Le parole di una vita

Page 1

LE PAROLE DI UNA VITA di

Grazia Tulli

Quaderni del volontariato 2016

sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni

CESVOL PERUGIA EDITORE

9


Quaderni del volontariato 9

Edizione 2016


Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net

Edizione Settembre 2016 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide

tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata

ISBN 9788896649541


Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Se poi i contenuti parlano di impegno, di cittadinanza attiva, di solidarietà, allora il piatto si fa più ricco. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i nostri cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio



LE PAROLE DI UNA VITA di

Grazia Tulli



Le parole di una vita

Opinioni personali a confronto Viviamo una crisi a livello planetario e non troviamo le parole per definirla, la nostra mente ci sfugge e il disorientamento è devastante, proviamo allora a confrontarci. Usando la nostra mente. L’analisi della mente è difficilmente definibile a mio avviso, indipendentemente dalle scuole di pensiero io mi sono sempre chiesta cosa significhi effettivamente l’analisi di qualcosa di ancora incerto e vagamente approssimativo per la maggior parte di noi. Sappiamo che la mente equivale al cervello, quindi alla volontarietà degli atti, alla profonda consapevolezza, a diversi tipi di intelligenza, al dominio degli istinti arcaici, al livello culturale, al tipo di atteggiamento del proprio gruppo etnico, ma come si possono coordinare tutte queste istanze? E poi non si potrebbe correre il rischio di riattivare modelli di presunta supremazia? E’ chiaro che le domande che mi pongo sono tante e forse non solo la sola a pormele. Ho cercato risposta nei libri e nel confronto con esperti ma non sono giunta a nessuna conclusione, meglio credo che non debba esserci una conclusione perché potrebbe voler dire porre un discrimine che potrebbe essere letto in modo rigido e giustificare l’allontanamento di persone che per vari motivi non sono gradite, nascondendo la propria disonestà intellettuale. Ecco, forse il termine che convintamente associo a mente è “onestà”, l’onestà intellettuale di porsi costantemente in discussione, non pensare che chi abbiamo di fronte sia irreversibilmente inferiore ai nostri livelli di presunto sviluppo, che nella nostra mente si annidino tutte le risposte. Come proposta cerco di esporre in modo schematico le valutazioni a cui sono giunta finora nell’analisi della mia di mente, unico materiale che avevo a disposizione, analizzando parole come: comunicazione, identità, famiglia, immagine, limite, dolore. Si tratta di un piccolo vademecum per definire alcuni elementi che cercano di circoscrivere e delimitare il termine più facilmente associato all’analisi della mente ma il più inappropriato e fuorviante: pregiudizio. 7



Le parole di una vita

IL LINGUAGGIO DEI SENSI La nostra memoria nascosta Parlo spesso delle parole, il linguaggio verbale, la forma più evoluta e in continua trasformazione ma in realtà ciascuno di noi è portatore di un complessissimo sistema informativo: i sensi. La nostra memoria ancestrale, il nostro primo percorso di assimilazione e solo dopo troviamo le parole per esprimerli, ma li sottovalutiamo costantemente come se fossero inutili appendici fisiologicamente sorpassate e solo quando ne veniamo privati ci rendiamo conto della loro importanza. Eppure non sappiamo ascoltarli, esaltarli e quindi interpretarli. Dargli la veste che gli compete: quella emotiva. Sono il nostro veicolo principale eppure quello che ci crea i problemi maggiori: come mostrarsi, cosa mostrare, come reagire, come controllare le emozioni, forse congelarle così si smette di soffrire, oppure imporle per avere una conferma forzata delle proprie convinzioni. Alla fine arriva in aiuto la pubblicità, il mantra del terzo millennio nei paesi tecnologicamente avanzati che non propongono più un prodotto ma vendono sogni, fermo restando il fatto che sono alla fine costosissimi e in fondo non sempre così necessari. Decenni fa era il cinema la fabbrica dei sogni, a buon mercato e disponibili per tutti, tanto c’era il teatro a suscitare l’impegno, la fatica di pensare, riflettere, le immagini invece permettono di riempire la testa di trucchi e illusioni, tutto è affascinante, facile e immediato. La vita vera invece all’opposto strazio quotidiano e indicibile fatica. Il meccanismo tra cinema e televisione non cambia, solo l’illusione breve e reiterata ingenera condizionamento e falso convincimento. Perché non tentiamo di riprenderci la nostra vita? In fondo ci appartiene ed è un diritto inalienabile. E’ faticosa ma affascinante, dolorosa ma al tempo stes9


Le parole di una vita

so intrigante, atroce ma irresistibile, e comunque da suggere fino in fondo, con la massima intensità, perché abbiamo tutte le opportunità per farlo. Abbiamo bisogno dei sogni perché gli orizzonti devono essere sempre molto ampi, altrimenti si sente il vuoto del nulla, una specie di nebbia mentale che ci preclude la vista e non sappiamo più cogliere i messaggi, si riesce a non provare più nulla: i ricordi diventano date di avvenimenti mai vissuti eppure sappiamo che eravamo lì in quel preciso momento, ma come se tutto ci fosse sfuggito di mano senza lasciare alcuna traccia, testimoni impotenti ed ignari di avvenimenti che hanno travolto tante vite eppure la nostra, come se non vi fosse appartenuta. Il ricordo senza emozioni, la tragedia dell’oblio indesiderato. La mente attiva meccanismi di difesa da eventi troppo dolorosi ma diventa un meccanismo controproducente, non si può vivere senza memoria, senza il ricordo delle emozioni, ma a volte si congelano, non proviamo più nulla. I sensi ci tradiscono, quello che doveva servire a mantenere vivi i pensieri si azzera, non siamo che metà esistenza. Una zaffata di salsedine e la sensazione inebriante della libertà sconfinata, di poter possedere il mondo e non cederne neanche un granello, gli effluvi resinosi e la montagna che sovrasta con la roccia dura, la pietra che taglia la carne quando l’afferri per non scivolare e in cima l’ebbrezza di esserci, la dolcezza dei rilievi morbidi e frammentati dal grano e i girasoli, un quadro nella natura o l’arte che si fa natura essa stessa, tutto tanto travolgente da togliere il respiro ma all’improvviso svanisce come in un effetto dissolvenza. Ma la vita non sparisce all’improvviso per ripresentarsi quando abbiamo tempo per ascoltarla, è un fluire continuo che a volte può tradire. Perché gli stessi profumi o essenze riattivano ricordi indesiderati perché c’è stato il dopo, il tradimento delle speranze e del diritto ad una vita che potesse scorrere e non essere sempre maledettamente accidentata. I sensi, croce e de10


Le parole di una vita

lizia, sforzo di sublimazione e bisogno di ricordarne la spinta passionale. Non dimentichiamo la nostra memoria biologica, stiamo inquinando il mondo uccidendo i profumi dell’educazione olfattiva, la vista dei paesaggi mozzafiato perché il cuore sembra davvero debba smettere di battere come se si inchinasse in ossequio alla maestosità della natura che ci ricorda che siamo solo una tra i milioni di forme di vita, anche se la più fragile, tenace e maledettamente complicata. Ogni volta che ci siamo sentiti sull’orlo dell’abisso ci siamo risollevati, ripartiamo dalle nostre origini: quelle ancestrali, dalla consapevolezza che apparteniamo tutti ad un unico genere, quello umano, che il ceppo ha una stessa essenza per tutti e bisogna ragionare in senso trasversale e circolare, tutto quello che facciamo ci si ritorcerà contro se continuiamo a sbagliare e ci porterà riconoscenza se teniamo duro. Non nasciamo come una tabula rasa, incubatrici vuote, potenziali contenitori di informazioni pronte per un loro immediato utilizzo, abbiamo una memoria sedimentata da un lunghissimo processo evolutivo e quindi assorbiamo e rielaboriamo in funzione della nostra peculiare natura, il fattore predisponente, ma con l’opportunità di esercitare una consapevole articolazione delle nostre esperienze. Non dimentichiamo le nostre origini, non diventiamo un albero diverso ma ossigeniamo le nostre radici. Ricominciamo a pensare, a quello che ci serve veramente, perché i padroni rimaniamo sempre noi e gli oggetti sono a nostra disposizione e non, al contrario, le persone. Bisogna fare una pulizia esistenziale, ripristinare l’ordine delle cose che prevede che una persona ha un valore inestimabile e non si può quantificare in un costo ed orario come un bene di consumo. Sfruttiamo le diverse intelligenze e la creatività, che è poi in fondo la capacità di vedere oltre il primo impatto, ascoltiamo i sensi che ci portano ed esaltano infinite informazioni per poterci muovere e lasciamoci andare. E’ l’unica droga di cui non possiamo 11


Le parole di una vita

fare a meno, è il lasciarsi andare rischiando anche la paura del rischio, chissà quali conseguenze potranno scaturire. E’ il colpo di fulmine, lo scatenamento viscerale e irresistibile, è l’ebbrezza della testa che comincia a girare e non abbiamo più paura di cadere nel vuoto: si sono attivati tutti i sensi. E’ vero che siamo disposti a sacrificare la nostra felicità per un po’ di sicurezza, ma quale certezza? Di vivere incastrati in un ruolo soffocante e irrespirabile? Proviamo ad osare.

12


Le parole di una vita

LA VITA CI INSEGNA In realtà qual è la funzione del dolore? La vita ci insegna. Ma qual è il reale peso dell’esperienza? Come possiamo articolare i messaggi che sedimentiamo quando ci relazioniamo con il mondo, e non solo al di fuori ma soprattutto con il nostro mondo interno, la nostra difficilmente sondabile interiorità? Abbiamo bisogno di rispecchiarci ma a volte all’improvviso tutto ci cade addosso per una serie di eventi di non facile definizione, ci rendiamo conto che si costruiscono miti per poterli distruggere e si creano identità all’apparenza inviolabili che però poi si stemperano in una conclusione quasi patetica. Alla fine arriva il dubbio di non sapere più quale percorso abbiamo fatto e soprattutto con quali motivazioni, e poi vale veramente la pena continuare comunque a camminare? Per quanto mi riguarda sì, sempre, anche se si arranca penosamente avvinghiati ad una vita che sembra sfuggire di mano da un momento all’altro perché troppe cose vanno storte, non ci sono punti di riferimento e si va a cercare in un passato lontano una memoria nostalgica di quello che sembra sia stato formidabile, ma allora perché non ha lasciato tracce abbastanza profonde? Ci si può chiedere leggendomi cosa voglia veramente dire, perché in fondo non offro ricette o idee grandiose o soluzioni pronte all’uso. In realtà perché ognuno trova la propria, perché gli appartiene, la crea in base alle sue reali esigenze, non ho né l’ardire né tantomeno la competenza di proporre idee quanto mai risolutive, parlo solo della mia esperienza e forse qualcuno può prenderne spunto. Ho una spinta incontenibile a vivere, e devo dire che mi è servita per affrontare e superare prove estreme, ammetto che sto cercando di capire da dove mi derivi: un’eredità genetica? Forse, un’educazione improntata al massimo rigore 13


Le parole di una vita

nel rendimento, un’autodisciplina quasi scarnificante che mi ha spinto a gesti autolesionistici? Può darsi anche questo, ma credo che in fondo si tratti della ragione più semplice e condivisa da qualsiasi essere umano: un sano istinto alla sopravvivenza che letto in un’ottica appena meno brutale traduco in: amore per la vita. Abbiamo tutti il diritto di amare la vita, ci appartiene e non possiamo farne a meno, la nostra e quella degli altri, va rispettata sempre e comunque, magari si cammina distanti, si creano filtri di sicurezza, si reclude chi non tollera il concetto del rispetto, ma si lotta costantemente per far emergere il proprio diritto all’autoaffermazione. Diritto che va difeso anche quando sembra che non ci siano più speranze: per paradosso è in quel momento che bisogna lavorare con più impegno. La stanchezza esistenziale, la depressione che ci pervade induce a pensare che non si abbia il diritto di uscirne, che la sofferenza che proviamo sia il prezzo da pagare per una colpa indicibile, in fondo quando il dolore diventa perfetto e assolutizzato spaventa e induce isolamento, l’isolamento induce altro dolore e nel tentativo di trovare una spiegazione pensiamo che dipenda tutto da noi, ma non troviamo la ragione perché in realtà la ragione primaria non esiste, nel senso che non abbiamo una colpa. Diventa una soluzione nevrotica scegliere la sofferenza della malattia mentale perché blocca i contatti e non si riattivano i meccanismi che fanno pensare che parlare del dolore possa provocare un’apocalisse emotiva ancora peggiore con supplemento di colpa. Il problema è la percezione del dolore, se è estremo e assolutizzato paralizza e inficia il pensiero conseguente. Il dolore è una terribile tossina esistenziale capace di ritorcere il pensiero in modo de-costruttivo. Usando un parallelismo biologico è come se il nostro pensiero equivalesse al sistema immunitario, la tossina del dolore ne ricodifica le informazioni per cui invece di difenderci dal dolore pensiamo di doverlo provare per una col14


Le parole di una vita

pa, ma è un meccanismo errato che però ha portato ad una sovrastruttura culturale che prevede l’esaltazione del dolore come viatico per raggiungere la perfezione esistenziale. E’ solo una codifica sbagliata, ma devastante. Prendiamone atto. So per esperienza personale che un certo tipo di cultura cattolica prevede, o prevedeva l’interpretazione del dolore come prova che Dio ci manda per mettere alla prova la nostra fede o peggio per permetterci di espiare colpe commesse in totale dispregio dei sacri dettami. Ma quando una donna confessa la sua lacerante disperazione perché ha perso un figlio, non è forse già annientante di per sé il dolore da non dover certo aggiungere un ulteriore criterio espiatorio? Bisogna condividere il dolore non per rimanerne in estatica contemplazione, ma cercare di capire come convertirlo in nuova energia creativa. Si può sostenere che si tratta di un percorso culturale che cercava motivazioni trascendenti e non certo con l’obiettivo di creare laceranti conseguenze, ma la reiterazione con cui veniva perpetrato ingenerava un percorso degenerativo che alla fine, e con tutta evidenza, ingenerava quel processo di decodifica del dolore che rendeva la propria mente una specie di sistema immunitario impazzito che si scaglia contro cellule sane, leggi sane istanze creative e affettive. Il dolore esiste, è sotto gli occhi di tutti e tutti lo proviamo, per fortuna non con la stessa intensità altrimenti saremmo tutti morti, ma chi lo prova in modo lacerante non è tenuto per un calcolo gerarchico a subirlo perché se lo merita, è un campanello d’allarme che deve spingerci a trovare una soluzione, e più è grande il dolore in più persone bisogna mettersi a lavorare perché ogni mente porta un’insostituibile contributo, e non deve spaventarci l’idea di perdere del tempo prezioso rubato alla nostra insistente ricerca della felicità, perché in realtà nel confronto si sviluppano risorse per una vita più articolata e intensa, in una parola si evita il rischio di scoprire dopo anni di aver rag15


Le parole di una vita

giunto solo una conclusione patetica. Ora la difficoltà, e mi rendo conto che si tratta di un problema davvero complesso, consiste nel livello di coinvolgimento che si può chiedere o meno alle persone. E qui si apre un orizzonte articolato che prevede: memoria biologica, condizionamenti culturali, dinamiche sociali e spietata autoanalisi. Meglio analizzare gli elementi uno per volta. Cosa intendo per memoria biologica: la presenza nella nostra mente di una serie di stimoli che fanno parte della nostra codifica genetica e premono per emergere attuandosi con modalità molto complesse che hanno avuto bisogno di una lucida e trasmissibile rielaborazione culturale, molto diversificata e composita, ma che non si realizza secondo dinamiche prevedibili e automatiche. Rimane marchiata a fuoco la memoria del dolore, che è sentinella fondamentale di avvertimento di situazioni intollerabili, e troppo spesso è stato disatteso e anzi amplificato senza riuscire ad ammettere la propria debolezza nell’affrontarlo e mascherando la propria disonestà intellettuale avvallando l’ipotesi che il dolore che una persona prova in qualche modo se lo è meritato. E’ un caso evidentissimo di aberrazione culturale ma in realtà così ben sedimentato nell’animo umano che spesso non abbiamo neanche il coraggio intellettuale di prenderne atto e ci scagliamo con perversa provocazione contro chi soffre perché ci crea rigetto. Siamo noi che di fronte ad un dolore devastante sentiamo il riattivarsi della nostra memoria biologica del dolore e non ammettiamo di riconoscere la nostra debolezza nell’affrontarlo. Può diventare una situazione di comodo ma poi se ne pagano le conseguenze. Sociali sia a livello locale, di prossimità, che planetario. Non è un’oscura minaccia ma una limpida constatazione. Non possiamo salvare il mondo ma essere onesti con sé stessi sì e questa è già una profonda rivoluzione alla portata di tutti, tutti gli onesti, ed essere onesti è eticamente conveniente. Gerarchizziamo la vita umana in creatu16


Le parole di una vita

re, persone e personalità, nel senso che una creatura è un essere di cui a malapena sopportiamo l’esistenza come si fosse un’intollerabile zavorra, una persona ha un relativo valore sociale e le personalità hanno il diritto di godere di sempiterna memoria. Ora indipendentemente dal livello di notorietà che si riesce a raggiungere o di prestigio sociale, spesso raggiunto con modalità ambigue e disoneste, si perde la consapevolezza della matrice unica delle tre definizioni, alla base ci sono esseri umani che sono responsabili della loro identità etica che deve essere salvaguardate nel modo più limpido ma non può essere provocata impunemente slatentizzando tensioni che poi esplodono. In sintesi se troppo spesso riteniamo che chi abbiamo davanti non meriti la possibilità di esprimere con la massima intensità la sua dimensione creativa e debba rimanere a livelli di creatura e non persona così evitiamo una potenziale competizione sociale, e li teniamo in una condizione di degrado pensando che in fondo non meritano altro, manifestiamo un’intollerabile disonestà etica che spinge alla reclusione mentale che può esplodere nelle forme più violente. Reitero il concetto che la violenza non è mai giustificata perché bisogna sempre, e sottolineo sempre, incanalare le proprie energie, che siano anche motivate da una rabbia estrema, nel modo più articolato sostenendo le proprie ragioni adoperando il pensiero, ma non si può negare che quando azzeriamo il pensiero per un malcelato senso di disgusto per chi abbiamo davanti non ci mettiamo certo nelle condizioni di favorire un dialogo costruttivo. E il pensiero che più facilmente viene disatteso, azzerato, mal tollerato è quella di chi incorre suo malgrado in una patologia psichiatrica, è molto diffusa l’opinione che il dolore che prova renda la sua vita invivibile quindi tanto meglio eliminarlo socialmente, poi con rapida successione anche fisicamente, siamo solo un peso. Parlo al plurale perché ho sperimentato la problematica in modo estremamente pro17


Le parole di una vita

fondo e quindi parlo con profonda cognizione di causa. Non espongo teorie ma vita vissuta. Nel mondo della patologia mentale si lavora moltissimo per emergere responsabilmente e compiutamente, il fatto di non avere visibilità non sta a significare che siamo solo una percentuale statistica della popolazione totalmente improduttiva e che zavorra il limpido progresso della parte impeccabilmente sana ed illuminata della società, non siamo il lato oscuro e intollerabile che una volta tagliato via permette la piena realizzazione di grandiosi progetti. Parlando concretamente il degrado planetario che è sotto gli occhi di tutti non può dipendere da noi che siamo sempre stati tenuti al di fuori del tessuto sociale produttivo, i manicomi li hanno chiusi da poco e comunque non c’è ancora un’adeguata politica di inserimento, quindi ognuno si prenda le proprie responsabilità e smettiamo di definire “pazzo” chi compie gesti estremi con la massima lucidità e consapevolezza e un compiacimento autoreferenziale, si tratta di persone infami che godono nel fare quello che fanno mentre un vero pazzo è devastato dall’angoscia di non poter controllare la propria intelligenza etica e si soffre moltissimo. Mi permetto quindi di mettere i puntini sulle “i” di pregiudizio. Applichiamo modelli culturali in occidente che hanno una matrice illuminata: libera espressione del pensiero, autonomia nella gestione delle proprie scelte, uguaglianza, almeno presunta, di tutti gli esseri umani e ognuno può aggiungere altri elementi, ma al di là di una raffinata enunciazione di principio forse la ricerca della felicità si raggiunge al prezzo di troppe vite annullate perché occuparsi anche di loro rallenta il percorso, e allora dobbiamo prendere atto dell’intrinseca debolezza del nostro modello culturale occidentale improntato alla massima espressione della propria autonomia personale, dimentichiamo che anche la nostra libertà deve avere un limite, perché rischiamo di annientare le vite degli altri. A mio avviso 18


Le parole di una vita

dobbiamo rimetterci in discussione non per un arretramento ma un migliore posizionamento. Concepiamo la cultura del successo, chi non raggiunge alti livelli di notorietà smette di essere una persona e viene derubricata a creatura, leggi un peso malamente tollerato, è una soluzione di comodo ma maledettamente controproducente e non dimentichiamo che la forma più alta di evoluzione mentale è riconoscere veramente nell’altro un autentico essere umano con diritti equivalenti ai nostri, applicare questo principio è più difficile di quanto si possa pensare, prendiamone atto. Sarebbe già un buon punto di partenza a mio avviso. Riapramoci dunque al confronto, ma con una radicale presa d’atto che dobbiamo per prima cosa mettere sotto una lente critica i nostri modelli e rigenerarne eventuali debolezze, la rigenerazione parte da sé stessi, non per limitarsi o annientarsi ma ossigenarsi, bisogna dare nuova aria alle idee perché è evidente che il degrado sociale che viviamo è la conseguenza di una degenerazione, ripartiamo da un pensiero onestamente radicale, e manteniamo la consapevolezza che ciascuno, ma sottolineo sullo stesso piano e non attraverso il filtro di una feroce gerarchizzazione, può portare il suo onesto contributo, e allora lì si deve chiedere l’estrema onestà intellettuale, è un percorso a mio avviso assolutamente necessario prima di essere travolti da un degrado esistenziale che si manifesta con modalità sempre più sconcertanti e fa perdere la speranza. Siamo al centro di un’atroce tempesta esistenziale e planetaria ma non dimentichiamo che abbiamo tutte le potenzialità per governare la nave, non bisogna arrendersi, mai. Lo dobbiamo a chi viene dopo di noi. Questo non va mai dimenticato.

19


Le parole di una vita

IL FATTORE UMANO La creatività nascosta Nello sviluppo del linguaggio la regola è invalsa dall’uso, cioè quando un termine è usato in modo intensivo se ne trasla il significato anche ad ambiti limitrofi che in origine non avevano un collegamento specifico. Spesso si parte da una terminologia tecnica che, una volta diventata di dominio pubblico, sta ad indicare una serie di eventi che condizionano la vita di tutti giorni. Ci sintonizziamo su una modalità di pensiero che finisce per permeare intere esistenze. Se facciamo mente locale al linguaggio dei nostri giorni parole come spread, bund, prodotto interno lordo, debito, sviluppo, fiscalità sono diventate una specie di mantra che invece di portare ad un livello superiore di pensiero sganciandosi da limiti distraenti, ingenera un condizionamento al negativo che produce ansia, stress e rigetto. Forse perché stiamo riducendo la complessità umana ad un unico fattore: quello economico. L’homo aeconomicus ha completamente sovvertito l’ordine naturale delle cose, cioè della dimensione umana: la creatività, consapevole. Abbiamo dimenticato il fattore umano. Gli esseri umani sono creature estremamente complesse e l’articolazione di pensiero è la sfida più grande e affascinante che si possa affrontare ma anche quella più naturale e funzionale al mantenimento della specie. Abbiamo bisogno di produrre beni e servizi ma non di esserne schiavi, l’articolazione economica con il susseguente coordinamento finanziario vengono soltanto dopo. Abbiamo bisogno di esprimere la nostra naturale identità, elemento di non semplice definizione perché sapere con chiarezza chi siamo e cosa ci procura benessere che abbia una naturale ricaduta produttiva non è affatto semplice, e non lasciamoci impressionare da chi dichiara di avere le idee chiarissime sui propri 20


Le parole di una vita

obiettivi perché potrebbe essere semplicemente il prodotto di un condizionamento superficiale e sbrigativo, analizziamo ripeto il fattore umano e cerchiamo di capire cosa può voler dire, perché non è dichiaratamente una definizione univoca. Abbiamo ormai la certezza, conclamata scientificamente, che ogni essere umano è diverso dall’altro ma non dimentichiamo il fatto che condividiamo tutti gli stessi bisogni e, sottolineo, con pari dignità, quindi vanno valutate con la stessa attenzione tutte le esigenze che possono condizionarci con l’attenzione massima e la maggiore considerazione possibile. Non esistono problemi irrilevanti solo perché sono stati espressi da un bambino a cui è stato rubato un astuccio, o quelli di un vecchio che si sente messo da parte tanto è considerato solo un peso, o un lavoratore che non ricopra un ruolo dirigenziale. Quello che accomuna queste persone è che sono esseri umani che devono affrontare problemi e hanno bisogno di aiuto per risolverli, la loro complessità diventa il “fattore umano” che non dobbiamo mai dimenticare. Nella realtà qualsiasi definizione che non abbia una positiva ricaduta nella vita delle persone è solo un’enunciazione di principio, magari stilisticamente di lusso, ma drammaticamente inutile. La vita è emozione, ed essere disattesi nella propria identità perché i modelli di comodo che si pretende di esprimere forzosamente tagliano fuori fin troppe persone, ingenera un dolore devastante che si sedimenta nella memoria e genera una terribile improduttività a livello esistenziale. Ritorniamo a parlare di fattore economico, ma di un’economia umana. Il mondo cambia, è in continua evoluzione, bisogna adattarsi o sei tagliato fuori, la modernità è alle porte… e via discorrendo. Ancora devo capire cosa sia la modernità, un fattore cronologico, anagrafico, epocale? Nella realtà le esigenze comuni sono le stesse da quando è nato l’uomo: vivere compiutamente realizzando progetti condivisi e creativi. Mi spiego nel concreto: 21


Le parole di una vita

soddisfare i bisogni naturali di sopravvivenza come la difesa della propria salute, una sana alimentazione e la crescita del pensiero consapevole. Cambiano le modalità di realizzazione, ma se nell’ottica della modernità leggiamo l’istanza del miglioramento delle nostre condizioni allora, visto che stiamo vivendo malissimo a livello planetario, direi che siamo maledettamente antichi. Siamo, come esseri umani, l’unica specie che, pur nella consapevolezza di dipendere dalla salute del pianeta per la sua sopravvivenza, sta lavorando alacremente per distruggerlo, ed è sotto gli occhi di tutti. Direi che si tratta dichiaratamente di una forte degenerazione del fattore umano, quindi proporrei di riflettere un attimo sui presunti benefici di un mondo che cambia perché la modernità incalza. Viviamo una dimensione centralizzata, un’oligarchia di potere in mano a poche persone che può gestire e condizionare l’economia di interi paesi, e mi riferisco ad un’economia sociale: progetti, iniziative, identità che hanno una potenziale ricaduta produttiva e creativa che favorisce sviluppo e innovazione nell’ottica di una soluzione sempre più appropriata degli eterni problemi che gli esseri umani devono affrontare. Le oligarchie sono sempre esistite ma ormai sono a dimensione planetaria. Troviamo allora soluzioni planetarie. I meccanismi della mente credo non siano cambiati di molto ma è cambiata la loro percezione e la rapidità richiesta nella loro elaborazione. Il fatto che ormai i viaggi della scoperta siano interplanetari non annulla il problema di sfamare la popolazione mondiale e cercare i migliori sistemi di produzione. Da quando nell’homo sapiens sono venuti a mancare i sistemi di difesa biologici come zanne, artigli o pelliccia si è verificato il più stravolgente, incredibile e complesso meccanismo di difesa: lo sviluppo della corteccia e del pensiero creativo, ma non si è sviluppata automaticamente l’onestà intellettuale, e la ricerca dell’atteggiamento etico più consono al naturale e consape22


Le parole di una vita

vole mantenimento della specie è la sfida più complessa che ogni generazione debba affrontare. Gli ultimi decenni sono stati di uno sviluppo talmente tumultuoso che abbiamo perso il filo conduttore dei nostri pensieri ma non abbiamo dimenticato le esigenze basilari, la vita emotiva non smette mai di essere particolarmente pulsante, va articolata nel modo migliore. Sono convinta che siamo tutt’altro che destinati all’autoannientamento, anzi siamo prossimi alla manifestazione di un nuovo umanesimo, ma come? Prima di tutto dimostrando ai nostri figli, bambini adolescenti ragazzi, che lavoriamo per loro e non abbiamo nessuna intenzione di cedere, finché c’è vita c’è lavoro, e cerchiamo di lasciargli la migliore eredità possibile perché è lo scopo intrinseco della nostra esistenza e smettiamo di propinargli il concetto di dover correggere i nostri errori quando continuiamo impunemente a compierli pensando che saranno orgogliosi di mettere le mani in una caos indescrivibile. Il mondo è un’eredità a cui non si può rinunciare e deve essere nelle migliori condizioni possibili. Le oligarchie di potere non sono un moloch inviolabile ma l’espressione di identità deviate, gli esseri umani sani sono naturalmente creativi, e una base solida che semplicemente si scosta da modelli imposti riaffermando dignitosamente i propri, fa mancare quell’appoggio che sostiene quei pochi che ritengono impunemente di poter gestire i destini del mondo. Riappropriamoci della nostra vita di relazione con la naturale curiosità di scoprire modelli alternativi al nostro pensando che possono portare apporto creativo e non con la paura di perdere le nostre presunte certezze. Si tratta di avere rispetto, prima di tutto di noi stessi perché sappiamo essere persone con una mente pensante e creativa, e scopriremo la forza della coesione, bisogna cominciare a farlo perché, direi, i tempi sono sufficientemente maturi. Il resto sarà evoluzione, in fondo siamo codificati per questo. 23


Le parole di una vita

UNA VITA PIENA DI PAROLE Quando comunicare diventa un mistero Conosco le parole da quando ero molto piccola, praticamente me ne sono nutrita. Come unico giocattolo avevo i libri di mia madre e ne strappavo voracemente le pagine in una smania di possesso e conoscenza, considerando che i bambini all’inizio conoscono con la bocca, finivo per ingoiare pagine intere dopo averne assaporato la consistenza, quando si dice nutrirsi di cultura. Quello che non riuscivo a decifrare erano i segni, ne vedevo una serie infinita, praticamente senza soluzione di continuità, e non riuscivo a farmene una ragione, dovevano pur servire a qualcosa ma non riuscivo a decifrarne la motivazione. E poi, osservando mia madre, come avveniva il momento in cui si faceva il gesto di voltare le pagine e perché cambiava l’espressione del volto? Le pagine in fondo erano tutte uguali quindi il mistero si infittiva. Capii presto che doveva andare molto oltre il piacere del contatto, la pura fisicità, c’era qualcosa di impalpabile e molto intrigante, qualcosa che faceva parlare e discutere perché si capiva dai gesti e i riferimenti che spesso si accompagnavano a quegli oggetti tanto misteriosi e affascinanti. Non potendo organizzarmi in modo del tutto autonomo elessi mia madre a testimone e interprete mettendole in mano un libro e facendole capire che volevo me lo leggesse. Non solo le chiedevo di illuminarmi ma di farsi anche fine dicitore di ogni parola di cui memorizzavo rapidamente l’intonazione che doveva essere ripetuta allo stesso modo ad ogni lettura successiva. Il fatto di non potermi impratichire da sola mi faceva diventare esigentissima perché l’uso del libro per interposta persona mi diminuiva il piacere del possesso delle emozioni. Anni dopo, arrivata finalmente a scuola, carpiti i primi rudimenti della tecnica della lettura, co24


Le parole di una vita

minciai ad impossessarmi delle parole e da quell’inizio autonomo la mia avventura non è ancora conclusa, e la mia vita si è riempita di parole. Le parole sono segni e suoni e il significato arriva soltanto dopo, il primo approccio è puramente biologico, la convenzione è un concetto complesso che deve essere assimilato con l’esperienza, non basta dire qualcosa perché possa essere capito e tantomeno condiviso, anche il riferimento elementare ad oggetti di uso comune ha bisogno di tempo per poter essere assimilato figuriamoci quando si tratta di concetti astratti, impalpabili, ma che se non vengono condivisi hanno conseguenze mentali sul nostro comportamento: evitamento, chiusura, isolamento, e allora si scatena il dolore mentale, la sofferenza invisibile. La ricerca delle parole si manifesta molto presto, riferita a cose tangibili, anche bambini di due anni possono collegare la parola scuola alla casa dove vengono accompagnati tutte le mattine, esplorano il mondo e hanno bisogno di definirlo con le parole. E’ vero che si esprimono con il disegno ma il disegno rappresenta in fondo le parole che non riescono a trovare. Si commenta un disegno con le parole, i suoni che puoi vedere, usi due sensi: l’udito e la vista, sei molto coinvolto. Tutto può funzionare quando le parole prendono naturalmente corpo nella testa depositandosi come se avessero un ordine naturale, ma in realtà le cose non sono sempre così semplici o automatiche. Spesso i segni o le parole udite si scompongono e non si riesce a capire in quale punto della comunicazione avvenga lo scambio. Indubbiamente io parlo raccontando la mia esperienza di bambina con problemi, una forma di autismo sufficientemente lieve da non compromettere totalmente la mia comunicazione ma abbastanza invalidante da creare enorme disagio a me e la mia famiglia visto che cinquant’anni fa non si immaginava nemmeno cosa fosse l’autismo. Ebbene nella mia testa le parole danzavano, si smembravano e davano corpo a nuove immagi25


Le parole di una vita

ni che leggevo secondo le regole che conoscevo ma ovviamente non corrispondevano in minima parte alla convenzione comunicativa, e gli adulti pensavano che le mie parole scomposte fossero il frutto di una provocazione capricciosa o un forte ritardo mentale. Semplicemente a volte le parole andavano al loro posto e altre no e non sapevo spiegare il perché. Di sicuro volevo assecondare per rendere la vita più semplice per tutti ma non riuscivo a decifrare le parole, pensavo che mi venissero dette sbagliate per indurmi in errore, non che volessi gettare sugli altri una responsabilità ma a sei anni non è semplice decifrare i messaggi e capire l’origine di un errore quando si cerca in tutti i modi di assecondare gli adulti. Voglio dire che le provocazioni servono per sperimentare un limite e si ha bisogno di coerenza per capire fin dove ci si può spingere, ovviamente non è affatto semplice stabilire quale è il limite invalicabile e quali sono le regole da stabilire. Il fatto che le parole e il loro carico di responsabilità nella condivisione fossero tanto mutevoli nella mia testa mi faceva sentire confusa e tremendamente colpevole perché non riuscivo ad assecondare e tantomeno riuscivo a spiegare, ma mi sentivo anche colpevolizzata senza motivo e discriminata perché nessuno si premurava, dall’alto della propria competenza di adulto, di aiutarmi a rimettere a posto le parole. Sì, si trattava proprio di fare ordine nelle lettere che danzavano ma non si capiva il disegno tessuto da quel ballo che mi confondeva perché allora non riuscivo a farmi capire e seppure all’inizio il senso della convenzione riguardo ad oggetti semplici poteva funzionare, riguardo ad emozioni complesse tutto si faceva più difficile. Il fatto di memorizzare in modo discontinuo, trattenere i concetti e poi vederli sfumare per poi vederli riapparire all’improvviso e poi quando ormai non mi servivano più perché ormai il danno era fatto, “ero svogliata, non stavo attenta”, mi creava il problema di non essere padrona del mio 26


Le parole di una vita

rendimento. Come potevo integrarmi, farmi capire, mostrarmi, se la mia testa andava per i fatti suoi e non sapevo spiegare che strada prendesse e soprattutto perché la prendesse? Adoravo le parole perché evocavano emozioni, di questo ero profondamente consapevole, ma non sapevo come fare a esternare le mie di emozioni, le provavo intensissime e soprattutto incomunicabili, restavo paralizzata dalla confusione, forse erano le emozioni che confondevano le parole o le parole ballerine che esaltavano le emozioni, non riuscivo a dirlo ovviamente. Il risultato era un’avvilente sensazione di profonda disapprovazione, fastidio e rigetto per una creatura tanto poco collaborativa, eppure quanto bisogno avevo di comunicare! E’ un bisogno assoluto come assoluta è la codifica del linguaggio, parlare non è semplicemente un’inutile emissione di suoni ma un veicolo fondamentale della vita di comunità e noi esseri umani siamo fondamentalmente esseri sociali, moriamo se non siamo integrati, e può far più paura la morte sociale di quella fisica. Per questo l’uso delle parole, il loro valore, il loro potere di evocare emozioni oltre all’uso concreto per il quotidiano consueto codice di riferimento comportamentale, è di fondamentale importanza. Le parole devono potersi strutturare stabilmente per poter essere comprese e facilitarne la conoscenza e l’uso, ma soprattutto motivarne la profonda consapevolezza. Bisogna essere motivati a parlare e quindi aver bisogno di nuove parole, ma se viene compresso il pensiero allora la naturale conseguenza sarà una fuga verso il monosillabo criptico e incomprensibile ai più, una specie di linguaggio settario. Ritornando al problema delle parole ballerine, come pensavo che fossero le mie parole da bambina, si tratta ovviamente di un problema cerebrale, del centro del linguaggio, della loro decodifica e interpretazione, perché se varia la codifica allora anche il risultato finale può cambiare, una parola che si inverte porta ad un’altra interpretazione. Tutt’ora 27


Le parole di una vita

ci sono bambini a cui viene diagnosticata l’incomunicabilità dell’autismo, il disturbo pervasivo dello sviluppo, perché tutta l’identità viene pervasa, penetrata, da una logica illogica e mutevole che non riesce a rappresentarsi con continuità e conferma. Abbiamo detto che un bambino provoca per sperimentare un limite e in base alla risposta codifica un atteggiamento più o meno consono, fermo restando che tutto avviene in modo molto elaborato in funzione della personalità, sensibilità e contingenze particolari quindi sfatiamo il mito dell’educazione perfetta. Ma quando non si riesce a comunicare perché tutto cambia improvvisamente aspetto? Esce da un genere che sembrava ormai assimilato? Il problema è enorme per chi prova emozioni tanto laceranti perché si sente solo avendo sperimentato la difficoltà della condivisione e per chi si prende cura di lui perché non si riesce a capire cosa stia succedendo, il problema è interrelato e in continuo scambio: è il problema dell’incomunicabilità. Quando ci si rende conto di avere un figlio che presenta problemi di adattamento anche alle regole apparentemente più semplici in una famiglia si scatena il terrore, questo succede per il semplice motivo che è consapevole del fatto che in molti casi non solo è lasciata sola ma anche colpevolizzata e non ci si rende conto che chi paga il prezzo più alto di questa situazione è il figlio che non riesce a stabilire la sua identità perché la sua immagine gli viene riflessa in modo discontinuo e intriso di disapprovazione, incertezza, rigetto, scandalo, insomma tutte le reazioni più comuni partendo dall’errato presupposto che un bambino debba compiacerci per farci sentire dei bravi educatori. Un’ identità viene resa consapevole attraverso lo sguardo che si riceve prima di appropriarsi definitivamente della propria personale e inderogabile responsabilità, ma se veniamo perennemente disattesi nelle nostre manifestazioni perché veniamo ritenuti matematicamente inadeguati e malamente tollerati? Ovvia28


Le parole di una vita

mente non possiamo sviluppare una valutazione di noi stessi sufficientemente tollerabile, e la relazione con il mondo, in sintesi con le altre persone, diventa impraticabile. Ma, essendo la natura umana fondamentalmente sociale, si scatena un tremendo dolore mentale, il dolore di una ferita invisibile ma che strazia profondamente e rende la vita invivibile. Ci sono molte prospettive che possono essere aperte per interagire e favorire lo scambio: prima fra tutte uno scambio ampio e coeso di prospettiva sociale. Abbiamo detto che siamo esseri sociali e viviamo relazioni attraverso la nostra vita mentale, e della mente oggi molto si conosce ma più si esplora più ci si rende conto di quanto rimane da conoscere, questo non ferma comunque il nostro desiderio di vivere e trovare i migliori accordi di compromesso per vivere, in modo potenzialmente creativo e condivisivo. E qui si pone il primo discrimine: cosa condividere? Il benessere? Emotivo e materiale ovviamente, ma bisogna favorirne la produzione per garantirlo a tutti, e il dolore che si prova? Quello viene più istintivo scaricarlo ed evitarlo che condividerlo, diremmo che è umano. Forse dovremmo intrecciare gli elementi e sviluppare pensiero creativo per affrontare insieme il dolore e combatterlo, quindi da questo presupposto apriamoci alle famiglie, che sono il primo nucleo di relazione e condivisione affettiva coesa, forte e interrelata. L’apertura non significa forzata penetrazione per dirigere ma ascoltare e rassicurare, e soprattutto vanno ascoltati i bambini per aiutarli a mettere ordine nelle loro parole ballerine, che possono far confondere i pensieri e far sentire troppo confusi, fino alla disperazione. I bambini sentono di essere diversi dagli altri, è come se si vivesse in una specie di bolla trasparente, ascolti, osservi, valuti ma la conclusione è sempre impietosamente la stessa: non riesci a fare le cose che fanno gli altri bambini, la tua mente, i tuoi pensieri, sfuggono al tuo comando: non sai come rispondere alle provocazioni, già, 29


Le parole di una vita

sono fatte di parole e le tue parole danzano nella testa in modo incomprensibile, gli altri giocano e si scambiano commenti e valutazioni, altro uso delle parole che sono strettamente legate a emozioni che tu non riesci a decodificare con chiarezza e fare tue, vorresti dire semplicemente:”vengo a giocare con voi, capisco perfettamente cosa state facendo” ma qualcosa ti blocca, non c’è chiarezza, come si tira un calcio ad un pallone o si fa una capriola? E questo è solo l’inizio perché poi in classe i messaggi si fanno ancora più confusi, eppure vedi e senti e provi l’emozione della spinta a condividere le stesse esperienze ma qualcosa ti blocca, ti paralizza i muscoli di cui non riesci più ad avere il controllo perché il pensiero che cerchi di tradurre in parole si smembra e non riesci ad entrare in contatto. Il risultato? Sei un bambino stupido, quello che non capisce, lascialo perdere tanto non sa giocare. E si scatena un tremendo dolore mentale che fa scattare la rabbia e si comincia a urlare per il dolore ma sembra un’esplosione incomprensibile e immotivata e quindi si arriva alla conclusione dello stigma:”è matto, lascialo perdere, diventa pericoloso, lo educano male.” E con questo un osservatore esterno pensa di avere definito e circoscritto il problema salvaguardando la sana stirpe che non deve essere inficiata dal contatto con l’insanità. Ma con la ghettizzazione si escludono persone, non si tagliano banalmente rami secchi di un albero, si cancellano identità per salvaguardare una genia che si presume impeccabile ma in realtà si tratta di creature che soffrono moltissimo e hanno il loro inesplorato e vitalissimo contributo da dare, semplicemente non trovano le parole per comunicare le emozioni. Certo ci esprimiamo come esseri umani in molti modi ma quello più articolato, complesso e coinvolgente è il linguaggio. In fondo lo usiamo per commentare le nostre impressioni di fronte ad un quadro o ascoltando un brano musicale che sono linguaggi per immagini e suoni, ebbene la parola li racchiude 30


Le parole di una vita

entrambe Ritorno costantemente al riferimento alle parole perché sono il veicolo di comunicazione fondamentale. Il linguaggio ha radici biologiche che si innestano in una rielaborazione mentale che attiva molte aree del cervello, è immagine e suono e può diventare linguaggio musicale, l’espressione che usiamo per definire espressioni particolarmente elaborate, quindi prendiamo atto della complessità del fenomeno. Il linguaggio può comunicare, esaltare o distruggere, ma fondamentalmente deve essere posseduto. Prima ancora di stabilirne l’uso etico e non fuorviante bisogna garantirne il possesso. Attraverso la conoscenza e l’uso della lingua ma qui sto cercando di analizzare attraverso la mia esperienza la difficoltà che si prova quando non si riesce a controllarlo. Una valutazione medico-scientifica stabilisce il livello di compromissione, ma io parlo riguardo all’esperienza che si prova quando valuti dal di dentro quella che io chiamo la “danza delle parole”. Quando leggevo per conto mio fiabe e racconti, che già di per sé stessi sono altamente evocativi di atmosfere ed emozioni, potevo lasciarmi andare a qualsiasi genere di sensazione, tanto non dovevo rendere conto a nessuno di quello che sperimentavo e il viaggio mentale che intraprendevo era coinvolgentissimo. Se le parole si smembravano acquisendo un significato diverso e suscitando nuove evocazioni ebbene potevo lasciarmi andare alla scoperta, un modo eccentrico di vedere il mondo. Ero sola senza il peso della responsabilità di rendere conto di quello che stavo acquisendo ed ero unica padrona e complice della vita di relazione letteraria che avevo con i personaggi delle storie. Era il mio mondo, l’unico in cui potessi stabilire regole di condivisione tollerabili per le mie potenzialità. Non mi veniva chiesto di rendere conto di quello che avevo assimilato e quindi non c’erano costrizioni, potevo lasciarmi andare. In realtà ero chiusa in un mondo amplissimo ma scollegato dalle richieste del quotidiano perché non 31


Le parole di una vita

riuscivo poi a comunicare le emozioni che avevo provato. A chi non ha mai provato l’esperienza della scomposizione delle parole può apparire incomprensibile l’idea che la convenzione non venga condivisa ma posso garantire che può succedere e il mondo si pone alla rovescia, una specie di antiuniverso, l’antimateria mentale. In fondo tutti abbiamo bisogno di condivisione di convenzioni per poterci riconoscere ma non possiamo negare che la mente non è necessariamente programmata per funzionare in un modo soltanto. E qui si apre la complessità delle valutazione: aprirsi al diverso, e già cambierei la definizione di “diverso” in “particolare” per togliere l’accezione negativa, o imporre un modello sancito sacrificando però una visione un tantino eccentrica ma non per questo necessariamente dirompente? Antica querelle tra progressisti esistenziali e conservatori mentali. Siamo abituati alla consuetudine della logica ma se pensassimo in termini di logica inconsueta? Ebbene quando si smembrano le parole in realtà non si vuole dire qualcosa di contrario al benessere della condivisione per porsi ostinatamente in un ruolo oppositivo e distruttivo, rimane sempre la naturale spinta alla condivisione che è la naturale condizione di un essere umano che vive una vita sociale perché siamo creature coordinate per lo scambio emotivo intenso e integrato, soltanto si usa proprio malgrado un linguaggio diverso, ma che va interpretato e tradotto. Le parole non richiedono una traduzione automatica e strettamente contingente, in realtà rivestono una prospettiva molto più ampia: sono scambio di emozioni. Quindi quando si manifesta un problema di linguaggio, condivisione, adeguamento, pensiero incomprensibile, reazioni inspiegabili, basta addentrarsi un minimo nell’ambito per cercare di interpretare perché si troveranno le esigenze più naturali, profonde e condivisibili. Il bambino disturbato, che poi diventerà un adulto dissociato, non ha una mente perversamente deviata e incon32


Le parole di una vita

tenibile, ha una mente con le esigenze di qualsiasi altro bambino ma non riesce a comunicare i suoi bisogni e quindi bisogna fare un lavoro di traduzione. Tutto ritorna sempre e comunque alle parole, usiamo tecnologie avanzatissime ma in fondo le riempiamo di parole, e la riduzione del linguaggio a monosillabi gutturali è unanimemente riconosciuta come la potenziale perdita di un patrimonio di inestimabile valore, la lingua è la nostra vita. Il linguaggio è passione, emozione, scambio, confronto, condivisione, lotta, attrazione e manifestazione, è tutta la nostra essenza. Esistono lingue e dialetti, linguaggi simbolici e il linguaggio informatico ma tutto a mio avviso fa riferimento al linguaggio primario, la nostra codifica genetica: il linguaggio della mente, che simbolizziamo costantemente, pensiamo semplicemente al fatto che i pochi simboli dell’alfabeto che ha la lingua italiana danno corpo a migliaia di magnifiche parole che esprimono una cultura complessissima, ebbene è tutto prodotto umano, perché siamo codificati per farlo ed è una magnifica codifica. Quando le parole si invertono si possono pazientemente ricomporre per condividerne il significato ma non semplicemente pensando di integrare pietosamente l’inadeguatezza di chi ha una mente distorta, a ben guardare al di là della danza delle parole può celarsi un modo estroverso di guardare la complessità dell’esistenza, una prospettiva eccentrica ma non per questo definitivamente e irreversibilmente scollegata dalle esigenze basilari di ogni persona: vivere, convivere, condividere. E’ evidente che amo le parole, perché amo condividere la vita, e avendo sperimentato l’isolamento del disturbo mentale da cui sono evidentemente completamente uscita perché mi relaziono intensamente e consapevolmente, le uso senza riserve per spiegare e raccontare quale è stato il mio percorso per facilitare l’uscita dal labirinto dei pensieri di chi ancora non riesce a tradursi e ad essere interpretato. L’esclusione di chi è ritenuto 33


Le parole di una vita

diverso può dare un parziale senso di rassicurazione momentanea, ma nel profondo si teme di potersi ritrovare nello stesso labirinto o si prova la consapevolezza di non essere in grado di affrontare la complessitĂ e allora che si vive a fare? Per consumare un quotidiano avvilente e ripetitivo? Accettiamo la sfida dell’interpretazione, siamo in tanti a lavorarci, abbiamo le parole per spiegarci, in fondo la vita è veramente piena di parole, e le parole sono la vita stessa!

34


Le parole di una vita

L’IDENTITA’ VIOLATA Il labirinto della mente Il labirinto dei pensieri è forse un luogo immaginario o un’identità drammaticamente reale? O una dimensione che in fondo tutti ci ritroviamo a dover affrontare? Voglio prenderlo in considerazione per affrontare un tema che mi è molto caro perché ha attraversato trasversalmente tutta la mia vita e ne ha considerevolmente segnato l’evoluzione. Il labirinto che rappresenta il rischio, la perdita, l’esclusione, ma anche il raggiungimento di un tesoro nascosto e la scoperta dell’inconoscibile che viene svelato e dà nuova energia e significato alla nostra fatica di vivere. Il labirinto dei pensieri è un percorso affascinante e pericoloso, possiamo guardarlo dal di fuori e ipotizzare un percorso guardandoci bene dall’affrontarlo se non ci sentiamo sicuri, ma quando ne sei catapultato dentro e non hai ancora saldi punti di riferimento? Allora perdi il senso delle proporzioni e il viaggio non è più ipotetico e intrigante, ma diventa una devastante lotta per sopravvivere nonostante tutto. Chi guarda dal di fuori può sentire le richieste di aiuto ma non può orientarsi visto che ha un percorso lineare, si crea una profonda discrasia nei messaggi che non riescono ad essere letti nella stessa lingua, quella della mente. In realtà le esigenze sono uguali per tutti, e una gerarchizzazione di valore nel tentativo di raggiungere i propri obiettivi è semplicemente fuorviante, la creatività non ha schemi rigidi, quello che deve essere sempre tenuto presente è la consapevolezza del valore delle differenze, è il dolore di non poter essere sé stessi che blocca l’anima fino quasi a soffocarla, è l’identità violata. Si possono creare impercettibili fratture a cui non facciamo caso finché non diventano un baratro incolmabile e allora non sappiamo più come muoverci e il nostro bilancio 35


Le parole di una vita

esistenziale diventa deludente, ma cos’è che penetra nella nostra identità fino a rischiare di lacerarla? Cosa spinge, seppure involontariamente in molti casi, a non rendersi conto del dolore che si crea, pensando che è proprio la sofferenza inflitta a renderti immune al dolore nella speranza di poter affrontare qualsiasi prova, una specie di mitridizzazione all’esistenza? Credo che il significato del dolore stia semplicemente nel fatto che riporta alla memoria quello che deve essere evitato perché contrario alla salute, compresa, anzi soprattutto, quella della mente, la creatività va salvaguardata, e bisogna impegnarsi nella sfida, che è fatica e lavoro, ma allora diventa eustress, fatica benefica, non quieta contemplazione perché tutto si può ottenere senza fatica ma in fondo si viene privati della possibilità di scoprire le proprie risorse. Ritornando alla suggestione del labirinto, rimaniamo fermi nel terrore di perderci e lasciamo per disperazione chi si trova dentro, ma così rimaniamo separati e impauriti, lontani. Cerchiamo una terza via tra quello che si ritiene forzatamente giusto o sbagliato in base alle convinzioni del periodo e apriamo la strada al confronto possibile, la ricerca non della felicità perfetta ma del contatto costruttivo e ampio, pensiamo al probabile, che non è mai definitivo ma è continua analisi. Certo abbiamo bisogno di punti di riferimento sicuri e di uscire da una società liquida che ha forse perso di fluidità ma senza ingessarsi nella ricomposizione di schemi che emarginano e ghettizzano. Apriamoci al confronto. E’ una scelta difficile perché bisogna mettere in discussione sé stessi e le proprie convinzioni, ma in un’analitica ricerca possiamo trovare punti di riferimento comuni. L’idea di appartenere ad un mondo che ha ormai dimensioni planetarie può dare le vertigini, le differenze e le pressioni possono apparire insostenibili e spingere all’autoreclusione o al contatto approssimativo filtrato dallo schermo di un computer, ci illudiamo di avere il mondo in mano quando in realtà non 36


Le parole di una vita

riusciamo ad uscire dal perimetro di una stanza o non usciamo dalla mentalità dei propri punti di riferimento geograficoculturali, ma in fondo ogni essere umano lotta per trovare il miglior punto di equilibrio tra l’affermazione della propria peculiare identità e il bisogno di riconoscersi in una comunità per sentirsi integrato, pena l’eccesso che può portare al soffocamento dell’identità. Giuro che secondo me è il problema fondante di ogni essere umano e quindi condiviso e condivisibile. La strada per uscirne a mio avviso è la creatività, l’accettazione del pensiero divergente, che non è di per sé stesso automaticamente degenerato perché tecnicamente esce da un “genere” imposto, ma è semplicemente una nuova prospettiva che ha diritto di essere presa in considerazione. La degenerazione che più di ogni altra ha suscitato il terrore e il conseguente rigetto è quella della mente che sfugge al controllo, la malattia mentale; ebbene ormai è conclamato che spesso all’interno si nasconde e viene purtroppo sacrificata una grande creatività, un modo estroverso di guardare il mondo. Ma si così si cancella l’identità, si arriva all’identità violata. Certo il problema sta nelle modalità di comunicazione, le emozioni che si provano spesso sono così devastanti che diventano uno tsunami emotivo che rende difficile la comunicazione, ma si può mettere ordine nei propri pensieri e comunicare qual è la strada per orientarsi nel labirinto e raccontare quale tesoro può nascondere che non è necessariamente una mostruosità fuori controllo e da annientare. Tengo molto a sottolineare quale percorso dei pensieri si può vivere perché siamo ormai tutti esposti al rischio di ritrovarci in un labirinto indesiderato, viviamo una crisi antropologica prima ancora che economico-finanziaria, una profonda crisi per l’umanità intera che ha ormai scoperto di appartenere ad un mondo di uguali così vasto che non c’è ne è memoria precedente e quindi dobbiamo partire da una nuova prospettiva, un nuovo umanesimo. Pla37


Le parole di una vita

netario, senza distinzione di razza perché siamo tutti uguali nella nostra comune identità di esseri umani. Dobbiamo uscire dai ghetti forzati o auto costruiti per difenderci e affrontare la sfida del rischio nel cambiamento di prospettiva che suscita emozioni incontrollabili. Ed ecco che può arrivare una risorsa inaspettata e quanto mai imprevedibile: il contatto, certo graduale e composto, con chi lotta quotidianamente per affrontare emozioni che possono travolgere fino a togliere il respiro. Aumenta il numero delle persone a cui viene diagnosticata una patologia mentale, allora stiamo diventando tutti matti? Certo che no, semplicemente le nuove pressioni a cui siamo sottoposti spingono nel labirinto da cui ci si teneva lontani, e allora scopriamo che il labirinto stesso è popolato da tante persone che hanno già cominciato ad orientarsi e hanno scoperto che non c’è un mostro ingovernabile nascosto all’intero per negarne l’esistenza stessa, ma una forza energizzante che può farci riscoprire l’origine stessa della nostra esistenza, una spinta vitale forte e autonoma, l’amore per la vita nelle sue più svariate forme, un istinto che non è memoria arcaica di spinte che abbiamo modernizzato ma passione che possiamo coscientemente incanalare per avvicinarci con più serenità agli altri e tessere reti di relazione forti e non asfissianti in cui il confronto è possibile e non gerarchico e si rispettano le differenze perché portano nuova linfa. Chi è travolto dalle proprie emozioni può perdere il filo conduttore di propri pensieri ma può altrettanto ritrovarlo, illimpidito e arricchito, scoprire la propria positività, la propria debolezza ma anche la consapevolezza di poterla affrontare e risolvere. Spettiamo di avere paura del diverso o della propria diversità, perché in fondo può essere condivisa e quindi essere più “uguale” di quanto pensiamo, ormai non si può più tornare indietro e rinchiudersi in un recinto protetto farebbe morire il pensiero, ma cerchiamo un linguaggio comune, quello della 38


Le parole di una vita

mente, delle emozioni, diamogli corpo e filtriamolo con il linguaggio delle parole nuove che nasceranno per produrre il nuovo epocale umanesimo che in fondo tutti, ma veramente tutti, stiamo vivendo.

39


Le parole di una vita

LA FAMIGLIA Dinamiche e condizionamenti Continuo il mio discorso sulla salute mentale, quella che viene a mancare, cercando di proiettarmi in un’ottica più ampia: quella della famiglia. Verrebbe da dire che tutto il nucleo si stringa intorno alla persona che soffre per sostenerla si crea invece un meccanismo di auto implosione. La famiglia si spacca, si lacera, le accuse si moltiplicano e si rimpallano nella negazione dell’evidenza del problema, un membro della famiglia sta male, nel mio caso ero figlia ma può manifestarsi la problematica in modo apparentemente imprevisto anche nel caso di un adulto, un genitore per esempio. In questo caso la naturale continuità di rapporti viene a sfasciarsi perché chi deve prendersi cura dei figli eventuali diventa a sua volta figlio e con problematiche di comunicazione e rendimento. Quello che in ogni caso genera sconcerto, sconforto, disperazione, isolamento, paura e violenza fino alle fratture più insanabili è la consapevolezza di essere lascati soli. Siamo abituati a pensare che un nucleo familiare sia perfettamente autonomo e autogestito, quando in realtà si rischia di creare un isolamento irreale che porta alla difesa a oltranza o nel peggiore dei casi all’autolesionismo o all’irreversibile tragedia. La famiglia deve sapere di potersi aprire e deve essere ascoltata, in realtà non ha bisogno di indicazioni meccaniche su come deve gestire le continue emergenze che sfiniscono e fanno riaffiorare meccanismi difensivi di cui non si era presa piena coscienza, e magari riescono anche a peggiorare la situazione perché provocano maggiore isolamento, in realtà serve un confronto: cosa sta succedendo, cosa provate, cosa vi spaventa, come riuscite a vivere il quotidiano. Servono spazi mentali che hanno poi una ricaduta negli spazi fisici dove riconoscersi e un distacco 40


Le parole di una vita

monitorato deve essere vissuto come un cambio di prospettiva e non un fallimento dei rapporti che permette in uno sforzo estremo di garantire la minima sopravvivenza. La malattia mentale è una malattia e come tale va affrontata, va contestualizzata in un’ottica relativa al quotidiano che va rielaborato e ridiscusso e riguarda la mente, il cervello, che è una parte del nostro corpo seppure la più complessa e bisogna tenere in considerazione la visione reale e non trascendente di una problematica che scardina le nostre presunte certezze. Si viene ricoverati come per qualsiasi altra terapia e bisogna pensare che le reti di relazione che si instaurano tra un componente e l’altro non sono di per sé stesse l’origine stessa del problema, presupponendo che altri membri della famiglia abbiano doti di relazione così straordinarie da risolvere ogni problema, quindi va posta la massima attenzione onde evitare che lo strazio delle reciproche accuse ricada sulla persona che sta male, e che alla fine può paradossalmente sentirsi colpevole del dolore che sente intorno a sé quando, per il fatto stesso che sta già male, il dolore che prova è già una prova sufficientemente impegnativa, e il dolore va combattuto e non amplificato. Le relazioni che si instaurano in una famiglia sono finalizzate alla realizzazione delle aspettative dei vari membri del gruppo ma qui si apre un primo motivo di scontro: quali prospettive e soprattutto con quali dinamiche, e poi quali e quante sono le dinamiche inespresse? Si vuole che i figli realizzino i nostri progetti irrisolti o raggiungano livelli di benessere mentale e materiale, in una parola sociale, di gran lunga maggiori di quelli che hanno vissuto i genitori, questo è ovviamente considerato il migliore presupposto per rapportarsi ai propri figli, ma se non c’è il tempo di rielaborare le proprie dinamiche che riaffiorano quando fin troppi ostacoli si frappongono alla realizzazione dei propri obiettivi e si teme di trasmettere una drammatica ereditarietà di sfinimento e falli41


Le parole di una vita

menti? Sostenere in una lotta tenendo presente il divario generazionale, che va valutato in termini di risorse esistenziali, scelte ed esperienze e soprattutto elementi contingenti che possono segnarci in un modo che è difficile trasmettere, rendono difficile il percorso di alleanza che non deve diventare soffocante ma neanche dare il senso dell’abbandono. E’ evidente a questo punto che solo ogni singola relazione avrà l’opportunità di spiegare cosa succede al suo interno perché non esiste un unico modello valido o supremo. Quello che va tenuto presente è il coraggio di ammettere che seppure involontariamente rischiamo di cercare di riprodurre dei modelli di comportamento che riteniamo validi anche se con tutta evidenza creano solo danni. Per questo l’apertura della famiglia e verso la famiglia è il percorso fondamentale per un confronto, una sorta di mediazione culturale per ampliare la prospettiva di riferimento fermo restando che è sempre e solo la famiglia che può raccontare quali sono le sue dinamiche e gli attriti che si vengono a creare. Nel caso di patologie che colpiscono nella prima infanzia e magari rimangono latentizzate, si tende a creare un rapporto dicotomico: da una parte può verificarsi un eccesso protettivo nell’ansia di sollevare il proprio figlio da un eccesso di provocazioni, dall’altro si possono esercitare pressioni estreme perché il bambino stesso dimostri di essere perfettamente in grado di controllare le proprie emozioni. Il fatto è che non si riesce ad affrontare il problema perché si teme ancora che sia irrisolvibile, la psicopatologia, la malattia mentale che colpisce addirittura un bambino e quindi vengono direttamente chiamati in causa i genitori per trovare capri espiatori di una colpa che in realtà non esiste. La colpa è il primo problema che deve essere affrontato e scardinato, altrimenti non si troverà mai neppure il più vago tentativo di soluzione, non ci sono responsabilità nella difficoltà di rapporti ma un’incomunicabilità di fondo di cui non si conoscono an42


Le parole di una vita

cora bene le ragioni ma che, a ragion veduta, si può affrontare con calma e ponderazione coinvolgendo gli attori principali della situazione: i genitori e il bambino e se ci sono anche i fratelli che rivestono un ruolo fondamentale. Gli altri parenti ascendenti o collaterali devono astenersi dal commentare superficialmente chiamando in causa presunte mancanze ma collaborare con le esigenze dei genitori. Quando si parla di famiglia bisogna definire se si tratta di una tradizionale, allargata, mononucleare, quali sono le reti di relazione e la struttura all’interno della quale si giocano dinamiche che in una situazione di presunta normalità possono provocare intese o opportunismi ma in uno stato di difficoltà generano tensioni intollerabili. Parlo di situazioni presunte, perché in realtà non esiste una dimensione perfetta e quello che va analizzato è il problema delle emozioni incontrollate e incontrollabili di chi ha una problematica mentale ma ha le stesse esigenze di chi riesce, almeno apparentemente, a comunicare con limpidezza le sue esigenze. Realizzare progetti, rimanere affascinato da esperienze che possono provocare un’ inaspettata condizione di benessere o evitare situazioni che scatenano reazioni estreme. Riesce difficile capire quando e come si manifestano tutte queste emozioni e in quale ordine e grado, ma la difficoltà nella gestione non preclude il desiderio di manifestare un’identità. La psicopatia non è una condizione irreversibile o completamente deviata, è al contrario una dimensione estrema in cui i messaggi arrivano e si ritrasmettono come se fossero codificati in una lingua sconosciuta e appaiono la manifestazione potenzialmente pericolosa e devastante di chissà quali istinti sconosciuti. Ma al di là di tutto questo ci sono persone, figli, fratelli che vogliono integrarsi e farsi capire. Sono comunque membri effettivi di una famiglia. Insisto molto sul ruolo della famiglia perché è il primo nucleo di sviluppo e confronto e molto c’è da rivedere visto che ricadono sulle 43


Le parole di una vita

sue spalle una serie di responsabilità, educative, finanziarie, di quotidiana sopravvivenza, che la fanno diventare un baluardo chiuso e impenetrabile in una condizione innaturale e soffocante. La famiglia è il primo nucleo di condivisione, nasce dal bisogno naturale di creare legami e continuità ma ha bisogno di aperture e confronto, e soprattutto di conforto e sostegno. Cambiano le sue strutture e dinamiche ma alla base c’è l’istinto più antico del mondo e il più naturale e condivisibile nonché impegnativo: la continuità della specie, la trasmissione vitale che diventa sociale e culturale, cominciamo quindi a valutarne la ricaduta in termini di preconcetti e valutazioni. Una famiglia propriamente detta nasce quando arriva un bambino, una nuova creatura ma che ha le stesse esigenze di qualsiasi essere umano, esprimersi ed essere sostenuto nel farlo, e qui si aprono gli scenari più complessi. Ci portiamo dietro una memoria sedimentata da un lunghissimo percorso evolutivo e chi ci troviamo di fronte non è una nuova creatura da impostare secondo criteri moderni ed aggiornati per ottenere il migliore risultato, neanche si trattasse di una macchina da impostare con i programmi più aggiornati. Abbiamo nel nostro vissuto di reali o potenziali genitori, e non mi riferisco alla valutazione propriamente anagrafica ma alla consapevolezza di essere in grado biologicamente di riprodurre una vita, una memoria scarsamente limpida di quello che ci sentiamo o meno di affrontare perché valutare le proprie risorse è difficile quanto il difficile mestiere di vivere, e ci rendiamo conto della riproduzione di schemi che volevamo evitare soltanto quando ormai li abbiamo messi in atto, non è un errore volontario ma una condizione reale e concreta con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni, avere a che fare con creature che esprimono i loro bisogni e si sentono riconosciute in base alla strana e imprevedibile combinazione tra la loro naturale espressività e le nostre immediate risposte crea situazioni che possono forte44


Le parole di una vita

mente condizionare. Quindi diventa fondamentale l’apertura al confronto perché un osservatore esterno può dare una valutazione da un punto di riferimento appena decentrato e compensare pressioni e provocazioni, evitando comunque giudizi sommari e approssimativi sulle presunte o reali capacità genitoriali. I genitori sono già più o meno consapevolmente incerti e spaventati dall’idea di arrecare danno ai propri figli, quindi vanno sostenuti nel confronto e non azzerati a priori. La famiglia va rispettata e consapevolizzata del fatto che deve e può aprirsi al confronto, che è poi la condizione naturale visto che i riferimenti fondamentali della trasmissione culturale e sociale cominciano dalla scuola e si rapportano costantemente ai riferimenti educativi dei genitori. E’ un lavoro complesso che articolato costantemente e metodicamente può permettere di aprire canali di comunicazione insperati. La responsabilità dei genitori è prioritaria perché sono comunque il primo riferimento biologico e soprattutto affettivo dei figli, in special modo quando si manifestano patologie mentali, ma non deve diventare una dimensione soffocante ed estrema attribuendo in un caso la responsabilità di esercitare indebite pressioni o al contrario delegittimando qualsiasi iniziativa. I genitori cercano comunque di trovare una strada, e non è per niente semplice in ogni caso figuriamoci quando la comunicazione diventa difficile perché non si riesce a trovare la giusta sintonia per collegarsi alle modalità dell’espressione emotiva di chi ha una patologia psichiatrica. Sottolineo il concetto dell’interazione dei rapporti all’interno della famiglia perché secondo me è in questa chiave di lettura che va letta una prima interpretazione della patologia psichiatrica. Non è la famiglia che rende “matto” un suo membro e neanche un genitore o un figlio “decidono” di creare terribili scompensi. La situazione è molto più complessa e articolata ma non incomprensibile e ingestibile. Le pressioni ambientali possono 45


Le parole di una vita

slatentizzare una patologia, ma tutto questo avviene in modo del tutto involontario e non c’è a mio avviso una cronologia precisa tra l’insorgere di un problema nelle dinamiche familiari e il manifestarsi di una patologia, spesso un disagio psichico, soprattutto se avviene nella prima infanzia, si manifesta all’improvviso e coglie completamente impreparati i genitori e gli altri membri. Non sono chiare le origini della patologia mentale nelle sue più svariate forme, ma di sicuro c’è che crea problematiche molto complesse, più articolate di quelle indotte da altro genere di patologia. Tutto dipende dal fatto che viene chiamata in causa la mente, la volontarietà degli atti e il loro controllo, e diventa difficile capire che la discontinuità negli atteggiamenti non è dovuta al capriccio momentaneo o ad una temporanea quanto inspiegabile intolleranza ad eventi e comportamenti che sembravano ormai acquisiti, nella patologia mentale diventa difficile governare le emozioni, prima ancora capirle e tantomeno spiegare cosa sta succedendo da parte chi soffre e sente un muro intorno a sé da cui non riesce ad emergere. Proprio questa difficoltà nella comunicazione fa pensare di essere vittime di intollerabili provocazioni e gli altri membri della famiglia hanno ovvie difficoltà a rapportarsi in modo coordinato e consequenziale. La disperazione porta alla frattura ma è proprio a questo punto che bisogna coordinare gli sforzi perché convergano in iniziative produttive. Purtroppo non si tratta di una situazione semplice e dall’immediata applicazione, perché il dover subire giudizi sommari da parte di chi si presuppone possa dare una mano, parenti, amici, a volte anche il personale educativo, scoraggia e spinge a pensare che sia molto meglio arrangiarsi da soli, nascondendo al mondo il proprio dolore per non dover subire altri attacchi. E’ umano pensarlo ma la conclusione è spietata: seppure involontariamente si peggiorano le cose perché l’aiuto che si chiede è un diritto che va affermato e non la presunta richiesta 46


Le parole di una vita

di un favore. Scrivo con profonda cognizione di causa perché ho sperimentato l’isolamento, familiare e sociale e non è una condizione favorevole. Certo negli ultimi decenni molte cose sono cambiate e molta strada è stata percorsa ma rimangono ancora ampie sacche di paura e pregiudizio. Non si vuole imporre un problema ma condividerlo, perché le difficoltà vanno affrontate insieme visto che siamo esseri sociali e la condivisione non è soltanto quella conviviale. Invito quindi a valutare positivamente l’approccio eventuale ai servizi per la salute mentale, capisco che il termine stesso faccia ancora paura ma letto nell’ottica di un sostegno medico può aiutare ad affrontare situazioni difficili prima che diventino intollerabili. Non si tratta di dare una drammatica valutazione di momenti di sconforto che, si può pensare, debbano necessariamente sfociare in un dramma, ma tener presente che è umano subire stress e condizionamenti, la vita non è facile per nessuno, e un colloquio e un confronto iniziali per trovare un nuovo punto di riferimento possono evitare che un principio di disagio sfoci in una situazione estrema. Riadattare i propri schemi di riferimenti leggendoli in un’ottica appena decentrata, con la valutazione da una prospettiva nuova, può aiutare a ritrovare punti di riferimento che si erano solo temporaneamente smarriti, consideriamo che rivolgersi ad uno psichiatra non significa necessariamente aprire scenari irrisolvibili, ma chiedere un sostegno medico come si farebbe per qualsiasi altro tipo di patologia e prima lo si fa prima si inizia il recupero del proprio benessere mentale che ha un’ovvia ricaduta nella quotidianità. Non bisogna né nascondere né tantomeno nascondersi, la mente, il cervello, sono una parte del nostro corpo e possono ammalarsi ma ovviamente anche guarire, cioè si può tranquillamente ritrovare il proprio equilibrio che può essersi semplicemente disorganizzato perché in un periodo della propria vita si è dovuto subire uno sforzo probabil47


Le parole di una vita

mente eccessivo. Bisogna aprirsi al confronto e alla condivisione scardinando tabù che bloccano e rallentano la soluzione del problema, è necessario capirlo perché solo in questo modo possono aprirsi nuove prospettive di integrazione e benessere e ritrovare quell’intesa si è solo temporaneamente sfilacciata.

48


Le parole di una vita

L’IMMAGINE ALLO SPECCHIO Quando l’identità è in frammenti Parlare dell’immagine che diamo e del riscontro che ne riceviamo quando ci specchiamo negli occhi degli altri è indubbiamente un discorso complesso, le sfumature della comunicazione sono molteplici e tanto si è detto sulle migliori modalità per presentarsi, e la prima provocazione nasce proprio dall’immagine. L’immagine stessa rappresenta la nostra identità, ma cos’è l’identità? E soprattutto come cominciamo a scoprirla, come possiamo definirla e garantirne la continuità? Personalmente non ho trovato una risposta univoca e definitiva che mi garantisca una tranquilla continuità, al contrario ho dovuto sperimentare l’incubo di non averla o riconoscerne una antisociale, tutto dovuto a problemi di comunicazione che mi hanno accompagnato dalla prima infanzia. In linea di massima posso dire che l’identità è il frutto delle proprie predisposizioni, che nascono da determinati equilibri cerebrali perché in fondo ormai è conclamato tutto parte dal nostro cervello, e dagli stimoli ambientali, leggi educazione e rete di relazioni, che possono esaltare o comprimere le nostre naturali predisposizioni, che oltretutto non si manifestano in modo necessariamente tranquillo e consequenziale. Ci sono note parole come frustrazione, principio di realtà, elementi ormai entrati a far parte del linguaggio comune tanto sono stati assimilati da non aver neanche più bisogno di essere spiegati, sono per così dire sentiti in profondità, direi in modo istintivo. Forse perché ci sono stati ripetuti ad oltranza e dobbiamo fare i conti tutti i momenti con i nostri desideri e la loro difficoltà di realizzazione. E allora c’è sempre la stessa ricerca di una dimensione ideale che permetta di fuggire dalla realtà opprimente, leggi in sintesi la sofferenza, per garantire 49


Le parole di una vita

e garantirsi il miglior benessere. Ecco che si aprono vari scenari: da un determinato aspetto fisico ad atteggiamenti sociali o professionali che riscuotono un unanime consenso spesso però dettato solo dalla moda del momento, tanto per trovare un escamotage alla fatica di vivere, e vengono velocemente sostituiti da altri quando hanno fatto il loro tempo. Ma nel contesto chi non rispecchia determinati standard si sente tagliato fuori, la sua identità viene vissuta come già fallimentare, quindi malamente tollerata, soprattutto a partire dal gruppo dei pari, con conseguenze antisociali. Mi chiedo ancora la ragione di questo estremo scempio esistenziale; non potremmo essere tranquillamente diversi nella comune identità di esseri umani, e cercare le radici comuni della condivisione e non quelle più sfacciate ma altrettanto illusorie e mistificatrici che pretendono di giustificare il rifiuto? In sintesi ciascuno dovrebbe avere la libertà di essere sé stesso, conoscersi per gradi ed essere aiutato a manifestare la sua identità. Limpida enunciazione di principio, in realtà è sotto gli occhi di tutti che le cose non sono né così semplici né tantomeno automatiche, le pressioni e le fughe sono all’ordine del giorno e la frenesia con cui le viviamo fa perdere il senso delle proporzioni e soprattutto delle conseguenze delle nostre scelte attuali. Io parlo con la consapevolezza di aver vissuto e profondamente assimilato quella manciata di decenni che hanno rappresentato un cambiamento culturale e sociale tra i più frenetici, rapidi e convulsi che la nostra memoria possa ricordare, sono nata all’inizio degli anni sessanta del novecento. Abbiamo scoperto la mente, la personalità, il dinamismo, la mobilità, la libera espressione, la rivoluzione in senso culturale e non militare e la deriva atroce della violenza imprevedibile, gli stessi figli che si scagliavano contro i padri e non in senso analiticamente metaforico, ora viviamo una guerra sociale non dichiarata dove non piovono bombe, da una parte grazie al cielo, ma 50


Le parole di una vita

in ogni caso non si possono realizzare progetti perché non ci sono fondi, spazi mentali, libertà di iniziativa e autentico rispetto, stiamo rischiando di bruciare generazioni intere, è chiaramente un follia, ma quella vera, sociale e non dichiarata e non il disagio mentale che genera una sofferenza da cui si cerca in tutti i modi di uscire. Quindi a ben vedere esprimere sé stessi è estremamente difficile ancora oggi, anzi forse soprattutto oggi, quindi sfatiamo il mito della progressione automatica di benessere con la modernità e guardiamo ai problemi che abbiamo realmente davanti. Non credo che la modernità sia un concetto puramente cronologico, ritengo al contrario che la si possa definire una spinta estroversa per guardare le cose da una prospettiva eccentrica per cogliere sfumature che possono rappresentare una terza via per risolvere situazioni intricate quando le due opzioni principali e contraddittorie rappresentano due tentativi estremi e inconciliabili, facendo apparire il problema irrisolvibile, si tratta di esprimere il proprio punto di vista e allora più ce ne sono meglio è, come guardare in un caleidoscopio di risorse e trovare un pensiero che non sia unico ma riccamente articolato, e allora ciascuno può far emergere la sua identità, quindi ritorniamo all’inizio del discorso, essere sé stessi, ma come fare ad emergere se si frappongono mille ostacoli e soprattutto perché a volte, anzi forse spesso, nascono tanti ostacoli? Cos’è che ci spaventa tanto? Forse il fatto di non ritrovare certezze, punti fermi che rappresentino una radice comune di contatto, una condivisione di base su cui articolare pensiero complesso? Non possiamo accettare solo persone che ci facciano sentire compiaciuti perché assimilano senza riserve le nostre proposte o chi si adegua o rappresenta standard che colpiscono il nostro immaginario, la vita è molto più complessa di questo e lo è necessariamente perché per vivere e prima ancora sopravvivere si ha bisogno di molti spunti di riflessione e con51


Le parole di una vita

fronto per risolvere pensieri complessi. Cominciamo con l’evitare superficiali gerarchizzazioni di valore su atteggiamenti comportamentali e scelte esistenziali, perché con giudizi affrettati e sbrigativi guardiamo un errore che abbiamo davanti agli occhi ma non riusciamo a cogliere la contorsione probabile nelle nostre modalità di risoluzione di problemi simili. Cerchiamo di andare alla radice primaria delle nostre scelte, si tratta di essere onesti con sé stessi e quindi lo saremo anche con gli altri, non dico di esercitare un buonismo di facciata, ma di cominciare la ricerca dell’identità senza aver paura delle emozioni personali che può scatenare. E’ come guardarsi allo specchio, se lo specchio è rotto l’immagine è in frammenti. Non fermiamoci alla prima impressione, si può sempre cambiare specchio. In una parola mettersi nei panni dell’altro. Chiedersi per quali motivi ha determinati atteggiamenti e chiedere spiegazioni con il desiderio di confrontarsi. Si chiama dialogo. Troppo spesso e troppo sbrigativamente riteniamo che chi ci è di fronte sia inferiore ai nostri livelli di sviluppo, culturalmente o finanziariamente, ancor peggio non abbia le doti o il merito per raggiungerli, e che la sua esistenza abbia un valore relativo inferiore al nostro, come se potessimo concedere il diritto a vivere, cioè esprimersi con la propria progettualità, in base ad un presunto diritto di primazia. E si adducono le più convinte e svariate motivazioni. Culturali, religiose, etniche, sociali, insomma dobbiamo istintivamente cercare uno spazio esclusivo dove poterci rinchiudere per evitare o quantomeno ridurre le provocazioni del quotidiano. Meno siamo meglio stiamo a volte si dice, accaparriamo enormi risorse e garantiremo la sopravvivenza del nostro gruppo sociale per generazioni. Ci sentiamo così padroni del mondo, dominatori del pianeta, tanto moderni, che secondo me abbiamo perso di vista il fatto che ragioniamo ancora in senso tribale, cioè la difesa ad oltranza di un gruppo che deve rima52


Le parole di una vita

nere esclusivo ed aggressivo ed applichiamo modelli che in fondo risalgono a modalità piuttosto arcaiche di funzionamento. Escludere il diverso, e leggere troppo facilmente la diversità in tutto quello che sbrigativamente non ci piace, non è sicuramente segno di evoluzione, e se l’evoluzione è modernità, allora direi che stiamo tornando un po’ troppo rapidamente all’antico. Quasi sempre nella vita ci sono elementi che non collimano con le nostre esigenze, cerchiamo allora un colpevole fuori perché è la scelta più semplice, ma non quella risolutiva, cerchiamo allora di affrontare un elemento per volta e di analizzarlo. Cominciamo a valutare cosa ci appassiona, come possiamo trovare risorse per realizzarlo e cerchiamo collaboratori, ma nel senso di pari. Se valutiamo come persona chi abbiamo davanti e non oggetto di produzione le cose sicuramente cominceranno ad andare meglio. Con il dialogo poi si può veramente cominciare a produrre. Ma se il dialogo diventa estremamente difficile perché chi abbiamo davanti si esprime con un linguaggio di emozioni incontrollabile e incomprensibile? C’è una diversità troppo estrema anche per le nostre migliori intenzioni? Non riusciamo a riconoscere un’immagine integra ma frammenti scollegati di un’identità? Mi spiego: quando abbiamo di fronte il diverso per eccellenza: il malato mentale? Qui posso parlare per esperienza diretta e ricollegarmi all’accenno che ho fatto all’inizio del discorso sulla mia identità apparentemente antisociale. Per riuscire a definire questo tipo di diversità si applicano pregiudizi conclamati; un matto è consecutivamente: irrecuperabile, pericoloso socialmente, omologato agli altri pazzi, da rinchiudere perché essere, e non persona, senza speranza, un peso per la comunità che ne tollera l’esistenza purché isolato dal contesto limpido e puro di chi non è mai incorso suo malgrado in una diagnosi. Cominciamo a smontare i pregiudizi uno per volta. Cominciamo dall’essere persona. Parto da quello che ritengo 53


Le parole di una vita

fondamentale perché se si riesce a compiere il primo fondamentale passo, cioè porsi nella giusta ottica, tutto il resto viene in modo consequenziale. Un malato mentale è una persona con desideri, progetti, esigenze come qualsiasi altra persona ma ha una difficoltà più o meno precoce o gravosa a comunicarli e realizzarli per problemi che nascono da una disarticolazione dei suoi pensieri che portano a provare emozioni intensissime e discontinue con una conseguente difficoltà a coordinare le iniziative. Nella sua testa le idee non hanno una rassicurante progressione, anzi si manifestano con un eccesso emotivo difficile da governare e coordinare, è una situazione gravosa ma sottolineo non irreversibile e ingovernabile. Indipendentemente dalla diagnosi, ciascun diagnosticato è diverso dall’altro come ogni persona è diversa dall’altra, con desideri, gusti, contesti e predisposizioni diversi, quello che accomuna è la difficoltà di comunicazione, ci si ritrova chiusi in una bolla impenetrabile ma non si ha una natura esclusivamente maligna o distruttiva. Rimane la complessità di ogni persona, cambia il livello di pressione e provocazione a cui si viene sottoposti spesso proprio in ragione delle manifestazioni involontariamente distorte della propria identità. Indubbiamente ci mostriamo male, ma lo facciamo involontariamente, questo ci provoca grande sofferenza, e non va negato che ci viene attribuita d’ufficio una perversione quasi assoluta come se fossimo totalmente privi della capacità di produrre pensiero creativo, posso garantire che le cose non stanno assolutamente così. Abbiamo comunque un forte senso di responsabilità che vogliamo esprimere con la massima consapevolezza, ma la difficoltà nel gestire le nostre emozioni ci spinge a pensare che possiamo involontariamente perdere il controllo e compiere gesti contrari alla nostra volontà e questo ci provoca un’enorme sofferenza, sentiamo una specie di radice malevola al nostro interno pur sapendo che il nostro 54


Le parole di una vita

massimo desiderio è quello di sentirci in sintonia con le altre persone, condividere la vita. L’intensità si realizza anche al positivo e l’adesione che ci spinge ad avvicinarci può essere letta come possesso esclusivo. In sintesi il desiderio di vicinanza e il bisogno di allontanamento, l’accordo, la ricerca di un equilibrio, la difficoltà di relazione e il bisogno istintivo di rielaborare reti di relazione che accomunano tutti gli esseri umani, in presenza di una patologia diventa ulteriormente complesso e di difficile gestione. Ci sentiamo pervasi da una colpa che non sentiamo di poter gestire e la proiettiamo al di fuori, ma questo non fa che aumentare il nostro senso di colpa con conseguenze deleterie sul nostro atteggiamento. Stabilire come rapportarsi e a chi rapportarsi è difficile per chiunque perché non è affatto semplice trovare un linguaggio comune che permetta di tradurre le reciproche esigenze e confrontare diverse modalità di realizzazione delle stesse. Figuriamoci quando le emozioni sono estremamente intense. Personalmente propongo di partire da quella che io definisco “intelligenza etica”, cioè la più o meno marcata capacità di mettersi semplicemente nei panni dell’altro. Si può pensare che sia l’ennesimo tipo di intelligenza, come quella verbale o analitica, ma io trovo che sia la forma che più intensamente vada sviluppata, analizzata e condivisa. Si lega alla radice comune a tutti gli esseri umani del bisogno di socializzazione, quindi a ben vedere anche chi non ha problemi di gestione delle proprie emozioni ha bisogno di garantirne il migliore sviluppo ed è responsabile della sua migliore manifestazione. Credo in fondo che il problema principale sia quello di gestire le emozioni che nascono dal nostro bisogno di scoprire ed esprimere la nostra identità, e questo problema accomuna tutti gli esseri umani compreso chi ha una diagnosi psichiatrica, cioè ha atteggiamenti estremizzati che nascono dallo tsunami emotivo che vive quotidianamente provocato da pressioni ambientali e predisposizioni 55


Le parole di una vita

neurologiche che sfociano, collegate all’insorgenza più o meno precoce del disturbo e alla propria particolare identità, in una differente diagnosi che porta però allo stesso tipo di risultato: la difficoltà di relazione, che si amplifica perché si viene considerati tout court pericolosi in quanto irreversibilmente privi di controllo. Eppure, posso confermarlo, per un diagnosticato la paura più grande è proprio la paura di non poter controllare la propria “intelligenza etica” e lo spettro dell’isolamento sociale. Quindi dimostriamo nostro malgrado un senso di responsabilità che può deporre a nostro favore. Si ha bisogno di essere sé stessi ma se si ha contemporaneamente paura di quello che potremmo dimostrare diventa estremamente difficile realizzare la propria identità. Eppure è lo scopo di ogni esistenza. Quindi come muoversi? Innanzitutto con il confronto. Non è in nessun modo salutare nascondersi o nascondere il problema al mondo, non possiamo farcela da soli, la famiglia stessa non può pensare di diventare un baluardo esclusivo a protezione di un suo membro che ha problemi psichiatrici, leggi meglio come problemi di identità o peggio espellerlo con un netto rifiuto come se solo così si potesse risolvere il problema. La situazione va affrontata con maggiore limpidezza e consapevolezza: non si tratta né di una condanna incomprensibile né di una croce da portare silenziosamente ma di una malattia che va affrontata e curata. Bisogna rivolgersi ai servizi psichiatrici, i centri di saluti mentale, dove il personale sanitario può cominciare a dare una prima valutazione della situazione per poi coordinare interventi mirati, si tratta ripeto di un problema di salute e come tale va affrontato. Certo è un problema complesso quello della salute mentale, perché riguarda la salute della mente e quindi della propria identità e volontarietà e un essere umano senza il pieno controllo della propria identità è considerato una creatura, paradossalmente non più persona, irrecuperabile e da 56


Le parole di una vita

condannare senza appello. Ma ci siamo chiesti quanto reale controllo abbiano le persone che sembrano eticamente impeccabili e apparentemente all’improvviso compiono gesti estremi? Forse avevano sedimentato e nascosto una tensione estrema che poi è sfociata in un gesto incontrollabile, se avessero chiesto aiuto prima non si sarebbe potuta evitare una tragedia? Quindi da un certo punto di vista chi avvia un percorso di analisi profonda della propria identità mostra comunque una coscienza profonda del proprio disagio e il bisogno di emergere compiutamente. Il disagio mentale non si cerca, colpisce, ma è una malattia e non una condizione irreversibile e come tale va curata, ma come ci si può scoprire dopo? Cosa succede quando ci addentriamo nell’analisi profonda delle nostre emozioni? Cosa succede quando si comincia l’auspicabile percorso di analisi della propria vita? Come possiamo riprendere il controllo della nostra vita e soprattutto come valutare quello che abbiamo vissuto “prima”, quando non eravamo in equilibrio? Quando una patologia si manifesta in età pediatrica con una precoce insorgenza e non viene ben diagnosticata, è d’altra parte molto complesso definire cosa sia evolutivo e cosa decisamente patologico quando il disturbo non è troppo marcato, si condiziona tutto il successivo sviluppo e le scelte e gli orientamenti risentono della tensione quotidiana che si viene a creare nei rapporti, ma non è altrettanto semplice affrontare un crollo dopo aver condotto alcuni decenni della propria vita con una consecutività che dava garanzie di sicurezza e stabilità. All’improvviso ci si chiede cosa stia succedendo perché non ci si riconosce più, e a partire dai familiare e la cerchia delle persone più vicine arrivano messaggi di sostegno che vengono però letti in modo contraddittorio: sentirsi dire che qualcosa nella nostra mente non va viene letto come una congiura ai nostri danni per ragioni inspiegabili o peggio come conseguenza di una colpa che sentiamo per 57


Le parole di una vita

aver perso il controllo dei nostri pensieri. In sintesi la nostra identità è sbagliata, si riduce in frammenti, è come se ci specchiassimo in uno specchio rotto e non ne troviamo un altro che ci possa ridare l’integrità. Se ce ne fosse il dubbio posso garantire che è una sensazione terrificante, ma è proprio a questo punto che non bisogna arrendersi e fare leva sulla propria intelligenza etica. Dobbiamo ritrovare noi stessi ma non possiamo farlo da soli. Non riusciamo a percepire il pieno e totale controllo delle nostre scelte ma possiamo ripercorrere la strada che ci ha portato verso una deviazione, possiamo ritrovare noi stessi. Cominciando dal sostegno farmacologico, che ha una funzione stabilizzatrice ma non costruisce un pensiero altro rispetto a quello che conosciamo di noi stessi, ci permette al contrario di vedere in un’ottica ridimensionata situazioni che sembravano intollerabili. Certo sono farmaci non comuni, sono “psico-farmaci”, incidono sulla psiche, la mente, ma ripeto servono a creare un maggiore equilibrio e non spengono l’ideazione, riportano per così dire in un ritmo sostenibile la nostra vita mentale che si è temporaneamente sfilacciata. Una volta stabilizzati comincia il lavoro vero e proprio del percorso di analisi. Riprendiamo il tema dal punto in cui ci si chiede cosa si potrà scoprire: forse di aver perso la propria esistenza? Di aver commesso errori che non possiamo rimediare? In realtà le sfumature sono molteplici e ovviamente ciascuno affronta le sue scoperte, non si tratta certo di una rieducazione forzata che spinge ad un pensiero unico. Si tratta di un nuovo confronto con se stessi, la ricerca di un nuovo specchio. Il percorso non ha tempi programmabili e prevedibili, può dipanarsi secondo modalità imprevedibili con raggiungimento di nuove consapevolezze e regressioni improvvise ma non bisogna perdere la speranza perché alla fine si possono ricollegare gli elementi. Scoprire di aver vissuto male una parte della propria vita non vuol dire averla persa per 58


Le parole di una vita

sempre, comunque ci siamo espressi e rimangono tracce importanti che non vanno negate o nascoste, c’è stato comunque il tentativo di trovare il miglior adattamento possibile, vanno ripresi gli elementi di positività e riconvertiti quelli estremi che hanno provocato dolore a noi e a chi ci stava intorno, tutto va riletto in una nuova ottica e non condannato senza appello, è comunque una parte della nostra vita e come tale va salvaguardato. La nostra identità emerge comunque e questa è la sua naturale forza, la capacità di estrinsecarsi e darci l’energia sufficiente per continuare il nostro cammino nella vita, bisogna solo riequilibrare gli elementi, tutto può essere rielaborato. La vita è sempre piena di nuove risorse quindi non va mai persa la speranza. Gli anni permettono di muoversi con nuova consapevolezza, l’esperienza ci insegna a conoscere quali modalità di rapporto possiamo impostare e questo ci permette di recuperare esperienze che credevamo di dover abbandonare per sempre. Certo la fatica è profonda, si tratta di scavare nel profondo e si può provare un forte disorientamento ma è una fase temporanea, se ci pensiamo bene può essere molto più avvilente rifiutare ad oltranza qualsiasi valutazione su sé stessi e ritrovarsi alla fine della vita con un bilancio avvilente, senza spessore. Quindi l’analisi è una fatica e un rischio che in fondo vale la pena di correre. Non pensiamo quindi che iniziare un percorso di analisi sia segno di debolezza perché non riusciamo a gestire autonomamente la nostra vita, ci siamo ammalati perché siamo “programmati” male, al contrario si dimostra il coraggio di affrontare a viso aperto sfide che la vita ci pone davanti e che ci hanno colpito in un momento in cui eravamo semplicemente più fragili, non definitivamente sbagliati, posso confermare che nessuno è talmente perfetto da poter affrontare tutto in modo impeccabile, semplicemente non ha il coraggio di ammettere la propria debolezza, e questo non è segno di onestà intellettuale. Di 59


Le parole di una vita

nuovo mi collego all’intelligenza etica. Dobbiamo guardare chi abbiamo davanti come persona, può essere il nostro specchio in cui riflettere la nostra identità, guardiamoci con occhi più limpidi, scevri da pregiudizi superficiali, apriamo gli occhi: potremmo vedere qualcosa di molto affascinante, la vita è sempre piena di sorprese, cogliamole finalmente!

60


Le parole di una vita

IL DOLORE INVISIBILE Qual è il limite invalicabile? Cerchiamo e viviamo relazioni, ne abbiamo bisogno e non possiamo vivere senza, ma non riusciamo a definire le condizioni che ci permettano di trovare quel minimo di stabilità necessaria per renderle vivibili, tollerabili. Chiamiamo in causa la nostra condizione; all’interno della famiglia: essere figli, genitori, relazioni parentali che fanno riaffiorare meccanismi di relazione troppo possessivi o esclusivi, la condizione sociale, etnico - culturale, indubbiamente intrecciando tutti questi elementi si comincia a delineare un quadro in cui praticamente tutti possiamo riconoscerci. Chi di noi non ha avuto una rete di relazione in cui ci sono state difficoltà più o meno marcate nel definire la propria identità, il proprio spazio, vado oltre leggendo il problema del proprio limite? Per stabilire un limite bisogna prima definire un perimetro, ne conseguono i confini e la loro articolazione con altri ambiti che possono essere più o meno simili o con gli stessi bisogni. A questo punto subentra il problema delle risorse: se ci sono gli stessi bisogni e sufficienti risorse allora la condivisione può diventare funzionale alla realizzazione di rapporti di buon vicinato, ma se le risorse scarseggiano? Allora si scatena più probabilmente una guerra. Ora facendo riferimento a risorse concrete si può quantificare il loro utilizzo e cercarne delle altre, ma se parliamo di bisogni e risorse mentali, istintive, relazionali nell’ambito degli affetti e dei legami emotivi? Ovviamente il discorso si rende più articolato perché parliamo dell’impalpabile, indefinibile e apparentemente ingovernabile. Parliamo dei rapporti che chiamano in causa la nostra vita mentale, la nostra identità, il nostro ruolo. “La mia libertà finisce dove inizia la tua”: è il problema di cui si ragionava quando ero 61


Le parole di una vita

ancora una ragazza, ma presto si poneva il problema di sapere dove effettivamente finisse la mia libertà, cosa fosse la libertà nel senso di valutare cosa si potesse effettivamente fare, e se pensare che un limite potesse isterilire l’esistenza ponendo un argine a nuove iniziative e chiudendo altri orizzonti. Forse una risposta non siamo ancora riusciti a darla visto che ci muoviamo in molti in un ambito davvero complesso e confuso sacrificando identità e creatività, e non mi riferisco soltanto ad identità intrise di sofferenza perché hanno un disagio mentale, ma anche quelle che si adeguano forse perché poco stimolate o troppo arrendevoli, poco combattive, più tranquille ma che rischiano un bilancio alla fine un po’ deludente. Stabilire un perimetro è difficile, bisogna prima stabilire delle priorità, organizzare un pensiero. Il primo limite è l’inviolabilità della vita umana, sempre e comunque e che ci piaccia o meno una persona, forse non avremo molto da condividere ma non possiamo permetterci di considerarla meno persona perché non condivide i nostri interessi. In fondo possiamo trarre un interesse personale da questo tipo di atteggiamento perché vuol dire che sappiamo andare oltre un giudizio superficiale e sbrigativo. Conosciamo abbastanza del mondo per saper interpretare modalità di vita cominciando dal riferimento all’immagine: una donna velata, come ormai è comune incontrarne nelle nostre città, appartiene ad una cultura che cerca di integrarsi ma mantiene ancora un forte carattere di integralismo, ci sentiamo minacciati, forse vogliono imporci i loro modelli, ma i loro li sappiamo conoscere veramente bene o siamo vittime di una valutazione superficiale e approssimativa? Ricordiamoci che solo fino a qualche decennio fa noi stesse donne occidentali non potevamo esprimerci con adeguata libertà, ed esprimevamo la nostra identità quasi esclusivamente nell’ambito domestico, ed ora non si può dire che il nostro ruolo sociale sia tanto ben definito per fare riferimento 62


Le parole di una vita

anche soltanto all’ambito di genere per non parlare dei femminicidi. Forse si potrebbe parlare di un problema al femminile trasversale. Cioè uscire dal proprio perimetro di identità per ampliare i nostri punti di riferimento ma in un’ottica condivisa. Il termine condivisione fa immediatamente pensare ad un atteggiamento culturale confessionale, essere cristianamente buoni o parlare di pace perché l’essenza stessa di ogni religione parla di pace, ma a ben vedere si scatenano guerre di religione per difendere un’identità. Credo che alla base di tutto ci sia la propria responsabilità personale, la dimentichiamo troppo spesso, forse perché risulta più facile trincerarsi dietro un’ideologia apparentemente intrisa di una sua logica a cui è facile aderire dimenticando che così si delega la nostra scelta sostenendo alla fine che siamo stati condizionati. E’ decisamente un atteggiamento a mio avviso fin troppo semplicistico. Identità non è raggiungere una mimesi sociale, un contorsionismo esistenziale. Bisogna riconoscere e rispettare il proprio limite e conseguentemente quello degli altri. Non siamo padroni del mondo ma suoi custodi e questo è già un lavoro sufficientemente impegnativo e stimolante. Si tratta di capire chi siamo e impariamo a farlo facendo riferimento al contesto in cui viviamo e le opportunità che ci offre: educazione al rispetto, stimoli culturali indirizzati al concetto di multi etnicità, esaltazione delle differenze leggendone l’istanza dell’apporto creativo o al contrario chiusura mentale, povertà intellettuale e paura di uscire dai propri confini mentali. La paura è una cattiva consigliera e spinge a leggere ogni messaggio come un’insostenibile provocazione. Mettere la maschera del pensiero comune, nascondersi dietro all’idea di un’opinione collettiva può dare un senso di parziale rassicurazione perché ci sentiamo confortati nella condivisione di un’identità, ma dov’è la responsabilità personale, pagare il prezzo delle proprie scelte? Non è un’oscura minaccia quella a cui 63


Le parole di una vita

faccio riferimento ma la consapevolezza che solo parlando a viso aperto possiamo dare un senso alla nostra vita, che non è fatta solo di consumo di beni e servizi, auspicabile soddisfazione di bisogni che non intendo assolutamente criminalizzare, ma non si riduce solo a questo ovviamente visto che spontaneamente ci sentiamo defraudati della nostra identità quando ci rendiamo conto di rischiare di essere ridotti a puri oggetti di commercializzazione e quindi dimostriamo la naturale esigenza di esprimere un’idea che sia autonoma. L’autonomia di pensiero e la condivisione sono elementi vitali che vanno articolati ma la questione non è né semplice né tantomeno automatica. In primis perché sentiamo una naturale spinta ad esprimerci ma se veniamo costantemente contraddetti nella nostra identità ci sarà un’auto-ritorsione in termini di auto-colpevolizzazione o peggio di reazione violenta e contraddittoria, in seconda istanza un avallo incondizionato senza sviluppare pensiero critico priverà dell’abitudine mentale a mettere sotto una lente critica il proprio pensiero. Questo è il dilemma fondamentale del processo educativo, cioè la trasmissione culturale di valori fondanti che permettano di leggere gli eventi passati, attuali e in previsione futuri con una chiave di interpretazione che permetta di evitare per quanto possibile tragiche conseguenze. In sintesi il problema è perennemente complesso, e attualmente ci muoviamo mio avviso in un pantano ideologico da cui ancora non riusciamo a trarci fuori. Un’ideologia afferma principi che difficilmente riesce a mettere sotto una lente critica e si ammanta di un principio di assolutezza, quindi tutto quello che non vi rientra è automaticamente da negare, cancellare, combattere, si creano i reietti, chi non ha non ha diritto di cittadinanza non solo nel mondo ma nella vita perché troppo diverso. Ora quando la diversità diventa incomunicabilità perché il linguaggio è intriso di disperazione si diventa reietti per eccellenza, e allora 64


Le parole di una vita

lo spettro si materializza: la malattia mentale. Si attribuisce d’ufficio alla malattia mentale ogni genere di degradazione, fisica, emotiva, intellettuale e quel che è peggio anche etica. Esseri non più umani ma un potenziale concentrato di pericolo senza speranza, e di ogni gesto efferato compiuto anche con la massima lucidità e consapevolezza, si dice che è “da matti”. Posso confermare che la “disonestà intellettuale” non è prerogativa assoluta della malattia mentale e che, al contrario, spesso quello che si teme quando ci viene confermata una diagnosi, è il pericolo di perdere la propria lucidità e commettere atti contrari alla nostra etica. Il timore di non poter essere liberamente, di dover pagare il prezzo di colpe che non sentiamo di aver commesso, il panico che ci sconvolge il pensiero perché le emozioni che proviamo travolgono la nostra razionale capacità di gestirle, rende difficile trovare le parole per descrivere emozioni tanto complesse perché non esiste ancora un linguaggio condiviso per comunicare l’estremo. Tutto avviene nella mente, nell’ambito dell’immensamente complesso e ancora relativamente conosciuto universo contenuto nella nostra testa, dove si possono attivare memorie sedimentate da un lunghissimo processo evolutivo stimolate da squilibri che possono apparire irrilevanti ad un occhio inesperto, ma riescono a produrre reazioni che fanno confondere fino a non distinguere più ciò che è vero da ciò che è immaginario. Ma la stessa produzione di immagini o suoni, quello che definiamo genericamente visioni, allucinazioni visive o uditive, è comunque reale per la nostra mente nel momento in cui comincia a rappresentare la quantificazione di una pressione che diventa altrimenti insostenibile. Voglio dire che se vediamo qualcosa che altri non vedono o sentiamo voci, in effetti non è un evento reale condiviso ma per noi “è reale” e “necessario” nel momento in cui accade perché diventa una proiezione quantificata della pressione che sentiamo insostenibile, 65


Le parole di una vita

provocata da sollecitazioni relazionali, emotive e fisiche che in un ambito di squilibrio fisiologico nell’attività cerebrale non possiamo più contenere. Un malato mentale è una persona con un cervello che ha lo stesso tipo di funzionamento di tutti gli altri ma con probabili squilibri governabili con una terapia farmacologica, coniugato con atteggiamenti emotivi che si sono bloccati a livelli di sviluppo non congrui con le aspettative dell’età che si dovrebbe presupporre più matura, e una difficoltà nel coordinamento di istanze tanto contrapposte e la conseguente difficoltà a gestire la coordinazione di stimoli razionali e condivisi come si presuppone debba avvenire in una ambito familiare, sociale o nello specifico lavorativo. Un malato mentale non riesce a cogliere il proprio limite, il proprio perimetro, teme di essere assorbito da forze che lo stimolano a ritrovarsi ma che vede come un’insostenibile forzatura. Si crea il dolore invisibile, e insopportabile. Il fatto che non possa essere manifestato fisicamente porta un osservatore esterno a pensare che si tratti di banale mancanza di volontà, capacità di impegno o peggio una provocazione volontaria. In realtà noi siamo persone complete, con le stesse esigenze di qualsiasi altro essere umano, vivere emozioni e relazionarci compiutamente, sentirci responsabilmente padroni della nostra mente ed esercitare il nostro ruolo etico con la massima consapevolezza, riconoscere il nostro perimetro e non violare quello degli altri. In fondo cos’è l’etica se non l’applicazione concreta delle nostre convinzioni espresse con sufficiente serenità e la possibilità di stabilire relazioni che diano benessere emotivo condiviso? Si può ragionare sulle modalità ma lo scopo è questo. Un malato mentale non un “essere” senza speranza ma una “persona” che non riesce ancora a tradurre il suo linguaggio. Bisogna fare un’opera di traduzione. In prima istanza va preso in considerazione il fatto che gli atteggiamenti incomprensibili per un osservatore 66


Le parole di una vita

esterno: rifiuto di alzarsi dal letto, lavarsi, tanto per citare iniziative di consueta quotidianità, o il rifiuto violento di cambiare seppure in modo relativo i propri schemi di comportamento per trovare un migliore adattamento sono una modalità per contenere il dolore. Il dolore che nasce dalla consapevolezza di dover affrontare la vita di relazione che nel caso di squilibri psichiatrici comporta la difficoltà di definire il proprio perimetro e quindi l’identificazione dell’inviolabilità del proprio limite. Quantificando in termini fisici è come se il banale contatto con il proprio corpo comportasse un dolore estremo solo che stiamo parlando dell’impalpabilità della mente. Mi rendo conto di quanto possa essere difficile ipotizzare qualcosa che non possa essere misurato, ma in realtà una modalità di misura già esiste ed è unanimemente condivisa: il linguaggio. Ora il problema è trovare l’adeguata traduzione, nel senso del significato emotivo che diamo alle parole, la lettura delle emozioni. Si possono provare incontrollabili e apparentemente immotivate, quindi diventa difficile stabilire un contatto che sia graduale e condiviso, tutto diventa inspiegabile e sfinente perché non si sa mai a cosa si potrà andare incontro e soprattutto per quale ragione, ma non si tratta di una provocazione volontaria o di un incontrollabile capriccio momentaneo. Il fatto è che, inspiegabilmente, nella nostra mente le emozioni, i pensieri, le valutazioni corrono ad un ritmo insostenibile e i messaggi che arrivano vengono letti in una lingua che all’improvviso ci appare sconosciuta, non sappiamo più leggere i nostri pensieri e di conseguenza l’effetto delle nostre azioni, vorremmo condividere e integrarci ma sentiamo la solitudine dell’incomunicabilità, una lacerazione invisibile della nostra pelle che ci fa urlare di paura e dolore ma ad un osservatore esterno ovviamente appare come una reazione incomprensibile, eccessiva e volutamente provocatoria. Si tratta di una difficoltà di coordinamento mentale. Per 67


Le parole di una vita

usare un parallelismo fisico è come se i nostri arti andassero ognuno per conto proprio e non riuscissimo a coordinare i movimenti, alla fine si raggiungere la paralisi, esistenziale. Ora non voglio affermare che sia concesso qualsiasi diritto ad esprimersi ad un malato mentale in considerazione del fatto che la sua patologia crea problemi di adattamento, al contrario ritengo che l’esercizio delle propria responsabilità personale sia il percorso più efficace per ritrovare un ordine nei propri pensieri e nel valutare la conseguenza delle proprie azioni, ma non si deve pensare, come contraltare, che un malato mentale sia necessariamente senza speranza e causa unica di ogni male del mondo. E’ vero che crimini efferati vengono compiuti da persone che hanno un’instabilità mentale, ma è anche vero che persone apparentemente perfettamente integrate e lucidissime diventano l’origine di problematiche che scardinano l’identità di molte vite. Il fare del male, non tenere in considerazione la vita degli altri, la mancanza di quella che io definisco intelligenza etica, non è assolutamente prerogativa unica del malato mentale, è vero al contrario che spesso, quando si riceve una diagnosi, la cosa che provoca più spavento è di non riuscire più a comunicare limpidamente la propria identità. Quindi invito ad evitare superficiali pressappochismi e a sospendere il giudizio, perché spesso nasce dalla totale ignoranza del problema e dalla sottovalutazione delle proprie responsabilità. Non chiedo un’attenzione forzata al problema della disabilità mentale ma affermo con convinzione che bisogna scardinare il tabù dell’incurabilità e del danno sociale, e che solo il nostro isolamento possa riportare un ordine sociale che si è completamente frantumato. Dalla chiusura dei manicomi siamo stati affidati alle famiglie che si sono fatte carico di problematiche estremamente complesse che dovevano affrontare da sole e comunque non ci è stato concesso un vero meccanismo di integrazione, è vero che esisto68


Le parole di una vita

no leggi illuminate ma drammaticamente inapplicate, e a ben vedere si è sfilacciato il tessuto sociale fino quasi al suo annientamento e non certo per colpa di noi malati mentale che abbiamo continuato ad essere tenuti ai margini estremi del tessuto sociale. Quindi dobbiamo tutti rimettere in discussione i nostri schemi di comportamento e riferimento perchÊ ognuno può portare il suo onesto contributo e non è certo con il pregiudizio che si risolvono problemi. Nel mondo della malattia mentale si lavora moltissimo per emergere, lo posso garantire per esperienza personale, e possiamo portare il nostro contributo di creatività , siamo persone, questo non va mai dimenticato.

69


Le parole di una vita

INDICE Opinioni personali a confronto

pag. 7

Il linguaggio dei sensi

pag. 9

La vita ci insegna pag.13 Il fattore umano pag.20 Una vita piena di parole

pag.24

L’identità violata pag.35 La famiglia pag.40 L’immagine allo specchio pag.49 Il dolore invisibile pag.61

70




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.