notti ancor meno, un solo weekend completamente dedicato a me, ma l’ intensità non mancò e ancor oggi rammento tutto perfettamente con un pizzico di nostalgia, ma soprattutto è vivo in me il ricordo dell’ estrema gioia datami da quelle emozioni che spero poter rivivere insieme a qualcun altro.
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ASCESA AL PURGATORIO Le giornate nel reparto di rianimazione trascorrono in maniera monotona e soporifera e il buio le fa sempre da padrone. Il peso della solitudine è inquietante, ma riesco comunque ad alleggerirlo avendo escogitato un trucco: ho un sensore all’ indice della mano destra e muovendolo il personale infermieristico accorre. Luca e Melissa forse sono in preda alla disperazione ma io non posso fare altrimenti se voglio solo minimamente intaccare il silenzio che mi circonda. Ma la notte deve comunque terminare e la luce inizia ad illuminarmi: dopo 12 giorni trascorsi in rianimazione vengo finalmente trasferita, la mia nuova assegnazione è il reparto di Neurochirurgia dell’ ospedale. Ancora sono un vegetale e capisco a malapena quello che mi sta succedendo, ma in cuor mio sono convinta che qualcosa stia cambiando. Vengo caricata su un’ enorme barella, manco fossi un elefante, con al di sotto una bombola dell’ ossigeno che pare un estintore: è la prassi per essere trasferiti dalla rianimazione. La mia nuova “casa” si presenta così: un corridoio con pavimento in linoleum di color avana, porte coordinate sulla destra per accedere alle camere, tutte in fila come fosse un hotel, accanto una piccola targa con il numero della stanza e una lampadina che si illumina di rosso quando il paziente chiede aiuto; spezza l’ uniformità di quella disposizione il vano infermieri con il vetro che permette di tenere la situazione dei pazienti sotto controllo. Ogni camera ha due letti singoli sistemati in maniera parallela e separati da un comodino sul quale vi è appoggiato il telefono, ai loro piedi c’ è un tavolo con due seggiole predisposte per l’assistenza ai malati. 21
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In alto c’ è una lampada di color grigio regolabile per dare l’ intensità di luce desiderata, due prese per la corrente e una mascherina verde per l’ossigeno. Vengo messa nella camera numero 9, nel letto accanto alla finestra, l’altro è occupato da un’ anziana signora. Qui finalmente posso sconfiggere la solitudine: infatti oltre ad essere permesse le visite delle persone care ad orari prestabiliti, devo essere monitorata 24 ore su 24. Gli assistenti si alternano ma chi si prende cura di me in maniera più assidua è mia madre. Lei, vedendomi in quelle condizioni, si dispera essendo anch’ ella stata colpita da aneurisma nel 1988; è ossessionata dai sensi di colpa perché convinta di avermi lasciato in eredità la malattia. Io non sono certamente nella condizione ideale per poterla tranquillizzare e rassicurare, quindi vederla in quello stato non mi aiuta di certo. Mi viene portato in camera anche un televisore che viene adagiato sul tavolino e, date le mie condizioni, l’ utilizzo è riservato esclusivamente a chi mi assiste. Il silenzio che si percepisce è rotto da quel congegno e rende meno gravoso il compito di chi mi sta accanto. Le visite delle persone care si susseguono in continuazione e contribuiscono a trasformare la fredda e spoglia camera in un kinder park: infatti chiunque viene a trovarmi porta con sé un pupazzetto colorato di peluche che io faccio appoggiare sistematicamente sopra la lampada del letto. Che strano vedere l’ accostamento tra quanto è necessario a me per le cure: catetere, aghi, flebo e i variopinti animaletti donati. Sembrerà banale ma a me quei pupazzetti allietano la triste e buia permanenza. Inoltre quando vengono le mie amiche sembra che io mi trovi 22
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in un centro estetico, infatti loro mi mettono lo smalto sia alle mani che ai piedi, è sempre rosa, il mio colore preferito. Altro trattamento di bellezza a cui mi sottopongo è la ceretta: purtroppo il cortisone e l’ anestesia mi rendono simile a quegli animaletti che tengo sopra la lampada, perciò se non voglio diventare una di loro, questo è quello che devo subire. Com’ è bello però essere viziata e coccolata dalle persone che ti vengono a trovare! I medici e gli infermieri ogni volta che entrano rimangono esterrefatti nel constatare di come cambi l’arredamento della mia camera. E’ giunta l’ ora di presentare coloro che sono state la colonna portante di un palazzo che stava crollando: Valentina, la mia dolce Valy, che oltre ad essere un aiuto spirituale e psicologico, mi fa da estetista; Samantha, Samy, la mia crocerossina personale, ha proprio il senso di umanità, le viene naturale aiutare le persone e lo fa con un amore tale da non farti pesare niente; Cecilia, Cecy che è al mio fianco da quando avevo 11 anni e che, nonostante la sua titubanza alimentata dal timore di sbagliare, non si tira mai indietro; Susanna, Susy, che sopporta le mie stramberie notturne come quella della pipì a letto fatta perché sua madre in sogno me lo aveva suggerito. Ho sempre amato contrarre i nomi, tanto che mio “cognato” Alessandro puntualmente mi prende in giro: “Dov’ è la Cecy?”, “Hai visto la Valy?”, e così via. La visita più gradita però è quella quotidiana di Maurizio: viene sempre puntuale alle 7 di mattina con cornetti e cappuccini per me e per chi mi aveva digerito tutta la notte. Appena arriva mi dà subito un bacetto sulla bocca e mi chiede come ho passato la notte, io rispondo sempre ma non so quanto capisca della mia risposta, pertanto lo chiede al mio assistente. Lui cerca di sdrammatizzare, il suo sorriso stampato sulle lab23
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bra è rassicurante, probabilmente è anche più preoccupato di me ma non lo esterna: capisce che il mio morale deve essere sostenuto e che una faccia allegra può distrarmi dalle mie angosce quotidiane. E quanto deve aver penato per me, anche perché mi racconta che in rianimazione insieme a me c’ erano altre cinque persone e io sono l’ unica che ne è uscita viva, malconcia sì, ma viva. Altra visita giornaliera che ricevo è quella del Prof. Pio B., il chirurgo, e del suo staff medico. Lui mi designa come sua “pensionante”, quando viene, oltre a visitarmi, controlla minuziosamente le risonanze magnetiche che a me sembrano tanti cervelletti fotografati, le sfoglia come chi al bar legge un quotidiano, le analizza davanti alla finestra e ne discute con i colleghi usando dei termini a me sconosciuti. Mi informa anche che, quando ho avuto l’ aneurisma, nessun chirurgo voleva assumersi la responsabilità di operarmi, convinti che sarei rimasta sotto i ferri; solo il Prof. B., che d’ ora in poi diventerà il mio angelo, fu l’ unico che se la sentì di provare, non garantì nulla ai miei genitori ma tentò e miracolosamente riuscì. Sono convinta che lui mi ha strappato dalle braccia della morte: sicuramente le sue accurate mani furono guidate da Dio. Le mie giornate passano lentamente, fissando quello squallido soffitto, sì le visite si succedono, ma io non posso interagire con chi mi viene a trovare. Ho continui mal di testa, il dolore è intenso e persistente, mi punzecchiano continuamente il sedere per somministrarmi antidolorifici ma il dolore continua e il didietro pare diventato un colabrodo. Vorrei mettere a terra i miei piedi con lo smalto rosa e scappar via però al posto della fuga mi si prospetta di nuovo la sala 24
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operatoria. Il mio angelo mi informa che all’ indomani subirò un ulteriore intervento chirurgico, certo una notizia del genere non mi rallegra, ma se servisse a far passare i dolori accetto con rassegnazione tale decisione. Il Prof. decise: “Domani mattina, Barbarella digiuna, mi raccomando!” Questa volta mi rendo conto di cosa sta succedendo: mi mettono la camicia verde, mi spostano nella barella e via in sala operatoria, dove mi aspetta l’ infermiere addetto all’ acconciatura idonea all’ operazione: capelli rasati a zero. Mentre mi spingono sulla barella, io fisso il soffitto, chiedendo al Signore perché mi aveva portato in quel contesto, ma nel frattempo cerco di nascondere terrore e paura: scherzando dico: “Non vi sbagliate, i ginocchi li ho sani!”, dato che la camera operatoria è in comune a quella del reparto di ortopedia. Aspettando l’ anestesista, vengo trasferita dalla barella al freddissimo letto d’acciaio dove arriva una donna sulla cinquantina, capelli castani e occhi neri con uno sguardo premuroso e confortante. Nonostante questo, la fisso e le dico: ”E se non mi svegliassi più?” Risposta: ”Non fare la sciocca, non è mai successo.”. Facile parlare, ma solo io conosco la paura che mi percorre dentro ed è realmente tanta. Chissà se mi opererà il mio angelo, spero vivamente sia così: è l’ unico medico di cui mi fido in questo momento. Non so di preciso in cosa consista tecnicamente l’ intervento ma da quello che ho capito vengono uniti dei ventricoli. Ora vi lascio, l’ anestesia sta facendo effetto….. Mi sto svegliando, realizzo subito che sono nella mia camera del reparto di Neurochirurgia e mi sembra già di stare meglio, non ho capito chi ha messo le mani nella mia testolina, ma dal 25
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risultato non può essere che lui: il mio angelo. Mi pare di riuscire a parlare un po’ meglio, quel tanto che basta per farmi comprendere dagli altri, è quello che devo fare adesso anche perché mi si avvicina una ragazza con il camice bianco e strisce orizzontali rosse sul taschino e sulle maniche che mi si presenta come mia fisioterapista. E’ mora, capelli lunghi e ricci, occhi scuri e uno sguardo premuroso, si chiama Simona. Vuole farmi stare seduta sul letto, all’ idea sono alquanto scettica, ma lei insiste e io tento. Mentre provo comincia a girare tutto e mi sembra di stare sulle montagne russe, ma ecco che miracolosamente non sono più distesa sul letto ma seduta. Pare banale, ma per me riuscire a stare e mantenere quella posizione è un risultato che non osavo sperare in così breve tempo. Ora che sono seduta, Simona comincia a farmi fare degli esercizi alle gambe per potermi rimettere in piedi, lei è convinta, io un po’ meno. Dopo una settimana di costanti esercizi, la fisioterapista è certa che io possa riuscire a fare il grande passo, ma le mie gambe sono diventate così magre tanto da essere della stesse dimensione delle braccia, come potranno mai sorreggermi? Devo assolutamente provarci, non voglio marcire in questo letto d’ ospedale. Ecco che accade l’ inimmaginabile: con l’ aiuto di Simona mi sono alzata dal letto, è una strana sensazione rimettere i piedi a terra dopo tanto tempo; è un piccolo miglioramento che per me rappresenta un traguardo. In queste situazione ti rendi conto di come queste piccole cose, a cui normalmente non avresti prestato alcuna attenzione, siano di vitale importanza. Certo che non è stato facile, le montagne russe di quando mi 26
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sono seduta sul letto sono nulla in confronto a quello che a me pare un volo in caduta libera senza paracadute. Mi rendo conto di non far più parte del mondo cosiddetto normale, sono viva, voglio essere felice e ringraziare il Signore per questo, non posso e non devo pretendere altro: chi ha meno di quanto desidera, deve sapere che ha più di quanto vale. Ottenuto un risultato, non ci si può cullare sugli allori: è ora di ricominciare a camminare. Con l’ aiuto di Simona, sempre paziente e amorevolmente predisposta nei miei confronti, comincio a muovere i primi passi; la mia prima passeggiata ha come destinazione il bagno della camera. L’ incontro con lo specchio fu uno scontro con me stessa: dov’ è finita la Barbara che io conosco e che ho sempre immaginato fosse restata con me? La realtà talvolta, se non spesso, è crudele: il mio viso è irriconoscibile: il cortisone che mi è stato costantemente e massicciamente iniettato mi ha gonfiato la faccia come un pallone, sono piena di bolle, il mio sguardo è triste e spento. Il macigno che mi si è scagliato contro non ha nulla a che vedere con la situazione che ho vissuto in rianimazione che realizzo quando mio padre mi porta a visitare quel reparto. Con il suo aiuto salgo su di una sedia a rotelle, mi spinge in quel corridoio dove fino ad giorni fa io ero in “vetrina”. Al posto mio ora sono “esposte” altre persone che giacciono calme e tranquille, il petto si solleva loro aritmicamente, i fili collegano i loro corpi alle macchine. C’è un rumore innaturale che esiste solo negli ospedali: il rumore dell’attesa, di chi si trova sospeso in un luogo senza tempo. Comincia anche il mio “svezzamento”: posso finalmente mangiare normalmente, certo il pasto fornito dall’ ospedale non è 27
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un granché, ma in quei momenti credi di trovarti di fronte ad un enorme buffet provvisto di ogni ben di Dio. La realtà è però ben diversa da quella che si immagina: il cibo ingurgitato viene infatti regolarmente rigettato. Devo quindi quotidianamente sottopormi a TAC: la mia analisi viene preceduta dall’ invito che mi porge l’ infermiera Isabella “Andiamo! E’ ora della tua TACTERAPIA”. Con questa sua battuta riesce anche a strapparmi un sorriso. Gente che entrava in quel tubo l’avevo visto tante volte in televisione, ma essere costretta a farlo io è veramente scoraggiante. Non ce la faccio più: le gambe non mi reggono, non riesco a mangiare, se sono obbligata a stare in un letto preferisco farlo in quello di casa mia e non in ospedale; inizio così a supplicare il Prof. B. di dimettermi.
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LIBERTA’ VIGILATA Viste le mie insistenti richieste il mio angelo acconsente ad una condizione: ogni martedì devo tornare da lui, parla di “ospedale allargato”. Non mi pare il vero che io possa tornare a casa mia e uscire da questa bara che mi ha accudito per oltre un mese. E’ arrivato il grande giorno, mio padre e mia madre sono venuti e prendermi per riportarmi al mio nido. Non è facile, spiegare le sensazioni provate uscendo da quella porta, sentire l’aria che punge sul viso, vedere colori, che ormai mi ero dimenticata esistessero, alzare gli occhi al cielo con la luce che ti acceca e che non credevo avrei mai rivista. Ogni cosa intorno è per me una novità: gli alberi, le nuvole, gli edifici sono sempre quelli sì ma li percepisco in maniera diversa; riesco solo ora ad apprezzare ciò che mi circonda forse perché l’ anima, prima celata, non mi lascia più sola. Anche il semplice salire in auto ha un sapore mai provato, un gesto così consueto e che ripetevo automaticamente è per me fonte di emozioni. Durante il tragitto riconosco quella strada che per tanti anni avevo percorso autonomamente, mi sorprendo del fatto che io riesca a rendermi conto di dove stiamo andando. Eccomi, finalmente sono sull’ uscio di casa mia. Mi attende un’ impresa assai ardua, forse eroica per le mie attuali condizioni: sei rampe di scale, per l’ esattezza 77 gradini che mi ostacolano nel mio percorso di ritorno ad un livello minimo di normalità. Mio padre si arma di santa pazienza, mi prende sottobraccio, cerca di farmi salire quei dannati scalini, io ce la metto tutta, mi aiuto con il corrimano, praticamente vengo trascinata, ma riesco finalmente a terminarli ed entrare in casa. La porta della camera è aperta, vedendo il letto rimango bloc29
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cata sotto lo stipite, è rifatto ed ha la stessa coperta di quando fui portata via, lo fisso e i flash dei ricordi di quella maledetta mattina mi invadono la mente. Mi ci siedo sopra e medito sulla mia vita, devo rimboccarmi le maniche, chiedere a me stessa chi voglio essere, tanto ogni cosa che faccio ha poi una conseguenza; ma quello che più mi manca è la normalità: ora esisto, mentre quello che voglio è vivere come tutti fanno. Le mie giornate trascorrono lente e monotone in casa: sono quasi sempre sul divano del soggiorno e la televisione mi fa compagnia. Per darmi appoggio fisico e morale anche mia madre si è trasferita qui, anche perché mia sorella Laura non può sostenermi se quotidianamente si reca al lavoro. Le notti sono in gran parte passate in bianco, la porta della camera comunque la voglio sempre aperta, ormai ero abituata così, ma è strano non vedere più camici bianchi e verdi che entrano e escono dalla mia stanza. Il vomito non accenna a passare, segue ogni pasto indifferentemente dalla quantità di cibo ingerito, è facile comprendere che sono diventata pelle e ossa, tanto più che a casa non posso essere alimentata diversamente. L’ unica uscita che periodicamente mi concedo ogni martedì è quella di recarmi alla “mia seconda residenza”. Al mio arrivo il Prof. B. cerca di farmi camminare all’ interno di una stanza, io ce la metto sempre tutta e con il passare del tempo certi risultati li ottengo: naturalmente non ho un andamento libero e spedito, il mio equilibrio è precario, mi appoggio ai mobili, cado spesso ma non mi do mai per vinta. Altro esercizio che il mio angelo mi fa compiere è quello di seguire il suo indice destro che inizialmente pone di fronte agli occhi miei e poi lo sposta a destra e a sinistra. Infine vuole che mi tocchi la punta del naso con l’ indice di 30
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una mano, poi con quello dell’altra. Io ubbidisco sempre diligentemente, ma dentro di me si sta alimentando sempre più il fuoco acceso dalla rabbia, ma il rimpianto è il passatempo degli incapaci quindi ora devo lavorare per spegnere quel fuoco. Quello che però impensierisce maggiormente il medico è il mio costante rigetto per il cibo, tanto da consigliarmi l’ esecuzione di un’ ecografia allo stomaco. E’ il giorno dell’ esame e per prima cosa vengo invitata da un medico a bere un composto bianco. Lui mi dice: “Ecco signorina, ingerisca questo liquido tutto di un fiato”, Io rispondo: “Ci provo, ma vi consiglio vivamente di mettere un grembiule o qualcosa che protegga i vostri bei camici bianchi”. Guardo il bicchiere e penso: ”Ma questi sono un po’ ottusi, se sono venuta a fare una visita perché vomito sempre, come pretendono che riesca a bermi quel coso tutto di un fiato?” “Allora signorina, forza” “E un attimo, abbiate pazienza, mi devo concentrare se non volete essere inondati………..!” “Si concentri, ma si dia una mossa” E già, è sempre il solito discorso, chi non ha problemi non capisce le difficoltà. Sembra non gli importi nulla delle conseguenze, quindi chiudo gli occhi, il naso con il pollice e l’indice della mano destra, e mando giù quello schifo di roba. Stranamente non vomito, quindi mi fanno mettere in piedi di fronte ad una lastra bianca con una scatolina che mi fotografa continuamente. La loro diagnosi è che sono affetta da un batterio, chiamato “elicobatter”, per cui mi viene prescritto di assumere un antibiotico. 31
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Io ora quel farmaco lo prendo regolarmente ma la situazione non accenna a migliorare, anzi quando provo a mangiare una pizza, in compagnia di Maurizio e di altri amici, non faccio in tempo neanche ad assaporarla.
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LIBERTA’ REVOCATA Sono disperata, l’ unica persona che sono convinta possa aiutarmi è il mio angelo che, preoccupato per la mie condizioni, mi consiglia nuovamente il ricovero. Ecco la mia nuova camera: la numero 11 del reparto di Neurochirurgia, arredata esattamente come l’ altra che mi aveva ospitato. La mia “coinquilina” è la signora Teresa, una donna sulla sessantina, con la quale riesco ad interagire e a trovare subito un feeling; è simpatica e socievole e, per sconfiggere la monotonia di quelle giornate, ci divertiamo insieme a risolvere dei cruciverba. La sera successiva al ricovero entra in camera l’ infermiere di turno il quale mi informa che all’ indomani mi dovrò sottoporre a risonanza magnetica con il mezzo di contrasto, dicendomi: “Barbara, mi raccomando digiuna da mezzanotte, ti veniamo a prendere domani mattina alle dieci”. “Va bene, non ci sono problemi, basta che per pranzo mi portiate una fiorentina da 1500 grammi!” Rispondo io con un finto sorriso. “Si, certo ti facciamo avere anche le patatine fritte con la maionese!” Replica lui. Sono le dieci di mattina e non si vede nessuno. Sono le undici di mattina e non si vede nessuno. E’ mezzogiorno e non si vede nessuno, finché alle cinque del pomeriggio arriva un inserviente munito di sedia a rotelle; capisco che finalmente è il momento di andare, non vedo l’ ora perché sono sicura che, una volta terminato l’ esame, avrò come premio la cena: è da ieri sera che sono digiuna! “Andiamo Barbara, dobbiamo scendere a fare la risonanza, tanto l’ ago già ce l’ hai, quindi prego, siediti pure”. Fa l’ infer33
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miere. Rispondo io: “Era ora, se aspettavate un altro po’, mi dovevate portare al -2.” In quel piano, si trova la camera mortuaria. Una volta terminato l’ esame aspetto con impazienza la cena promessa: passato di verdure e pollo lesso mi attendono, io divoro tutto ma inevitabilmente lo rigetto. Non tarda ad arrivare nemmeno l’ esito della risonanza: è il mio angelo che mi informa di dovermi sottoporre ad un ulteriore intervento. E’ la sera precedente all’ operazione, sono in compagnia di Chiara che io chiamo Chiari, la mia madrina di Cresima; manco a dirlo sono angosciata se penso a ciò che mi accadrà domani, anche perché non so per quale ragione debbano intervenire di nuovo. Lei mi prende la mano e, visto che mi ha sempre capito, mi lascio andare completamente: sembra una confessione. Non riesco a tranquillizzarmi totalmente ma quello che ricevo è comunque un aiuto prezioso. Giunta l’ ora di rimanere sola, chiedo all’ infermiere di turno se posso avere delle goccine per rilassarmi un po’, che puntualmente somministrate, non provocano l’ effetto desiderato; provo quindi a parlare con Teresa la quale non dorme, ma non pare molto disponibile al colloquio rispondendo freddamente ad alcune mie domande. La notte trascorre in bianco e questo non mi dà una mano per affrontare al meglio l’ intervento, ma così è e devo rassegnarmi, mi presento comunque puntuale dal mio barbiere personale per la pelata di rito con l’ immancabile abitino verde, e una volta anestetizzata, eccomi pronta all’ operazione. Mi risveglio in camera da letto, mi sta mancando l’aria: ho una crisi respiratoria, ma mi sento già diversa, tutto mi pare cambiato in meglio attorno a me e, per la prima volta da quando sono stata male, mi sembra di essere tornata a vivere. 34
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Il puntuale soccorso del Prof. B., con l’ ausilio della mascherina per l’ ossigeno, pone fine a quella sofferenza, e quelle che, pochi attimi prima erano le mie sensazioni, ora si sono trasformate in certezze: sto decisamente meglio, sono presente e reagisco agli stimoli. Viste le mie attuali condizioni il chirurgo mi rende note le ragioni per cui sono stata sottoposta a questa operazione: al momento del primo intervento, quello subito in seguito all’ aneurisma, era stato trovato un astrocitoma, un tumore benigno, nella fossa cranica posteriore che l’ equipe medica aveva asportato, l’ enorme emorragia però ne aveva impedito la totale scoperta e la relativa rimozione; ora tutto è stato ripulito. Quella notte vengo assistita da mia zia Gabriella, la quale mi fa subito presente di trovarmi decisamente meglio, mi guardo in volto e fa: “Ma Baby, il tuo occhio non è più storto come prima!”. Sarà che mi sento meglio e vorrei tornare alla normalità spaccando il mondo, sarà che l’ adrenalina è salita al cervello dopo tanto che non accadeva, ma una cosa è certa: non riesco a chiudere occhio. L’ unica cosa che mi resta da fare è parlare con la zia, che al contrario mi invita a dormire: “Zia, senti cosa fai?” “Ma Baby, che domande fai” “Che ne so, chiedo!” Effettivamente era una domanda un po’ stupida, ma tanto ero alla Neuro e avevo appena subito un intervento al cervello. La mia degenza è caratterizzata da una routine quotidiana: dopo il risveglio sto in attesa del mio angelo e della sua scorta che puntualmente arrivano e cercano di tirarmi su di morale; quindi è la volta della fisioterapista Simona con la passeggiata lungo il corridoio del reparto: sono 40 passi totali ma la gioia di poterli percorrere mi dà la sensazione di sprintare nei cen35
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to metri piani. Il pomeriggio è dedicato ai libri: certo concentrarmi sulla riga da leggere è per me difficoltoso, ma con il trascorrere dei giorni e con enorme sacrificio tutto si semplifica; non potendo recarmi personalmente in libreria è mia madre la delegata agli acquisti, le suggerisco sempre di portarmi libri sentimentali a lieto fine: mi aiutano ad evadere dalla realtà che sto vivendo; altre volte, meno frequenti, sono io a scegliere cosa leggere contattando telefonicamente la libreria. E’ estate e penso con amarezza alle vacanze trascorse con le amiche e a quelle che mi sovvenzionava mio padre, qui solo l’aria condizionata ti ricorda che è periodo di ferie e realizzo che l’ unico viaggio che mi posso permettere adesso è dalla mia camera d’ ospedale alla sala operatoria. Una consolazione è la sigaretta; è mia zia Gabriella, accanita fumatrice che mi asseconda in questo desiderio. Ogni volta che viene il rituale è sempre identico: “Oh! Zietta ben arrivata, andiamo?”, le dico io appena si affaccia alla porta della camera. “Sì, nipote, andiamo”. La nostra sala fumatori è la scalinata posta all’ esterno del reparto, il tragitto per raggiungerla non è agevole nelle mie condizioni, pare un percorso ad ostacoli, ma la ricompensa che mi attende mi dà la forza per affrontarlo al meglio. E’ un momento, forse l’ unico della mia degenza, in cui riesco ad evadere: so che non dovrei fumare ma non riesco a fare altrimenti. Ed infatti la punizione non tarda a venire: i punti di sutura mi fanno molto male e mi è venuta anche la febbre; il responso è infezione della ferita da stafilococco. Il mio angelo mi deve sottoporre ad un ulteriore, seppur semplice, intervento chirurgico per poter permettere la fuoriuscita del liquido celebrale infetto; comunicandomelo mi dice: 36
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“Brava! Quello che poteva essere un capolavoro può trasformarsi in una tragedia.” Per risolvere il problema devono praticarmi un’ apertura in testa e quindi collegarla ad un catetere di gomma: il risultato è quello di dover rimanere immobilizzata a letto “legata” a quel tubo. Comprendo la gravità della situazione quando, una volta operata, vedo che il liquido celebrale è giallognolo e non biancastro come dovrebbe essere. Ogni giorno viene a trovarmi la mia amica Valentina che mi aiuta nel tenere le gambe in esercizio; spesso io sbaglio e lei con i suo fare immediato e chiaro non tarda a farmelo notare. Frasi come: ”Oh Ba’! Ma se’ de coccio, piega ‘sto ginocchio e poi distendilo.” “…e daglie, fallo prima con una gamba e poi con l’ altra.” sono all’ ordine del giorno. Con lei però mi diverto anche nella lettura dell’ oroscopo; queste sono le risposte in cui confido quando mi trovo scritto che in questo mese avrò degli incontri sentimentali travolgenti: Opzione 1: Mi viene a dare la padella un bel moretto con gli occhi azzurri. Opzione 2: I chirurghi, aprendomi la testa dicono:”Uau, che cervellone ha questa ragazza, non ce la possiamo far sfuggire!”. Opzione 3: Mi dimettono domani e con questa acconciatura, conosco la mia anima gemella!”. Opzione 4: L’oroscopo è sbagliato. Certo io cerco di sdrammatizzare e di cogliere i lati positivi di quella permanenza forzata a letto: ero sulla via del recupero ed invece sono tornata indietro come i gamberi. Sono passati due lunghissimi mesi e l’ infezione è stata de37
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bellata grazie alla continua e massiccia somministrazione di antibiotici, da assumere per via endovenosa, che mi sono stati prescritti dalla dottoressa che mi ha in cura. La buona notizia è però accompagnata da un’ altra, non altrettanto positiva: l’ emorragia aveva lacerato i ventricoli, quindi il liquido celebrale (liquor) non circola e, rimanendo all’interno della scatola cranica, mi causa dei fortissimi mal di testa. Tutto ciò è risolvibile mettendo un corpo estraneo in testa: una valvola facente le veci dei ventricoli ormai irrimediabilmente compromessi. Un altro intervento non lo ho di certo messo in preventivo, ma se l’ unica alternativa è dover passare la vita in un letto con un tubo che fuoriesce dalla mia testa, non ho scelta. Mi faccio coraggio e cerco di affrontare al meglio la situazione ed in effetti i miei sforzi sembrano ripagati: mi risveglio nella camera 27 del reparto di Neurochirurgia, il mio letto è l’ unico della stanza, ciò che conta però è che mi sento bene, così bene da chiedere a mia madre che mi sta assistendo di scendere al bar e portarmi un Bacardi Breezer all’ arancia. Una volta raggiunta la poltrona con l’ aiuto di mia madre, mi appresto a gustarmi quella bevanda così tanto agognata quando ecco che ricevo una visita improvvisa e, in quel momento, assai poco desiderata. E’ una dottoressa bionda a cui non manca l’ occasione per redarguirmi: “Barbara!, che cosa stai facendo?” “Niente dottoressa, scusi ma sa, fa caldo ed io avevo sete!”. “Sei un’irresponsabile, lo sai che con l’anestesia, potrebbe farti reazione?”. “Su, via non si preoccupi, tanto a me il Signore non mi vuole!”. “E certo, chi ti vuole a te?”. So che lei ha tutte le ragioni per rimproverarmi, ma la permanenza forzata all’ ospedale è per me un castigo troppo grande, 38
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scoppio dalla voglia di vivere normalmente. Fortunatamente questa volta il mio gesto scriteriato non provoca quegli effetti indesiderati che, anche per colpa mia, mi avevano accompagnato nella degenza, ma miglioro rapidamente. Non ho più bisogno d’ assistenza continua e quindi, rimanendo spesso sola, se ho bisogno suono il campanello e l’ infermiere di turno si presenta puntuale. I turni li ho imparati, perciò so sempre chi accorrerà in mio aiuto, ad essere sincera spesso abuso della facoltà che mi è stata concessa, ma per sconfiggere la noia qualcosa va escogitato; comunque noto con piacere che anche alcuni di loro trovano piacevole scambiare qualche battuta con me. Dopo nove mesi mi è tornato il ciclo mestruale. Avendo tenuto per diversi mesi il catetere vaginale, il fastidio non è indifferente, ma essendo quasi sempre imbottita di calmanti, non devo prendere analgesici per il mal di pancia. Ricordarsi di essere donna, ricalcando un famoso spot pubblicitario, non ha prezzo. Quando lo diventi non ti rendi ancora conto di cosa significhi, ti senti strana, diversa e non sai il perché, ma a 27 anni riesci a comprendere l’ importanza di essere donna a tutti gli effetti, e realizzi anche che la fertilità è indice di benessere. E sì, è proprio così, il mio foglio di dimissioni è pronto, vedo finalmente la strada per la normalità, mi aspetta un mondo, quindi esco sbattendo la porta col mio fagotto di ricordi pronta più che mai a tornare a vivere. Una domanda però mi assilla: “Cosa mi è successo?”, la risposta che mi do è: “Non lo so, ma lo devo accettare”. E agli altri… cosa dico loro? Semplice: “Ho avuto in piccolo incidente”.
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NON E’ FINITA Il mio ritorno alla normalità è ancora lontano a venire, infatti, trattandosi di convalescenza, i giorni li passo prevalentemente a letto dormendo o leggendo, ma sono fiduciosa e aspetto con pazienza il tempo del mio riscatto. Ma purtroppo, per l’ ennesima volta, non è così. Sono passati una decina di giorni dalle mie dimissioni e i mal di testa sono ricominciati, non posso far finta di niente anche se vorrei, vado quindi, accompagnata da mia sorella, al pronto soccorso del policlinico. Vengo sottoposta ad una TAC d’ urgenza, stesa su un lettino, coperta da un lenzuolo sterile bianco, fascia nera appoggiata sulla fronte, sono in posa per la foto di rito; invece dei parenti e degli amici, il mio album dei ricordi è pieno dei ritratti della mia testolina. Il verdetto è di quelli che avresti preferito non fosse mai pronunciato: la valvola che mi era stata applicata non drena più, va cambiata, quindi immediato ricovero e conseguente operazione. Questa volta mi aspetta la camera 3 del reparto che non sto qui a ricordare, confidando nella buona sorte potrei giocarli al lotto quei numeri, ma non è questo il momento, prima devo chiudere i conti con il male che mi perseguita. Questa volta la mia compagna di sventura è una ragazza russa di nome Rossana e su di lei mi pongo due questioni, come mai ha un nome italiano? E perché ha quella folta criniera in testa? Provo a chiederglielo, ma lei non pare molto disponibile al colloquio. Una cosa però è certa: lei è sempre sola; io invece, per quanto non abbia bisogno d’assistenza sono contornata da amici e parenti, ritengo che sia già una grande fortuna. Sono pronta per la solita pelata, i capelli sono ancora corti, 40
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perciò sottopormi a quel rito è per me meno gravoso che in altre occasioni. Una volta terminata l’ operazione, che non ha presentato problemi, mi ritrovo ancora in quel letto d’ ospedale e mi chiedo, ma qual è casa mia? L’ essere ricoverata per me rappresenta ormai la normalità, come per chi va al bar a prendersi un caffè o come per chi torna a casa dopo il lavoro. Già, i caffè per me sono rimasti nell’ archivio della memoria, ero a abituata a prenderne otto/nove al giorno, rinforzati da una scatola di pocket coffee: avevo bisogno d’ energia per tener fede ai miei impegni; ora mi faccio una tazza di camomilla la sera per poter dormire un po’. Il mal di testa è comunque passato e il mio sederino non è più, per buona sorte, bersaglio di quelle odiose siringhe. La mattina, puntuale e immancabile alle 7, suona la sveglia del reparto, forse per ricordare a tutti i pazienti che sono ancora vivi, e così le giornate sembrano più lunghe, talmente lunghe da apparire interminabili. Fortunatamente mi è stato portato un lettore dvd, guardando un film mi pare di stare in villeggiatura e quelli che preferisco sono di genere horror, forse perché la mia storia, al cospetto di quelle, pare più leggera. Un giorno arriva Marina, una mia collega d’ ufficio alla Bit Italia, ha noleggiato il film “La Mummia” per guardarlo insieme a me, la cosa non è di per sé insolita, ma quello che sorprende è che si accomoda sul mio letto: è la prima persona che lo fa, quel suo piccolo gesto fa comprendere che ti considera al suo stesso livello, sono queste le azioni di cui io ho bisogno per sentirmi viva. Quando poi la solitudine incalza suono il campanello per far accorrere l’ infermiere di turno e naturalmente non ho bisogno di nulla; so di essere tediosa con questo mio agire, ma è 41
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anche vero che ormai sono diventata la mascotte del reparto, quella con cui si può scherzare e distrarsi per qualche minuto. E’ passata una settimana dal mio ultimo ricovero ed ora i medici hanno firmato il foglio d’ uscita, potrò tornarmene a casa, quella vera, che mi attende per restituirmi il calore di un focolare domestico. La degenza a casa trascorre tra il letto e il divano, con un libro da leggere,una pellicola da guardare o un cd da ascoltare. Tornare a lavorare è ancora troppo presto, a parte i problemi di deambulazione che non sono cosa da poco, così imbottita di medicinali, il mio cervello è annebbiato al punto da non riuscire a far quadrare un bilancio. Un giorno di questi però arriva mio padre che inaspettatamente decide di portarmi a pranzo al ristorante. Non so nemmeno quello che mettermi, non ero preparata ad uscire, lo shopping è quindi d’ obbligo, dove farlo? In un posto molto economico: l’ armadio di mia sorella. La scelta è fatta: un paio di pantaloni bianchi con tasche laterali, una maglietta rosa con il cappuccio, cappellino dello stesso colore con la dicitura “the best” scritta con brillantini bianchi. Negli ultimi mesi avevo sempre mangiato a letto servendomi del tavolino degli ammalati, quindi il doverlo fare in posto pubblico, comportandomi normalmente e come se niente fosse successo, non è semplice. Appena arrivati il cameriere ci accoglie dicendo: “Buon giorno signori, quanti siete?” Ma io mi chiedo: “Beh … è cieco, non sa contare?!” Vincenzo educatamente risponde ” In due, grazie”. Lo seguiamo e ci indica con la mano destra un tavolo “Prego, accomodatevi pure, va bene questo tavolo vicino alla finestra?”. “Sì, sì grazie, perfetto, ci sediamo qui”, rispondiamo e, con 42
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estremo sforzo, mi siedo. “Allora, arrivo subito con i menu”, dice il cameriere. Faccio di tutto per non mostrare i miei gesti impacciati, ma è assai difficoltoso. In questo Vincenzo mi aiuta facendo finta di niente: ”Baby, che ne dici degli straccetti con la rucola?” “Benissimo, vada per quelli”, rispondo. Il chiedere una pietanza del genere è frutto di una scelta ponderata dettata, non tanto dal gusto personale o da quello del momento, ma dal fatto che il cibo è meno complicato da mangiare: essendo gli straccetti già tagliati, devo usare solo forchetta, riesco a camuffare meglio quelli che sono i miei problemi. Arriva il cameriere con il taccuino in mano e ordiniamo. Vivere un’ esperienza del genere rappresenta per me è una novità, è la prima volta, da quando sono stata male, che mi ritrovo in un posto pubblico circondata da persone che, almeno apparentemente, non hanno problemi di salute. Tutto questo mi dà la forza per andare avanti, cominciando piano piano a rimettere a posto progressivamente i tasselli del puzzle della mia vita. Purtroppo non è ancora questo il momento: è passata poco più di una settimana dalle mie dimissioni che sono i ricominciati i mal di testa. La prassi è sempre la solita: corsa in ospedale, accompagnata dalla sorella, con il personale di turno che vedendomi si mette le mani nei capelli (beati a loro che li hanno). Questa volta è di servizio il Dr. G. che io già conosco in quanto fa parte dello staff medico del Prof. B. il quale mi fa eseguire l’ inevitabile TAC e decide di ricoverarmi per accertamenti. L’ esito degli esami di rito è quello che ormai mi appare scontato: devono nuovamente intervenire, non alla testa però, ma alla pancia: un grumo di grasso ha infatti occluso il drenaggio 43
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della valvola celebrale. A operarmi questa volta è proprio il Dr. G.: l’ intervento non è affatto complicato e infatti vengo a breve dimessa. Ormai è un anno, che lotto contro le emicranie e, tutto ciò che avevo tanto faticosamente costruito gli anni precedenti, era svanito quel maledetto 27 Febbraio. Ma no, a 28 anni, non riesco credere che la mia vita sia finita, non lo posso accettare. La mia priorità è quella di migliorare la camminata: sbando vistosamente, sono goffa e impacciata tanto che mia cugina Cristina quando mi vede dice: “Ecco la Fracci”. Dopo aver effettuato la visita dal fisiatra, inizia il mio percorso di recupero presso una clinica convenzionata con l’ ASL locale. Non che sperassi vedermi circondata da atleti, ma ritrovarmi a dover frequentare una palestra con persone in sedia a rotelle o che si spostano col deambulatore ti fa rendere conto che il “mondo normale” non ti appartiene più. Gli attrezzi non sono quelli convenzionali, ci sono dei lettini identici a quelli in cui ti fa distendere il medico quando ti visita, dei materassini di lattice rosso per gli esercizi a terra adiacenti la spalliera in modo tale da potersi rialzare, tre gradini per migliorarsi nell’ affrontare le scale; ma ciò che rende il tutto più squallido e triste è la massiccia presenza di sedie a rotelle e bastoni di ogni tipo (canadesi, tre piedi). La fisioterapista Olga, ogni volta che vado, si arma di santa pazienza e mi fa eseguire quegli esercizi per me assai difficoltosi. Quello denominato “intermedia” mi dà i maggiori problemi: viene effettuato in ginocchio su di un materassino mettendo il peso del corpo in una gamba, mentre l’ altra va portata avanti. Grazie alla testardaggine, alla forza di volontà, all’ impegno a testa bassa, i risultati non tardano a venire e,anche se spesso 44
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cado, l’ importante è rialzarsi e continuare. Riprendo anche il lavoro, il mio socio Benito è ben contento di rivedermi al suo fianco, è dicembre e io manco da febbraio. Ufficio la mattina, palestra il pomeriggio, sono le mie occupazioni; è ancora presto per le distrazioni e il divertimento quindi le serate le trascorro tranquillamente in casa, ma se tutto continua ad andare così non dovrebbe essere lontana la via del recupero totale; che sia la volta di uscire definitivamente dal tunnel?
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IL PARADISO IMMAGINARIO Sto di nuovo aprendo gli occhi, ma questa volta ho paura, ne ho tanta. Vedo bianco, è tutto stramaledettamente bianco e realizzo subito: sono tornata in ospedale. Il suo odore è inconfondibile e conoscendolo bene la paura aumenta. Il soffitto è basso e sembra imprigionarmi. Il mio corpo, dov’ è il mio corpo? Sì esiste, c’ è, lo vedo, ma io non me lo sento addosso, non mi appartiene: è come se io fossi solo spirito. Quel corpo che mi aveva permesso di tornare a vivere liberamente non riesco a comandarlo. Cosa mi è successo ancora? Accanto al mio letto, c’ è n’ è un altro in cui giace una donna, in fondo al mio vedo una figura a me familiare: è mio padre, l’ ultima persona che mi sarei immaginata all’ assistenza. Lui cerca di tranquillizzarmi e mi spiega che sono entrata in coma perché si era staccato il tubicino della valvola applicatami, impedendo il drenaggio del liquor e ora sono ricoverata nella camera 17, dell’ ormai a me più che noto, reparto di Neurochirurgia. Non oso chiedergli da quanto sia successo, la paura di sapere prende il sopravvento. L’ orologio che ho al polso, uno swatch blu, indica che oggi è il 30 aprile, ma verrò a sapere che è il 2 maggio, forse 3 giorni in coma? Non lo chiederò mai. Non voglio conoscere i dettagli di qualcosa che mi angoscia e il sapere certe cose non mi aiuta, o almeno così credo. Mio padre inoltre mi dice che tutte le persone a me care mi avevano dato per spacciata, erano venute a trovarmi ed ave46
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vano pianto perché convinte che io morissi: il mio calvario continuava, ma io ero sempre pronta a lottare? E pensare che avevo trascorso un anno da incorniciare, avendo ricominciato a percorrere la strada della normalità fino a quel recupero totale, ma soprattutto allontanandomi da cure, medici e ospedali fino quasi a dimenticarmene. Tanto per cominciare l’ impegno e gli sforzi in palestra avevano dato i frutti sperati ed ero riuscita faticosamente a risolvere i problemi di deambulazione. La mia Opel Corsa grigia non era più una vettura da esposizione parcheggiata sotto casa, ma il mezzo col quale io potevo spostarmi autonomamente; a dire il vero però l’ auto non rimase inoperosa: in mia assenza, chiunque si sentiva legittimato a guidarla al punto tale che l’avevo soprannominata la “prostituta”. Avevo anche cambiato lavoro: sono diventata responsabile amministrativa di una concessionaria d’ automobili. Avevo bisogno di nuovi stimoli dato che l’ esperienza vissuta mi aveva cambiato, ma questa scelta fu influenzata anche dal fatto che se avessi continuato ad essere un socio come avrei potuto guadagnarmi da vivere nel caso in cui fossi tornata ad ammalarmi? Ne parlai a Benito, il socio, il quale pur non apparendo contento della mia decisione, comprese le ragioni della mia scelta; sciogliemmo la società e al mio posto fu assunta una dipendente. E’ un lavoro che mi dà soddisfazione: sono diventata il factotum del capo, tratto con i lavoratori impartendo loro i suoi ordini, li pago, gestisco gli interessi della ditta occupandomi dei rapporti con le banche ed effettuando i pagamenti alla scadenza. Ogni mattina mi fermavo a far colazione al bar vicino alla concessionaria, cornetto e cappuccino erano d’ obbligo per 47
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cominciare al meglio la giornata, avevo fatto anche amicizia con la barista, una ragazza della mia età con la quale mi intrattenevo volentieri a parlare di jeans, orecchini, trucco e divertimenti vari. Dopo la rottura con Maurizio, che continuavo comunque a vedere, sentivo il bisogno di compagnia e tramite la chat “Cupido” incontrai Tobia. Ricordo le lunghe passeggiate per mano al lago, le sere trascorse a casa in assenza di mia sorella, guardando un film accoccolati sul divano: sembravamo una coppia di lungo corso. Probabilmente però alla nostra storia credevo solo io visto che, dopo poco più di tre mesi, mi lasciò, mi disse che ero troppo pressante con le mie continue telefonate e i miei messaggini a raffica. Non potevo definirmi innamorata, ma pensavo che lavorando entrambi sul nostro rapporto, avremmo quanto meno vissuto una storia importante, mentre chi lo faceva ero solo io. Mi rendo conto che mi ero attaccata a lui come una sanguisuga e di avergli tarpato le ali, ma dopo un anno trascorso all’ ospedale quale altro comportamento potevo tenere? Non si fece più vivo con me, se ci provavo io, lui si negava. Quando non c’ era Tobia, c’ erano le amiche. Con loro ero tornata la Barbara allegra e spensierata, con tanta voglia di vivere. Per prepararmi alle uscite a me occorreva poco tempo, mentre altrettanto non si può dire di loro, comunque anche quei momenti erano divertenti mescolando battute e risate a ombretti e rossetti. Se la serata iniziava con una cena al ristorante indossavo una bella longuette nera con una camicia, altrimenti i miei amati jeans. La nostra meta preferita era il disco pub; lì mi scatenavo, ballavo freneticamente, bevicchiavo se non esageravo, ma la 48
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maggior parte delle volte mandavo giù cocktails fino a ubriacarmi, tanto che, una sera fuori dal locale, un tizio ci urlò: “Ragazze, è meglio che lei non si metta alla guida!”. Le sigarette riempivano prepotentemente quei momenti, ma non mancavano nemmeno nell’ arco della giornata, che era sempre comunque fitta di impegni e di appuntamenti. La voglia di spensieratezza , dopo aver trascorso un anno nelle corsie degli ospedali, aveva preso il sopravvento, al punto tale che non feci più alcun controllo, come se nulla fosse accaduto. Nell’ anima e nel cuore però avevo delle ferite aperte, e il mio darmi alla pazza gioia era il modo per mascherare il profondo disagio che mi si era annidato dentro. Ma… ero tornata a vivere, ero riuscita a sconfiggere quei fantasmi che mi perseguitavano, a realizzare ciò in cui avevo sempre sperato da quella mattina del 27 febbraio. Gli sbagli si pagano, o meglio, la leggerezza può diventare un macigno. Un giorno, mentre ero alla guida della mia auto, ecco che tornò il mal di testa, mi girava tutto e vedevo doppio, al punto che, al momento di parcheggiare, non presi bene le misure e andai a finire contro un muro; nulla di importante, ma il grave era il ritorno di quei sintomi. Quelle nefaste avvisaglie del male seguitavano, ma io facevo sempre finta di niente, la paura di dover essere nuovamente rinchiusa in quella bara di cemento mi portò al silenzio e feci in modo che nessuno se ne accorgesse. E così fu fino a una domenica pomeriggio. Ero uscita insieme alle mie amiche e stavamo andando a prendere un tè quando mi resi conto di non riuscire più a camminare da sola, mi aiutarono a raggiungere il tavolo e una volta seduta iniziò il terzo grado. Capii che non era più il caso di praticare il mutismo. “Barbara cos’ hai? Ti senti bene?” 49
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“Sì, sì non vi preoccupate è tutto ok, sarà colpa del tempo.” “Non fare la bambina, non si scherza con la salute, andiamo a fare un controllino, che ne dici?” “Ma voi siete matte, non se ne parla proprio, sto bene, sto bene, lasciatemi in pace”. Mi portarono di forza al pronto soccorso, Samantha entrò nell’ambulatorio con me, ascoltava silenziosamente ciò che il medico mi consigliava, ovvero di passare la notte in osservazione. Uscii dall’ ospedale e mi misi a fumare concentrandomi sulla decisione da prendere. Sarei voluta scappare, avrei voluto urlare, piangere, dare calci al muro, ma tanto così era: la mia salute non mi permetteva di vivere come le mie coetanee. Ero consapevole delle conseguenze della mia scelta, qualunque essa fosse stata. Che fare? Rischiare aspettando che il Signore mi chiamasse a sé o farmi ricoverare? All’ unisono le amiche mi consigliarono di trascorrere la notte lì, ma io mi sentivo nel mio mondo, con i miei pensieri, la decisione doveva essere solo mia, stavo per scegliere se vivere o morire. Scelsi di vivere, mi feci ricoverare. Stanza numero 17. Non volevo crederci, ma purtroppo era così: il male seguitava a tormentarmi. Entrò in camera l’infermiera che mi fece il prelievo del sangue e l’ elettrocardiogramma. Subito dopo, mi portarono a fare una TAC d’urgenza e la diagnosi fu che la mia testa era piena di liquido celebrale, quindi dovevano operarmi nuovamente. La peggiore delle notizie non fu quella però, il mio angelo, il 50
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Professor B. ora esercitava la professione a Roma, chi avrebbe messo le mani nella mia testolina? Chi avrebbe risolto il problema? Fui attanagliata dalla paura. Il primario mi disse che il giorno dopo mi avrebbe operato applicandomi una seconda valvolina che avrebbe drenato il liquido in eccesso. Vedere quella volta, l’ ennesima, la mia testa rasata mi spaccò il cuore, comunque dovevo reagire, non potevo mollare in quel momento, provavo a vivere normalmente, ma la realtà mi veniva sempre incontro con tristi sentenze. Nell ‘attesa andai sul balcone a fumare una sigaretta, fissando il mondo esterno, quel mondo che non mi dava ciò che meritavo. Se spesso avevo scherzato con gli infermieri quando spingevano la barella in sala operatoria, quella volta non fu così, ero abbattuta, avevo paura, il mio umore era sotto i piedi. L’ intervento durò due ore. Visto che ormai la mia testa era già stata aperta troppo volte decisero di applicarmi, sulla parte destra del collo, una valvola regolabile dall’esterno che si poteva stringere o allargare in base al liquido che doveva drenare. Un altro corpo estraneo era diventato parte me, ma io chi o che cosa ero diventata? Avrei mai potuto riprendere le mie attività quotidiane? Nonostante tutto il mio corpo rispose abbastanza bene, una corsa in riva al mare rimaneva un miraggio, ma mi muovevo con sufficiente autonomia. Dopo appena dieci interminabili giorni, in cui mi pareva di essere stata murata viva, fusa con l’ edificio ospedaliero, fui dimessa. Fiduciosa e piena di speranza mi recai dal medico di condotta il quale, persuaso dalla condizione fisica che mostravo, mi ri51
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lasciò un certificato per poter tornare a lavorare la settimana successiva. Purtroppo non fu così, non sarei più tornata dietro quella scrivania. Mentre ero tranquillamente in casa caddi in un sonno profondo, “sonno soporoso” come lo chiamano i medici, ed ora mi ritrovo qui.
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IO ESISTO Mio padre rimane con me per una mezz’ oretta, poi se ne va, ha fretta, lui ha sempre fretta. Ho tanti pensieri che frullano nel cervello, ma quello prioritario è se sono attualmente in grado di camminare; le gambe non le sento e, pur vedendole, mi chiedo se ancora ci siano. Non c’ è nessuno in camera, solo la donna che la condivide con me, devo provarci. La sforzo è enorme, ma la caparbietà è superiore. Per alzarmi sposto le gambe con le mani, indirizzandole al suolo, ma nel preciso istante in cui tocco il pavimento con i piedi, cado sbattendo la faccia. La paziente comincia ad urlare istericamente, io non so quello che fare, o meglio lo saprei anche, ma non sono capace di muovermi rimanendo incollata a terra. Al richiamo di quelle grida accorre l’ infermiere di turno che mi prende in braccio e mi rimette a letto. Cosa sta accadendo? Dov’ è finita la Barbarina? Mi sto sentendo prigioniera del mio corpo, i suoi movimenti non corrispondono agli impulsi che dà il cervello. E’ assurdo vedere quel corpo, che sai essere tuo, e non potergli impartire degli ordini, è un’ entità estranea che mi ostacola. Dipendo in tutto e per tutto dagli altri: per alimentarmi devo essere imboccata, per spostarmi utilizzo la sedia a rotelle che qualcuno deve spingere, non sono in grado di lavarmi autonomamente. La mia condizione è assai simile a quella di un vegetale, ma io sono e rimango un essere pensante. Già il mio spirito è tutto ciò che ora mi appartiene e mi ricorda che, grazie a Dio, io esisto. Le sensazioni che provo in questo momento sono un misto di 53
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rabbia e disperazione intrise dal dolore. Non sono rassegnata però, certo la fiducia comincia a venir meno, ma io no, io non mi arrendo. Vorrei farlo sapere al mondo intero quello che provo, ma non riesco che ad emettere suoni molto più simili a mugugni e grugniti che a parole di senso compiuto. Sono inchiodata a quel letto, mi muovo poco, e quel poco è completamente scoordinato, ho bisogno di assistenza continua. Mio padre ha assunto due persone allo scopo, una per il pomeriggio e una per la notte, la mattina c’ è sempre mia madre. Le visite degli altri parenti e delle amiche sono meno frequenti delle altre volte in cui sono stata ricoverata: sto male da troppo tempo, loro non credono più al mio recupero, quando vengono è come se si trovassero di fronte al capezzale di un moribondo e non possono di continuo venire a compiangere la loro Barbarina. Io ancora ci credo, mia madre è con me, ma siamo le uniche. Continua a venirmi a trovare anche Maurizio, lui non ha mai smesso di starmi accanto, ma come tutti ha ridotto la regolarità. Questo clima di sfiducia, unito alla mia consapevolezza, non mi gioca a favore, la paura di non potermi svegliare mi porta a non dormire per una settimana e finisco in depressione. Nel frattempo ogni giorno, per una settimana, vengo portata in sala operatoria; la seconda valvola, quella regolabile dall’ esterno, deve essere sistemata in modo da permette l’ esatto drenaggio del liquido. I medici fanno il proprio lavoro, ma a me sorge il dubbio: questo ripetuto comportamento sarà per via del coma o perché qualcosa è andato storto in sala operatoria? Loro hanno fatto il possibile, i mal di testa quelli sì sono cessati, ma altri miglioramenti non ce sono. 54
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Un giorno viene a trovarmi il primario del centro di riabilitazione di Trevi; mi trova sulla sedia rotelle mentre sto mangiando, naturalmente imboccata, aspetta pazientemente che io finisca e poi mi prende all’ altezza dei polsi tentando di farmi camminare; sembro un sacco di patate che si muove in maniera scoordinata goffa e impacciata. Lui mi informa che sarebbe ben lieto di accogliermi nella sua struttura, ma al momento è al completo, si tratta di un complesso all’ avanguardia, il migliore della regione. L’ esito deludente della camminata non mi sconforta più di tanto: ho rimesso i piedi a terra per provare a camminare, è la prima volta dal mio attuale ricovero. Io continuo a crederci, i medici no, loro non sanno più dove mettere la mani, tanto che il 20 giugno decidono di dimettermi. Ero entrata il 24 aprile con le mie gambe e ora ne esco in sedia rotelle. Sento in fondo al cuore che non è finita, devo e voglio lottare, anche se so che si tratta di un’ altra vita: quella di una persona che non riesce ad esprimersi in maniera comprensibile ma dipende completamente dagli altri. Il primo ostacolo da superare è quello della casa; non posso tornare alla mia dimora abituale: è al terzo piano e non c’è l’ascensore; l’ unica possibilità che ho è quella di andare a vivere con mia madre. Lei abita in un monolocale che non è certo il massimo per chi sta su di una sedia a rotelle, ma mi rincuora sapere che accanto a me avrò chi, con la sua costante presenza, si prenderà cura di me in tutto e per tutto essendo la persona che mi capisce meglio di chiunque altro. Dalla sedia a rotelle alla poltrona, dalla poltrona alla sedia a rotelle e quindi al letto è così che trascorrono le mie giornate. Per farmi mangiare mia madre si è attrezzata con uno di quei 55
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tavolini di cui sono dotati gli ospedali, è giallo canarino, lei, oltre a fornirlo di cibo, lo abbellisce sempre con lo stesso riguardo di chi imbandisce una tavola per ospiti d’ eccezione. Pian piano riesco anche a mangiare da sola, ma la quantità di ciò che faccio cadere sul tavolino o a terra è maggiore di quella che riesco a mangiare, il bicchiere lo tengo sul mobile che ho accanto altrimenti finisco sempre con l’ infradiciarmi. In questo incedere piatto e uniforme la compagnia consueta è quella delle sigarette, ne fumo tante, troppe, e con la mia mancanza di coordinazione di danni ne combino innumerevoli bruciacchiando mobili e abiti. Le visite di amici e parenti si sono fatte sempre più sporadiche; non mi dispiace però, il mio umore abbraccia la solitudine. Non ho voglia di vedere nessuno, ne tanto meno di parlare, con il rischio poi di non essere compresa. E poi di cosa? Che cosa posso dire? Cosa racconto? Se poi vengono quello che fanno è ciò di cui io non ho bisogno: compatirmi. Non li critico per questo loro atteggiamento, so che è normale in questi casi, ma dato che così è, preferisco non vederli. Loro cercano delle risposte, ma se io non riesco a trovarle in me stessa, come posso darle agli altri?
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IL RICOVERO DELLA SPERANZA E’ passata una settimana dalle mie dimissioni quando mia madre risponde ad una telefonata: è il centro di riabilitazione di Trevi, ha la disponibilità immediata del letto già da oggi. E’ una grande opportunità per me, ne ho sempre sentito parlare bene, i fisioterapisti mi dicono essere molto preparati e anche il primario, il Prof. Z., mi infonde una certa fiducia. Voglio entrare in quel centro sulla sedia rotelle ma uscirne sulle mie gambe. Non vedo l’ ora di ricoverarmi, è la prima volta che succede, spero con tutte le mie forze di poter tornare a camminare. Andrò domani mattina, mia madre dovrà trasferirsi là con me, ora è andata ad acquistare una sedia a sdraio per poter rimanere e riposare in camera, mio padre ci accompagnerà. E’ tutto pronto, sto percorrendo la strada che conduce a Trevi, il mio cuore batte forte, è poco più di mezzora d’auto, ma a me pare un’ eternità: tanta è la voglia di mettermi a lavorare. Il paese è adagiato su un colle e proprio in cima si trova la struttura che mi deve ospitare, di fronte c’ è una piazza piuttosto grande composta da sampietrini con delle panchine ai lati e pini ai bordi che ne delimitano il perimetro. Questo luogo famoso per l’ olio e il sedano nero, che domina, dall’alto del suo cocuzzolo, la strada che conduce a Spoleto, dovrà ora diventare la mia dimora. All’ arrivo un’ operatrice socio sanitaria si presenta, pronta ad accogliermi, con una sedia a rotelle, la mia è rimasta a casa. Questa rimarrà con me per tutto il periodo della degenza, sulla spalliera c’ è scritto il mio cognome, realizzo che potrò spostarmi unicamente in sua compagnia. Sono pronta a consegnarmi nelle mani di quei medici, qualsiasi cosa mi propongono sono disposta ad accettarlo, d’ altronde cos’ altro potrei fare? 57
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L’ ambiente è piuttosto accogliente, a dimensione umana, le camere sono simili a quelle di un comune ospedale con 2 letti, 2 seggiole e un tavolino, ma le porte sono blu e scorrevoli, i corridoi sono tutti dotati di corrimano. In questa struttura vengono ospitati pazienti che presentano gravissimi problemi sia fisici che cognitivi, hanno bisogno d’ assistenza continua, pertanto i posti a disposizione non sono tanti e le camere poche. L’ impressione che si ha è quella di trovarsi in un luogo dimenticato da Dio, una valle di lacrime, un accumulo di disperazione, in sintesi una realtà che non pensavo potesse esistere. Guardandomi intorno mi rendo conto di essere una “privilegiata”: stanno tutti o quasi peggio di me, non si capisce molto di quello che dico, ma parlo; mangio e bevo in modo normale, anche se assistita; ma quello che più conta sono vigile. Per ora però devo accontentarmi di poter vedere l’azzurro del cielo, il verde degli alberi, il giallo del sole. Vedo in faccia cos’ è veramente la sofferenza, quella di chi, come la mia compagna di camera deve essere alimentata tramite PEG, ossia un tubo sulla pancia collegato a una flebo di composto giallo, dovrebbe quell’ intruglio così ingurgitato equivalere ad un piatto di spaghetti? Come se non bastasse lei non parla e viene alzata dal letto con un sollevatore. La consapevolezza di essere uno dei casi “più facile da risolvere” mi dà, oltre la speranza, anche la forza per affrontare tutto il percorso necessario per rialzarmi, non posso accettare di dover passare la mia vita su una sedia a rotelle. Il mio umore però è sotto terra, un senso di inutilità si appropria di me e io scoppio a piangere, anche se tutti i miei cari, prima della partenza, mi avevano detto che questa esperienza sarebbe stata per me solo un brutto ricordo, una parentesi nella mia vita. 58
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La mattina successiva mi attende il lavoro in palestra, arriva un inserviente che deve condurci là (io e l’ immancabile carrozzina), dove mi aspetta Vanda. E’ una signora di mezza età, dolcissima, con i capelli a caschetto castani ed occhi dello stesso colore, con cui inizio il lavoro di recupero. Già, ma come passare dalla sedia a rotelle al lettino? Non ho neanche iniziato la terapia che subito si presentano delle difficoltà che mi ostacolano. Non può prendermi in braccio: la mia mancanza di coordinazione e precisione è pericolosa per la sua integrità, se non vuole cambiare il suo ruolo in palestra, deve chiamare qualcuno in aiuto. Con l’ausilio di altri fisioterapisti sono finalmente distesa sul lettino, e dovrei cominciare gli esercizi, ma io non riesco in maniera autonoma: è Vanda che fa tutto, mi alza e mi piega prima le braccia poi le gambe. Sono in tutto 50 minuti di trattamento giornalieri, non posso perdere tempo, devo sfruttarlo al meglio e riuscire ad eseguire tutto ciò che mi viene detto di fare. Ma la maggior parte delle volte, nonostante la mia forza di volontà, non muovo nessun arto, pur essendo convinta di farlo. Quello che mi rincuora è che la fisioterapista è convinta che io abbia un’ ottima mobilità, è fiduciosa sul fatto che io riesca nel compiere tutto autonomamente. Terminato il tempo a mia disposizione, preferisco comunque rimanere in palestra, l’ alternativa, essere riportata in camera, non mi aggrada, anche perché tutti i pomeriggi ti portano a letto per dormire spostandoti dalla sedia a rotelle al letto a cui vengono alzate le sponde per garantire l’ incolumità: pare di stare in gabbia. Vedere quei pazienti alla presa con gli attrezzi ginnici, rendersi conto di essere circondata da chi ha problemi di mobilità, 59
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non aiuta il mio morale a sollevarsi. Quando non è il mio turno me ne sto buona buona alla scrivania, esercitandomi con le costruzioni o giocando con i chiodini: ho dovuto rinunciare a vivere per troppo tempo, non ne posso perdere altro. Là, gli unici che si muovono sulle loro gambe sono coloro che lavorano nel centro di riabilitazione, gli altri usano la carrozzina. La mattina è un via vai di sedie a rotelle, i corridoi sembrano strade intasate dal traffico, i degenti nervosi automobilisti preoccupati di raggiungere in tempo il proprio posto di lavoro. Io faccio parte di quella realtà, questa è la cruda verità; ero già consapevole della mia condizione, ma lo stare assieme a quei pazienti mi impedisce di dimenticarmene, anche solo per un momento. Quando sono in camera è la mia mente che lavora, fortunatamente non mi ha mai abbandonato. Mi lascio andare, chiudo gli occhi e immagino di scendere per le scale fino al distributore automatico situato a pianterreno, lì mi gusto dell’ ottimo caffè amaro macchiato per poi uscire a fumare la consueta sigaretta. Quel vizio non l’ ho perso, la scoperta di un bagno in cui non va nessuno è l’ occasione per le mie “boccate d’ ossigeno quotidiane”; al mio arrivo si trasforma in una camera a gas, anche perché l’ altezza della finestra mi impedisce di aprirla e non posso di certo chiamare qualcuno in mio aiuto. Raggiungere il bagno, nelle mie condizioni, è come completare un percorso guerra: il mezzo non riesco a condurlo, quindi mi aggrappo al muro o al corrimano per spingermi, ma ci sono sempre ostacoli lungo il tragitto, primo tra tutti il carrello dei medicinali, che, non di rado, ribalto. Sono però più fortunata di molti di loro, infatti il venerdì alle 16,00 ho il permesso di tornare a casa fino alle 20,00 della 60
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domenica. Attendo con ansia l’ arrivo del fine settimana, quanto meno faccio qualcosa di diverso e non ho continuamente a che fare con medici o persone malate. Il venerdì sera Maurizio mi porta a cena fuori; mi lascia fare quel poco in cui riesco autonomamente, interviene immediatamente se ho bisogno; lui capisce subito quando devo essere aiutata senza che io faccia alcun gesto, alleggerisce il mio impaccio scherzando sui disastri che continuamente combino. Quando mi viene a prendere io ironizzo sempre sulla mia condizione e gli chiedo: “Dove ci (io e la mia carrozzina) porti stasera?” Secondo qualcuno mi dovrei vergognare di uscire così. Ma di cosa dovrei vergognarmi? Di sopportare una croce che il Signore mi aveva affidato? Il sabato lo trascorro insieme a mia sorella e Roberto, il suo attuale compagno; mi portano in giro con loro, hanno sempre delle commissioni da sbrigare; non sarà niente di speciale ma almeno è qualcosa che mi distrae. La domenica la trascorro prevalentemente in compagnia di mia zia Maria Teresa e del marito Paolo, poi mi preparo al triste rientro. Come corre veloce il tempo quando te lo godi! E quanto sono corti quei 50 km che ti separano dalla realtà! Già perché a Trevi sono sola, sì è vero c’ è mia madre, Maurizio viene una volta a settimana, ma altre visite non ne ricevo, credo che la compagnia di persone a me care sia uno stimolo in più per accelerare il mio programma di recupero. Ho preso però una certa confidenza con alcuni fisioterapisti, Fabiola una che ha pressappoco la mia età, è quella con cui ho instaurato il rapporto migliore; spesso, quando finisce il turno alle 14,00, passa in camera mia e mi, o forse meglio ci, porta a fare un giro dell’ ospedale, a fumare una sigaretta, o addirit61
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tura a prendere un caffè al bar situato sulla stessa piazza del centro di riabilitazione.
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OLTRE LE GAMBE Sono diventata disabile e devo accettarlo, non posso far finta di nulla, le verifiche sulla mia condizione sono continue e il verdetto è sempre il medesimo; invalido con totale e permanente inabilità lavorativa 100% con impossibilità di deambulare senza aiuto permanente di un accompagnatore. Camminare per me è vitale, purtroppo però non è l’ unica conseguenza che mi porto appresso. Non so più scrivere! Non posso credere che, un consulente del lavoro come me, socio di uno studio commerciale, non riesce neanche a firmare. Prendendo una penna, mi accorgo di non riuscire più a tenerla in mano e il risultato è qualcosa molto più simile a scarabocchi che a parole di senso compiuto. Mi rimbocco le maniche, devo esercitarmi il più possibile per riappropriarmi della facoltà di scrittura. Ricomincio con le lettere dell’ alfabeto come se fossi tornata in prima elementare: una fila di a, una di b, la seguente di c, e così via; prima lettere minuscole, quindi maiuscole; una volta in corsivo, l’ altra in stampatello. Mi faccio anche comprare dei giornali da cui cerco di copiarne gli articoli; all’ inizio metto sempre la data in modo da rilevare eventuali progressi. Le lettere sono sempre staccate tra di loro anche se si tratta di un’ unica parola; nonostante le righe del foglio, andare dritto è un’ utopia: all’ inizio riesco, ma inevitabilmente, ben presto, finisco con l’andare all’ ingiù o all’ insù. Sono anche molto lenta, mi occorre un’ ora per scrivere una pagina del blocco; come se non bastasse la fatica è immane, sembra di stare ai lavori forzati. Controllando gli scritti mi accorgo che solo grazie ad una 63
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minuziosa analisi dei testi sono visibili dei minimi miglioramenti, mi rendo conto che la strada da percorrere per tornare a scrivere, quantomeno decentemente, è ancora molto lunga. Anche i fisioterapisti tirocinanti mi spronano a prendere carta e penna; uno di questi, Franco, vuole che io scriva nome e cognome su un foglio. Io però rimango ferma sulla mia posizione: nessuno vedrà quei segni fintanto che rimarranno incomprensibili. Mi è stata assegnata anche un’ altra fisioterapista oltre Vanda, è Cristina; con lei non svolgo lavoro di palestra, ma prove pratiche come quella di mettere delle mollette in fila, esercizi con i regoli, in sostanza quanto necessario per testare le mie abilità manuali. I risultati sono sconfortanti, non riesco, la volontà ce la metto, ce la metto eccome, ma non basta. Cristina decide di cambiare, dovrò confrontarmi col computer: scriverò ciò che lei mi detterà. Non ho alcun problema con l’ accensione, quello strumento io lo conosco bene, era il mio pane quotidiano quando lavoravo, ma all’ impatto con la tastiera realizzo che quello che era il mio migliore collaboratore non si svela tale: lentezza, mancanza di coordinazione, infiniti errori di battitura mi rivelano il computer un ostacolo insormontabile. Io, un’ istruttrice di nuoto, ho anche problemi con l’ acqua. Per migliorare i miei problemi di mobilità lo staff medico decide di farmi fare degli esercizi in piscina, anche se tra di loro c’ è chi mi ha detto: “Non ti illudere, chi entra in certe condizioni non tornerà mai a camminare!” Non scorderò mai quelle parole e chi le ha dette, è triste dover guardare in faccia la realtà, ma le gambe, più che la malattia, le spezza chi uccide la speranza con frasi inappropriate. Non voglio assolutamente dar credito a quel medico, con im64
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pegno e forza di volontà tornerò a camminare dimostrando a tutti che il duro lavoro paga. Il centro di riabilitazione ha la piscina, è situata al pianterreno, mi aspetta per due lezioni settimanale da 40 minuti. Vedendola, i ricordi di quando insegnavo ai ragazzini tornano alla mente prepotentemente: quante volte ho ripetuto a quei marmocchi, che non mi davano ascolto, di appoggiarsi alla tavoletta e di sbattere i piedi! Ora sono io a dover eseguire i movimenti che l’ istruttore mi impartisce; la parte di piscina in cui mi esercito è molto bassa, in modo che ci si possa camminare, l’ acqua è bollente e mi ricorda, come se ce ne fosse bisogno, che sono malata. Il mio “tuffo in piscina” avviene tramite un sollevatore, non prima però di aver messo un salvagente intorno al collo. Credo appaia evidente il disagio e lo sconforto di quei momenti: io che nell’ acqua sguazzavo come un pesce, sentendomi libera da ogni vincolo, sono ora costretta a immergermi tramite un mezzo meccanico avvinghiata da una ciambella azzurra. L’ uscita avviene in maniera analoga: dopo aver predisposto un seggiolino in acqua, è la macchina che mi riporta con i piedi a terra, o forse meglio, col sedere sulla carrozzina. La piscina ha un corrimano a cui mi aggrappo se l’ istruttrice Lorella non mi tende entrambe le mani, altrimenti è solo lei che mi stimola al movimento. Dopo circa un mese, cominciano a comparire i primi miglioramenti, se mi tengo con la destra riesco a camminare, ma con la sinistra, al momento, non se ne parla proprio. Nell’ uscita non ho più bisogno del sollevatore; normalmente l’ accesso alla piscina è possibile tramite alcuni gradini che, con l’ aiuto di Lorella, salgo. Mio padre mi ha portato un computer che, su suggerimento dell’ assistente sociale, utilizzo per scrivere delle favole per 65
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bambini. Viste le mie difficoltà con la tastiera, procedo molto lentamente, ma è un’ attività che riempie i lunghi tempi morti della giornata; l’ alternativa è quella di giocare a briscola con Osvaldo, un paziente ternano che puntualmente mi batte, ma a me non piace perdere. “Il Natale di Thinky” è il mio primo racconto, è la storia di un orsetto che trascorre piacevolmente e tranquillamente le feste natalizie in famiglia; “Il pesciolino Jolly” è il successivo, con questo voglio evidenziare la mia passione per l’ acqua. Sono passati sette interminabili mesi dal mio ricovero e di miglioramenti fisici ce ne sono stati pochi, nell’ articolazione delle parole poi, ho fatto un passo indietro; la depressione è l’ effetto naturale di tutto ciò. Il mio umore è sotto terra e non so come risollevarlo, per i medici la soluzione è nell’ assunzione di psicofarmaci, ma io mi rifiuto categoricamente di prenderli; la mia testolina funziona alla perfezione, non voglio perciò inquinarla con sostanze chimiche, la lucidità mentale è la mia unica forza e non posso permettermi di perderla. Il rifiuto di quella terapia non è però privo di conseguenze: la commissione medica non sa cos’ altro fare se io continuo a versare in questo stato, quindi decide per le mie dimissioni. Lasciare quel centro equivale ad arrendersi, a dover passare il resto della vita in carrozzina e io no, io non ci sto: se i medici non credono più in me, io credo ancora in Barbara. E poi, quale abitazione potrebbe accogliermi? Non quella di mia madre, è un monolocale, è troppo piccolo, già due persone si ingombrano a vicenda là, figuriamoci cosa succederebbe se fosse invaso in maniera continua da una sedia a rotelle. Non quello in cui vive mia sorella, lì è al terzo piano senza ascensore, oltre al montascale, andrebbe modificato anche il 66
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bagno. E’ mio padre che trova la soluzione, anche se a sua disposizione ne aveva un’ altra più semplice; ma convivere con una convalescente sarebbe stato troppo gravoso, se non per lui quantomeno per la sua compagna. Decide di prendere in affitto un appartamento a Trevi, da lì posso continuare la mia terapia al centro di riabilitazione in day hospital. I medici, vista la mia caparbietà, hanno acconsentito a proseguire la cura in questo modo, ma solo in prova: se non migliorerò nei due mesi successivi, me ne dovrò andare definitivamente. La mia nuova dimora, situata a pianterreno, è un bilocale arredato in stile antico, composto da piccolo soggiorno, angolo cottura, camera e bagno, dalle finestre si gode una splendida visuale su prati in fiore e filari di viti. Come al solito è mia madre che si trasferisce con me, pronta ad assistermi e a provvedere ad ogni mia necessità. Lei sola però non basta, non ha forza sufficiente; per arrivare al centro di riabilitazione, bisogna spingere la carrozzina in salita e io nel frattempo, vuoi per le cure anche a base di cortisonici, vuoi perché il cibo era stato per me una valvola di sfogo, vuoi perché effettivamente mi muovevo ben poco, ho riposto in un cassetto il mio fisico da nuotatrice lasciando spazio a quello della donna cannone. La “signorina Rottermayer”, così io la chiamo, è colei che dispone ove mia madre non riesce; è una signora acida e burbera, con modi molto sbrigativi e indelicati ma efficienti. La mattina alle 8,00 devo recarmi al centro fino alle 12,00, là continuo con i miei esercizi di fisioterapia e manualità. Il pomeriggio sto in casa, guardo la televisione oppure sto distesa sul letto; quando mia madre cucina, cerco di aiutarla pelando patate o zucchine, ma spesso mi taglio; io che ho 67
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sempre odiato i fornelli, trovo ora divertente quei lavori, per me rappresentano un diversivo. Il fine settimana torno a Perugia, nel monolocale ove vive mia madre, facendo le stesse cose di quando ero ricoverata al centro di riabilitazione. La monotonia della mia vita normale viene spezzata il 24 gennaio, giorno del mio compleanno. Già nel pomeriggio, nell’ appartamento di Trevi, ricevo la visita di Katia, una oss che abita in quei paraggi, mi ha portato un regalino e dei bomboloni al cioccolato fatti da lei. Apro immediatamente quel pacchetto che contiene una tazza bianca con fiori viola disegnati, tè aromatizzato ed un passino in bambù. Per festeggiare, mi porta con sé al bar, dove consumo una cioccolata calda e trascorro piacevolmente il pomeriggio. La sera vengono a trovarmi Maurizio, Samantha e mia sorella Laura, accompagnata dal suo partner attuale e dall’ amica Pina. Mi hanno portato il dolce con le immancabili candeline, trenta per la precisione, reca la scritta: “Tanti auguri Barbara, buon compleanno”. In dono ricevo un libro, un maglioncino ed un cappellino di lana. Sono passati i due mesi di prova in day hospital e di miglioramenti neanche l’ ombra, i medici del centro non sono più disposti a curarmi. Che ne sarà di me? Riuscirò mai a venir fuori da questo pantano?
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NON PUO’ FINIRE COSI’ Per ora, non ho alternativa, devo vivere con mia madre, nel monolocale di San Marco. So fin d’ ora che avrò delle difficoltà a cominciare dall’ entrata nello stabile. All’ ingresso infatti, attiguo al portone, c’ è un gradino molto alto e mia madre non ce la fa a farlo oltrepassare a me e alla mia carrozzina. Inoltre lei russa pesantemente, lo ha sempre fatto, prima era un semplice fastidio, ora è una condizione che proprio non riesco ad accettare. Il primo problema viene superato grazie all’ applicazione di un rampa mobile allo scalino; i tappi per le orecchie in gomma sono invece la soluzione al secondo, avevo già provato quelli in cera ma cadevano in continuazione. La difficoltà insuperabile è però lo spazio a mia disposizione; è vero che più di tanto non mi muovo, ma mi sembra di soffocare in questo piccolo posto angusto. Il venerdì e il sabato però esco da quel tugurio andando a mangiare in pizzeria. Il primo di quei giorni, è Maurizio che viene a prendermi; lui continua, da vero amico, ad occuparsi di me e io ho sempre apprezzato il suo aiuto disinteressato. Il sabato è invece il turno di Laura, mia sorella, insieme al figlio Marco e al compagno Roberto. Cambiano i musicisti ma non la musica, ma d’ altronde cos’ altro potrebbero fare per allietare la giornata ad una persona ridotta in quelle condizioni? Con Maurizio è sempre la solita pizzeria ad accoglierci, con Laura invece si cambia in continuazione. E’ convinta che mi faccia piacere frequentare posti nuovi ma purtroppo non è così. 69
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Non posso dire propriamente che mi vergogno, ma provo un pesante imbarazzo nel dover continuamente incontrare persone diverse che mi osservano con sguardo pietoso. Sentirsi ripetere frasi del tipo “Dove la metto?” non è piacevole. La speranza che compensava la vergogna si era affievolita adesso che i medici erano convinti dell’ inutilità delle terapie; non so perciò come fare e non riesco a reagire quando vengo paragonata ad un oggetto. Un lumicino in fondo al cuore c’ è, è il Prof. B., chi altri potrebbe aiutarmi se non lui? Ora però si è trasferito al San Camillo a Roma, è tutto così complicato che viene voglia di desistere, ma non voglio, non posso mollare proprio adesso. E’ mio padre che si organizza per avere un consulto, si reca nella capitale; al ritorno mi informa che il medico vuole che lo chiami al telefono. Con ansia e trepidazione alzo la cornetta del telefono, ho paura di dover finire sotto i ferri per l’ ennesima volta. Già sentire la sua voce mi tranquillizza, ma quello che mi conforta è la sua promessa: “Stai tranquilla Barbara, questa volta non ci saranno interventi”. Pronta ad affrontare questo nuovo viaggio della speranza, come al solito accompagnata da mia madre, mi presento puntuale alle 8,00 all’ appuntamento con Guido. Questi è il titolare di un autonoleggio che svolge anche servizi di accompagnamento; mio padre non se la sentiva di affrontare così tanti chilometri e quindi ha assunto lui. L’ impatto con Guido è decisamente positivo, mi infonde fiducia immediatamente dimostrando subito la sua professionalità, infatti, dopo aver sistemato la sedia a rotelle, da perfetto chauffeur, ci invita a salire dietro. 70
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L’ auto è una Mercedes ultimo modello che già da sola sembra guardarmi con una certa distanza, se poi devo occupare il posto riservato ai passeggeri non mi sentirei proprio a mio agio, prego pertanto Guido di farmi sedere davanti; lui cerca di dissuadermi ma data la mia insistenza lo costringo ad arrendersi. Giunti al San Camillo è il momento di cercare il reparto di Neurochirurgia, non sarà facile trovarlo, sembra di stare in un enorme labirinto. Com’ è diverso questo ospedale da quello di Perugia, è tutto così grande e immenso, non è a misura d’ uomo. E’ Guido che si districa e riesce a trovare la destinazione, ma subito si presenta un problema: la Neurochirurgia è al completo, vengo ricoverata in Neurologia. Penso subito che qua sono veramente in tanti ad avere problemi di testa. Sono di nuovo tra aghi, siringhe e flebo; la mia camera è dotata di tre letti ed a me è stato assegnato quello centrale, sicuramente il più scomodo per chi non può reggersi sulle proprie gambe. La mia sensazione iniziale si è trasformata in certezza: non mi sento un paziente ma un numero, la mascotte del reparto è diventata una tra i tanti casi clinici da risolvere e non un essere umano con una storia sulle spalle. Non mi permetto di giudicare la professionalità del personale ma l’ atteggiamento nei confronti dei pazienti: è sempre freddo e distaccato, ogni richiesta non è vista di buon occhio, appaiono tutti così nervosetti e indisponenti. Quella agitazione generale però, forse originata dal fatto di trovarsi in una grande città, la stanno trasmettendo anche a chi, come me, avrebbe bisogno di essere rassicurato. Mi tranquillizzo solo al momento dell’ incontro con il mio angelo. E’ venuto finalmente a visitarmi insieme ad un collega che 71
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non mi ispira nulla di buono, ma di lui io mi fido ciecamente. Il responso è quello che mi aspettavo: l’ inesorabile risonanza. Sono venuti a prendermi in ambulanza per portarmi a fare l’ esame che deve essere eseguito in un padiglione ben distante dal mio. I barellieri sembra si occupino del trasporto di cose e non di persone, essere costretta a salire su quel “mezzo” è umiliante, e mi fa riflettere sulla gravità della mia condizione. Ferita nel corpo e nell’ anima mi appresto alla risonanza facendo presente al personale della presenza delle protesi interne. L’ informazione resa rende i medici titubanti, io li rassicuro dicendo che a Perugia, nonostante le valvole, mi avevano sempre fatto l’ esame in questione, ma loro non mi credono. Raggiungono telefonicamente mia madre rimasta al reparto di Neurologia; lei si arrabbia dicendo che procedendo senza informarsi preventivamente può costare la vita del paziente. Permanendo il dubbio, decidono di contattare al cellulare il Prof. B., lui non risponde, ma loro non hanno alcuna intenzione di effettuarmi la risonanza senza il suo assenso. Di conseguenza vengo schiaffata su una barella situata in un angolo della stanza in attesa del responso del mio angelo. Trascorrono quattro lunghissime, interminabili ore prima che riescano a rintracciarlo, le passo fissando il soffitto, ogni tanto mi lascio andare e la mente immagina di essere altrove. La sofferenza ha termine nel momento in cui sopraggiunge il professore, conferma che posso eseguire l’ esame. Sono soddisfatta del fatto che avevo ragione, ma capisco che mi trovo in condizioni tali da mancare di credibilità. Tutto questo mi affligge e la situazione non migliora una volta tornata in camera; lì trovo mia madre disperata che impreca contro i medici, la supplico di smettere: quel briciolo di speranza che mi è rimasto è legato comunque alla mia perma72
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nenza al San Camillo. Non è semplice stare qui però, l’ unico svago permesso, oltre alla lettura, è l’ ascolto di musica con l’ auricolare, i televisori sono banditi dall’ ospedale, non c’ è nemmeno la sala appropriata. Passata una settimana di patimenti, il mio angelo, dopo avermi fatto prelevare da un suo collaboratore, mi sottopone ad una radiografia al collo per vedere le condizioni della valvola. Con sé ha una valigetta dalla quale estrae un particolare macchinario che emette strani rumori e una lucetta blu. Appoggiandomelo al collo percepisco immediatamente una sensazione positiva, sento la testa più libera, so che quel bizzarro aggeggio regola il liquido celebrale e spero sia stata intrapresa la strada giusta. Che il mio angelo fosse un mito l’ ho sempre sostenuto, ma ora più che mai ne sono convinta. Ho sempre continuato a fumare, e al San Camillo, avevo trovato un bagno che mi permetteva, grazie all’ ausilio di mia madre, l’ accesso in carrozzina. Arredato in stile settecentesco, con una finestra bassa per favorire la fuoriuscita del fumo, rappresenta il posto ideale per godersi una sigaretta in santa pace; ma non me ne sono accorta solo io: anche due signore di mezza età lo frequentano per lo stesso motivo. Con loro faccio amicizia, trovo, nonostante la differenza d’ età, argomenti di cui discutere, si offrono di portarmi al bar dell’ ospedale la sera dopo che mi madre se ne è andata. Quelle chiacchiere davanti ad una tazza di cioccolata calda mi fanno momentaneamente evadere da quel soggiorno forzato, evocando in me i ricordi delle caipiroske al pub. Appena dopo quella visita col professore, ecco che mi ritrovo in quel famigerato bagno, la strana impressione ricevuta dall’ impatto con quello strumento mi dà un’ energia ormai 73
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da tempo sopita, voglio provare ad alzarmi, il davanzale è davanti a me, ci appoggio le mani, impiego tutte le mie forze e incredibilmente sono in piedi. Certo devo aggrapparmi per non cadere ma il primo obiettivo è stato ottenuto, ora ne ho molti altri traguardi da raggiungere ma sono convinta che ce la farò.
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IL MIO ANGELO NON PERMETTEREBBE QUESTO EPILOGO Una volta sistemata la valvola, cosa che il mio angelo ha fatto, ecco pronto il mio foglio di dimissioni dall’ ospedale, sono pronta per tornare a Perugia. Che fare nella mia città? Per prima cosa devo sistemare i problemi relativi al lavoro. Il periodo legale di assenza volontaria retribuita dal lavoro è terminato, quindi, per non essere licenziata, decido di prendermi quattro mesi di aspettativa. Sono convinta che in quel lasso di tempo migliorerò in modo tale da potermi sedere alla mia scrivania. Se ci riuscirò, porterò con me il regalo di Elisa, una targhetta in legno con inciso il mio nome e gatto Silvestro; in questo modo marcherei il mio territorio proprio come fanno i gatti. Giovane paziente conosciuta durante la degenza perugina, Elisa, innamorata dei cartoons e di Titti il canarino in particolare, affrontava in maniera disinvolta la propria malattia parlandone apertamente con tutti. Nel periodo del suo ricovero, forse perché giovanissima, 22 anni, la vedevi spensierata, si faceva anche fotografare insieme agli infermieri e ai medici con tanto di sorriso. A me bastano i ricordi di quei momenti, non ho mai sentito il bisogno di fermarli con un click, ma il suo modo di vivere la malattia ha contribuito a farmi vedere la mia con occhi diversi. Noi spesso ci punzecchiavamo a vicenda pertanto, sentendosi lei Titti, io non avrei potuto che essere gatto Silvestro. Quella targhetta servirà a farmi ricordare Elisa una volta che sarò tornata al lavoro, d’ altronde proprio questo è il suo desiderio. Non posso rimanere con le mani in mano, per riprendere ad 75
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occupare quel posto devo esercitarmi nella scrittura e riacquistare un buon uso della parola: pagine di quaderni e letture di riviste mi aspettano. Quanto ai problemi di mobilità per ora non me li pongo; l’ ostacolo va superato nel momento in cui si presenta: penserò come fare quando sarò in grado di lavorare. Per alleggerire le mie preoccupazioni, mia madre, con la quale sono tornata a vivere, è sempre pronta a viziarmi e a coccolarmi. Biscottini al cioccolato, crema di riso, patatine, arachidi, coca cola non mancano mai in dispensa e io ne approfitto, forse troppo, tanto che la situazione si è fatta piuttosto pesante. Decido quindi di acquistare una cyclette per tenermi in forma, ma la quantità di pedalate è comunque inferiore a quella delle merendine ingerite. Dato il mio precario equilibrio, Maurizio l’ha sistemata tra due muri, ma raggiungerla non è facile. Mia madre, per quanto si prodighi, non riesce a farmi montare sull’ attrezzo, ed io, indispettita dal dover dipendere dagli aiuti altrui, mi avvicino e aggrappandomi al manubrio mi tiro in piedi. Già è faticoso arrivare alla cyclette, figuriamoci il doverla pedalare con le immancabili perdite di equilibrio che mi fanno finire sempre addosso al muro. Salire e scendere da quell’ attrezzo, oltre ad essere difficoltoso, è fastidioso perché è sempre accompagnato dagli “Oddio” di mia madre che si preoccupa della mia incolumità. Io la rassicuro e la invito ad utilizzare il mezzo dato che è anche lei un po’ in sovrappeso. Al termine della sessione d’ allenamento, chiamiamola così, ciò che gradisco è una bella doccia rinfrescante. Non sempre però la faccio, perché è Elda, un’ amica di mamma di vecchia data che cura la mia igiene. 76
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Il mercoledì pomeriggio è il giorno delle pulizie personali, la mia assistente rimane in reggiseno e mutande, entra nella doccia insieme a me, dopo aver accuratamente predisposto una seggiola nella cabina. Potrò sembrare patetica ma in certi momenti riesci ad apprezzare veramente le piccole cose, realizzi che bisogna gioire se ogni mattina ci si può alzare sulle proprie gambe per andare in bagno a lavarsi autonomamente. Costretta sulla sedia a rotelle, ma con la sicurezza di abbandonarla, mi adopero in tal senso contattando un fisiatra del servizio sanitario nazionale. All’ appuntamento mi reco fiduciosa, ma quello che mi sento dire non è ciò che aspettavo: “Ormai lei si è stabilizzata, ci sono pochi fisioterapisti e ci servono per i casi acuti!”. E io, non sono caso acuto? A 30 anni devo rimanere su di una carrozzina? Quelle parole se per un verso ti demoralizzano, dall’ altro infondono in te nuove vigore perché non posso e non voglio accettare questo castigo. La soluzione però non tarda ad arrivare, un aiuto divino? Elda, l’addetta alla mia igiene personale, mi esorta a contattare un fisioterapista di sua conoscenza, convinta che avrebbe risolto i miei problemi di mobilità. Lui si chiama Salvatore e si dimostra da subito molto ostinato e fiducioso nei suoi mezzi e nei miei, esordisce affermando: ”Non ti porterò a fare i 100 metri, ma una normalissima vita sociale, sì”. Nella residenza in cui si trova l’ appartamento di mia madre ha sede anche un centro socio – culturale per anziani, che, tra l’ altro, ha anche la disponibilità di un ambiente adibito a palestra, l’ ideale per i miei esercizi. Non me lo aspettavo minimamente che quella minuscola e 77
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angusta dimora si rivelasse, un giorno, il luogo adatto al mio recupero. La sala mi attende, Salvatore anche, ed io sarò all’ altezza? L’ educatore inizia a farmi muovere il collo, quindi continua con mani e piedi cercando di farmi coordinare i movimenti; dopo avermi fatto distendere su di materassino, adagiato su di un tavolo, mi esorta ad alzare ed abbassare le gambe. I risultati sono alquanto sconfortanti, ma non mi posso scoraggiare, Salvatore ci crede, io non posso essere da meno. L’ ostinazione e la caparbietà che da sempre mi contraddistinguono, unite alla costanza e alla forza di volontà che sto tirando fuori, mi fanno ottenere dei lievi miglioramenti tali da poter effettuare degli esercizi in posizione seduta. Quello più problematico è alzarsi dalla carrozzina, naturalmente aggrappandomi al tavolo. Salvatore inizialmente vuole che io esegua l’ esercizio con i piedi pari, in maniera tale da avere un base d’ appoggio più ampia. Successivamente, è solo un piede che devo mettere avanti: il destro per rinforzare la gamba sinistra e viceversa. Quando appoggio il sinistro mi sembro la Torre di Pisa che pende, pende, ma non va mai giù. Proseguendo con dedizione e perseveranza, io e il mio educatore giungiamo ad una decisione molto importante: l’ abbandono definitivo della sedia a rotelle. Sono passati un paio di mesi da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme ed ora, finalmente, posso affermare che certi miglioramenti li ho ottenuti se posso muovermi sulle mie gambe. Certo, ho bisogno di un sostegno, ma a toccare terra sono i miei piedi e non le ruote della carrozzina. Un deambulatore è quello cha fa al mio caso; ho la possibilità di scelta tra quello con le rotelle e quello senza, snodabile. 78
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Mi reco nell’ officina ortopedica di fiducia, i titolari li conosco bene, erano miei clienti quando esercitavo l’ attività di consulente del lavoro, ora paradossalmente i ruoli si sono invertiti. Provati entrambi, opto per il modello senza rotelle, mi sento più stabile, mi dà maggior sicurezza. A casa, con quell’ attrezzo, mi esercito costantemente e, nonostante le cadute a ripetizione, sono felice: non dipendo più dagli altri in tutto e per tutto, se devo andare in bagno vado autonomamente. Il mondo che mi circonda è per me terra di conquista, pian pian uscirò da quel monolocale riprendendomi ciò che le mie sventure mi hanno fatto perdere. L’ avventura inizia con la frequentazione del centro socio – culturale in cui gli anziani del luogo si recano per bere qualcosa e giocare e carte. Decisa a non marcire in quell’ appartamento, con il mio ausilio personale, il deambulatore, sono pronta ad affrontare la nuova realtà. Per una trentenne avere a che fare con persone che, nel migliore dei casi, hanno il doppio della tua età non è il massimo del divertimento, tuttavia il confronto con chi ha alle spalle una storia, per forza di cose, molto diversa dalla tua, ti aiuta a comprendere quel mondo ormai lontano. La signora Peppa, una loquace e arzilla ottantenne, è quella con cui passo più tempo; molto spesso però invece di un dialogo è un suo monologo, tanto è il calore con cui racconta gli aneddoti dei bei tempi andati; io però fatico a starle dietro: ho difficoltà a tenere alta la concentrazione a lungo, così accade che sorrido solo per farla contenta. Grazie alle continue sollecitazioni di mia madre, che ora ringrazio ma che immediatamente non ho apprezzato, mi sono anche rivolta all’ assistenza sociale. Il primo contatto, dopo quello del dispensario competente 79
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per territorio, è stato con la signora Anna. Lei, dopo aver visionato le mie cartelle cliniche e chiesto della mia dolente situazione familiare, è riuscita a farmi ottenere l’ assistenza domiciliare senza dover effettuare alcuna visita medica. Ora c’è Cristina che mi assiste tre volte a settimana: il lunedì e il mercoledì dalle 17,00 alle 19,00, il venerdì dalle 15,00 alle 17,00. Andando a letto la sera molto presto, avevo scelto quegli orari anche per via di questa mia esigenza. Con lei si è instaurato da subito un bel rapporto e mi incita continuamente a credere in me stessa e a non mollare. In sua compagnia faccio tutto ciò che posso: chiacchiere, ginnastica, passeggiate, partite a carte, doccia; se è bel tempo poi, mi carica in macchina così da permettermi di uscire da quella residenza. E’ emozionante la sensazione di avere accanto una persona sempre pronta a soddisfare ogni tuo desiderio, anche per poche ore alla settimana, quello che è deprimente è però il fatto che io sono considerata una sua utente, un nominativo a cui prestare assistenza e che al termine della stessa deve apporre la propria firma per il servizio prestato. Cristina questo non te lo fa pesare: con lei mi sento Barbara Gentile al cento per cento, ma con la maggior parte degli altri operatori, che a volte la sostituiscono per motivi organizzativi, ho la sensazione di trovarmi di fronte chi mi considera una paziente tra i tanti, un compitino da portare a termine per ricevere lo stipendio a fine mese. Le mie esigenze poi, Cristina ormai le conosce bene, con gli altri invece mi devo sempre far daccapo. Aspetto comunque con ansia quelle ore a me dedicate, è comunque un’ alternativa alla consueta uniformità giornaliera. La mattina è dedicata, oltre agli esercizi di fisioterapia con Sal80
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vatore, a quelli di scrittura e lettura ad alta voce. Non noto sensibili progressi, ma la loro assenza non mi scoraggia anzi, penso che se non ho fatto miglioramenti è perché non mi sono impegnata abbastanza, quindi proseguo a testa bassa. L’ alternativa quale sarebbe poi? Guardare la televisione? No, grazie, ho altro di più utile da fare. La domenica sono le zie: Maria Teresa e Antonietta a tenermi occupata, dapprima invitandomi a pranzo, quindi giocando a carte, a Machiavelli per la precisione, passatempo molto divertente che favorisce una certa elasticità mentale per le numerose combinazioni previste tanto che poteva essere ideato dal famoso scrittore. Continuo a sentirmi col mio angelo, ed essendo passato un mese dalle mie dimissioni dal San Camillo, decide di convocarmi nuovamente.
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LA LOTTA CONTINUA L’ impeccabile Guido mi dà appuntamento alle quattro del mattino convinto di evitare il traffico del raccordo anulare. Io lo assecondo, o meglio, penso che guidare è compito suo e so che lo svolgerà al meglio, dal canto mio se ancora ho sonno dormirò. Come previsto, durante il viaggio cado inevitabilmente tra le braccia di Morfeo, tanto sono tranquilla: di Guido mi fido ciecamente, mia madre è sempre con me pronta a sostenermi. Con mezz’ ora di anticipo ci presentiamo all’ incontro con il professore, il deambulatore l’ abbiamo lasciato in auto, è Guido che mi aiuta negli spostamenti. Alle 9,00 in punto, preciso come un orologio svizzero, ecco presentarsi il mio angelo, indossa il camice verde che mi fa venire in mente la sala operatoria. No, fortunatamente non interviene su di me, quello che devo fare ora è una risonanza magnetica e una radiografia. Una volta eseguiti quegli esami sono di nuovo al cospetto del mio angelo che tira fuori ancora quello strano macchinario che emette la lucetta blu. Me lo avvicina, non conosco il nome di quel coso, so però che agisce sulla valvola del collo allargandola o restringendola in base alle necessità del caso. Una volta terminato, vengo sottoposta ad un’ ulteriore radiografia per verificare se la manipolazione effettuata ha dato gli esiti sperati. Momentaneamente è tutto a posto, posso tornare a casa, ma di certo non è finita qui. Come potrebbe esserlo poi? Non ci sto, non mi arrendo, continuo a crederci anche se tutto intorno a me sembra darmi torto e gli altri hanno perso ogni speranza. 82
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A riprova di ciò ecco che un giorno vedo comparire mia sorella, ha una lettera con sé, infatti, anche se non sto più da lei, la mia residenza è rimasta quella. La busta è intestata, è della concessionaria presso cui lavoro e la prima cosa a cui penso è che si tratta degli auguri di pronta guarigione da parte dei colleghi. Purtroppo non è così, è una lettera di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Di seguito il testo: “In relazione a quanto precedentemente intercorso, ed a quanto stabilito dagli artt. 93 e 99 del C.C.N.L. del settore terziario, applicato dalla scrivente azienda, in materia di periodo di comporto, ed avendo la S.V. superato il limite massimo previsto per la conservazione del posto di lavoro in relazione ad eventi di malattia, siamo con la presente a risolvere il rapporto di lavoro in data odierna. Le comunichiamo che le competenze finali Le verranno liquidate con la retribuzione del mese di febbraio 2006. Ringraziandola per la collaborazione concessaci, siamo a porgere i più distinti saluti.” Fa male, veramente male essere licenziata così, avrei quantomeno gradito un avvertimento da parte dei colleghi, e invece no, come un fulmine a ciel sereno eccoti presentata quest’ altra batosta. Mi rendo conto che nelle mie condizioni non potevo ricoprire la carica per cui ero stata assunta, ne probabilmente la semplice impiegata, ma la freddezza della lettera, la mancanza di umanità e di fiducia, crollano come un macigno su quel briciolo di speranza che mi rimane. Mi sento vuota, inutile, il mio corpo non agisce più come prima, ma la testa sì, quella funziona normalmente, anche se ci sono evidenti difficoltà nel dimostrarlo. Non posso fermarmi, ho necessità di uscire dal quel mono83
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locale che sembra imprigionarmi, e dato che mia madre non ce la fa da sola a farmi uscire di lì, è ora di mettere mano ai risparmi. Col senno di poi sono convinta che, prima della malattia, sarebbe stato auspicabile qualche momento libero da impegni per fermarsi a riflettere, ora invece sono costretta a dover pagare per avere compagnia; come sono cambiate le cose! Giuly, una donna di colore piuttosto in carne, dall’ aria tranquilla e dall’ aspetto rassicurante è la persona scelta a colmare parte dei momenti bui. Ero sempre stata diffidente, se non razzista, nei confronti delle persone di carnagione scura, mi era stato inculcato e io, ingenuamente e stupidamente, avevo condiviso quell’ opinione senza mai però verificare di persona. Ora mi rendo conto dell’ enorme sbaglio commesso, non è certo il colore della pelle a rendere una persona migliore o peggiore di un’ altra. Ogni mattina Giuly viene a prendermi e mi porta a camminare, se così si può dire; la nostra meta preferita è un’ area destinata a parco, denominata percorso verde, situata nelle vicinanze dello stadio. La fatica è immane ma io, sospinta dalla voglia e dalla grinta, riesco a muovere le gambe, naturalmente con l’ aiuto della mia assistente che si deve, purtroppo per lei, sobbarcare tutto il mio peso. In quel posto c’ è un chiosco dove, quando non ce la faccio più, ci fermiamo per bere qualcosa o per gustarci un gelato; scambiamo anche due chiacchiere, anche se ci sono problematiche nella comunicazione: io non articolo bene, lei parla poco l’ italiano. Il sabato è il giorno dedicato allo shopping, non mio, ma di mia sorella Laura. Che cosa dovrei acquistare io? 84
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E in occasione l’ avrei indossato? No, in questo momento non mi interessa questo o quel capo d’ abbigliamento, non mi importa nemmeno ciò che lei compera, vado solamente perché si tratta di un’ occasione per uscire. Ad accompagnarci c’ è sempre Roberto, il suo compagno, è lui che si preoccupa dei miei spostamenti, è sempre pronto ad aiutarmi, oserei dire che è un santo. Sabato sera, sempre loro, mi portano a cena fuori o in un pub. Se si va in qualche locale dove si balla, si prenota sempre il tavolo, perché io devo rimanere sempre seduta, ed è già molto difficile per me rimanere composta in quella posizione. Vedo tutti intorno a me che ridono, si divertono, ballano; io non ci riesco, il sorriso l’ ho perso da tempo e un unico interrogativo ho fisso in testa: perché? Mi sento un relitto, un rifiuto della società, se me ne scordassi per qualche momento, ci sono sempre gli sguardi pietosi della gente a ricordartelo. Quegli occhi però non guardano i tuoi, sono sempre bassi, non hanno il coraggio di confrontarsi con me, non vogliono vedere oltre le apparenze, non riescono ad individuare una persona ma solo il problema che la tormenta. “Porellina”, è così che vengo etichettata da tutti, questo termine indica solo compassione e non comprensione, quello di cui io avrei bisogno. Visto che miglioramenti sensibili non sono stati ottenuti finora, è anche ora di muoversi su di un altro fronte: ottenere i benefici della legge 104. Questa norma permette, ad un familiare, di avere un giorno a settimana retribuito per accudirmi, nonché uno sconto per l’ acquisto dell’ auto e relativo adattamento; la contropartita è un riconoscimento di cui farei volentieri a meno: essere dichiarata HANDICAPPATA. Con Giuly e mia madre mi reco sul posto ove riceve la com85
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missione e dopo due ore d’ attesa è arrivato il mio turno. Cinque sono i medici schierati dietro le scrivanie e pronti a giudicarti; l’ esito è quello “sperato”, ma che non vorresti mai sentire pronunciare: handicappata grave. Ormai sono considerata solo un peso per la società, un oggetto a cui, per forza di cosa, va prestata attenzione, non un soggetto che può, in qualche modo, contribuire allo sviluppo. Ma non è così che io mi sento e in barba alle sentenze mediche decido di frequentare anche il corso di volontariato per assistenza sociale. Tramite conoscenze ero venuta a sapere di un’ organizzazione che impartisce tali corsi, le lezioni le tiene il signor Giuseppe ed hanno luogo una volta alla settimana in periferia. Gli argomenti trattati sono quelli relativi alla sicurezza e agli interventi di primo soccorso come il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca da praticare su di un manichino. Il mio contributo è limitato, forse addirittura nullo se si tengono in considerazione solo le esercitazioni, ma dal punto di vista teorico io apprendo e ne faccio tesoro. Quello che mi piace del corso è la considerazione dell’ individuo che ha questa associazione al contrario di molte altre: un soggetto da assistere va trattato comunque come una persona, non è solo uno a cui prestare certi servizi perché ne ha bisogno. Il corso è frequentato perlopiù da giovani con i quali esco a fumare una sigaretta una volta terminata la lezione. Si è proprio instaurato un bel rapporto sia con i praticanti, sia con gli organizzatori, tanto che decido di partecipare al campus organizzato dall’ associazione; naturalmente ho bisogno dello loro assistenza che sono sicura non mancherà. La finalità principale di questa attività, che si svolge su un colle nelle vicinanze, è quella di stare due giorni insieme, ma ce n’ è anche un’ altra: ripulire i dirupi circostanti. 86
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Appena arrivata mi viene subito attaccato un cartellino che reca la dicitura “visitatore” e poi iniziano subito le attività legate al campus. Prima di tutto vanno montate le tende, sono otto: cinque adibite a dormitori, una a magazzino, una a mensa, l’ ultima a postazione di controllo presidiata 24 ore su 24 con cambio ogni sei. E’ triste partecipare e non poter collaborare, non è nemmeno il caso che io dorma in tenda: quindi mi faccio venire a riprendere e poi tornerò l’ indomani mattina. Non mi va poi di chiedere aiuto agli altri a meno che non si tratti di qualcosa di indispensabile, quindi la mia partecipazione attiva è sostanzialmente ridotta a quattro chiacchiere al momento di consumare il pasto. L’ ultimo giorno di campus è prevista il ringraziamento a tutti i partecipanti e la consegna degli attestati. A me non viene rilasciato alcunché, ma le parole di Giuseppe: “Prima guarisci, poi sicuramente potrai essere d’ aiuto” mi confortano: non sono, non mi sono mai sentita, ne mai mi sentirò un oggetto, le mie attuali capacità sono limitate, ma non manca il desiderio di migliorarle e metterle a disposizione degli altri. Sono disposta a tentarle tutte, anche di andare a Milano, da un professore contattato da mia madre che si dice sia un luminare in questo campo. L’ idea non mi entusiasma, la fiducia è riposta solamente nel mio angelo, so che è lui che riuscirà a risolvere definitivamente i miei problemi; non mi importa invece dei riconoscimenti ottenuti da quel professore, ma andrò comunque, l’ opportunità va sfruttata e poi non posso deludere mia madre. Affrontare un viaggio così lungo mi impensierisce, ma la divina provvidenza mi ha dato una mano: Giuseppe, il tutor dell’ associazione di volontariato, e un suo collaboratore Nicola si 87
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propongono per portarci a destinazione. L’ auto con cui si presentano è proprio quella di quest’ ultimo, è un fuoristrada con sedili in pelle in cui io e mia madre veniamo invitate ad accomodarci nella parte posteriore. Dopo cinque ore, puntuali per l’ appuntamento, raggiungiamo la meta; il viaggio è stato decisamente confortevole ed io ne ho approfittato per dormire un po’. L’ ambulatorio si trova all’ interno di un palazzo signorile in una zona centrale di Milano. Giunta in sala d’ aspetto, vedendo una sola persona attendere, mi sorge subito il dubbio sulla competenza del medico relativamente al mio problema; sarà anche vero che io sono partita prevenuta, ma l’ impatto con quell’ ambiente non mi entusiasma. La segretaria mi comunica che è arrivato il mio turno, aiutata da mia madre, percorro un lungo corridoio con moquette blu alle cui pareti sono appese immagini di corpi umani, teste e cervelli in maggior parte. Ecco la porta dell’ ambulatorio, è in ciliegio, ha una targa in ottone che riporta il nome del professore e l’ ospedale presso cui è primario. La segretaria ci presenta al medico che subito ci invita ad accomodarci sulle seggiole in prossimità della scrivania; noto immediatamente delle formalità che non mi fanno sentire a mio agio, col mio angelo è tutto diverso, infatti la prima cosa che fa quando lo vado a trovare è quella di darmi un bacetto; d’ altronde però questo qua non mi conosce, dovrebbe comportarsi diversamente? Mentre lui esamina le cartelle cliniche, mia madre racconta tutta la vicenda ininterrottamente, soltanto qualche “uhmm”, mugugnato dal professore, intreccia quella narrazione. E io… mi dovrei far curare da uno che fa “uhmm”? Si passa quindi ad un’ accurata visita medica seguita da eser88
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cizi del tipo toccare la punta del naso con l’ indice della mano destra e sinistra, prima ad occhi aperti, poi chiusi. Non so se dipende dalla scarsa fiducia che ho nei confronti di questo tizio, ma ora questi esercizi non mi riescono proprio. Noto che la mia presenza lo inquieta, è come se non sapesse dove andare a parare ed infatti mi congeda dicendo: “Cara Barbara, rassegnati, dovrai rimanere così”. Non sono delusa più di tanto, forse perché la speranza riposta in lui era veramente poca, ma rassegnarmi non è una voce appartenente al mio vocabolario. Il ritorno a Perugia, alla solita routine quotidiana, viene però presto interrotto. Improvvisamente mi accorgo di non riuscire a parlare e mi mancano forze per stare in piedi. E’ necessario tornare a Roma, dal mio angelo, così alle quattro del mattino, con Guido, il mio personale chauffeur, mio padre e Rita, la sua attuale compagna, siamo pronti per partire alla volta del San Camillo. Effettuati i soliti esami: risonanza magnetica e radiografia, mi appresto all’ incontro con il mio angelo. Lui estrae dalla sua valigetta quello strano macchinario a me già noto, me lo accosta al collo, ma in questo caso non emana alcuna luce. Mi informa che questa volta non può stringere la valvola dall’ esterno, è quindi necessario operarmi con anestesia locale.
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L’ULTIMA BATTAGLIA Mi ritrovo nuovamente a consegnare la tessera sanitaria alla caposala, la quale si era già adoperata per preparare i fogli del ricovero e un indispensabile posto letto. Essendo una vicenda imprevista non avevo con me il “corredo da ospedale” indispensabile per il soggiorno. L ’inevitabile andata e ritorno a Roma di Vincenzo per farmelo avere, mi regalò cinque interminabili ore di solitudine durante le quali poter incontrare le ferite dell’anima ancora aperte. Per stare entrambi più tranquilli, nonostante dovesse intervenire nel collo, il Professore decise di farmi rasare la testa completamente. Inaspettatamente la mattina dell’intervento ebbi l’indesiderata visita della febbre, che fortunatamente non fu d’ostacolo. L’iter pre-operatorio era diverso, fui accompagnata ai bagni del reparto per fare una doccia disinfettante; l’ operatrice di turno sistemò all’interno del lavaggio una sedia su cui mi sarei seduta. Fui quindi accompagnata in sala operatoria dove il mio angelo eseguì l’operazione; mi spiegò successivamente che la valvolina si era capovolta e per questo motivo non riusciva a risolvere il problema dall’esterno; decise come regolare il drenaggio, pertanto fui costretta a rimanere ricoverata. Dovevo comportarmi diligentemente se non volevo essere sgridata, non ero più la “cocca del reparto”pertanto non potevo utilizzare il cellulare, tanto meno il televisore; gli infermieri non assecondavano ogni mio capriccio come avveniva nel reparto di Perugia. Non volevo avere dei trattamenti di favore, ma essere considerata una paziente come le altre mi infastidiva; erano quattro anni che vivevo in un reparto d’ospedale, erano quattro anni 90
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che andavo in sala operatoria dopo aver rasato ogni volta la testa, erano quattro anni in cui le uniche relazioni sociali consentite erano quelle col personale medico o con quello infermieristico. Non vedendo variazioni fisiche, ma solamente peggioramenti d’umore il Professore mi spostò in un’altra camera dove c’era Gioia un dolce ragazza di 23 anni che tenevano da giorni in osservazione. Instaurai un rapporto che mi aiutò a combattere quella fastidiosa sensazione di paura, accentuata dall’ingresso in sala operatoria. I giorni passavano lentamente, aspettavo l’arrivo dell’assistente che al momento mio padre aveva assunto, per fare “due passi” nel corridoio e arrivare sulle scale dove finalmente potevo fumare una sigaretta. L’umanità che contraddistingue il prof. B. non tardò ad emergere infatti mi consegnò la lettera di dimissioni, ero libera potevo tornare nella mia città e vivere. Ma come? In che condizioni? Quando i miei coetanei facevano la fila per entrare in discoteca a ballare, io la facevo per fare le analisi del sangue, la TAC o la risonanza magnetica. Non riuscivo a superare quattro passi con il deambulatore, bevevo e mi usciva l’acqua dal naso, parlavo in maniera incomprensibile. Era finita? Le avevo provate tutte? Per me era così quando il mio angelo prese la decisione decisiva di sostituire la valvola del collo, con una non regolabile. Avevo conquistato la libertà di poter scegliere, operarmi e sperare in un miglioramento o rimanere in quelle condizioni per il resto della vita. 91
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Conquistarsi la fiducia altrui è così difficile quanto è facile perderla, questa non si ottiene a parole ma va meritata tramite fatti concreti e lui questi fatti li aveva compiuti più di una volta. Fu pertanto facile prendere una decisione rispetto alle difficoltà che incontrai nel portarla a termine; difficoltà organizzative dato che in questa occasione sarebbe rimasto mio padre ad assistermi e difficoltà nell’accettare nuovamente di essere ricoverata nell’ospedale che mi vedeva come un numero. I duri rapporti che avevo con mio padre non furono d’aiuto, anche perché non feci assolutamente niente per cercare di ammorbidirli, al contrario provocai un’intensa discussione causata dal mio ostinato rifiuto nel voler smettere di fumare. Con la prescrizione di rimanere a riposo, dopo aver subito l’intervento e sopportato sette giorni di degenza, potei tornare a “casa”. Rimanere a riposo significava in questo caso stare a letto, idea per me non accettabile; oramai era da troppo tempo che rivestivo il ruolo di paziente e grazie alla mia caparbietà riuscivo a mantenere la posizione eretta. Come potevano chiedermi di stare nuovamente a letto? La libertà è anche il poter scegliere quello che riteniamo più giusto per noi stessi, anche se talvolta non lo è veramente. Non ascoltai il consiglio del medico e il giorno successivo al ritorno da Roma provai a camminare; questa volta non bastò la grande forza di volontà a tenermi in piedi. La testardaggine che mi accompagna presentò il conto, la caduta aveva provocato la frattura ai tre malleoli della caviglia destra rendendo necessario un intervento. Entrata al Pronto Soccorso con i punti ancora in testa, solamente il pensiero di tornare sotto i ferri mi sembrava inammissibile. La compassione che avevo fatto nascere nei cuori dei medi92
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ci di turno fece in modo che una dolorosissima quanto indispensabile manovra manuale, rimettesse l’osso in linea. Talvolta per andare avanti siamo costretti a fare dei passi indietro; il gesso applicato sulla gamba destra, la meno malandata fece fare questo passo costringendomi a stare nuovamente seduta in sedia a rotelle. In questa condizione era molto più difficoltoso aiutarmi dato che l’ ortopedico aveva proibito di appoggiare il piede a terra. Come se non bastasse. mi innervosisce sentirmi poi dire continuamente frasi come “Sono cose che succedono”, “Tra poco non è più niente”, “Forza non ti scoraggiare adesso” pronunciate da chi è sicuro di darti un conforto. Ero nuovamente inchiodata sulla sedia a rotelle e ora non potevo nemmeno mettere i piedi a terra, ma c’era Chi ascoltava il grido del mio cuore e le preghiere che giornalmente Gli rivolgevo. Per compensare i limiti nello svolgimento delle attività quotidiane e le condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale, venne Giusy a svolgere il ruolo di “badante”, la quale non mi considerava come “peso della società” solo perché non potevo fare le stesse cose che fanno le altre persone, anzi andava controcorrente, non permetteva ad una piccola disfunzione fisica di porre ostacoli. Come l’arrivo della primavera viene visto come un periodo di rinnovamento e risurrezione della natura, l’ entrata di Giusy nella mi vita fu considerato come un nuovo inizio.
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INIZIARE A RICOSTRUIRE… Quello che finora è stato narrato è il periodo della malattia in senso stretto. Ho preferito raccontarlo al presente cercando di immedesimarmi nelle situazioni già vissute, dato che è, almeno momentaneamente e spero definitivamente, concluso. Da qui inizia una nuova fase che è quella della ricostruzione. E’ una condizione sicuramente meno dolorosa, ma altrettanto difficile. Quando si è malati si pensa, se si riesce a pensare, solamente a guarire, quando non li si è, si devono impegnare tutte le forze per raggiungere gli obiettivi prefissati. Tutti in fondo, chi più chi meno, devono ricostruire qualcosa o almeno sistemarla: non si può vivere senza scopi. Trattandosi di una fase ancora in atto, per i fatti già accaduti non potevo utilizzare il presente, in quanto c’è stato un passato e ci sarà un futuro. Indossare i vestiti? Levare il pigiama? Che significa? Come si fa? Queste erano alcune delle domande che rivolgevo al sorridente viso di Giusy, la quale puntuale alle 8:00 di mattina bussava alla mia porta. La paura della diversità spesso blocca parole e fatti che invece potrebbero far sbocciare relazioni vere e profonde; lei si comportava come una sorella aprendo l’ armadio e abbinando jeans e magliette che non avrei mai creduto di poter indossare ancora; completava il tutto con un paio di orecchini e un filo di trucco. Era sempre la sedia a rotelle che permetteva i miei spostamenti, ma finalmente sopra di essa c’era un’altra persona identica nel corpo, ma completamente differente nell’anima; una persona che crede nuovamente alla vita, una persona capace 94
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di sorridere e donare emozioni, una persona che non vede solo aghi, flebo e reparti ospedalieri. La mia “badante” Giusy ha sempre lottato e creduto come me, che le parti che formavano Barbara avevano solo perso l’incastro giusto ma si potessero ”ricongiungere”. Per far sì che un’opera risulti “perfetta”, o meglio bella da ammirare, ogni tassello del puzzle deve tornare al suo posto, quindi è inutile sistemare il corpo fisico tralasciando quello mentale e quello spirituale. Necessitavo pertanto di una riabilitazione fisica, mentale e dell’anima. Per fare ordine in testa pensai di seguire una terapia dallo psicologo e non volendo andare allo sbaraglio, contattai l’ assistente sociale, la quale mi avrebbe sicuramente indirizzato nel posto giusto. Mi consigliò una dottoressa di sua fiducia al Centro Salute Mentale. Arrivai nel suo ufficio e mi i sedetti di fronte e nonostante il distacco che si creava dalla formalità della conversazione, sentii subito che era una persona di cui potevo fidarmi e soprattutto che mi avrebbe dato l’aiuto che cercavo dato che sapeva il fatto suo e perciò come rispondere ai miei continui ed ingiustificati attacchi. La mente ha un potere immenso, sia nel bene che nel male, volevo con il suo notevole aiuto programmarla alla guarigione. Parlammo per un’ora quella mattina e poi continuai le sedute per altri quattro anni, durante i quali fu molto utile l’uso del “bastone e della carota”. Le ferite dell’anima erano così profonde da poter essere guarite solo da Dio, quindi dovevo trovare in terra un “infermiere” altrimenti avrebbero sanguinato per il resto della vita. Mi fu subito aperta una strada quando incrociai Fra’ Paolo, 95
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ragazzo di media statura, capelli e occhi castani molto profondi nascosti da semplici occhiali che indossava un saio color marrone. Con lui ho un iniziato un percorso di Fede articolato in due differenti ”terapie”: colloqui individuali e catechesi collettive. Certa di ricevere da lui il conforto di cui il mio cuore aveva tanto bisogno, gli chiesi un appuntamento in cui poter sfogare tutta la rabbia che mi stava dominando. Fu un ‘esperienza molto forte, la prima volta, dopo la malattia, che mi sentii piena, completa, forte e sicura di me; tramite Fra’ Paolo Dio mi stava donando quell’ Amore che cercavo e che mi riempiva il cuore e l’anima. Dovevo solo riuscire a prolungare questa sensazione che non poteva limitarsi ad un’ora ogni tanto. Arrivò l’ occasione nei successivi incontri, Fra’ Paolo mi consigliò di frequentare un percorso spirituale in cui veniva spiegata la Parola chiamato i “10 Comandamenti” dove cominciai ad imparare la difficile pratica del perdono. Prima di “buttare le basi” avrei dovuto perdonare me stessa: non ero ancora riuscita ad accettarmi in quelle condizioni. La fiducia che Fra Paolo si era conquistato mi condusse in un ambiente familiare, in cui si poteva sentire l’ Amore per Dio e per il prossimo, i limiti fisici non facevano paura, anzi erano visti con rispetto ed ammirazione. Ho sempre considerato , non so se correttamente, il recupero fisico come una componente fondamentale e per questo motivo credo di averle provate proprio tutte. Un aiuto fu la “ Piramidoterapia”, per aumentare il rilassamento profondo e la visualizzazione creativa, nonché aumentare la risposta di guarigione in generale. Orientai quindi le mie energie nel Tai Chi, utile alla mia condizione dato che i movimenti lavorano sulla fluidità mentale, dopo la positiva esperienza dello yoga che poi avrei ripetuto 96
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negli anni successivi. Gli innumerevoli avvenimenti succedutesi avevano dato uno stop alla dura salita, quello più importante era che riuscivo a spostarmi con due stampelle e potevo con molta attenzione “sopravvivere” senza dover sottostare agli impegni altrui, non mi volevo accontentare. Sarebbe stata questa la vita che mi aspettava? Avevo vinto la morte arrivando così avanti, per cosa? Molti fisioterapisti mi dicevano “devi sentire quello che dicono i piedi”, ma la sensibilità in quella parte del corpo era molto ridotta, pensai perciò di provare la riflessologia plantare, cioè la “terapia” che si basa sul principio per il quale il piede rappresenta l’intero corpo, quindi premendo nella pianta un determinato punto si agisce sull’organo corrispondente. Il riflessologo mi stese su un lettino, tenendomi i piedi nudi con le mani e iniziò una manipolazione di circa quaranta minuti. Appoggiando successivamente i piedi a terra mi accorsi con notevole meraviglia, che la sensibilità era notevolmente aumentata. La prova dell’ effettiva importanza che aveva per me tale terapia, non tardò a mancare, erano giorni caratterizzati da precipitazioni nevose e finalmente potei dire di AVERE i piedi gelati. Cominciai nuovamente un ciclo di fisioterapia, in un luogo che a differenza delle altre palestre era molto accogliente, il pavimento il soffitto e i muri laterali erano in arancione e gli ausili per “handicappati” erano pochi. Ad accogliermi c’ era Giorgio, poi ribattezzato in Giorgino che dall’inizio, era riuscito ad infondermi una notevole fiducia, aveva un non so che di paterno e protettivo, unito a forte sensibilità e simpatia. Il “mio posto di combattimento” erano le parallele poste di 97
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fronte ad uno specchio. Per rendere il tutto più incisivo, aggiunsi anche il corso di “antiginnastica” che è un viaggio all’interno del proprio corpo. E’ la tecnica terapeutica che propone movimenti lenti e misurati del corpo, volti al riequilibrio muscolare, all’ analisi della cognizione corporea, interessando il soggetto nella sua globalità. Si tratta di un lavoro cosciente su se stessi, che permette di scoprire dove si celano le tensioni e di alleviarle tramite movimenti di estensione della muscolatura posteriore, in particolare delle catene cinetiche (costituite da quei tessuti muscolari che noi generalmente usiamo nella posizione eretta). La lezione veniva svolta in una stanza in parquet illuminata da una luce soffusa. Accanto alle pareti venivano distesi a cerchio dei tappetini che venivano utilizzati dai partecipanti. L’ insegnante, fisioterapista, con una voce dolce e sicura ci chiedeva di mettere l’attenzione su una parte del corpo. Successivamente ci insegnava esercizi tramite l’utilizzo di una pallina di gomma. Questo consentiva al mio corpo di rilassarsi completamente. Tale disciplina era in netto contrasto con il corso di ginnastica dolce che seguivo due volte a settimana. TUTTE! Le dovevo provare tutte. Conobbi un fisioterapista che svolgeva lezioni di “recupero funzionale” in acqua, diceva che non è la forza fisica che conta ma quella mentale. Con l’utilizzo di tubi in gomma che mi tenevano a galla, muovevo le gambe per disegnare il passo. E’ stata una delle prove più difficili da superare: un’ex istruttrice di nuoto che impartiva ordini a bordo vasca, ora si trovava nella situazione opposta e non era nemmeno la prima volta!
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…GUARDANDO NELLA DIREZIONE GIUSTA!! Gli occhi sono gli organi che ci permettono di vedere, ma sarebbe più corretto dire che sono gli strumenti che percepiscono le immagini che poi vengono rielaborate dal cervello. Si spiegano così le illusioni ottiche che costituiscono una falsa rappresentazione della realtà dovuta al fatto che quella situazione non è accettabile per la nostra mente. E con tutto quello che era successo alla mia testolina, anche la vista ne risentì. Da un controllo di routine scoprii di essere affetta di diplopia, disturbo agli occhi che non permette loro di operare congiuntamente, detto in altre parole vedevo doppio. Non è che non mi fossi accorta del problema, ma tendevo a minimizzarlo; quando guidavo e dovevo entrare in uno spazio piuttosto stretto mi aiutavo chiudendo un occhio. La diplopia, oltre ad essere un pericoloso sintomo di malattie ben più gravi e al fatto che mi aveva procurato un leggero strabismo, io la dovevo assolutamente curare perché era la causa delle mie continue cadute a terra, ma soprattutto impegnava il mio cervello in maniera esagerata, provocandomi un inutile spreco di energie e l’ impossibilità di concentrarmi diversamente; di ciò non ero consapevole ma lo appurai alla visita col medico optometrista. Cominciai così a praticare degli esercizi, piuttosto semplici anche se impegnativi; montai delle lenti prismatiche agli occhiali in maniera tale che il mio sguardo si focalizzasse su un determinato punto, inizialmente con prismi non proprio esatti, mi dovevo infatti ancora abituare. Dopo dieci giorni i risultati erano già evidenti, riuscivo a tenere la mente molto più libera, così gli esercizi divennero più complicati e decisi di procurarmi delle lenti prismatiche precise. 99
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I continui progressi non erano sufficienti a risolvere il problema radicalmente, l’ unica soluzione definitiva era un intervento chirurgico. Avevo già subito tante operazioni, ma questa sarebbe stata diversa, principalmente perché ero io a volerla fare. Nonostante fossi abituata alla sala operatoria questa esperienza fu diversa dalle altre: feci subito gli esami e poi rimasi a casa nell’ attesa della chiamata per il ricovero, stavolta finalmente non aspettavo distesa su un letto dell’ ospedale. Quando sul mio cellulare comparvero come cifre iniziali 578, capii immediatamente che era arrivato il momento, quei numeri li conoscevo bene e risposi immediatamente; mi fu detto di presentarmi digiuna alle 7 di mattina del mercoledì successivo e di non bere dalla mezzanotte precedente. Appena chiusi, tirai un profondo respiro e subito dopo pensai come organizzarmi: non era affatto facile in quanto potevo contare solo sulle mie forze, ma questa volta serviva un aiuto esterno, così mi rivolsi a mia zia Maria Teresa che mi accompagnò in ospedale. Invocai anche il Papa per il terrore di diventare cieca. Quando mi svegliai sentivo tanto bruciore, ma la gioia fu immensa perché, anche se gli occhi erano coperti da bende, attraverso esse filtrava la luce e avrei voluto urlare dalla gioia ma sapevo che certi comportamenti non sarebbero stati tollerati. Andò tutto come mi ero augurata e l’ indomani stesso fui dimessa.
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LA “SVOLTA” DI BABBO NATALE Quando ero in ospedale “passavo” davanti a quello specchio che mi ha riflesso l’immagine un miliardo di volte, ma che all’improvviso rispecchiava, qualcosa di strano e inquietante. Mi ci sono voluti dodici anni per accettare e affezionarmi alla nuova Barbara, che non era cambiata tanto nel corpo quanto nell’anima. A confermarlo erano gli occhi che rendevano visibile al resto del mondo il dolore e la sofferenza che attanagliava il cuore di quella disperazione che è il risultato di giorni di solitudine e di mancanza d’amore. Sarebbero mai cambiati? Sarebbero tornati a brillare? Le condizioni di vita di certo non aiutavano. Ero in “carcere” e i pomeriggi chiamiamoli di “libera uscita” erano i giorni in cui avevo l’assistenza domiciliare che, nonostante avesse avuto notevoli cambiamenti in maniera direttamente proporzionale al mio stato di salute, era sempre attiva. Assistenza domiciliare, operatore sociale, utente, foglio di lavoro… Queste sono alcune delle parole che sono entrate a far parte del mio vocabolario quotidiano, ma che solo dopo anni sono riuscita a capire. Tutto si è chiarito con il tempo, quando ho compreso che non potevo pretendere di appropriarmi della vita di chi mi vuole bene. Noi ragazzi disabili abbiamo maggiori esigenze e per poter svolgere gli atti quotidiani, come andare in bagno o mangiare abbiamo bisogno di più tempo e di una costante vigilanza. Ho confuso per molto tempo la figura dell’operatrice sociale con quella dell’amica chiedendo e spesso pretendendo dalla prima, cose che spettavano alla seconda e viceversa, causan101
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do gravi problemi di organizzazione alla responsabile della cooperativa da cui sono seguita o allontanando amiche con il mio comportamento aggressivo. Ad aggravare la situazione è sempre stata la “mancanza” della famiglia, del supporto per le elementari esigenze di tutti i giorni. Nonostante ciò la speranza ha continuato ad accompagnarmi e l’immaginario come una magia è diventato realtà!! Anche io trovai sotto l’albero il dono di Natale , nonostante non avessi scritto nessuna letterine. Ma si sa “Dio vede e provvede!” Si è materializzato accanto a me l’ Angelo Custode, il gigante buono, un omone calvo, occhi marroni, corporatura robusta talmente pieno d’energia che dagli 80 anni che ha, toglierei lo 0 per ufficializzare gli 8 che dimostra. Tutto quello che doveva aspettare l’ arrivo dell’operatore sociale per essere svolto, poteva ora essere eseguito immediatamente: ”camminate”, esercizi di ginnastica, visite dal medico,”scuola guida”, spesa al supermercato, sistemazione di cose per me e mamma che da sole non saremmo mai riuscite a compiere. E’ stato completamente a mia disposizione, esaudiva fedelmente ogni mio desiderio come se fosse parte di me; tuttora questa situazione persiste.
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TUTTA COLPA DEL CIRCOLETTO… La “pena da scontare” non aveva restrizioni, pertanto ho potuto partecipare alle varie attività svolte dal circoletto del piano di sotto, vivendo in una villa con un centro socio-culturale autogestito dagli anziani all’ interno. Era sempre stato lì, ma lo vedevo con occhi sbagliati, non coglievo la ricchezza di scambiare due parole con un novantenne, conobbi persone veramente gradevoli che mi accolsero come una vera e propria “nipote”. Trovai conforto frequentando un coro. La musica, piano piano, è riuscita ad infiltrarsi in quel muro che ormai era stato innalzato per proteggere un’anima ferita, donandomi sensazioni ormai dimenticate. Ogni parola cantata portava calore e riempiva quel vuoto incolmabile. Credo che non ci sia migliore contesto di un brano musicale per ricevere le carezze all’ anima con leggerezza e armonia. Il coro era formato da quattro voci quali soprano, contralto, tenore e basso delle quali non sapevo nulla, dirette da una persona paziente e sicura di sé. Con evidente passione insegnava la tonalità di ogni melodia e incoraggiava i componenti, me compresa, nonostante le continue “stecche”. Non fu solo questo ad aiutarmi … “Lezioni di Burraco, venerdì sera ore 21:00”. Questo è l’avviso che vidi appeso alla bacheca del Centro Socio-culturale di San Marco e che catturò subito la mia attenzione. “Burraco, …burraco,…burraco”, parola sentita tante volte, ma che i miei neuroni non riuscivano a focalizzare bene. Arrivò, come sempre, l’aiuto: “Il Burraco, è un gioco che si svolge con le carte da Poker”, mi spiegarono. 103
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Bene, le carte le conoscevo da tempo, si sta seduti quindi perché non provare, pensai, anche perché mi giunse la voce che tale gioco è stato inventato da un sordomuto. Arrivato il momento, mi presentai all’insegnante che senza dare pregiudizi, mi consegnò le fotocopie dove veniva spiegato lo svolgimento del gioco. Mi sedetti. Prima difficoltà, tenere 11 carte in mano, ma soprattutto darle: quando era il mio turno, cercando di stare ai tempi degli altri giocatori, tante volte mi caddero o invece di 11 ne diedi 10 o 13, ma alla fine ci sono riuscii. Per rendere il tutto ancora più complicato l’insegnante ci divise in coppie, perciò dovevo stare bene attenta alle mosse dato che non ne avrei pagato solo io le conseguenze. Come per tutte le cose, la prima volta non riesce tutto alla perfezione, ma con perseveranza e caparbietà si può migliorare. Volevo essere parte attiva del circolo, anche se avevo molti limiti motori, custodivo una forza che sicuramente potrebbe essere stata d’aiuto. Provai ad inserire il mio nome in quello dei candidati alle elezioni che si sarebbero svolte di lì a poco, per la formazione del consiglio direttivo. Con immenso stupore e felicità venni eletta e per due anni, sarei stata consigliera del circolo socio-culturale di San Marco. Non potrò mai dimenticare “la mia famiglia adottiva”, cioè tutti coloro dividevano con me l’abitazione gentilmente messaci a disposizione del Comune. Ho ricevuto aiuto da tutti e per ogni situazione, chi mi faceva il caffè quando le piastre erano fuori uso; chi mi aggiustava il televisore, la lavatrice e il tapis roulant, chi mi attaccava al muro quadri e ogni altro aggeggio; ma soprattutto chi mi teneva compagnia facendomi dimenticare per qualche ora quella solitudine che ormai si era impossessata di tutte le mie 104
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giornate. Quest’ultimo aiuto mi è arrivato soprattutto dal gestore del circoletto che poi ha lasciato il posto ad una ragazza con cui ho stretto immediatamente un forte legame. Non potevo lasciarmi sfuggire le cure termali. Due volte l’anno il centro si organizza con un autobus per permettere ai soci e a chi lo desidera di sottoporsi a questo tipo di terapie ad un prezzo ridotto. Per anni era attiva questa possibilità, ma a me è sempre mancato il coraggio di “coglierla al volo”. Essendo di notevole importanza per la mia salute, l’ Angelo Custode non se la lasciò sfuggire, così dopo una lunga e difficile “opera di convincimento” mi ritrovai seduta sull’autobus. Anche in questa occasione ricevetti molto sostegno, sia per raggiungere lo stabilimento, che per effettuare le attività prescrittami dal medico fisiatra addetto. Raccontata così sembrerebbe una “Vita da non morire mai”. Le risorse a mia disposizione sono state veramente innumerevoli per tutta la durata di questa dolorosa Prova, ma nei miei occhi mancava la cosa più importante: la luce.
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…SE IO CE L’HO FATTA!! Quella luce sapevo che mi apparteneva e ero anche riuscita a vederla nei giorni in cui una presenza strana aleggiava intorno alla mia anima, ma era offuscata come quando nelle notti nuvolose alzi gli occhi al cielo e fissi la luna. Come me frequentava il circoletto e i miei occhi sono stati solo per lui. Il suo modo di concepire la vita era ed è tuttora diametralmente in contrasto col mio, ero conscia che tra noi non ci poteva essere nulla di serio, ma a volte, si sa, gli opposti si attraggono: io intenta a ricostruire e proiettata nel futuro, lui radicato nel presente e impegnato a vivere intensamente ogni occasione che gli si presentava. Una sera dopo aver fumato una sigaretta tra un bacio e l’altro abbiamo deciso di continuare le nostre effusioni in casa e non sulle scale o davanti al portone d’ ingresso che erano diventati i nostri alleati. La mamma non avrebbe mai permesso questo quindi la scelta era se rischiare o no. Essendo una guerriera non mi ci è voluto molto tempo per prendere la decisione che naturalmente era la prima. Grazie ai Santi in paradiso e al feeling che ci lega siamo riusciti a sgattaiolare nel mio letto e come se entrambi vedessimo la luce dopo un lunghissimo periodo di buio, ci siamo abbracciati stretti e baciati appassionatamente. La nostra “fame d’amore” si stava colmando così velocemente, da sembrare due persone digiune da un mese che vedono fra le loro mani un pezzo di pane. Non era la prima volta che stavamo avvinghiati, ma è stata come se lo fosse stata. Il monolocale che mi ha sempre accolto purtroppo non ha avuto evoluzioni nel tempo, pertanto la mamma per andare 106
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in bagno doveva passare davanti a noi. Fortunatamente essendo un problema che dovevamo quotidianamente risolvere, la mamma passava al buio, quindi rimanendo immobili noi riuscivamo a rimanere invisibili. Appena la sentii entrare in bagno, lo feci nascondere dietro al letto dove rimase in religioso silenzio fino a quando mia madre non ripassò per tornare nel suo letto. A quel punto risalì immediatamente e mi strinse di nuovo in uno dei suoi calorosi abbracci. Furono ore in cui non mancarono gli scambi di tenerezze ed è stata la prima volta nella mia Vita, sia prima che dopo la malattia, in cui sentii di essere Desiderata veramente, nonostante non ci fossimo propriamente accoppiati. Secondo me ci si può Amare anche senza fare sesso. La prima cosa che facemmo fu quella di toglierci le scarpe e istintivamente cominciammo ad unire i nostri piedi, poi pian piano siamo rimanemmo entrambi senza maglietta. Sentire il suo calore su di me mi fece percepire di essere Viva e felice di aver combattuto questa battaglia che a questo punto aveva finalmente un senso. Dopo quattro meravigliose ore trascorse tra baci e coccole arrivò il momento il momento di salutarci e tornare alle nostre piatte quotidianità. Staccarmi da lui, dalla sua bocca e dalle sue carezze è stata la cosa più difficile che ho dovuto affrontare negli ultimi tempi. Io che sentivo sempre freddo, io che andavo a letto con il pigiama la felpa e le calze, io che mettevo sempre una coperta in più, sì proprio io rimasi in canottiera quella notte e la prima cosa che feci quando lui chiuse la porta di casa mia è stata quella di andare in bagno e di specchiarmi. Ero raggiante è vero, ma sapevo bene che si trattava solo di un “anestetico”, l’ intima lesione non poteva essere medicata da un “infermiere”, io avevo bisogno del “chirurgo” ,cioè di 107
colui che prendendosi cura di me e essendo presente il più possibile, avesse permesso alla profonda ferita di cicatrizzarsi e avesse trovato il modo di trasformare in gioia la tristezza che mi stava appiccicata da ormai tantissimi anni. Continuai a perseverare nell’errore infatti dopo pochi giorni lo invitai nuovamente in casa,ma da cosa forzata e errata quale era, si è concluse con una forte litigata che mi portò ancora più dolore. Che fare? Continuare tutta la Vita con i “calmanti”? Oggi posso solamente affermare con Forza, che nonostante tutti i miei errori e le mie continue cadute CE L’HO FATTA. Sono sicura che la soluzione è lasciare aperto il cuore, far entrare emozioni che ci fanno superare quei problemi reputati insormontabili e lo fanno battere per farci sentire VIVI. E’ vero questo significa mettersi in gioco e rischiare di soffrire nuovamente, ma oramai sono in un’area sicura e protetta, grazie alla spessa e forte corazza formata dalla lunga convalescenza. Trovare il coraggio per mettersi in gioco ci da la possibilità di VIVERE e ci fa crescere. Eccomi, mi presento sono Barbara, sono “sopravvissuta” a questa dura prova che mi ha proposto la vita.