Libera-Mente

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LIBERA - MENTE Come superare e convivere libera – mente con la depressione

di Grazia Tulli

CESVOL EDITORE

Quaderni del volontariato 2014

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Quaderni del volontariato 7

Edizione 2014


Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 - IV piano 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net

Edizione Settembre 2014 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide

tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata

ISBN: 9788896649336


I Quaderni del Volontariato, un viaggio nel mondo del sociale Il CESVOL, Centro Servizi Volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. L’ obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana Quaderni del Volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche dedicate alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo e del volontariato. I Quaderni del Volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale.



LIBERA – MENTE Come superare e convivere libera – mente con la depressione

di GRAZIA TULLI



A mia madre



Libera-Mente

Motivazioni Non scrivo né una prefazione né un’introduzione all’argomento, soltanto le motivazioni che mi hanno spinta a scrivere. Avevo bisogno di esternare emozioni compresse per troppo tempo, dico che ho cominciato a vivere a cinquant’anni, quando ho capito che potevo entrare in relazione con le persone senza aver paura di loro o di me stessa, potevo comunicare, e non è una cosa da poco. Entrare veramente in relazione con qualcuno è complesso come affrontare il difficile mestiere di vivere, e non credo che quando si imparano le regole del gioco è tempo di andarsene, perché il tempo mentale può dilatarsi moltissimo e rigenerare energie e risorse e allora anche il tempo percepito si relativizza, si può amplificare e diventare veramente appagante. Ho cominciato a scoprire le mie emozioni con il teatro, quello vissuto, e poi ho cominciato a scrivere le emozioni e a farle circolare, ho indubbiamente vissuto molto sia da un punto di vista cronologico che emotivo, e nei brevi racconti riporto spaccati di vita intrisi di memoria, un pizzico di autobiografia, valutazioni personali, una spruzzata di inatteso e molta speranza, quella che abbiate voglia di arrivare fino alla fine del libro. Ci sono brevi interventi e qualche racconto, considerazioni su realtà esperite e opinioni a confronto delle quali ciascuno, ovviamente, trarrà le sue conclusioni. Chiudo qui questa breve e inconsueta presentazione, ma in fondo, chi l’ha detto che la vita debba essere vissuta in un modo soltanto? 9



Libera-Mente

QUANDO SCRIVERE DIVENTA UNA STORIA Quando si scrive viene sempre in mente che ci deve essere una storia da raccontare, più o meno autobiografica o comunque con riferimenti relativi al vissuto dell’autore, ma quando è proprio il fatto di scrivere che diventa una storia a sé stante? La trasformazione della scrittura, lo stile, l’argomento, come un vestito che ti metti addosso adatto ad un’occasione. Non si tratta semplicemente di inventare o copiare ma vivere attraverso le proprie storie e con loro stesse, entità che diventano autonome per suscitare altra creazione che dà corpo all’autore e non viceversa. Insomma il mondo si capovolge ma in un bel modo. Cambia la prospettiva, si diventa spettatori, lettori, critici di se stessi e finalmente si può cominciare ad avere una visione diversa. Bisogna guardarsi dentro per capire come siamo fatti ma riuscire a guardarsi dal di fuori, e non solo con gli occhi degli altri, o attraverso di loro, permette di ampliare vertiginosamente la propria percezione dell’esistere. Scrivere allora è come vivere un giorno per volta ma che può durare per interi anni mentali, ripercorrendo strade che sembravano abbandonate, e non si scrive qualcosa per qualcuno ma la scrittura stessa ti cambia, in un modo sottile e tranquillo, senza traumi e scossoni, ma profondamente e irreversibilmente. Se si riesce a vedere una storia dalla fine e non dall’inizio è possibile ricostruire percorsi, la consapevolezza permette di leggere eventi che sembravano 11


Libera-Mente inspiegabili, la storia, un lungo fluire di tentativi di vivere con pressioni e mantenimento tenace di una condizione, come sempre la natura umana tenta di identificarsi in un percorso che dia garanzie. Schemi, atteggiamenti, visioni del mondo, punti di riferimento, l’inconfessabile fatto dolore che fa marcire quando una vita è tagliata via come se fosse solo un ramo secco e non un seme che deve staccarsi sì dalla pianta, ma quando è giunta a maturazione per fecondare altro terreno. E si arriva a questa consapevolezza eppure qualcosa ancora trattiene e si ripete lo stesso errore come se non si fosse imparato niente, eppure ogni volta sembra la prima, come siamo moderni e innovativi, qualcuno ci fa osservare che le stesse cose sono già state dette e fatte molto tempo prima, ma allora dov’è l’attualità? L’innovazione? Un racconto ti permette di leggere la fine e collegarla all’inizio, di tutto? Di tutti? Anche solo di qualcuno è già un buon collegamento. Non ci sono percorsi identici ma non si può negare che spesso si somiglino molto. Riconoscersi, quanto è importante. Fidarsi, ritrovarsi, e soprattutto sapere quali sono i propri punti di riferimento, uno schema dinamico e non un muro inviolabile. Ma qual è il discrimine? Perché la sofferenza rimane incollata addosso come un marchio indelebile e non c’è soddisfazione che ti permetta di cancellare quell’impronta, tutto riaffiora e fa male, come se il tempo non fosse passato? Il timore che tutto si possa riprodurre, come se avessimo lo strano potere di far succedere le cose ma non come vogliamo noi, piuttosto come ci sembra che, per destino, debbano accadere, forse ci 12


Libera-Mente ritroviamo in uno schema, un modello che abbiamo ritenuto funzionale al mantenimento di una sicurezza, dolorosa ma conosciuta, e l’ignoto forse fa più paura del dolore. Scoprirsi nella scrittura prima che nella lettura permette di vedere oltre, possiamo specchiarci nelle parole degli altri ma dobbiamo leggere anche le nostre, il nostro linguaggio è importante come quello di chiunque altro e va armonizzato e condiviso e non bisogna avere paura di parlare, leggere e soprattutto scrivere, non temiamo il peso delle parole perché possiamo renderle limpide e trovarne di nuove, la lingua è un organismo vivente perché è l’espressione dell’identità stessa delle persone, che sono sempre vive e reali, sofferenti spesso ma che comunque hanno voglia di vivere e affermarsi, e questo è giusto. Scrivere con le parole, non necessariamente vergate su un foglio, ma espresse, cercate, analizzate, confrontate, lette con gli occhi dell’anima, il sentimento e le emozioni che suscitano, leggiamo noi stessi e leggeremo le persone che ci stanno accanto, credetemi, è molto appassionante!

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Libera-Mente LA DIVERSITA’ E’ UN TABU’? ALLORA PARLIAMONE. Per prima cosa vorrei presentarmi e tentare di motivare le ragioni di questo breve scritto, introduttivo ad un argomento che sembra quanto mai lontano dal poter suscitare l’attenzione del lettore, perché può fare paura. Mi chiamo Grazia, e ho il coraggio di ammettere pubblicamente che convivo in modo sufficientemente sereno con un passato segnato dalla diversità, nello specifico quella che suscita il maggior rigetto: quella mentale. Il mio intento è quello di proporre e non certo imporre una disamina per quanto possibile esaustiva di un problema complesso ma non certo irrisolvibile, e di chiedere un minimo di attenzione per scardinare un tabù che ancora segna al negativo la vita di chi deve affrontare un complesso percorso di analisi delle proprie emozioni e della propria identità, e suo malgrado anche chi è distante da questo mondo ma lo teme e al solo parlarne prova paura e sconcerto. Parlare è il primo passo verso un tentativo di chiarimento. Abbiamo vissuto il tema della complessità, il Novecento, il secolo breve, dove si è sperimentato, vissuto, elaborato e in parte metabolizzato l’approccio all’ambiguità, non nella sua accezione più negativa, ma nella ricerca delle sfumature che tratteggiano i contorni spesso sfuggenti della mente degli esseri umani. Sono stati scardinati tabù che sembravano granitici come la sessualità, l’emancipazione della donna, la lotta ideologica, l’apertura al diverso, l’orrore 14


Libera-Mente maturato dopo la presa d’atto delle nefaste conseguenze della ghettizzazione forzata se non, per estremo strazio, della lucida consapevolezza dello sterminio fisico. Abbiamo noi adulti un enorme patrimonio di memoria dei decenni che ci hanno preceduto e hanno segnato il nostro sviluppo mentale, siamo allora in grado di affrontare con armi sufficientemente affilate il più granitico ma non certo per questo più insormontabile tabù del nostro tempo: la mente che sfugge, la mente che ci spaventa, la mente di cui non vogliamo neanche sentir parlare. Le parole che si possono usare sono molte e i percorsi molteplici, ma bisogna tener presente che abbiamo a disposizione una bussola per orientarci costantemente alla ricerca del percorso più appropriato. Quello a cui faccio riferimento è l’esigenza più naturale e profonda che motiva e guida l’essenza stessa della natura umana: la socializzazione. Abbiamo bisogno di scambi emotivi, di condivisione di esigenze, di scambio di contenuti esistenziali in una continua negoziazione di esigenze e spazi vitali, e quindi a ben vedere ciascuno ha la sua complessità, perché allora rigettare senza appello la diversità mentale? Perché è “troppo” complessa? Troppo incomprensibile? Questo motiva le ragioni del mio tentativo di cominciare a dare una testimonianza del percorso che si può compiere per rendere intelligibile, più limpido, analitico e governabile il problema della diversità mentale. In questo breve scritto introduttivo cerco semplicemente di suscitare una minima attenzione al problema, spiegare che il primo passo che si può compiere per avvicinarsi ad un mondo 15


Libera-Mente che sembra impenetrabile non trascina ineluttabilmente verso un baratro di irreversibile disperazione, non chiedo un’attenzione forzata per riscuotere un presunto credito esistenziale da quantificare in un’attenzione emotiva forzata e indesiderabile, cerco semplicemente di spiegare, o meglio tentare di farlo, che parlare di diversità mentale, della mente che sfugge, è un percorso che si può affrontare con sufficiente ponderazione, analisi di competenze, autoanalisi di ciascuno che può far scoprire risorse inaspettate. In fondo tutti abbiamo bisogno di sentirci rassicurati sulla nostra capacità di gestire la nostra parte oscura che, posso garantire, è meno terribile e ingovernabile di quanto si possa pensare. E’ un percorso faticoso ma ad ogni traguardo di consapevolezza la mente si rigenera e trova altra energia per continuare un percorso che mantiene la mente stessa sempre elastica e vitale, usando un’espressione che è tanto cara al giorno d’oggi la mantiene giovane. E’ come se avessimo un ricchissimo patrimonio di cui però non sappiamo ancora bene cosa fare, basta cominciare a proporre idee, tentativi di soluzione, progetti organizzativi. Parlare è comunicare e non c’è bisogno di avere idee granitiche per esporre un pensiero o temere a priori di poter essere manipolati dalle parole degli altri. Le parole hanno un enorme potere, evocativo di emozioni, aspettative e speranze, le parole possono esaltare o uccidere ma possono anche chiarire. Tentiamo allora di trovare il coraggio di ascoltare una parola per volta e pensarci sopra, perché ne nasceranno delle altre in un dialogo costante. Ora concludo questa breve 16


Libera-Mente presentazione delle mie motivazioni, se ne avrò l’opportunitĂ tenterò di comunicare parola per parola quello che nel mio percorso ha significato un lessico, un insieme di parole, che costruisce un mondo, ora pieno di contatti organici, non rigidi e in continua e creativa evoluzione. Ringrazio che ha avuto la pazienza di leggermi e spero che ci rivedremo alla prossima lettura.

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Libera-Mente L’ALTRA MENTE Chi sono? Cosa rappresenta quello che scrivo e soprattutto perché scrivo in un certo modo? In fondo cosa mi spinge a parlare tanto spietatamente della mia vita senza essere minimamente spinta da un intento narcisistico, considerando che sono tendenzialmente riservata, in un modo che definirei a volte quasi patologico? Il bisogno di comunicare un’intera vita vissuta nell’ombra delle emozioni che avevo paura di dimostrare per il timore di non riuscire a governarle, temevo che mi travolgessero e potessero portare con me chi mi stava accanto, l’incubo di specchiarmi nello sguardo di chi mi rimandava un’immagine perplessa, a tratti turbata, come se non capisse per quale motivo mi rifiutavo di assecondare, compiacere, condividere, obbedire, capire quando in realtà facevo sforzi sovrumani per capire i messaggi che mi venivano inviati. La discontinuità nel mio comportamento e nel mio rendimento venivano interpretati come incomprensibile rifiuto quando in realtà lo scollamento dagli schemi condivisi era un diaframma che assolutamente non riuscivo a oltrepassare, ero affetta da un disturbo pervasivo dello sviluppo, in realtà questa potenziale diagnosi è stata ricostruita a posteriori quando un’intera vita di fatica mi ha portato a sedimentare uno sforzo nel controllo che è poi sfociato in una diagnosi adulta di depressione. Sono testimone di un percorso che nasceva dall’inesperienza, dal timore di affrontare problematiche inconfessabili come il disagio mentale che 18


Libera-Mente spingeva alla reclusione: gli istituti differenziati per i bambini e i manicomi per gli adulti, sto parlando ancora degli anni sessanta del novecento, secolo complessissimo, che ho assimilato senza riserve e che in fondo ha rappresentato lo sforzo sociale di oltrepassare l’indicibile e farlo scienza ed esperienza. Si è aperto con Freud e Pirandello, la follia fatta parole e definizioni e si è arrivati a parlare di integrazione, ci sono state lotte, rivolte, sangue e immensa sofferenza, il secolo dell’ambiguità, della ricerca dell’essenza stessa della persona che diventa mente pensante e responsabile e quindi scoperta del lato oscuro, che in realtà appartiene a tutti, l’altra mente, quella che ci sfugge: se non sentiamo troppa pressione possiamo anche tollerarne la presenza come una variabile irrilevante, ma se le complesse contingenze sociali ci spingono a perdere il contatto con le nostre certezze, allora si apre lo spettro dell’altra mente, quella ingovernabile, primitiva, impulsiva, scomposta e pericolosissima. Nel mio caso una predisposizione biochimica neurologica e una fortissima pressione ambientale unita ad una peculiare identità che mi portava a mettere in discussione tutto, hanno provocato quello scollamento dalla prevedibile progressione di sviluppo che ci si sarebbe attesi da una bambina all’epoca della mia infanzia, non si trattava di un rifiuto preconcetto da parte di chi mi circondava: famiglia, maestre, ma dal retaggio culturale e sociale che identificava una bambina secondo schemi di quieto assecondamento, in sintesi io non provocavo perché fossi incline al gusto di creare disagio ma sentivo una 19


Libera-Mente incontrollabile spinta a vedere il mondo con occhi tutti miei, le mie percezioni erano fatte di intensissime suggestioni, ero colpita da immagini che forse per un altro bambino diventavano irrilevanti, e non trovavo che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma il renderlo vivo e reale come disegnare tre soli pur sapendo che ne esiste uno solo non era il gusto di confondere ma di condividere la mia passione per qualcosa che mi affascinava tanto. Ho riportato il banale esempio di un disegno per dare il senso di uno spazio in cui vivevo, un eccesso emotivo, che terrorizzava la mia famiglia perché non ero omologabile e temevano di non essere bravi educatori, io mi sentivo in colpa ma non potevo controllarmi e questo provocava una costante recrudescenza di tensioni, paure, lotta e rassegnazione. Tutt’ora la famiglia si ritrova ad essere unico baluardo e trincea di una lotta difficoltosissima, quella contro il disagio mentale, la malattia mentale ha probabili origini biologiche ma a mio avviso la pressione ambientale può scatenare il manifestarsi nelle modalità più improvvise e latentizzate. Si tratta del manifestarsi dell’altra mente. Devo spiegare cosa intendo per altra mente. Secondo me la gerarchizzazione tra mente razionale, limpida, coesa, governata, e mente oscura, illogica, trasgressiva, decostruttiva, non è poi così rigido e consequenziale, non esistono una mente sana e l’altra mente, quella malata, esista la mente, e ogni essere umano ne ha una peculiare, come l’identificazione genetica; non si tratta di una prospettiva anarchica dove ognuno realizza selvaggiamente la propria identità a scapito del malcapitato che gli sta 20


Libera-Mente accanto, ma dell’immensa varietà di prospettive che possono idealmente convergere in un unico punto: la costante ricerca del miglior benessere sociale, mentale, fisico e materiale per ogni generazione. Cioè la diversità non è un pericolo, è una risorsa, ovviamente deve essere integrata. Il percorso che porta alla diversità non è necessariamente volontario o provocatorio, è un modo alternativo di vedere il mondo e non comporta necessariamente la presenza di una patologia, la definizione delle categorie psichiatriche è in continua evoluzione perché cambia costantemente la consapevolezza del fatto che un’identità non necessariamente “è” di per sé stessa patologia, basti pensare che solo fino a cinquant’anni fa l’omosessualità era considerata alla stregua di una degenerazione o nel migliore dei casi una patologia mentale mentre al giorno d’oggi ci siamo resi conto, con appropriate e consapevoli valutazioni scientifiche, del fatto che si tratta semplicemente di un’identità diversa ma non per questo portatrice di devastanti conseguenze. Non si deve commettere l’errore di attribuire l’azzeramento del rispetto etico in modo automatico ad un modo di essere, perché la responsabilità sociale è personale e inderogabile. Nel caso della malattia mentale, le cui precise origini sono ancora oggetto di studio da parte della scienza medica e delle neuroscienze, può in linea generale avere un’insorgenza dovuta a cause organicofisiologiche ma sicuramente l’impatto ambientale ha un peso determinante, e questo avviene in modo del tutto involontario perché nessuno si premura di procurare dolore per il puro gusto 21


Libera-Mente di essere trascinato in un mondo di difficoltà inconciliabili nei rapporti quotidiani. Il problema fondamentale è far passare il messaggio che la categoria psichiatrica non è una condanna senza appello, che la famiglia non ha colpe sociali ed emotive insanabili e, soprattutto, che il lottare contro la patologia mentale con l’ausilio, quando necessario, dei farmaci e soprattutto il legittimo confronto con il personale medico che è consigliere e guida per ritrovare il proprio percorso, può diventare una risorsa per l’analisi della mente che può riservare risorse inaspettate. Quello che va combattuto è il dolore che nasce dall’incomunicabilità indotta dalla patologia mentale, non sto parlando di un’accettazione incondizionata, ma del rispetto per persone che lottano per affermare la loro identità nel modo più limpido e articolato. Eliminiamo lo stigma automatico dell’incurabilità e del pericolo sociale, in ogni caso siamo consapevolizzati costantemente a prendere atto delle conseguenze delle nostre azioni, e prendiamo atto del lavoro lungimirante, coraggioso e spesso osteggiato di chi, psichiatri, ex diagnosticati, personale che a vario titolo vive nel mondo del disagio mentale perché siamo portatori di istanze di esperienza e consapevolezza che possiamo mettere a disposizione per un percorso di conoscenza della mente in generale che ancora rimane per molti aspetti oscura e, credetemi, si può intraprendere un responsabile percorso di analisi per ridurre il dolore e sviluppare nuove integrazioni e competenze. 22


Libera-Mente

ASCOLTARE E’ POSSIBILE! Ascoltare sembra probabilmente un atto semplice e quanto mai scontato, più è semplice e diretta la comunicazione e più si può ottenere consenso o dissenso per la chiarezza del messaggio e la sua immediatezza. Lo studio delle modalità di comunicazione è molto complesso e siamo al giorno d’oggi avvezzi a valutare anche i minimi segnali che accompagnano il messaggio per coglierne l’intima essenza. Eppure si soffre di solitudine! Sembra quanto mai paradossale che nell’era della comunicazione globale nei paesi sviluppati, almeno tecnologicamente, dove ci si può connettere in tempo reale con chiunque si finisca per interfacciarsi, cioè in soldoni letteralmente schiacciare il proprio viso, contro lo schermo di un computer e non si riesca a guardare una persona negli occhi e riuscire ad ascoltarla. Abbiamo paura della comunicazione diretta e ci rinchiudiamo nella garanzia dei 140 caratteri. Lungi da me demonizzare le tecnologie informatiche che trovo portentose, vorrei spezzare una lancia a favore del mantenimento dei vecchi schemi relazionali che comportavano un coinvolgimento fisico diretto e impegnativo, stimolante e a volte faticoso, ma sicuramente biologicamente naturale, perché gli esseri umani sono dotati di sensi naturali non come inutili appendici fisiologicamente sorpassate, ma per registrare stimolazioni articolate che la mente, attraverso il pensiero conseguente, ha tutte le competenze per poter rielaborare. Mi rendo conto che la mia provocazione possa 23


Libera-Mente apparire come il reiterato tentativo di una persona che ha già alcuni decenni sulle spalle, di sostenere che i vecchi modelli sono ancora validi, ma parlo con coscienza di causa. Ho conosciuto e frequentato molti giovani anche in anni recenti e ho sperimentato, cosa di cui peraltro non mi sono stupita, una straordinaria forza vitale e comunicativa. Solo dopo un primo e timido imbarazzo iniziale temendo che potessi giudicarli dalla presunta altezza della mia esperienza, constatato che ero io più assetata di confronto di quanto potessero desiderarlo loro, ebbene è nato un flusso intensissimo di confronto, opinioni, speranze, progetti, identità ed enorme energia, in una parola autentica comunicazione. Magnifico ascolto! Con gli occhi che incrociavano lo sguardo, le orecchie che registravano suoni come musica per la mente, e idee che sorgevano in un fluire naturale e arricchente, senza il freno delle parole, l’ossessione del calcolo dei caratteri, l’aggancio automatico di un’idea che ne faceva sorgere nell’immediato un’altra. Erano coinvolti i sensi e l’ascolto era autentico, possibile. Il confronto era diventato possibile perché avevo deciso di rimettere in discussione tutta la mia vita, che sembrava spezzata e frammentata dalla tragica conclusione di una vita sentimentale che sembrava avviarsi ad una prospettiva familiare, le difficoltà nel lavoro e il manifestarsi di un atroce episodio depressivo che sembrava avermi posto in una condizione di estrema difficoltà esistenziale al punto di pensare di non poter avere altre prospettive. Ricordo che si trattò di una decisione improvvisa e decisiva, già valutata 24


Libera-Mente tempo addietro ma accantonata pensando di aver superato il tempo limite per un’esperienza che non poteva più riguardarmi: avrei ripreso gli studi universitari. Può sembrare una scelta dettata dal bisogno di un costante autoaggiornamento, e questo è pienamente condivisibile, ma per me rappresentava rimettere in gioco tutta la mia esistenza, sfidare il confronto con nuove vite che avevano un futuro davanti mentre io avevo da presentare soltanto un dolorosissimo passato, di cui peraltro pensavo non avrei mai avuto il coraggio di parlare per non deprimere o scoraggiare persone la cui vitalità per me è sacra e inviolabile. Il problema non stava nella preoccupazione di apprendere e sostenere gli esami, ma nell’integrarmi. Il paradosso della scelta stava nel fatto che volevo trovare nuovi spunti vitali ma non rubare vita ad altri, quindi come comunicare? Cosa comunicare? Con quali garanzie da parte mia? In sintesi quale ascolto offrire? Queste erano le domande che mi tormentavano, ma all’improvviso ho deciso di rischiare considerando che rinchiudermi nel dolore dell’isolamento avrebbe fatto di me probabilmente una persona più negativa, e forse a maggior rischio di dolorosa esclusione, e credo fermamente che il dolore vada combattuto. Provo ancora difficoltà nel parlare della mia personale esperienza, non si tratta del timore di apparire troppo autoreferenziale o cercare smanie di protagonismo, ma del timore di incupire. Ora il mio messaggio è che nei momenti di maggiore crisi, quando le prospettive si frantumano, annientano per una concatenazione di eventi che, seppure 25


Libera-Mente condivisi, ci fanno sentire in balia di relazioni incontrollabili che disattendono completamente il nostro reale e concreto impegno, allora arriva il momento di riprendere in mano progetti che sembrano lontani anni luce dalla propria attualità e cercare i collegamenti tra elementi della nostra vita che soltanto noi possiamo ricomporre. Come età potevo essere la madre delle persone che avevo accanto, e la maternità soltanto pochi anni prima sembrava un progetto realizzabile, sembrava che dopo tanti sforzi il compimento della mia maturità potesse trovare la sua più compiuta realizzazione. Una tragica conclusione mi aveva gettato nel più totale sconforto e la ricerca dell’impegno lavorativo spasmodico e assorbente sembrava lenire la sofferenza in un apparente oblio. Il crollo anche di questo baluardo mi aveva posto di fronte alla realtà dei fatti: la depressione, diagnosticata, tanto non potevo sfuggire a me stessa e prendere atto della realtà era comunque un primo passo per affrontarla a viso aperto. Un periodo di accettazione è stato necessario per assimilare una prova decisamente impegnativa ma, una volta sufficientemente stabilizzata, ho deciso di partire, per una grossa prova che avrei cercato di gestire giorno per giorno cercando nel mio passato tutte le risorse di cui avrei potuto disporre e quindi fare una scrematura delle consapevolezze raggiunte scevre dal dolore che può offuscarne la consapevolezza. Mi resi conti che potevo approcciarmi con l’attenzione, il rispetto, la considerazione, il paziente e analitico ascolto che avrei posto se si fosse trattato di figli miei. Certo non lo erano 26


Libera-Mente biologicamente ma socialmente sì. Potevo definirmi una madre sociale, responsabilmente attenta e preoccupata di dare il più limpido, dal punto di vista intellettuale ed etico, messaggio esistenziale, che è fatto di memorie, esperienze, suggestioni, opinioni e motivi di confronto. Non avevo dubbi sulla ricchezza dei giovani e sulla loro disponibilità all’ascolto, ma temevo di poter non essere abbastanza vitale portando con me una memoria ancora intrisa di dolore. Ebbene il flusso di energia che ho ricevuto è stato portentoso, rigenerante, rinvigorente. Il passaggio generazionale ovviamente comporta l’occupazione di spazi sociali differenti e prospettive che si accavallano, fondono e slegano in un fluire complesso e magmatico, ma l’ascolto reciproco è autentico slancio vitale. Appassionante. Da lì è cominciato un percorso, che ancora continua, di tessitura di nuove relazioni perché non ho più l’inconfessabile paura di parlare di me temendo di portare buio e trasmettere messaggi che non diano limpida forza. E’ complesso parlare di sé, ma se lo si fa nell’ottica di una sorta di politica sociale in cui ognuno pone il suo contributo di esperienze e proposte allora si può parlare di ricca condivisione. Ora anche la politica ufficiale twitta le proprie valutazioni, le conferma o smentisce o articola per quanto possa permetterlo lo spazio tecnologico, ma quanto pensiero si riesce veramente a trasmettere? Propongo un’altra provocazione: un percorso di pensiero troppo involuto non trasmette limpidezza e non permette un flusso alternato di valutazioni, ma un’eccessiva semplificazione non potrebbe 27


Libera-Mente rappresentare un tentativo draconiano, cioè un po’ troppo drastico, di negoziare soluzioni articolate che vengono troppo frettolosamente tacciate di vile compromesso? La forma d’ascolto primario è quello che parte dall’atteggiamento etico, se non ci si pone nella migliore onestà intellettuale si potrà fingere di ascoltare e riuscire a farsi ascoltare per ottenere scopi che poi non hanno sufficiente ricaduta positiva sulla collettività. Si può comunicare trasmettendo l’equivoco di simbolismi, gestuali, nella postura, che facciano pensare che il nostro pensiero è considerato e quindi a nostra volta ci poniamo all’ascolto, salvo scoprire che la nostra identità è stata disattesa. Siamo molto disorientati. Dopo la provocazione pongo una proposta: sappiamo di avere idee per realizzare progetti, sentiamo però una sorta di freno nel comunicarli per paura di non essere chiari o essere smentiti prima ancora di poter sperimentare una prova, a quali risorse fare ricorso? Un primo consiglio è la lettura, amare le parole che non sono solo vaghi segni vergati e stampati con simbolismi che non suscitano poi così tanto la nostra attenzione, mai sottovalutare la propria intelligenza, e scoprire nell’infinita continuità dei caratteri lo sviluppo di un pensiero che diventa concime stimolantissimo, giuro che leggere non è da vecchi e non è complicato, al contrario è molto appassionante. Almeno spero che lo sia anche nel mio caso visto che forse qualcuno sta leggendo anche me! Riprendiamoci il diritto all’ascolto, e difendiamolo, con tutto il tempo che richiede, nell’analisi e il confronto, e il dibattito, e l’incrocio degli sguardi e lo scambio 28


Libera-Mente di sensazioni. Riprendiamoci il nostro tempo, rappresenta la nostra vita, non lasciamola divorare da un’innaturale solitudine, che genera troppo dolore e il dolore è di per sé stesso contrario alla vita e in fondo il combatterlo è proprio motivo di difesa della vita stessa. Condividiamo vite, ascoltiamo vite, l’ascolto è possibile!.

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Libera-Mente

La memoria, il dolore, la speranza Ad ogni inizio d’anno ci si ripromette di realizzare i nuovi propositi maturati per agguantare un nuovo percorso e si teme di correre di correre il rischio di un’avvilente consapevolezza della ripetitività del quotidiano, il bilancio parziale diventa complesso e si sente il peso degli anni, leggiamo la memoria e il dolore, propongo allora proprio in virtù della cronologia di un nuovo inizio di dare voce alla speranza. Il mio non è un invito fumoso e ovviamente condivisibile, ma una concreta proposta di dibattito portando il mio modesto contributo per cominciare una selezione della memoria sfruttando la purtroppo inevitabile esperienza del dolore per filtrare la consapevolezza dell’esperienza. Il termine esperienza non è grammaticalmente abusato, ma lo uso per sottolinearne la profonda portata in termini di risorse, patrimonio esistenziale, umano e materiale condivisibile e chiave di apertura di porte che possono involontariamente separare mondi che per loro stessa natura hanno bisogno di contatti articolati e complessi ma non per questo ingestibili. Viviamo tensioni intollerabili sociali e politiche, disorientamento emotivo, fisico e materiale, separazioni culturali e generazionali laceranti e abbiamo bisogno di ritrovare un punto di riferimento comune che permetta di ricominciare a negoziare scelte e atteggiamenti e condivisione di progetti per realizzare nuovamente la migliore distribuzione di benessere fisico, materiale, mentale e creativamente progettuale. Abbiamo ricchissime esperienze e forti livelli di consapevolezza ma non riusciamo a trovare 30


Libera-Mente quel minimo di coesione necessaria per realizzare punti di contatto per suscitare una scintilla che metta in moto il motore della produttività sociale ampia e condivisa. Si urla disperazione e si produce rumore disperato che non dà il tempo di ascoltare proposte. Propongo semplicemente di abbassare un attimo la voce e fare un respiro profondo per cominciare ad ascoltare, questo banale cambio di prospettiva può permettere di capire che la speranza è un bene concreto e già pienamente disponibile perché siamo tutti portatori di sane istanze creative e capacità di valutare le nostre priorità per esprimerci creativamente e compiutamente nel più articolato benessere sociale condiviso. Nel concreto si mette in discussione il modello gerarchico contrapposto ad uno distribuito in cui però non si riesce a leggere l’istanza dell’identità. Facendo riferimento al modello di condivisione più recente e diffuso, internet, mi permetto di osservare, ampliando la prospettiva di riferimento, che forse è il più antico del mondo ma di cui solo recentemente abbiamo preso coscienza. Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello umano è una fittissima rete di nodi interrelati, i neuroni, e cos’è il mondo naturale, vegetale e animale, se non un’interrelazione amplissima che permette la sopravvivenza e affermazione delle specie più diverse? E’ vero che il pesce grande mangia il pesce piccolo ma è anche vero che il branco di piccoli pesci salva i piccoli che devono ancora maturare con un complesso e articolato sistema di difesa che riesce ad avere ragione del grosso predatore. Quello che distingue e 31


Libera-Mente rappresenta la più grande responsabilità della specie umana è la consapevolezza. Della nostra dimensione, della nostra vita interrelata, e soprattutto della capacità di una visione lungimirante della ricaduta sociale futura delle nostre scelte attuali. Partendo dal presupposto che ogni essere umano con la sua assoluta e inviolabile identità rappresenta un insostituibile nodo, come favorire uno scambio che diventi interpretazione di intelligenze diverse? Quali basi del linguaggio comune devono essere apprese, comunicate e condivise per articolare pensieri che non siano inficiati alla radice da una negatività che può apparire irrilevante all’inizio del discorso ma che rischia però poi di diventare annientamento una volta compiuto il discorso stesso? Propongo due basi linguistiche, una specie di linguaggio binario incardinato nell’etica che favorisca lo sviluppo più creativo: responsabilitàpersonale, onestàintellettuale. Sottolineo che non c’è un marchiano errore grammaticale ma la convinzione che le parole non vadano disgiunte, quindi non sono quattro ma due, e vadano articolate in una condivisione che allora, sì, può incardinarsi in una gerarchia di responsabilità, sottolineo non più gerarchia di potere, perché chiunque nel proprio ambito, partendo dall’educazione alla responsabilizzazione alle massime autorità di governo, può godere del ricchissimo e insostituibile confronto con gli altri nodi, gli esseri umani, e riarticolare la propria posizione in un percorso sempre più compiuto di condivisione e produzione di ricchezza che si articola nella ricaduta di benessere appunto fisico, materiale, mentale, e 32


Libera-Mente creativamente progettuale. Concludendo, vorrei sottolineare che per me è una specie di mantra il termine condivisione, articolato poi nelle sue diverse accezioni, perché ho dovuto subire l’isolamento della sofferenza del disagio mentale, e credetemi si raggiungono livelli di sofferenza intollerabile, e proprio l’educazione ricevuta rivolta all’analisi a volte anche spietata della propria responsabilità personale e della più profonda onestà intellettuale è stata il filo di Arianna che mi ha permesso di ritrovare il percorso di una mente complessa come è poi quella di qualsiasi essere umano. La vita comporta dolore ma con la memoria e la condivisione possiamo affrontare una sfida molto intrigante e sperare di vincerla.

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Libera-Mente

Vivere il teatro paura e passione di una nuova scoperta Cos’è per me il teatro? Quello vissuto? Un approccio curioso ed emozionante a qualcosa che, a puro scopo prudenziale, avevo sempre goduto al buio. Vivevo per interposta persona ogni genere di emozione, carica di aspettative e gioia, entravo in una specie di sogno ad occhi aperti, ero cosciente ma nello stesso tempo annullata nella volontà, e nell’obbligo di controllare ogni emozione. Era un continuo lasciarsi andare, essere presa dal flusso, una corrente che mi trascinava dolcemente, senza nessuna paura, verso lidi sconosciuti, un intero mondo da scoprire, da esplorare. L’emozione è qualcosa di indefinibile, si prova ma in realtà non si sa bene perché e cosa sia. Uno stato d’animo, un’alterazione della coscienza, un annullamento della volontà? Per me è sentire, fisicamente, carnalmente, il sangue che si fa più caldo e scorre più veloce, lo sguardo che si appanna e vede solo quello che mi colpisce con forza e fa sparire tutto il contorno, non sentire più niente, voci o suoni tutt’intorno che sbiadiscono nel silenzio. Diventare un interlocutrice di chi interpreta e immaginare le battute, le risposte che avrei dato se fossi stata davanti all’autore, all’attore, al personaggio, ma tutto in silenzio, nascosta nel segreto della mia mente in un gioco a rimpiattino con i fantasmi che prendevano vita nella mia fantasia. Tutto il lavoro apparteneva agli altri, la fatica, fisica e mentale, di dare vita, corpo, anima a personaggi che si fanno persone e quindi vive, reali immaginabili. Sì, il teatro 34


Libera-Mente è fatica e ingegno, e per fortuna c’è chi si fa carico di un tale sforzo per scuotere coscienze che si assopiscono consumate da un quotidiano che può farsi routine. E’ una lunga catena il teatro, parte da un’idea, un progetto mentale, un soggetto che è oggetto di ricerca accanita dell’autore per esplorare il vissuto e dargli nuovo corpo, nudo perché se ne capisca il ruolo e vestito di parole perché se ne capisca il significato, e lo sceneggiatore che crea rapporti, dialoghi, situazioni, forza vitale che dà slancio all’azione e fa interagire i personaggi ed ecco che arriva l’esplosione finale: il teatro. Quando ho cominciato a viverlo in prima persona il teatro non sapevo a cosa sarei andata incontro ma ero disposta a rischiare. Avrei dovuto esplorare le mie emozioni, metterle a nudo, mostrarle senza remora alcuna in un confronto dagli esiti imprevedibili. Quanto e come sarei stata guidata e quale sarebbe stato il risultato? Era tutto un’incognita. Diventavo protagonista di me stessa, sul palco con la luce negli occhi e non nella rassicurante penombra della platea. Sentivo comunque che era arrivato il momento di mostrarmi perché tanto avevo lavorato su me stessa, supportata certo da tante persone che a diverso titolo mi avevano intensamente sostenuto, che dovevo in qualche modo fare il punto della situazione. Fin dall’inizio ho potuto constatare che gli stimoli erano mirati e graduali, consapevoli e imbrigliati in uno schema organico ma non soffocante. Ritrovarsi numerosi e mettersi in gioco specchiandosi nelle emozioni degli altri in cui ci si può riconoscere e confrontare, è decisamente faticoso ma 35


Libera-Mente inequivocabilmente liberatorio. Da sempre il teatro è specchio sociale, sia quello tradizionale che quello sperimentale, ci si può immergere in un personaggio che sia stato creato da altri o da se stessi ma è sempre e comunque uno spaccato della complessità umana. L’aspetto fondamentale dell’attività teatrale è la possibilità di comunicare, di sperimentare in modo analitico la propria capacità di rapportarsi all’altro senza chiusure preconcette o paure che inibiscono. Questo è l’spetto propriamente terapeutico del teatro: dover scavare dentro il proprio vissuto per scoprire le risorse necessarie per entrare in un reale contatto con l’altro, si scopre finalmente di essere capaci di gestire le proprie emozioni e viverle, cioè parlarne, manifestarle, condividerle. Si esce proprio malgrado dall’isolamento che lacera ogni tentativo di umano contatto. Si esprime il bisogno fondamentale di socializzare e si riesce a realizzarlo. Il teatro rappresenta la possibilità di coordinare in un unicum tutto il lavoro terapeutico che sta a monte ma che può apparentemente rimanere irrealizzato se non si accende quell’ultima scintilla che fa deflagrare una fiamma vitale. In sintesi, ormai è evidente, per me il teatro è, e sempre sarà, un’esperienza fondamentale dal punto di vista terapeutico, sociale ed umano. E’ stato il viatico per la ricomposizione del mio io che era lacerato da emozioni così intense da non poter essere adeguatamente gestite, per potermi specchiare negli occhi di chi mi stava di fronte e chiaramente poteva capirmi, per poter constatare che la mia fatica di vivere è in realtà la fatica di tutti e solo parlandone con paziente ascolto 36


Libera-Mente possiamo alleggerire le nostre tensioni. Il teatro non è solo un mezzo per far vedere quanto siamo bravi ma diventa un flusso comunicativo in cui tutti, noi attori e gli spettatori, possiamo ritrovare un comune legame, e questo è un risultato che va sempre supportato e sostenuto perché è un risultato che, comunque, coinvolge tutta la comunità, senza, vorrei aggiungere, nessuna distinzione.

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Libera-Mente TEATRO: VEICOLO DI EMOZIONI E SCOPERTA DEL VERO SE’ La ragione che mi spinge a dichiarare tanto spassionatamente il mio amore per il teatro e confermare per esperienza diretta il suo benefico effetto terapeutico-comunicativo, nasce dal bisogno di condividere un’esperienza nata come difficile scommessa ma che si sta sempre più rivelando una straordinaria risorsa in termini di contribuzione sociale. Sono ormai tre anni che frequento un corso di teatro e da quando ho cominciato ad esplorarmi ho scoperto un mondo che ritenevo inaccessibile. Il mondo delle emozioni profonde, quelle che al solo sfiorarle mi davano le vertigini temendo di esserne travolta, la paura di sentire una spinta vitale così forte da diventare ingovernabile e il bisogno di comprimere tutto attraverso un controllo a tratti ossessivo dei gesti e delle parole. Tutto nasce da un’identità, un sé, piuttosto dinamico e peculiare indubbiamente, ma segnato anche da una particolare sensibilità che mi ha sempre spinto a provare sentimenti profondi e mettere tutto in discussione, ero un po’ troppo diversa. Per questioni cronologiche, quando ero bambina un’identità troppo irrequieta veniva incanalata verso un maggiore assecondamento e io stessa, spinta da un bisogno identificativo rassicurante, ho finito per comprimere e temere le mie stesse emozioni. Può sembrare paradossale ma avevo cominciato ad avere paura di me stessa, temevo la mia fisicità e ogni gesto o parola erano calcolati non per mistificare un’identità ma trasmettere un’immagine che fosse 38


Libera-Mente il più possibile aderente a quello che speravo di essere: una persona ben integrata, eppure il mio sforzo di condivisione delle emozioni era estremo e finivo per sentirmi chiusa in una bolla impenetrabile e soffocante. Anni e anni di sforzi mi hanno provocato un crollo e ho dovuto mio malgrado fare i conti con la diagnosi di depressione, la patologia mentale, il peggior incubo per chiunque perché perdere la salute della propria mente e pure con la stessa mente cercare di ritrovare il filo conduttore dei propri pensieri è estremamente difficile. Grazie in principio ad un’identità estremamente combattiva ho chiesto aiuto, rendendomi conto che per troppo tempo avevo cercato di cavarmela da sola, e nella rete di sostegno di cui ho potuto usufruire è nata la proposta teatrale. Da qui è cominciata la scoperta. Non si rappresentano testi scritti da altri, non si riproducono gesti creati da un osservatore ideale, noi membri del gruppo creiamo e diamo corpo a noi stessi. Non è una forma caotica e approssimativa di teatro autoreferenziale, in sintesi non è il teatro dei matti, è un’intensa comunicazione di persone che hanno avuto il coraggio di confrontarsi e mettersi in discussione, analizzarsi e conoscersi, che usano il corpo, la parola, il gesto, l’espressione, come specifico linguaggio per trasmettere il proprio percorso. La strada che intraprendiamo è complessa, non per l’incapacità volontaria o indotta di assimilare il linguaggio condiviso per tradurre esigenze, emozioni, identità, ma è presa di coscienza di un sé di cui temevano di perdere il controllo, che abbiamo bisogno di codificare in termini articolati per renderlo intelligibile a chi ci 39


Libera-Mente osserva da fuori e scorge, comprensibilmente, solo il pericolo dell’incomunicabilità. Siamo persone complesse e complete, con un’identità specifica come qualsiasi altra persona, ma impariamo a regolare, conoscere, estrinsecare e trasmettere le nostre emozioni che diventano pensieri e azioni e iniziative e reti di relazione. E’ un lavoro impegnativo ma di anno in anno raggiungiamo risultati sempre più articolati. A questo punto mi permetto di osservare che possiamo a nostro modo diventare una risorsa: il problema di scoprire la propria identità, far emergere il proprio vero sé, comunicare e integrarsi con i veicoli dei messaggi che sempre più tecnologici si stanno mano a mano svuotando di significati, è una difficoltà diffusa, dolorosa e trasversale: tra giovani e meno giovani, internauti e chi non è collegato alla rete, paesi sviluppati che non tengono più il passo della distribuzione del benessere e nuove istanze mondiali che stanno prepotentemente emergendo. In fondo tutto il mondo ha dovuto mettersi in discussione, ridiscutere i propri parametri vitali-sociali, fare i conti con le emozioni che non si riesce più a incanalare coscientemente e compiutamente e sempre più drammaticamente esplodono, perché allora non incuriosirsi al lavoro di chi si confronta, mette in discussione, analizza, comunica il tentativo di aprire nuove strade di collegamento? I bisogni e le emozioni primari sono gli stessi per ogni essere umano, dobbiamo riformulare accordi come trovare una sintassi rinnovata di un linguaggio arricchito, ebbene noi ci stiamo provando, e abbiamo tutta l’intenzione di proseguire ancora a lungo. La strada ormai è aperta, basta solo percorrerla. 40


Libera-Mente DENTRO LA PELLE LA MIA LOTTA CONTRO LA DEPRESSIONE “Benvenuta, ti faccio conoscere la nostra casa e i nostri amici”. La voce era pacata ma gradevole, accogliente e rassicurante. Da tanto tempo non mi sentivo tanto a mio agio, sicura nello stare accanto ad una persona che non conoscevo. Mano a mano si sono presentati tutti i membri della famiglia, ospiti della casa, una casa nuova per me e sconosciuta, ma già cominciavo ad ambientarmi nel momento stesso in cui ascoltavo e osservavo tutte le persone che mi venivano incontro. Non riuscivo a memorizzare subito i nomi ma di sicuro avevo subito memorizzato lo sguardo: gentile, amichevole e cordiale. Erano tanti, non finivo più di presentarmi o almeno così mi parve, d’altra parte per alcuni mesi mi ero talmente chiusa che non frequentavo più nessuno. Già l’isolamento, un dolore sordo e profondo che mi aveva completamente assorbita, non volevo più credere in niente e nessuno, venivo da un periodo di violenza incontrollabile, in famiglia non ero più gestibile, con sbalzi di umore, esplosioni di violenza fisica e verbale e la sensazione di essere vittima di una congiura. C’era stato l’intermezzo del ricovero, chiesto da me visto che non riuscivo neanche a respirare la vita, non aveva più senso niente, mi mancava l’aria, la terra sotto i piedi, ero diventata ostica a qualsiasi contatto, volevo isolarmi definitivamente. Stavo male, malissimo, avevo bisogno di cure. Era evidente che dovevo allontanarmi dalla famiglia, prendere le distanze, cercare un filtro che mi sostenesse e 41


Libera-Mente non mi facesse andare allo sbando. Mi fu proposta la vita in una comunità. Acconsentii per disperazione, non avevo la più pallida idea di cosa significasse ma non avevo altra via d’uscita. Provavo a immaginare cosa volesse dire ma non riuscivo a farmi un’idea. Arrivò il giorno della partenza e dell’arrivo: lasciavo l’ospedale per entrare in comunità, cominciava l’avventura, cominciava la scoperta. E subito quel “Benvenuta” e quello che ne conseguì. “Hai bisogno di tempo per ambientarti, vedrai che andrà tutto bene”. “Se lo desideri puoi dare una mano in cucina”. Ero d’accordo,in fondo cucinare è una modo di dedicarsi agli altri, esprimere affettività e cura, mi misi all’opera e tutto andò bene. Avevo una simpatia a pelle. Già, la pelle, dentro la pelle, le emozioni si facevano più limpide riuscivo a raccontare, per metafore ma l’importante era comunicare. “Posso raccontarti la mia storia? O meglio le mie emozioni?” “Certo, sono qui per questo e sono qui per il piacere di esserci e ascoltare”. “Allora posso esprimermi liberamente e dare corso alle parole senza paura di un giudizio?”. “Non temere, vai tranquilla”. “La pelle, dentro la pelle, un mondo racchiuso in un involucro che definisce, contiene, protegge e comunica. Ognuno ha la propria, levigata o rugosa, bella o dolente, ricca di storia o di aspettative. Ogni pelle racchiude una persona, una creatura, un essere, un uomo, e ogni uomo è un pianeta, a volte 42


Libera-Mente inesplorato e spesso sconosciuto agli esseri che gli orbitano intorno, gli altri pianeti. Già, in qualche modo siamo come un universo con tanti sistemi solari e stelle e pianeti e forze contrastanti in un equilibrio sufficientemente precario. La precarietà è una condizione non necessariamente negativa, è il contrario della stabilità che può diventare incancrenimento e apre la strada ad un nuovo inizio. I pianeti sono un costante nuovo inizio. Pianeti maggiori da cui si sganciano lentamente pianeti più piccoli che noi chiamiamo figli. Già, figli, la mia pelle è quella di un essere umano, una donna, con una storia ormai lunga e l’involucro dolente, che ha visto tanti figli ed è appartenuta al pianeta dei bambini per poi rendersi completamente autonoma, ma di un’autonomia lacerante e dolorosissima, una storia tutta sua ma allo stesso tempo di molti, non di tutti forse ma sicuramente di molti. Un percorso scabro, accidentato, ricco di ostacoli e provocazioni. L’ansia di riconoscermi negli altri bambini e amare il mio pianeta madre, seguire le regole e la guida dell’origine per orbitare nel modo più appropriato, l’insofferenza al legame e il dolore per la sua perdita ineluttabile e precoce. Una fase necessaria per tutti ma non per questo meno dolorosa. Accompagnata però dalla forza, dall’energia che spinge a vivere tutto con estrema intensità: o tutto o niente, ora o mai più. Il cammino, quando il pianeta è giovane, si può fare rapido e agile, ma si possono manifestare crepe e fratture a cui si può non fare caso, oppure pensare di poterle affrontare da soli. D’altra parte se si cade siamo anche aiutati a rialzarci ma per chi si 43


Libera-Mente ferma a risollevarci la spinta a proseguire è forte, il cammino è veloce. Si sperimentano emozioni forti e amore e dolore si mescolano intrinsecabilmente. Ci sentiamo ripetere che è un passaggio fondamentale del nostro sganciamento dall’origine, ma il dolore è cocente, lo sforzo eccessivo, le forze ci mancano e la rabbia cresce. Alternarsi di emozioni frenetico e sconvolgente, niente ha più un senso. Tutto quello che ci dicevano quando eravamo ancora fusi nel pianeta dei bambini, quando ci davano speranza nella chiarezza, anche se con l’obbligo fastidioso delle regole, diventava irreale, privo di fondamento, delegittimato. La nostra pelle, il nostro involucro protettivo e comunicativo, si tendeva fino a dolere nel momento della prima ricerca di un compagno che non fosse più soltanto quello dei bambini. L’infatuazione, il colpo folgorante che ci fa sentire esposti al rischio, al primo duro colpo all’inviolabilità del nostro essere, la pelle si tende per esprimere tutto il nostro complesso interesse verso l’altro, non è semplice simpatia o gioco, è qualcosa di misterioso e affascinante, ma molto rischioso. Il rischio è il rifiuto.” “La sofferenza l’abbiamo sperimentata tutti, il dolore, il rifiuto, la perdita degli affetti, possiamo condividere e parlarne, sai la scoperta vera di non essere soli aiuta molto, si condivide e si soffre meno, ci si sfoga e si prendono le distanze, la vita può insegnare che possono esserci sempre nuovi inizi.” “Per me sai la vita è comunque imprevedibile, inaspettata e avvincente a suo modo. A volte si incontrano vite che scoprono affinità inaspettate, legami inscindibili che 44


Libera-Mente segano per sempre, lasciano tracce indelebili che forgiano un’identità, provocano uno scatto di volontà che spinge ad agire nonostante tutto e tutti. La pelle si dilata e ingloba, ci si scambia la pelle. La fusione diventa totale e totalizzante, non esiste più nulla al di fuori che possa separare, l’orbitare si fa armonioso come una danza e ci si scalda del reciproco calore. La comunicazione si fa così intensa che si dimentica tutto il resto dell’universo. E’ amore, quello profondo più di ogni altra cosa, che fa impallidire tutto quello che si è provato in precedenza e si credeva tale. O meglio, era amore anche quello ma non così intenso, così assoluto. Si è pervasi da una nuova energia, una forza che pervade ogni poro della pelle e penetra fin nell’intimo, non ci sono più dolorosissime forze contrapposte di implosione ed esplosione, c’è solo il fluire nell’altro, che dà sicurezza, pace, serenità. E si dà sicurezza, con l’impegno a dare il meglio di noi stessi, la nostra forza sconosciuta di cui prendiamo coscienza attimo per attimo per dare e ricevere forza, per rendere costante la reciproca attrazione. Non esistono più amore e morte, solo amore. Tessuto pazientemente e meticolosamente con gesti pazienti, baci e carezze per lo spirito inquieto che si placa e ringrazia. La fusione dei corpi che diventano veicoli dello spirito, della forza, due pianeti che si incontrano e si sposano l’uno nell’altro. E tutto diventa luce e sole e danza e non ci sono più collisioni, il buio che è in noi è neutralizzato, l’integrità è raggiunta, non c’è più bisogno di sapere per essere, ma si è di una vita forte, che si può arricchire sapendo ma è, la vita 45


Libera-Mente si mostra nella sua istintualità affamata di altra vita che sono figli e poi ancora amore, cura, dedizione, affetto. L’affezzione è condivisione, cura, apprensione per la difficoltà e attenzione per l’altro che diventa noi. Si è noi, in due potenzialmente ricchi di un’incalcolabile nuova vita. Ogni giorno dilatato come se durasse anni, anni intensi e vitali, proficui di forza e intensità emotive. Anni che diventano giorni volando leggeri spinti dal vento di una passione totale, emotiva e fisica: appunto scambiarsi la pelle.” “E’ una definizione particolare.” “Lo so, amo le parole e ne uso molte, è come se dipingessi un quadro con le parole anche se è vero che un immagine vale più di mille parole, ma quando si provano tante emozioni servono tante parole. Tante emozioni confuse e inspiegabili.” “Vuoi provare a immaginarle e a descriverle anche se usi le parole come pennelli?” “Quello che mi tormenta di più è il dolore del rifiuto, il dolore del rifiuto è un dolore sordo, profondo, che mette in crisi la nostra identità, quello che siamo o che riteniamo di essere, in cui confidiamo e di cui vogliamo avere conferma. La fiducia nasce dalla conferma e acquisiamo fiducia se otteniamo conferma. Il rifiuto è la prima frantumazione del nostro mondo, del nostro pianeta. Siamo pianeti che orbitano l’uno con l’altro intorno a un sole costante per tutti: la vita. Vivere è difficile e stimolante al tempo stesso, ma è anche un difficile equilibrio di sensazioni, sentimenti ed emozioni che non sempre fluiscono in modo graduale e soddisfacente, 46


Libera-Mente spesso il percorso si fa scabro e accidentato, ci fa inciampare e cadere. Alzarsi, alzare la testa e riprendere il cammino non è sempre semplice, fatichiamo a capire che abbiamo compagni di viaggio che possono aiutarci, condividere la fatica è auspicabile ma non sempre facile. Urliamo la nostra disperazione ma ci sembra che la nostra voce resti inascoltata, la nostra voce non emette alcun suono, l’urlo è silenzioso, la paura è silenziosa ma assordante nelle nostre orecchie. Ci martellano le tempie pensieri cupi temendo che nessuno ci aiuterà ad alzarci e proseguire e ci assale il dubbio che quello che per anni ci avevano insegnato le persone che ci vogliono bene fosse falso. La vita non è mai soddisfacente o gradevole, è solo dolore. Un pensiero annichilente e devastante. Poi all’improvviso un’altra speranza. Un nuovo amore e un’altra prospettiva che si apre per ricominciare a camminare. Qualcuno ci aiuta ad alzarci e ci spinge a proseguire. Ho provato nel mio pianeta di provenienza il dolore e la gioia, quando sentivo delle fratture ma pensavo di poter risolvere tutto da sola. Quando ero una bambina credevo che tutti i grandi fossero depositari di un potere enorme e assoluto e avessero tutte le risposte. Ma mi attanagliava la paura di non essere all’altezza e non riconoscere le regole del mio pianeta. Un pianeta abitato da molti bambini come me, forse più bravi e responsabili, comunque simili a me e capaci di condividere la mia fatica nell’apprendere a vivere: in fondo conoscere il nostro pianeta. Il pianeta è un mondo, ci sono tanti pianeti e tanti mondi e ognuno è abitato da chi ricerca 47


Libera-Mente quello più appropriato alla propria dimensione. Entrare in un altro pianeta è conoscere nuove regole e nuove opportunità e ricreare quanto di meglio abbiamo vissuto nella nostra vita del pianeta di origine. Non conoscevo ancora bene il mio primo pianeta che già cominciai a percepirlo come inospitale. Avevo cominciato a cadere e non mi sentivo abbastanza sostenuta e quando cominciai a vedere più lontano e ad avere voglia di correre mi sentii come se mi fossero venuti a mancare gli appoggi fondamentali. Gli amici, la guida della famiglia, una serie di abbandoni non voluti mi facevano sentire di nuovo sola a percorrere il mio cammino. I miei richiami, le mie richieste di aiuto rimanevano sordi perché chi aveva energia per camminare mi spingeva a farlo, ma io non riuscivo a far capire che mi mancavano le forze, alcuni si fermavano per darmi aiuto ma la spinta che sentivano li spingeva a procedere. Sentivo che il mio pianeta, il mio mondo, la mia vita si stavano frantumando. Temevo di cadere nell’abisso del vuoto e cadere all’infinito, senza un appiglio a cui aggrapparmi, una mano sicura che mi sorreggesse. Sentivo questo quando fui rifiutata la prima volta, e purtroppo non fu l’ultima. Ricordo che era di pomeriggio, l’aria umida e fredda rendeva tutto più spiacevole o forse il tempo si era sintonizzato sul mio umore. Non andavo bene, ero cupa, triste, ansiosa, angosciante. Le parole mi colpirono come macigni: avevo mille ragioni per essere così ma non era un processo irreversibile, sarei rinata se solo mi fosse stato concesso il tempo per risalire la china che avevo disceso troppo in fretta. Chiedevo solo una mano 48


Libera-Mente tesa a cui afferrarmi per un ultimo slancio e sarei stata come mi volevano e come anch’io avrei voluto essere: felice o almeno serena. No, felice è il termine più adatto, ero giovane, avevo energia e volevo tutto in modo intenso e totale: volevo la felicità. Ma la vita non era così intensa al positivo, lo era solo al negativo, quando si è divorati da emozioni totali o si vive felici o si sprofonda. La corsa all’inizio è rapida e la strada da percorrere sembra breve, la meta è vicina e si può possedere tutto. Se, al contrario, la corsa si interrompe, tutto finisce. Il pianeta comincia a frantumarsi. All’inizio non ci si fa neanche caso, si pensa che sia tutto finito e non si vedono le crepe, le fratture, le fessure che si allargano inesorabili, ci si lascia andare al buio e non si riesce a porre rimedio. La lotta, se la tentiamo, è scomposta e confusa e andiamo dalla parte opposta a quella che veramente dovremmo guardare. Pensavo che il pianeta si frantumasse per gli atteggiamenti di chi mi circondava, il mio orbitare intorno agli altri pianeti non era più armonioso e regolare, o quantomeno sopportabile, ero distrutta. Eppure c’era qualcosa che mi turbava ancora più in profondità e mi faceva dubitare. “ “Cosa ti faceva dubitare? Chi ti era intorno sicuramente ti amava, ma perché tu non te ne rendevi conto?” “Ero turbata da sogni tremendi, incubi di cui non riuscivo a spiegare l’origine, attribuivo la responsabilità a chi mi stava intorno. “Vuoi parlarmi di questi momenti?” “Sogni confusi, approssimativi, difficili da decifrare per 49


Libera-Mente arrivare ad una loro parziale comprensione. Sogni quasi allucinatori, poi un sogno particolare: strappo da una vetrina un bell’abito, che poi corrisponde ad uno che posseggo realmente, quindi sono io, sento un frastuono enorme, assordante e molte persone che corrono terrorizzate, appare all’improvviso quello che aveva suscitato tanto terrore: un mostro enorme e tentacolare che divorava cose, case e bambini. Chiedevano a me di affrontarlo e distruggerlo, placarlo o eliminarlo, qualsiasi cosa fosse in mio potere di fare. Tante persone, tanti piccoli pianeti la cui orbita era annientata da una furia selvaggia che comprimeva e minacciava la loro esistenza. Io dovevo affrontalo e neutralizzarlo. Perché proprio io? All’improvviso capii che quel mostro ero io, o almeno una parte di me, la parte oscura che divorava il mio pianeta. Io stavo distruggendo il mio pianeta e trascinavo gli altri in un pericolo di sicuro annientamento. Ero io il pericolo che stava annientando il mio pianeta, nell’orbita impazzita stavo provocando una collisione con gli altri che cercavano di aiutarmi per non essere travolti. Non era rifiuto preconcetto ma paura, facevo paura per la mia orbita complessa con cui si poteva entrare in collisione, ero un pianeta impazzito, carambolavo in ogni direzione e potevo, anzi succedeva, provocare collisioni con altri pianeti che ruotavano in un’orbita più tranquilla. Quel mostro dunque ero io. Ma come era possibile? Io ero attraente e quel mostro aveva tentacoli mostruosi e un’enorme testa con occhi intrisi di sangue. L’immagine classica di un’autentica mostruosità. 50


Libera-Mente Mi ero scissa dalla mostruosità o era ancora dentro di me? Non riuscivo a capire, ero molto confusa, anzi decisamente angosciata. Come potevo tollerare di appartenere a quell’essere che distruggeva la vita degli altri? Non orbitava intorno agli altri pianeti ma li risucchiava nella sua vertigine come in un risucchio da buco nero. Distruzione completa, paura, angoscia. Ero sola di fronte alla mia responsabilità. Se non fossi riuscita a neutralizzare quell’orrenda creatura? Mi tornarono a mente le atroci sensazioni che provocavano in me emozioni devastanti e sentimenti contraddittori e disperati. Ora capivo che realmente la mostruosità faceva parte di me, o meglio mi aveva intrisa della sua violenza. Non mi ero mai resa conto, o meglio non volevo rendermi conto, della mia negatività, attribuivo all’esterno, alla provocazione degli altri l’origine della mia disperazione. La solitudine in cui mi ero rinchiusa era una gabbia intollerabile, un dolore profondo e annichilente mi distruggeva nell’intimo. La disperazione della solitudine mi dava un dolore così grande che sentivo il mio corpo sul punto di esplodere, incapace di sentire una stabilità, andavo alla ricerca di ogni mezzo per sentirmi integra e non avere la sensazione di vivere così alienata da percepire una dimensione alternativa. Avevo il mio pianeta ma non lo percepivo, era come se fossi uscita dal sistema solare, quel sole che mi scaldava e mi nutriva. All’improvviso capii che il mio pianeta ero io stessa. La mia interiorità era la mia orbita, l’espressione dell’interiorità era il fiorire della vita del pianeta. Il sistema solare, l’orbitare dei pianeti, era la vita con gli altri, 51


Libera-Mente ma io non riuscivo a percepire il mio movimento, non avevo spazio o almeno così mi sembrava, mi sentivo oppressa dagli altri pianeti, ora capisco gli altri esseri umani, come se mi privassero della luce e del calore necessari per vivere. Mi scontravo fino al pericolo dell’annientamento reciproco per avere più luce ma mi ritrovavo sempre nell’ombra. Il buio dei rapporti, della condivisione della vita di relazione, del reciproco nutrimento, del capire che è solo l’orbitare che ci può dare e mantenere luce e vita. Sì, ora capivo che il mostro ero io, ma ora capivo che non ero solo mostruosità. Il mostro che distruggeva cose, case e bambini. Ora potevo affrontarlo. Cosa potevo fare però per neutralizzarlo. Dovevo studiare un piano. Dovevo conoscere il punto debole della mostruosità per scardinare la sua forza. Sembrava un’impresa impossibile ma mi resi conto che dovevo cominciare dall’inizio della storia, la sua storia che in fondo era la mia storia, prima che prendessi le distanze. All’inizio, come tutti, ero un piccolissimo pianeta, collegato come satellite all’orbita principale, ma ero irrequieta e selvaggia, già nella difficoltà di capire quale fosse la mia dimensione, il mio moto, la mia posizione. Mi scagliavo come una furia contro qualunque cosa mi capitasse a tiro e nello stesso momento in cui cercavo di capire sfuggivo al minimo tentativo di adattamento. Non capivo perché mi sentissi tanto sola e confusa. Mi sembrava che tutti gli altri satelliti si muovessero armoniosamente, piccoli ma non spersi nel mare dell’universo. Nella mia piccolezza cercavo aiuto ma sfuggivo, mi sentivo implodere 52


Libera-Mente come se una forza magnetica mi obbligasse a comprimermi e non, come sarebbe stato lecito, evolvermi. La mia pelle, l’involucro dolente del mio mondo, si dilatava e comprimeva in uno sforzo lacerante. Non riuscivo a fidarmi, ad imparare, ad assorbire energia, mi sentivo profondamente sofferente, sola e schiacciata da un’incontenibile energia che mi sovrastava e mi incuteva timore. Sentivo un continuo pulsare del mio centro, un nucleo pulsante e martellante che facevo fatica a contenere. L’implosione era accompagnata dall’esplosione, un continuo alternarsi di sforzi contrastanti e di difficoltosissima gestione che mi rendevano impossibile sviluppare la vita. Temevo che il mio pianeta fosse morto prima ancora di nascere, potesse estinguersi prima ancora di conoscere la vita, sparire senza lasciare alcuna traccia. Non capivo cosa mi stesse succedendo e una rabbia cieca, profonda, esasperata, incontenibile mi attanagliava. Cominciavo ad odiare tutto quello che mi circondava, ma più di ogni altra cosa il pianeta madre. Sì, il pianeta madre, quello che per primo riesce ad esprimere un’intensa vita, così intensa che si stacca e procede verso un’orbita tutta sua per dare altra vita. Odiavo il mio pianeta madre perché pensavo che non mi avesse dato un nucleo abbastanza forte da poterlo gestire senza esserne travolta. Attribuivo a lei il mio pulsare scomposto, doloroso e sconvolgente. Era lei ad avere un nucleo debole che non mi aveva dato energia sufficiente per pulsare con regolarità e vivere del sole che scalda e nutre. Mi sbagliavo ma non lo capivo. Mi portavo dietro l’inconsapevolezza dell’odio, 53


Libera-Mente era proprio l’odio che mi portava a fuggire e non trovare la linea giusta, la posizione più corretta, la costellazione della luce e mi faceva sentire pericolosamente attratta da un buco nero, un’energia incontrollabile e potentissima che assorbe risucchia e annienta. Volevo rimanere immobile perché nessuno si accorgesse di me ma così non potevo vivere.” “I sogni sono terribili, dimostri comunque l’angoscia di non essere in grado di amare e credo che questo ti turbi più di ogni altra cosa.” “Non avevo luce, calore, nutrimento per creare nuovo nutrimento. Non potevo vivere così. L’esigenza di crescere con il sole e l’attrazione del buco nero erano come il pulsare dell’implosione e dell’esplosione, entrambi intollerabili. Non so perché succedesse tutto questo, pensavo solo che dipendesse da un’origine sbagliata, da un problema riguardante la mia posizione, quella all’interno del sistema, il sistema solare con i pianeti orbitanti, i satelliti, le stelle, fino a comporre l’universo con gli altri sistemi. Per me l’universo è l’essenza della complessità e della fascinazione, dell’inconoscibile che viene gradualmente svelato, come ogni uomo, ogni essere vivente, ogni persona si riconosce e si svela, e più viene riconosciuta più si rivela a se stessa, la pelle che è l’involucro dell’ umana complessità, rimane vitale e sana, fluisce ritmicamente con gli altri e, come ti avevo detto prima, si scambia con gli altri, a volte con un essere soltanto ma è già una grande ricchezza. Ma io non sapevo a quale sistema appartenessi, non sapevo in realtà a quale sistema volessi o 54


Libera-Mente potessi appartenere. Mi sembrava di vivere in un universo parallelo, conoscevo a mala pena il mio che è comunque ampio e molto complesso, come tutti d’altra parte, e già mi sembrava di vivere in uno parallelo, dove tutto si rovescia e la vita diventa morte, il sole non scalda ma raffredda e i pianeti collidono mentre le stelle smettono di brillare. La pelle non si scambia con nessuno: non c’è amore. Un universo parallelo fatto di incubi, dove cose, case e bambini non hanno un ordine, tutto è smembrato e scambiato, appartenevo ad un universo parallelo che nessuno capiva, la materia si smembrava fino a ricomporre il suo opposto, un’antimateria che mi attirava lontano dalla vita vera. Non sapevo spiegare e nessuno sembrava, o era in grado, capire. Non riuscivo ad apprendere gradualmente, a fare mio il mondo per condividerlo con altri, pianeti simili o almeno scaldati dallo stesso sole. Persone la cui pelle non veniva lacerata da una tensione insopportabile e poi svuotata da un’implosione improvvisa. Nell’universo parallelo il sole non scaldava e non nutriva, era immobile, morto, muto spettatore degli sforzi enormi di trovare un’armonia. In quest’universo ero sola, mi sembrava strano pensare che fosse tanto potenzialmente grande e nello stesso tempo vuoto. Doveva esserci per forza qualcun altro eppure non lo conoscevo. Capii che in quest’universo non si è soli ma è come se lo si fosse, non c’è comunicazione e si vive quello che si teme più di ogni altra cosa: la solitudine dell’incomunicabilità. Questa era la cruda realtà: non riuscivo a comunicare, chiusa in un mondo, nel mio universo, che 55


Libera-Mente non era l’universo degli altri. L’universo con stelle, pianeti e altri sistemi solari, ma uno e complesso e vitale dove si comunica. Ci si scontra, si entra in collisione, non si comunica nel modo adeguato, non ci intende, ma l’altro si vede, lo si riconosce, magari non lo si capisce ma lo si vede davvero. Nel mio universo tutto era buio e silenzio e se qualcuno cercava di portarmi alla luce sentivo un dolore talmente forte e profondo che reagivo con estrema violenza, l’odio assoluto. Mi provocava maggior dolore allontanarmi da un universo morto che tentare di entrare di entrare in uno vivo. Odiavo ma non riconoscevo lo sforzo di dare vita, odiavo perché qualcuno cercava disperatamente di portarmi verso la luce vera. Io, a mio modo, vedevo lampi di luce e colori che mi sembravano vita, ma era come una visione illusoria, svaniva presto e presto arrivava il buio. Capivano che esistevano due universi, un universo vivo, vero e un antiuniverso, e forse il collegamento erano proprio i buchi neri. Assorbimento assoluto e annientamento, annientamento della vita di luce che diventa luce di ombra. Oscillavo tra questi due estremi in uno strazio continuo. Cercavo di memorizzare forzatamente gli schemi del mondo per essere, non sapevo perché ero ma ero finché sapevo. La memoria può essere fallace e questo mi turbava profondamente. Se avessi dimenticato? Se non fossi più stata in grado di ritrovare gli elementi necessari per superare l’isolamento? Ritornare nell’antiuniverso, ormai era tardi per rinchiudermi perché ero stata attratta dal mio pianeta madre fuori dal buco nero ma lo sforzo della doppia 56


Libera-Mente attrazione: morte vita, isolamento comunicazione, era devastante. Tutta la mia esistenza era condizionata da questo, lo smembramento, pezzi di arti cuciti insieme in un ballo macabro che dia la sensazione dell’unità. Non capivo, non potevo capire, il problema era mio ma non riuscivo a capire neanche questo. La mia immagine non corrispondeva al mio interno e questa dicotomia lasciava scie di incomprensione e profonda perplessità. Continuavo ad essere sola. Vivevo un intenso livello proiettivo, tutto accadeva fuori di me, c’era una congiura per distruggermi e non ne capivo il motivo. Forse c’era in me qualcosa di sbagliato, ma più mi sforzavo di rendere in termini di apprendimento e dimostrazioni di competenza tanto meno mi sentivo apprezzata. Pensieri martellanti e ossessivi mi perseguitavano e rendevano sempre più difficile seguire un filo conduttore, crisi di panico ricorrenti, una paura terrificante di cui non conoscevo il motivo e tanto meno l’origine. Forse ero pazza? Definivo la pazzia come un incubo ricorrente e pensieri che si rincorrevano con furia selvaggia impedendomi di avere una chiara coscienza di me stessa. Gli altri riuscivano ad apprendere, a realizzare, a memorizzare, non erano soli e la loro vita era facile e scorrevole, o almeno così credevo, o meglio ne ero convinta, non riuscivo a stargli al passo. Non capivo come facessero ad essere tanto competenti, dotati e fortunati mentre io stavo impazzendo. Non capivo l’origine della mia diversità, della mia solitudine. Attribuivo tutto all’esterno, a chi mi aveva dato la vita ma non mi guidava a viverla, e se tentava di 57


Libera-Mente farlo mi provocava un dolore intollerabile. Ora so che per lei era straziante non poter comunicare con me e non vedermi comunicativa con il mondo: mi spingeva a conoscere, frequentare altre persone, avere fiducia in me stessa e nella vita, ma tutto questo non mi dava sollievo e aumentava la mia angoscia. Chiedevo cosa si volesse da me, volevo rimanere nel mio guscio ma lo stesso guscio mi stritolava, non trovavo una via d’uscita. Stavo impazzendo. Perché? Non trovavo una risposta tranne il fatto di essere forse maledetta. Già, maledetta da una predestinazione inspiegabile ma reale, era l’unica spiegazione per quanto intollerabile. Tutto era intollerabile. Solitudine, incomunicabilità, calcolo costante delle competenze mie e altrui, di nuovo ero se sapevo e se dimenticavo diventavo sempre meno. Dunque sforzi estremi di analisi di ogni pensiero e ripetizione. Le ossessioni dei pensieri che non mi davano tregua diventavano una strategia difficoltosissima ma pur sempre una garanzia per continuare ad essere. In fondo però non sapevo cosa significasse essere: un ruolo precostituito, una predisposizione, una predestinazione, qualcosa al di fuori dei nostri tentativi di realizzazione o c’era la speranza di una scelta? Cercavo di capire cosa potesse darmi una spiegazione.” “Stai parlando di identità tanto fluide da scivolare sulla pelle senza incidere, mentre l’identità è qualcosa che ci appartiene e ci distingue, la sentiamo, la viviamo, fa parte di noi e non va cercata al di fuori. Tutto quello che facciamo è una continua scoperta del nostro modo di essere, di abitare la nostra pelle, 58


Libera-Mente sembra invece che tu ti sentissi nella condizione di chi non riesce metaforicamente neanche a guardarsi allo specchio. Cos’è per te l’identità, l’essere persona?” “Per me una persona è qualcosa che va al di là del concetto di essere umano e nello stesso tempo lo ingloba. L’essere umano è un’identificazione della specie nell’ambito più ampio degli esseri viventi e comporta la capacità di creare, inventare, modificare per le proprie esigenze la natura e le altre specie. Chiamiamo umano tutto quello che comporta affettività e cura, rispetto della vita e sua protezione e definiamo disumano tutto quello che esula da queste categorie anche se in fondo solo gli esseri umani esulano dagli stessi principi che si sono imposti. E qui scatta la responsabilità personale e parliamo appunto di persona. La persona è qualcosa che va al di là del concetto di essere umano e lo caratterizza, ogni persona è un essere unico e irripetibile, responsabile e cosciente delle sue esigenze. Non esiste essere più o meno persona, ognuno di noi è persona, non solo quelli che rispondono a standard legittimati a definire un diritto più o meno sancito a vivere. Chiunque ha diritto a vivere e ad essere riconosciuto nel suo essere persona. Una persona vive, ama, soffre, gioisce, prova emozioni più o meno intense a secondo delle condizioni del momento ma in ogni caso vive, si esprime, si afferma. Una persona è una vita, un essere complesso che vive un mondo complesso e cerca un adattamento il più possibile soddisfacente. C’è una continua evoluzione nell’essere persona, è persona un bambino, un giovane, un vecchio. La persona è continuità, elaborazione di 59


Libera-Mente un percorso, espressione di continue esigenze. Si dice che si incontra tanta gente ma poche persone, ma io credo che basti soffermarsi per avere un’immagine più chiara e riconoscere persone all’interno del concetto più generico di gente. Per me dunque persona vuol dire qualcuno da conoscere , scoprire e, se si riesce, soprattutto da amare.” “Parli di persone ma tu ti riconosci come persona?” “Per me è difficile, o almeno lo è stato per tanto tempo, definirmi una persona, o almeno una persona integra e integrata, aspetti che per altro sono complementari l’uno all’altro. Per integrarmi dovevo fare la scelta più giusta, ma quale? Non riuscivo a stabilire cosa fosse giusto o sbagliato. Una scelta non appropriata per me ma socialmente condivisa, e se non riuscivo? Di nuovo un crollo. O una scelta in base alle proprie predisposizioni? Ma come capirle? Forse la mia predisposizione era la follia? Continuavano le crisi di panico sempre più sconvolgenti e aumentava il meccanismo proiettivo. Ma non lo capivo. Avevo cominciato a chiedere aiuto anche se ero terrorizzata all’idea di riceverlo. Se avessero di nuovo cercato di raddrizzare il mio mondo e mi avessero detto che era un lavoro impossibile? Avevo di fronte chi aveva tutte le risposte. C’era un intollerabile divario: io avevo solo dubbi laceranti e avevo di fronte che aveva solo risposte. Passavo dalle certezze religiose a quelle psichiatriche. Dalla trascendenza alla scienza. Ma era tutto al di fuori di me. Non ero io che mi appropriavo di risposte, aumentava solo la mia caduta nel baratro del panico e della violenza. 60


Libera-Mente Violenza cieca, profonda, abissalmente irrefrenabile, che non potevo condividere con altri che non erano violenti ma creativi. Già, la creatività e la procreatività. Il desiderio di figli era condannato al nulla perché avrei dato vita orribile e maligna come l’avevo ricevuta io, dovevo interrompere un ciclo maledetto. Non capivo che ero nata da un grande desiderio e rispetto di una vita che si dona e si protegge e si rispetta, attribuivo ancora all’esterno la mia rabbia. Ero io che non riuscivo ad amare la vita, ma mi era stato insegnato ad amarla. La vita è un bene estremamente prezioso ma quando ti colpisce un disagio mentale, il male dell’anima, il male di vivere allora veramente tutto diventa intollerabile. Di nuovo nella mia mente si affermava il meccanismo proiettivo, la responsabilità era al di fuori di me, non volevo altre risposte.” “Parli del disagio mentale, del male di vivere, della rabbia che genera odio che non si può tollerare dentro di sé e quindi si attribuisce all’esterno. Hai anche detto che ti sentivi incurabile ma forse non avevi ancora la forza di guardarti veramente dentro.” “Ora posso dirti che entrare e uscire dal mio guscio esistenziale e immobile mi terrorizzava, come ti dicevo prima non mi sentivo in grado di capire come potevo identificarmi come persona visto che mi sentivo una non persona, avevo un’identità solo nel mio mondo immobile in cui entravano solo immagini di luci e colori e le fantasie provocate da un’intensa lettura. La lettura era il mio mondo, la mia evasione, un mondo che potevo controllare a mio piacimento. Quando 61


Libera-Mente venivo portata nel mondo reale a contatto con gli altri esseri umani esplodeva di nuovo la rabbia, insieme all’odio e la paura. Cozzavo contro il pianeta madre. Di nuovo la madre. Mia madre, cercata per amarla e non riuscire a farlo. Una dicotomia lacerante. La lacerazione era una costante della mia vita. Tutto era annientamento, annientamento del mio pianeta, di me stessa.” “Dici che siamo tutti pianeti che orbitano e che tu cozzi con gli altri, ma con me stai parlando a ruota libera senza rancore o violenza, e, soprattutto, parli al passato.” “E’ vero, parlo al passato, per spiegarti cosa ho provato per tanti anni e quale percorso ho cominciato venendo qui. Avevo toccato il fondo e ho cominciato per disperazione a cercare una strada alternativa. Guardandomi dentro tutto si è ricomposto in una visione limpida ma estremamente drammatica: mi ero scissa dal pianeta madre, dal pianeta dei bambini in cui mi sentivo fusa anche se già estranea, ormai ero un pianeta singolo, scisso dagli altri ed orbitante, ma la mia orbita era incomprensibile, lontana dalla chiarezza, cioè dalla luce e dalla vita. “ “Parli per metafore, questo va bene, me se potessi descrivermi in concreto quello che succedeva.” “Provavo una tremenda rabbia, crisi improvvise e ricorrenti, senza motivazione apparente, per le cose più irrilevanti, una parola, un gesto, una richiesta, mi sentivo sotto attacco, come se dovessi sostenere da sola un peso intollerabile, non mi riconoscevo e non ero soddisfatta del mio comportamento, 62


Libera-Mente non ne traevo alcun giovamento, urlavo ma mi sembrava, come dicevo prima che la mia voce rimanesse inascoltata, le mie richieste di aiuto non fossero accolte. Gli altri riuscivano a vivere la loro vita e io dovevo subire il crollo costante delle mie aspettative. Non riuscivo a rigenerarmi, a godere dell’esistenza, a cambiare orizzonte, mi sembrava che niente mi appartenesse. Non sapevo cogliere i successi, per quanto contenuti, che riuscivo a raggiungere: il rendimento nello studio o le soddisfazioni in alcuni periodi lavorativi, nascondevo tutto alle persone che mi volevano bene, alla mia famiglia, che voleva integrarsi con me. Non volevo che sapessero, che vedessero, ancora una volta il contatto mi annullava, temevo di non riuscire a mantenere certi standard e fallire di nuovo così preferivo negare l’evidenza e cancellare la mia immagine, i miei risultati, la mia vita. Sentivo dentro di me qualcosa che non mi convinceva, la rabbia che montava in modo imprevedibile e ingiustificato, pensavo dunque che se mi fossi cancellata avrei ridotto i danni. Sai avevo già cominciato da anni un terapia psicanalitica ma non riuscivo ad andare abbastanza in profondità, sfuggivo a qualsiasi tentativo di aiuto, di analisi, il mio abisso era a due passi e rischiavo di caderci dentro, e se non fossi riuscita a risalire? Perché ero così vicina al baratro da rischiare ad ogni passo? Era come camminare su un campo minato, rischiavo sempre di saltare in aria. L’angoscia mi assaliva fino a diventare panico intollerabile, l’ansia della condanna sociale ed eterna, un inferno emotivo da scontare in questa vita e nell’altra. 63


Libera-Mente Guardavo gli altri e non sapevo come facessero a nutrirsi, ad essere pronti a raggiungere grandi livelli di vita, una vita altra: sono famiglia, compagno e figli, fusione di due mondi per creare nascita di altri pianeti da svincolare per renderli autonomi. Lo scopo fondamentale dell’orbitare, ricerca costante di un equilibrio. Equilibrio che a me era negato. Tutti i tentativi erano negati. Se soltanto pensavo a creare e procreare si scatenavano crisi di panico oltre il tollerabile. I pensieri ossessivi mi martellavano il cervello, la mia mente esplodeva, l’incubo della pazzia, della perdita di coscienza, del panico perenne, del martellamento dei pensieri mi annichiliva. In una parola ancora il mio pianeta si andava frantumando, impoverendo, spegnendo, in un turbine di esplosione ed implosione. Non avevo speranza, non avevo via d’uscita.” “Tutti abbiamo una via d’uscita, qui puoi rendertene conto, prendendoti il tempo per capire, per essere aiutata, guidata e, se ne senti il bisogno, anche protetta.” “Sì, la protezione, ma degli altri da me e non il contrario. La rabbia porta a compiere gesti estremi verso se stessi e verso gli altri, è un continuo rincorrersi di istanze contrapposte: farsi del male per neutralizzarsi, ti ricordi il sogno di cui ti parlavo del mostro che andava neutralizzato e in realtà era una parte di me, e come contraltare la furia che si scaglia contro chi ci tende una mano ma in un meccanismo proiettivo riteniamo il nostro carnefice, quando non riusciamo a contenere la rabbia ci spaventiamo di noi stessi al punto di dover attribuire 64


Libera-Mente all’esterno quello che siamo. Entrare in comunità per me è stato come vivere un filtro fisico e mentale per setacciare finemente tutte le emozione, analizzarle e raccogliere il cuore della positività per eliminare le scorie. Sono arrivata quando ormai ero caduta nel baratro e nella caduta avevo urlato. Questa volta avevo sentito il mio urlo, violentissimo e assordante e avevo capito che ero stata io a non sentirlo e non chi mi circondava. La mia voce emetteva suoni a cui solo io ero sorda, solo io non li sentivo e pensavo che fossero inascoltati dagli altri, ora tutto cambiava, cambiava la prospettiva. Tutto quello che provavo dipendeva da me, non riuscivo ad entrare in relazione perché io mi chiudevo e non perché gli altri avessero chiusure preconcette. Ora ero pronta a farmi aiutare. Prima al solo sentir parlare di depressione, disturbo dell’umore, disturbo bipolare mi sentivo ingabbiata in una diagnosi che avrebbe potuto non darmi scampo. Pensavo che mi volessero rinchiudere in una definizione rigida. “Ma il riconoscimento di un problema è già l’inizio di un nuovo percorso.” “E’ vero, ma la sola idea di una diagnosi mi terrorizzava, ho faticato molto per accettarla.” “E’ stato il punto di partenza che ti ha richiesto maggio coraggio, ed è già un nuovo inizio.” “Già, un nuovo inizio, integrarmi con il mondo, conoscere la mia negatività e controllarla per esprimere la mia creatività.” “Non aver paura di usare il termine depressione bipolare, è una condizione, non uno stato irreversibile. Tu combatti la 65


Libera-Mente depressione ma non sei la depressione.” “Di questo mi sto rendendo conto grazie al vostro aiuto, al costante confronto, al sostegno della terapia che mi permette di ricongiungermi con il mondo, ritrovare le priorità fondamentali: la famiglia, i figli sociali, il futuro. La depressione può schiavizzare perché condiziona la percezione emotiva ma si può mantenere la lucidità necessaria per capire che si ha bisogno di aiuto: i farmaci non tolgono il pensiero, la terapia non altera la coscienza, non si diventa altro da sé, aspetto che temevo più di ogni altra cosa, si diventa coscienti della nuova regolazione emotiva, dei nuovi rapporti con se stessi e di conseguenza con tutti quelli che ci hanno seguito. Ora si capisce l’aiuto, il bisogno di integrare chi aveva cercato sempre di sfuggire, basta una regolazione farmacologica per avviare un pensiero fecondo di revisione e rielaborazione, per spiegare e motivare il passato e impostare un nuovo futuro, per fare pace con il mondo e soprattutto con se stessi.” Usando ancora le metafore che tanto ami come descriveresti ora il tuo pianeta e la sua pelle?” “Ormai il mio orbitare è diventato sufficientemente armonioso e soprattutto nell’universo vitale e la pelle che lo contiene è elastica e vitale. Ora sto bene dentro la mia pelle”.

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Libera-Mente

LA LUCE NEGLI OCCHI La solitudine gli pervadeva la mente come l’umidità che intorpidisce le ossa, come la nebbia che ricopre tutto di un manto brumoso ed evanescente, non riusciva più a comunicare, le parole gli uscivano come una litania stanca e ripetitiva, tutto era vuoto eppure sempre uguale la finzione che lo spingeva a credere di dare un senso alla sua vita, di superare la sensazione dell’inesorabile avvicinamento all’abisso del nulla. Ritmi consueti e rassicuranti ma drammaticamente inutili. Ogni giorno uguale all’altro, divorato dalla speranza di ritrovare l’energia di una volta, la forza di cambiare il mondo, sovvertire le regole del pensiero, scardinare i capisaldi della cultura conclamata e immutabile. Far rifiorire la memoria della giovinezza, della sua forza, del viaggio verso l’ignoto che si svela e viene posseduto, governato e indirizzato verso i propri progetti. Il mondo nella propria mano e non sopra le spalle, non il peso del passato ma la speranza del futuro, stagliato nettamente all’orizzonte. Ora una vita dietro le spalle, un grande orizzonte dietro le spalle, riempito però da cosa? Non c’era più strada da percorrere, ma una sosta costante che lo inchiodava al terreno, cementificava ogni ulteriore speranza, velleità di produrre qualcosa di buono, che potesse testimoniare lo sforzo prolungato e assorbente di tanti anni di lavoro. Non aveva più luce negli occhi, appannato lo sguardo da una sofferenza sorda e nascosta soprattutto a se stesso. Chi non riconosce di avere un problema non può neanche cominciare a risolverlo. Vedeva riflesso nello 67


Libera-Mente specchio l’ingrigimento del suo sguardo, l’incanutimento del pensiero, la vecchiaia delle idee. Quello che temeva più di ogni altra cosa era la morte della sua memoria, non tecnicamente di quello che lui stesso poteva ricordare, ma quello che gli altri avrebbero ricordato di lui. Non riusciva a leggere il tempo, il filo conduttore che legava il tempo della sua vita, il passato lo stava incalzando mentre il futuro sembrava svanire. Tutto si stava capovolgendo: era giovane o vecchio? O entrambe le cose? Il dramma sarebbe stato scoprire che era stato un giovane già vecchio ed ora un vecchio che si ostinava a sentirsi giovane. La sua vita era slegata, portava con sé troppo zavorra esistenziale, troppi conti in sospeso con la vita, la sua. Non c’era più una certezza a cui appigliarsi, presupponendo che in passato ce ne fossero state. Il passato, vissuto con la giovanile frenesia che fa consumare in fretta il tempo come se ne rimanesse poco, come ne rimane poco ad un vecchio che non ha più una lunga aspettativa. All’inizio si consumano le energie come se dovessero sfuggire da un momento all’altro al nostro controllo, alla nostra azione rigeneratrice. Tutto è fulgore, fiammata, esplosione, e se alla fine rimanesse solo cenere spenta? Il vecchio attende la fine con rassegnazione, a volte rabbia, e il giovane non aspetta il tempo ma lo vuole gestire, tenerlo sotto il suo controllo, correre, e il percorso si accorcia sempre di più fino quasi a sparire. La giovinezza è un percorso breve come è breve il tempo che rimane ad un vecchio, dunque si può essere vecchi da giovani e giovani da vecchi, 68


Libera-Mente quando si vorrebbe ancora e ancora altro tempo con lo stesso desiderio che aleggia inesorabilmente irrealizzabile: prolungare gli anni fino a distenderli in un percorso infinito. La sua speranza era quella di poter lasciare una testimonianza, produrre qualcosa di buono, di molto buono e non vivere soltanto della ricchezza intellettuale di molti anni addietro, trovare stimoli nuovi, comunicarli e trascinare con sé nuove generazioni, nuove menti fresche e assetate. Sì, il giovane è assetato, disposto ad assorbire come un spugna secca la linfa della novità provocatrice, della spinta alla riflessione, dell’argomentazione delle proprie idee per difenderle e affermarle in una sfida infinita. Siamo una costellazione di potenziali sfide, di idee che si moltiplicano e si armonizzano e si sfaldano per ricomporsi in un’immagine nuova che si aggancia ad altre costellazioni. La vita è una sfida e a volte arrivano opportunità impreviste, al’improvviso tutto può cambiare ma dobbiamo essere pronti a cogliere il segno della novità, dell’apparente nulla che può trasformarsi in tutto, basta cogliere il momento. Il suo stava per arrivare. Tutto cominciò in una mattina d’inverno, pioveva e le gocce gli penetravano oltre il bavero della giacca con fitte gelide. Tutto si poteva presupporre meno il fatto di poter trovare un calore nuovo. Si aspettava di trovare la sua solita classe, studenti annoiati e stanchi di cui non riusciva a catalizzare l’attenzione, d’altra parte quando non si crede più di avere un futuro si è giovani già vecchi, realmente sfiniti dall’attesa del nulla, non c’è niente di più stancante dell’attesa di un’iniziativa. Ormai 69


Libera-Mente si era rassegnato alla solita routine, in fondo aveva scaricato la responsabilità sulle spalle di chi aveva lavorato prima di lui per educare e istruire quelle menti che non rispondevano più a nessuno stimolo. Quanto di più umiliante e in fondo preoccupante per chi dovrebbe suscitare interesse per la vita, un interesse mentale che non dovrebbe avere mai fine e sostenere la vita come un puntello solido e incrollabile. Non è la certezza ad essere immutabile ma la costante ricerca di un equilibrio messo alla prova, la vita mette alla prova e proprio la mente può dare una risposta alla mente. Cercare obiettivi sempre nuovi e proposte e messaggi provocatori, articolati e complessi che variano in funzione delle capacità di elaborarli, è l’eredità che deve essere trasmessa perché si possa consegnare il testimone di una staffetta che non deve concludersi. Quello che lo tormentava di più era proprio la sua rassegnazione. Chiedeva l’ascolto e riceveva il diniego, chiedeva la partecipazione e riceveva il rifiuto, voleva condivisione e si ritrovava solo. Solo a rappresentare un copione il cui esito finale era già scritto nella sua mente: il vuoto delle idee, la solitudine del pensiero. Eppure quel giorno c’èra qualcosa di nuovo, ancora vago e indefinibile, ma sicuramente diverso. Qualcosa o qualcuno? Tutto era apparentemente uguale ma si percepiva un’aria del tutto nuova. Si apprestò a chiedere silenzio e cominciò a parlare. Ricordava perfettamente, com’è ovvio d’altra parte, l’ordine delle parole per definire i concetti e spiegare, e rispondere e ancora spiegare fino alla sfinimento, ma all’improvviso sentì 70


Libera-Mente una voce nuova. Era quella di una nuova studentessa, aveva scelto il suo corso e dopo un disguido burocratico era finalmente arrivata all’orario giusto nel posto giusto. Teneva molto a seguire le sue lezioni perché aveva un grande interesse per l’argomento. Aveva interesse per le sue lezioni o semplicemente si era trattato di una scelta dettata dalla convenienza? Magari semplicemente l’orario più comodo o la materia ritenuta più facile. Si poteva presupporre di tutto. Tutto lo squallore possibile e immaginabile. Era abituato a pensare al peggio, e temeva di essersi rassegnato al peggio. Ma qualcosa lo aveva colpito. Non era una studentessa come le altre, di età ben più matura, non particolarmente bella ma dall’aspetto gradevole e aveva qualcosa che colpiva alla prima occhiata: un sorriso che trapelava dallo sguardo, rideva con gli occhi, di un sorriso complice, curioso, comunicativo, intelligente ma non spocchioso. Era diversa, tutti la guardavano come una novità, una persona diversa da loro ma non distante, con una storia alle spalle ma non si capiva quanto lunga. Ma in fondo non interessava a nessuno saperlo. Non per indifferenza ma per il semplice motivo che erano tutti incuriositi da quella nuova persona che trasmetteva una ventata di novità che spolverava il grigiore del quotidiano. Tutti si aspettavano che potesse smuovere le acque per renderle più limpide e farle scorrere come un torrente in piena, tumultuoso e affascinante per la potenza e la limpidezza dell’acqua. Come la limpidezza del pensiero che scorre e non si ferma in un attimo di benessere che ci fa sentire in uno stato 71


Libera-Mente di grazia, che può essere però cristallizzato e rompersi come un vaso alla prima pressione. La pressione del passato appunto, quella che il professore temeva. Il passato che si fa presente e riesce ad ipotecare il futuro, ma non per questo necessariamente frantuma ma rafforza. Trovare un filo conduttore scevro da corollari che deviano dal percorso principale è la ragione e il percorso che la vita ci pone davanti, riuscire a capire qual è il nostro di filo conduttore ci permette di non sentire più la vita che sfugge perché non riusciamo a controllare l’attimo, la sequenza degli attimi. Vanno colti i passaggi fondamentali e vanno capiti, è difficile ma è la migliore sfida che possa accogliere chi ha comunque il privilegio di arrivare in là con gli anni. Vivere, convivere, condividere, una progressione di esperienze che riducono il solco che divide due generazioni. Non sempre è incolmabile il baratro di quei decenni che separano i giovani dai meno giovani. Si possono aprire le porte del pensiero e favorire un percorso alternato che porta linfa vitale fondamentale per tutti. Questo era quella nuova studentessa, quella nuova persona, una potenziale porta che poteva schiudersi per favorire il passaggio delle idee. Un’interprete delle esigenze dei giovani figli di una cultura che si trasforma di decennio in decennio, e non necessariamente si rispecchiano in quei padri che hanno forse una memoria troppo nostalgica della loro gioventù. Il tempo può essere difficile da collegare, all’improvviso si comincia a sentire il peso e il rifiuto degli anni, che si fanno decenni e obbligano a un bilancio, ma il 72


Libera-Mente saldo, anche se negativo, non è mai definitivo, c’è solo altro lavoro da fare. La vita è un continuo lavoro. Ma il professore si sentiva in credito con la vita e non riusciva mai a saldare il conto. Non c’era mai una fine né un nuovo inizio, ma una tenace oscillazione tra il passato, il presente e il futuro, come se fossero entità separate e non un percorso continuo. Scisso da una lacerazione che lo smembrava e gli provocava il continuo bisogno di ricomporre i pezzi della sua vita. Non trovava sollievo dal contatto con i giovani, da cui si aspettava sempre nuovi stimoli, come se solo da loro dovesse arrivare la forza che manca quando l’età diminuisce la prontezza. Non pensiamo mai a cosa noi diamo a chi viene dopo di noi ma solo a quello che possiamo ricavare dal contatto con loro. Se si parte dal presupposto di quello che possiamo ottenere prima ancora di valutare quello che possiamo dare, abbiamo già perso in partenza. Per questo il suo sguardo si era ingrigito, non dava e non riceveva abbastanza attenzione mentale. Si sforzava ma il suo lavoro non dava risultati. Eppure quella nuova studentessa, non era una ragazza ma non avrebbe potuto definirla una donna matura, riusciva ad attirare l’attenzione dei ragazzi, a catalizzare la loro curiosità, suscitare un flusso di emozioni che si percepivano ad animo nudo. Era qualcosa che colpiva allo stomaco e spingeva a chiedersi come potesse essere tanto comunicativa. Sì, la comunicazione, di quella che supera le barriere dell’età, della cultura, della differenza sociale, quella che azzera i dubbi e le incertezze, le diffidenze e gli schemi. Un contatto che viene 73


Libera-Mente dalla pancia e non dal ragionamento, dalle viscere e non dagli atteggiamenti ritenuti più consoni all’occasione. La sua era una vita vera, sicuramente complessa come tutte le vite, ma a suo modo trascinante, coinvolgente, quasi attraente. Un mondo diverso dal suo, un mondo in cui la mente ha il sopravvento su tutto nella pretesa, che poi si fa speranza, di governare anche le emozioni. E’ difficile, a volte sembra impossibile, coniugare ragione e sentimento, senza scendere a compromessi avvilenti e inaridenti. Eppure in quella donna sembrava ci fosse la capacità di far convivere, seppure in modo molto personale, i due estremi, riusciva ad interessarsi ad ogni argomento, interloquire, discutere, mettere sotto analisi ogni concetto, ma allo stesso tempo trascinare i ragazzi in un dibattito ampio e suscitare la loro voglia di capire. La vedeva fuori dall’aula sempre circondata dai giovani che la cercavano, e si capiva che si sentivano a loro agio. Da cosa dipendeva tutto questo? Forse dalla sua luce negli occhi. Quella luce che lo aveva colpito subito. Una luce nuova, rara, in effetti non si poteva definire bella ma sicuramente il suo sguardo rimaneva impresso. Emanava un’energia emotiva che si poteva percepire al tatto, un tatto fatto di immagini e suggestioni, di memoria e sensazioni. Faceva riaffiorare ricordi di un passato apparentemente lontano ma ancora capace di far sentire la sua presenza attualizzando memorie e aspettative, si diradava la nebbia del tempo, come se potesse vivere una nuova energia, nuova ma con radici lontane, rivivere quello che sembrava già spento. Una luce nuova, un 74


Libera-Mente avvenire che non era più soltanto dietro le spalle. Gli anni vissuti rendono più lenta la memoria e pesanti i passi, ma più lungimirante lo sguardo e selettivo il pensiero, ogni età ha dei pregi e delle mancanze, la difficoltà sta nel trovare il giusto equilibrio. E qui subentra la sfida dell’esistere. L’ io si scinde in mille parti se tentiamo di far coesistere troppo tempo e tante vite che abbiamo già vissuto, lo sforzo della coesione frantuma la speranza di rimanere solo giovani ad ogni costo. Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte e capire che dobbiamo lasciar andare una parte di noi, bella e dolorosa insieme, il lutto dell’esistenza che non ci appartiene più va elaborato per capire qual è il filtrato degli anni, il fulcro su cui poggiare l’essenza di quello che ci è appartenuto e scivolato dalle mani contro la nostra volontà. Vorremmo afferrare tutto con la frenesia di un bambino che non lascia nulla indietro e pensa che il mondo gli potrà appartenere. E’ doloroso lasciar andare il peso di troppi ricordi per proiettarsi verso l’ultimo orizzonte, ma è una fatica necessaria. Deve essere forte la consapevolezza di aver avuto molto, aver avuto il tempo di vivere e sperimentare, con gioia, dolore e frustrazione, perdite e conquiste, forse sempre più soli perché si perdono i propri compagni di viaggio che interrompono il cammino perché travolti dal destino o dal peso di una vita che gli appare intollerabile. Proseguire è anche portare con sé la memoria come testimoni di chi ci ha lasciato anzitempo. L’elaborazione del lutto è un percorso complesso che abbiamo il dovere di imparare. E’ questo che va spiegato a chi ci segue e a sua 75


Libera-Mente volta dovrà sperimentarlo. La vita comporta dei doveri che dobbiamo osservare. Quella donna, quella nuova studentessa, dallo sguardo curioso e in fondo intrigante, era evidentemente alla ricerca di qualcosa di simile e sembrava che lo stesse trovando. Lei riusciva a comunicare con i giovani e loro la stavano ad ascoltare. Di colpo cominciò a desiderare di afferrare la sua luce, fermarla in un attimo che valesse una vita, un lampo illuminante per rischiarare il grigiore che lo attanagliava, ma non si può fermare la vita in un attimo, va conquistata giorno per giorno, con un lavoro di ricerca, paziente tessitura di una trama che può cambiare disegno all’improvviso e svelarci nuovi orizzonti. Mai fermarsi all’apparenza, all’impressione che ci condiziona in un giudizio affrettato e inconcludente. Andare oltre può suscitare paura, perplessità, dubbio, vuol dire uscire dagli schemi, dai propri presupposti che ci fanno sentire rassicurati, dalle abitudini che rappresentano la certezza di un punto di riferimento. Ci vogliono valori saldi, ma il modo di rappresentarli varia e va riconosciuto, apprezzato e se possibile condiviso. Bisogna guardare gli occhi di un bambino, di un matto o di un genio, di chi non ha paura di sperimentare la sofferenza per andare oltre il proprio limite, o forse è spinto a farlo da una forza inspiegabile che porta con sé emozioni forti, che affascinano ma spaventano. Forse è un doloroso privilegio non poter fermare la propria mente per ottenere sollievo dal riposo del pensiero, alleviare lo sforzo con la ripetitività del quotidiano, vivere di certezze che 76


Libera-Mente possono alla fine stritolare ma prima del crollo sembrano possenti colonne a sostegno della nostra impalcatura. La vita è dubbio e sfida, dolore ed esaltazione, filtrato di ricchezza e dono agli altri, è luce, la luce negli occhi del mondo.

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Libera-Mente

IL RUMORE DEL SILENZIO “Sei un inetto, uno stupido, un fallito, un ameba, un rifiuto dell’umanità, quanto di più avvilente si possa immaginare, non sei una persona né tanto meno un uomo, smidollato e inconcludente come pochi possono essere o forse solo tu riesci ad essere. Se rappresenti qualcosa è proprio l’immagine del vuoto di ogni identità, il paradosso dell’identità del nulla, come se si potesse rappresentare il nulla. Eppure tu sei la dimostrazione vivente del vuoto assoluto, un corpo inutile che non accoglie la minima scintilla di vita. Non so cosa possa essermi passato nella mente il giorno in cui ho poggiato il mio sguardo su di te, eppure tutti a dirmi che stavo facendo uno sbaglio. Ed io ad insistere, che si sbagliavano, che la tua mollezza era in realtà delicatezza d’animo, la tua inanità era paziente attesa del momento più propizio per agire, un uomo gentile e disponibile. Come mi sbagliavo, me ne sono accorta presto ma era comunque troppo tardi.” “Ti prego, lasciami spiegare, dammi almeno il tempo di replicare alle tue accuse immotivate, non sono come tu mi vedi, lo sai, sono un pavido, ma la violenza mi spaventa e poi non è mai servita a risolvere un problema, io abbozzo ma non subisco, semplicemente non mi faccio coinvolgere.” “Non prendi iniziative, chiariamo, e la cosa è ben diversa, non hai il coraggio di affermare le tue ragioni e non solo, non sai neanche valutare cosa significhi avere ragione e difenderla.” “Sai che sono cresciuto con una madre sola e senza fratelli, mio padre ci lasciò presto portato via da una malattia crudele 78


Libera-Mente e beffardamente improvvisa, non ci ha lasciato neanche il tempo di dirgli addio, di accompagnarlo verso l’ultimo viaggio, la sua fine è stata un distacco lacerante, di quelli che ti bloccano il respiro e ti sbarrano gli occhi di fronte all’ineluttabile che si fa reale e vivo ma di una vita intrisa di morte. Sì, si può morire vivendo giorno per giorno e allora, è vero, diventi un vigliacco, hai paura della violenza, agire diventa una corsa per allontanarsi dalla morte che ti ritrovi di fronte quando il respiro si fa affannoso e rallenti, la morte ti segue senza sosta e non è mai stanca. Mia madre entrò in una spirale di vuoto negli occhi, orbite che non versavano più lacrime, asciutte, seccate dallo strazio dell’abbandono non voluto e non preparato. Rimaneva fissa, immobile, davanti alla finestra sulla stessa poltrona dove ora sei seduta tu, la vecchia sedia con le rotelle con cui giocavo da bambino. L’unico ricordo della mia vita d’infanzia che mi hai permesso di portare con me, l’unica concessione che hai fatto alla mia memoria, al mio passato.” “Il tuo passato è ormai perso nella memoria del tempo, tutti proviamo dei dolori ma ci risolleviamo, solo tu sei rimasto ancorato ad uno strazio, come dici tu, lacerante.” “E’ vero che tutti proviamo dolore ma la reazione non è uguale per tutti, dipende dal tempo, dal momento, dalle opportunità, io ho vissuto il lutto dell’infanzia, della giovinezza, quello che tu vedevi come gentilezza d’animo era la paura di mostrarmi perché qualcuno avrebbe potuto leggere quello che io stesso volevo negare. Leggera la mia sofferenza e dirmi che dovevo 79


Libera-Mente reagire. Non lo avrei sopportato.” “Tu non sopporti nulla in realtà, non vedi la vita che ormai ti è scorsa accanto e non ha raccolto da te che rami secchi e fogliame putrido come l’acqua stagnante che divora e non nutre.” “Ti prego ancora, per una volta, una volta soltanto, ascolta le mie ragioni e dimmi, non certo che provi dell’affetto per me, non oso arrivare a tanto, ma che almeno consideri i miei pensieri degni di attenzione.” La speranza risaliva ogni volta alla gola ma si fermava come un groppo, conosceva già la risposta e si rassegnava, ma di una rassegnazione furente, rabbiosa, allora il pensiero della violenza lo assaliva e gli faceva paura. Aveva paura della violenza e soprattutto della sua violenza. Voleva urlare che gli era stata strappata la speranza di un futuro, di un presente che si era fatto troppo oneroso da sopportare, di un fallimento della sua vita che non meritava. Cosa aveva mai fatto di male per arrivare a tanto? Era cresciuto in fretta, uomo di casa e figlio, padre, marito di una madre il cui solo anelito vitale era rappresentato dal desiderio della morte. E ricordava ancora quel primo incontro con lei. Un’autentica folgorazione: era vivace e briosa, era circondata da amici e persone che l’ammiravano e nonostante questo gli aveva prestato attenzione. Aveva chiacchierato a lungo, parlava solo lei e solo di lei ma lo guardava negli occhi e questo gli bastava. Se ne stava sempre in disparte ed era abituato alla sua invisibilità. Nessuno lo 80


Libera-Mente notava, nessuno gli parlava, e lui si limitava a guardare la vita degli altri, come se vivesse per interposta persona. Una vita a metà, o una non vita, gli mancava il coraggio di affrontare la sfida, il confronto, il raccontarsi con il suo carico di dramma. Era un fantasma sociale, etereo e inafferrabile come un’ombra dipinta sul muro. Lavorava da quando era ancora un ragazzo per mantenere la madre e frequentava la scuola. Un lavoro monotono e ripetitivo come era monotona e prevedibile la scuola, non provava nessuno stimolo né con i colleghi né con i compagni. In fabbrica si limitava a contare i pezzi che doveva mettere sotto la pressa, una metafora della sua vita sotto la pressa del peso del quotidiano, e a scuola non aveva niente da condividere. I giochi, gli amori, le esperienze degli altri giovani come lui non gli appartenevano. Era giovane ma già vecchio. E lei all’improvviso, un giorno per caso, non ricordava neppure come si fosse ritrovato con lei, una flebile speranza lo aveva rianimato. Forse d’un colpo poteva riafferrare la sua vita. “Ti ricordi quando ci siamo incontrati per la prima volta?” “No! E non voglio pensarci.” “Io ho ricostruito nella memoria il momento, e le emozioni di quel momento, qualcosa che mi aveva preso allo stomaco e mi toglieva il respiro.” “Probabilmente non avevi niente da dire, come di consueto.” “Non riuscivo a dire niente perché l’emozione mi paralizzava ma avrei voluto gridare al mondo che era arrivato il momento 81


Libera-Mente che avevo tanto atteso.” “Che cosa intendi, stai farneticando!” No, sto ricordando tutto, c’era qualcosa di bello, di solare, di vitale e coinvolgente, era stata l’unica ad accorgersi di me e ne avevi di corteggiatori.” “Appunto, non so proprio come abbia fatto a scegliere te.” “Forse era partito tutto come un gioco, forse era una scommessa con i tuoi amici, coinvolgermi mio malgrado per poi ridere del mio imbarazzo.” “Non ricordo, te l’ho detto, ma è probabile che sia successa una cosa del genere, eri oggetto di scherno da parte di tutti e in fondo non meritavi altro.” “Anche se diventare oggetto di scherno è triste, per me era comunque importante diventare oggetto di attenzione, per quanto malevola, voleva dire che per qualcuno esistevo. E questo contava per me più di ogni altra cosa.” “Se la pensi così è l’ennesima conferma della tua nullità.” “Anche la nullità ha diritto di esistere, un diritto minimo ma reale, non possono essere gratificati solo quelli baciati dagli dei, anche la mia miseria va riconosciuta e, seppure non certo ammirata, almeno lasciata nel suo piccolo alveo a scorrere tranquilla.” “Sei come l’acqua putrida, tu mi hai rovinato la vita trascinandomi nel tuo mondo buio e silenzioso, senza speranza.” “Il mio mondo, come dici tu, è silenzioso perché non mi concedi mai un diritto di replica, mi parli addosso come una 82


Libera-Mente furia, il tuo disprezzo serpeggia malevolo fino a stritolarmi, a lasciarmi senza forza e volontà.” “Sei tu a suscitare le mie osservazioni, le mie critiche, non ho più speranza che tu possa cambiare, ormai lo sbaglio l’ho commesso e devo pagarne il prezzo, la vera vittima sono io.” “Come fai ad essere vittima della mia nullità? Come può la mia debolezza aver sgretolato le tue certezze, la tua identità, le tue scelte?” “Tu non capisci mai quello che intendo dire, hai minato dalle fondamenta la mia identità di donna; ero bella, ammirata, tutti dicevano che ero intelligente e mi aspettava un radioso futuro. E guardami adesso, vecchia, rugosa e spenta.” “Non posso guardarti se mi giri sempre le spalle, inchiodata su quella poltrona come se volessi accaparrarti anche l’unico ricordo della mia vita.” “Guardami comunque, non hai fatto niente per me, per gratificarmi come donna, come moglie, senza figli e speranza. Forse il Signore Iddio ha voluto punire il mio ardimento nel voler renderti un uomo autentico, invece di lasciarti come Lui ti aveva destinato ad essere. Non guardarmi negli occhi ma guarda le mie spalle ricurve sotto il peso della disapprovazione sociale, degli amici che mi hanno abbandonata per non mescolare la loro vita alla mia morte sociale. La solitudine dell’imbarazzo di fronte a chi non si capacita che abbia potuto tanto superficialmente buttare il mio radioso futuro alle ortiche. Mettere radici nel tuo deserto. Fingevi di poter portare acqua e far nascere un giardino, era 83


Libera-Mente una sfida intrigante, ma presto ho capito che il sole non ardeva ma batteva implacabile, non c’erano risorse per sopravvivere, solo un lento, penoso, inesorabile essiccamento.” “Allora perché hai continuato a starmi accanto senza fiducia, speranza, delusa e inaridita?” “Questo è il mio cruccio peggiore, non riesco a darmi una risposta.” “Forse posso dartela io, ti sei nutrita del disprezzo, della disapprovazione, dell’odio che può creare un legame anche più potente dell’amore perché non si deve dare il proprio impegno, ma solo sfogare la propria acredine attribuendo tutto all’esterno invece di prendere in considerazione i nostri fallimenti, i nostri errori e le nostre intollerabili perdite.” “Stai ancora farneticando!” “Questa volta no, sto finalmente capendo cosa è successo in tutti questi anni, tu hai odiato me e io sono stato la tua vittima, mi sono prestato a questo ruolo perché mi permetteva di avere comunque un’identità, e sapessi quanto è importante poter sapere chi si è, al di là dell’immagine che gli altri possono farsi di noi.” “Dimentichi che io ti ho dato la possibilità di risollevarti, ti ho concesso di sposarmi e prendermi ad esempio, di aprire la tua mente al risveglio della combattività contro il destino.” “Ho seguito il tuo esempio ma non sono diventato il tuo contraltare, la tua effige costruita con presunto afflato vitale, non ti ho lasciato la possibilità di costruirmi.” “Ora sono stanca di ascoltarti, lasciami riposare.” 84


Libera-Mente La voce si era fatta sempre più flebile e quello era il segno che aveva sfogato la sua dose quotidiana di rancore. A quel punto si sentiva crescere la rabbia, montava sorda, senza un gemito, ma gli martellava le tempie, non sapeva come gestirla, non aveva mai espresso i suoi sentimenti, i suoi intimi pensieri al mondo che lo circondava. Era sicuro che tutti l’avrebbero deriso, come si permetteva quella nullità di alzare la voce, cosa avrebbe mai avuto da dire? Alla rabbia mal sfogata si sarebbe unito il disprezzo e a quel punto la sua collera…è vero, non aveva mai riflettuto abbastanza su quello che avrebbe potuto fare se avesse dato libero sfogo alla sua rabbia. Per questo aveva paura della violenza, della sua violenza. Poteva esplodere improvvisa e incontrollabile, e quali conseguenze avrebbe avuto? Peggiorare ulteriormente la sua vita o liberarlo dal giogo che lo costringeva al controllo ossessivo delle emozioni? Si sentiva stanco, non solo di una stanchezza che gli intorpidiva le ossa, ma di quella che gli offuscava la mente. Non aveva luce negli occhi e non vedeva che la sua vita affannosa e inutile, vissuta chissà come per tanti anni in un peso intollerabile che si stupiva di aver sopportato tanto a lungo. Voleva cambiare tutto, ma in fondo si accontentava anche di un inizio, un nuovo inizio, un passo lento ma inesorabile che gli avrebbe permesso di affermarsi. E fosse successo quel che doveva succedere. Quando lei gli aveva vomitato addosso tutto il suo odio e si rinchiudeva in un silenzio sordo e ostinato, lui si ritirava in un angolo della casa, in disparte, quasi a voler nascondere la 85


Libera-Mente sua presenza, non rubare l’aria che non meritava, sperando di accelerare il tempo della sua fine. Eppure aveva la sensazione che quell’ultima conversazione si fosse chiusa in un modo diverso. Come se qualcosa di imprevisto avesse posto fine allo strazio quotidiano, gli avesse permesso di farsi presente e autorevole, gli avesse concesso uno spazio per esprimere autonomamente le sue ragioni. Qualcosa di indefinito, che non aveva mai conosciuto prima e non avrebbe saputo descrivere. Ma gli dava forza. Per la prima volta nella sua vita sentiva questa nuova emozione. Era finalmente padrone della sua vita e avrebbe parlato, l’avrebbe guardata in faccia e l’avrebbe costretta ad affrontarlo. A viso aperto, diretto, occhi negli occhi, senza fughe e condanna. Lui sarebbe diventato padrone del dialogo e l’avrebbe condotto a modo suo. Avrebbe raccontato delle vessazioni che subiva al lavoro solo perché era una persona onesta, coscienziosa, affidabile, mentre gli altri erano solo profittatori incalliti. In fondo era fiero, sì fiero, della sua rettitudine, che non era soggiacenza ma correttezza. Non era lui a sbagliare ma il mondo ad essere ingiusto, perverso fino a distruggere troppe vite. E aveva diritto di replica contro la vita per esigere finalmente il credito che gli spettava. Doveva recuperare tante gioie e soddisfazioni, e da ora in poi l’avrebbe fatto. Avrebbe risposto alle provocazioni sostenendo con forza le sue ragioni, senza timore dell’esplosione della sua violenza. Avrebbe avuto la forza delle argomentazioni a suo favore, e non più la rabbia cieca e incontrollabile. Non aveva più paura 86


Libera-Mente di niente e nessuno. In fondo non sapeva come fosse arrivato a tanto ma era successo, e questo gli bastava, giustificava la speranza di una nuova vita, la sua vita. Non doveva più strappare brandelli di fiducia, resti di soddisfazione degli altri, avrebbe avuto le sue. Ora poteva finalmente affermarsi e guardarla negli occhi. Raccolse il coraggio che ancora gli serviva e si avvicinò a lei. Tese la mano verso la poltrona e la girò lentamente. All’improvviso si accorse del piccolo forellino annerito che aveva fatto uscire un fiotto di sangue che si stava raggrumando sul vestito. Le sfiorò la mano che era quasi fredda. All’improvviso capì: quel rumore che aveva spezzato la conversazione era il suo suono, la sua forte, tenace, disperata, estrema difesa. Ora aveva lui in pugno il gioco della sfida, ora poteva liberamente prendere la parola e spiegare le sue ragioni, far capire chi era veramente. Dopo anni e anni non esisteva più dialogo, o forse non era mai esistito, c’erano solo suoni così scontati e prevedibili che la sofferenza era sempre uguale, monotono disprezzo e colpi feroci alla dignità, alla sua essenza. Un suono che penetrava nel cervello fino a smembrarlo, nella mente fino a dissolverla, la sua voce non esisteva, le sue ragioni non avevano diritto di replica. Ora ascoltava la sua voce decisa, anche se nelle orecchie ritornava la voce di lei, sempre più lontana comunque e flebile, ormai era fredda, come lo era stata sempre d’altronde, ma ora di un’altra freddezza, immobile e impietrita, gli occhi fissi in uno sguardo incredulo, senza un accenno di difesa o auto protezione, solo lo sgomento di fronte all’inaspettato. Ora era 87


Libera-Mente padrone, non del mondo ma dei suoni sì, e questo in fondo, pensava, gli bastava. Non sentiva più le orecchie martellanti e il cuore che batteva forte per la rabbia che doveva contenere, perché, sapeva, non era come veniva dipinto. A mano a mano sarebbe arrivato un silenzio quieto e rassicurante, la pace che aveva sempre disperatamente cercato. Arrivò il silenzio atteso, sperato, invocato, profondo e assorbente. All’improvviso si sentì forte, capace di affrontare la vita e non scendere più a miseri patti con lei che lo aveva vessato da sempre, avrebbe potuto dichiarare la sua sofferenza gridando forte quanto coraggio gli era stato richiesto per sostenere tante prove, avrebbe ascoltato la sua voce finalmente potente e autoritaria, si sarebbe affermato, provava un’ebrezza incontenibile, eppure qualcosa lo turbava. Una strana sensazione mista a stupore, forse non era ancora pronto per questo nuovo inizio, eppure non aspettava altro. Il silenzio cominciava a disorientarlo, a fargli tremare le ginocchia e i polsi, ottundente fino a penetrare negli anfratti più inesplorati della coscienza, pervasivo fino ad intossicare ogni cellula di un vuoto intollerabile. Finiva per stritolarlo ora che non c’era più la certezza del disprezzo, della disapprovazione, del cattivo costante umore sempre pronto alla critica immotivata. Quel silenzio doveva diventare il suo peggiore incubo, se ne rendeva conto soltanto ora, sentiva il vuoto del respiro, della voce che non rispondeva più ai comandi visto che non c’era più nessuno a cui tentare di replicare. Il silenzio lo stava facendo impazzire, la sua mente stava implodendo 88


Libera-Mente schiacciata dal peso intollerabile di quel silenzio assordante. Il silenzio assoluto, il vuoto della mente che non aveva piĂš chi la sosteneva, la puntellava con parole di disprezzo ma che erano pur sempre rumore noto e condiviso. Quel rumore nuovo era intollerabile: era il rumore del silenzio. Portò la pistola alla tempia: aveva bisogno di procurarsi un nuovo suono. Lo sparo della pistola fu l’ultimo suono che sentĂŹ, ma almeno aveva sopraffatto il rumore assordante del silenzio.

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Libera-Mente

Incomunicabilità “Ascoltami.” “Perché dovrei?” “Perché sono tuo padre.” “Quando mai sei stato mio padre, quando mi hai guardato negli occhi per dirmelo, quando avevo bisogno della tua presenza, della tua guida, del tuo sostegno. Te ne sei andato presto, hai abbandonato me e mia madre tanto tempo fa e adesso pretendi di rivendicare un ruolo.” “Ci sono tante cose che non sai!” “Tu non sai tante cose. Tante cose di me che non ho mai avuto il coraggio, o meglio la possibilità di spiegarti. La paura di alzarmi la mattina e pensare che te ne eri andato par colpa mia, perché non ero come mi volevi, il bambino perfetto, il figlio perfetto. La paura che tutti scoprissero che non eri morto come raccontavo ma mi avevi abbandonato, perché ti eri stancato, della famiglia, della mamma, delle responsabilità, avevi costruito e distrutto come un bambino che si diverte a rompere i giocattoli per vedere come sono fatti dentro.” “Le cose non stanno come credi. Ci sono ragioni complesse, che non potevo spiegarti perché non le capivo bene neanch’io.” “Adesso non credo più a una parola di quello che potresti dirmi. Mi ha già spiegato tutto mia madre, lei ha affrontato tutto da sola, si è occupata di me con mille sacrifici e non mi ha fatto mancare mai niente. Mi ha dato, intendo, affetto e protezione, è stata presente quando ne avevo bisogno, quando avevo paura la notte e mi svegliavo in preda agli incubi, 90


Libera-Mente l’incubo di essere divorato da una forza che mi spingeva dentro una fornace per uccidermi della morte più dolorosa. E in fondo al tunnel c’eri tu che non muovevi un dito per aiutarmi. Come credi che mi sentissi quando urlavo dal terrore e mi svegliavo intriso di un sudore freddo e appiccicoso. E urlavo il nome di mia madre perché mi salvasse e mi desse un calore rassicurante. Lei sì che sapeva proteggermi.” “Lei ti ha protetto troppo.” “Come ti permetti di dirlo?” “Tua madre ha voluto difenderti da me, ma io non ti avrei mai fatto del male.” “Lo dici ora a tua discolpa ma è una difesa inutile e tardiva, la mamma mi ha raccontato tutto.” “Non hai mai sentito la mia versione.” “Non mi interessa conoscerla, so già tutto, mi ricordo delle vostre liti, quando accusavi la mamma di assorbirmi nel suo amore e non occuparsi più di te, eri già intriso di un egoismo incoercibile e tenace, incapace di dare affetto e considerazione, narcisista fino allo spasimo ed egoista.” “Ti ripeto che le cose non stanno così.” “Allora spiegati, ma non abusare della mia pazienza perché, ti avverto, non sono disponibile a credere ad una sola parola di quello che vorrai dirmi.” “Io e tua madre una volta ci siamo amati e ti abbiamo desiderato, la sola idea di diventare padre mi riempiva di paura e orgoglio, volevo essere un buon padre ma temevo di 91


Libera-Mente non farcela, comunque volevo affrontare la sfida e confidare ad una nuova creatura la paura e la mia esperienza per guidarlo nel mondo e godere delle sue conquiste. Vivere e condividere, era tutto ancora misteriosa ma affascinante, sentivo una spinta fortissima ad amarti e proteggerti prima ancora di conoscerti. Avrei apprezzato i tuoi successi e condiviso le tue sconfitte senza lasciarti mai solo. Sapevo che avresti sempre potuto contare su di me, sul mio amore e il mio impegno.” “Belle parole, peccato che siano tardive e non corrispondano minimamente alla realtà.” “La realtà, hai ragione, il muro di gomma insormontabile che ti respinge indietro anche se tenti di abbatterlo, una realtà fatta di dubbi e incertezze, entusiasmo che si liquefa come neve al sole quando ti senti dire che come padre non vali niente e fai solo del male.” “Cosa intendi dire? Te ne sei andato di tua iniziativa, nessuno ti ha costretto e adesso vuoi dare la colpa al destino?” “Il destino, come dici tu, non c’entra in modo fumoso, ma ha un nome e un cognome, anzi nomi e persone che non hanno fatto nulla per aiutarmi, anzi se possibile, mi hanno gettato nel più intollerabile sconforto.” “Ti riferisci a mia madre, alla sua famiglia, a chi? Spiegati, finché avrò voglia di ascoltarti.” “Non ti ruberò molto tempo, sta tranquillo, non voglio accusare ma difendermi, la cosa è diversa. Ti dicevo delle mie paure, ma quando sei nato e per la prima volta ti ho preso tra le mie braccia mi sono ripromesso che per te sarei 92


Libera-Mente stato capace di spostare le montagne se ti fosse servito, avrei fatto qualsiasi cosa per sostenerti, proteggerti e farti entrare nel mondo forte e sicuro, mi sentivo in grado di farlo. Ero padre, ero tuo padre. Padre di una creaturina minuscola e grinzosa che piagnucolava per mangiare ma già dimostrava l’ostinazione di vivere e affermarsi. Sembravi ancora più piccolo tra le mie braccia maschili e forse poco accoglienti eppure ti rilassasti in uno sbadiglio compiaciuto e ti addormentasti. Quello fu il primo momento in cui fummo separati, volevo che quell’istante durasse all’infinito ma tua madre mi disse che dovevi mangiare e dormire e la lasciai fare perché era madre, e in fondo le madri sanno sempre cosa è bene per i propri figli. Nei giorni seguenti mi dividevo tra te e tua madre, eravate le uniche persone al mondo importanti per me, la mia priorità assoluta, la ragione unica della mia vita che finalmente acquistava un senso. Ti vedevo nella culla ancora in clinica insieme agli altri bambini ma per me eri il più bello e il più forte, ti riconoscevo in un attimo e avrei voluto prenderti e parlarti ma non era mai il momento adatto. Tua madre era stanca, doveva riprendersi da un parto faticoso e le facevo compagnia mentre dormiva. Osservavo il suo viso e pensavo che non mi era mai parso così bello, l’espressività di una donna appena diventata madre si fa più intensa di uno sguardo pensoso e devoto al figlio, diventano belle come madonne quando il viso si rilassa dallo strazio del travaglio e dall’emozione del momento in cui sentono che una vita esce da loro. Esce ma non si stacca, questo è il privilegio di essere 93


Libera-Mente madre.” “Ne parli come se sottintendessi qualcosa di negativo.” “Non voglio parlare di negatività ma penso che generare una vita voglia dire non staccarsene mai.” “Tu ti sei staccato, in fondo sei stato tu a scegliere di andartene, non negarlo.” “Non sto negando ma spiegando, concedimi ancora altro tempo, te ne prego.” “Non sono una donna, quindi madre, ma posso dire cos’è per un padre stabilire un legame forte come quello di una madre. O almeno cercare di farlo. Credimi, un figlio ti provoca emozioni così forti che ti travolgono, ottundono la ragione ed esaltano il sentimento.” “Ora basta, stai parlando come un vecchio che rivanga memorie di un passato mai vissuto.” “No, ti prego, lasciami continuare, proprio ora che i ricordi si fanno più limpidi posso spiegarti meglio. Ti dicevo che un padre può guardare negli occhi della donna che ha dato alla luce suo figlio ed esprimerle la più profonda gratitudine, ma nello stesso tempo comincia ad insinuarsi una sottile frattura che parte dalla natura stessa: si diventa genitori insieme ma solo una donna sente la vita crescerle dentro. E questa è una distanza incolmabile tra un padre e una madre. Ci vogliono una forte intesa e molta pazienza per ricomporre quell’unione che aveva portato alla scelta, per noi desiderata per altri forse improvvisa, di avere un figlio, quando alla fine il figlio viene alla luce è la madre che già lo conosce, per un padre è 94


Libera-Mente come un marziano caduto sulla terra, o meglio è un padre a sentirsi un estraneo rispetto a quella creatura che adora ma a cui non sa come avvicinarsi. Una madre ama e sa come proteggere, un padre ama ma ancora non sa come proteggere. Un bambino è così delicato che quasi viene paura di poterlo rompere toccandolo con mani grosse e pesanti, una donna sa sempre essere delicata e la si lascia fare, e le altre donne che le stanno accanto, anche loro, anche chi non è mai stata madre, sanno come muoversi, in un equilibrio che a un osservatore inesperto può sembrare caotico e improvvisato ed è invece armonico e funzionale. Le donne hanno lo straordinario privilegio di sapere come si diventa madre, si preparano per nove mesi. Per un padre l’attesa è emozionante ma non riesce a capire fino in fondo cosa si prova, e comincia a serpeggiare fin da qui l’estraniamento. E’ una lama sottile che si insinua nella coppia e penetra nella carne fino a provocare una frattura insanabile. Quando un figlio nasce è soprattutto della madre.” Ti stai giustificando con questi ragionamenti cervellotici, per me conta solo che te ne sei andato.” “Ho pagato ad altissimo prezzo la mia scelta, divorato da un dolore lancinante, ma se mi fossi imposto avrei provocato altro dolore alle persone che amavo di più. Tua madre cominciò a vedere in me un ostacolo ai suoi progetti: i suoi criteri per educarti, gli obiettivi che si era prefissata per te, gli scopi che avresti avuto come orizzonte da raggiungere per una realizzazione completa, e io a dirle che bisognava vivere un giorno per volta, conoscere la tua evoluzione, lasciarti 95


Libera-Mente vivere la tua vita. Sai, si pensa sempre che sia un padre a voler gestire la vita di un figlio ma non è così per tutti, almeno non lo è stato per me. Volevo vivere ogni istante della tua crescita, della tua vita, discutere con te di cosa fosse più opportuno fare per realizzare progetti senza agire in disprezzo dei principi etici che ti avrei trasmesso come solido basamento per ogni scelta futura. Volevo condividere con tua madre i dubbi, le incertezze e l’entusiasmo del tuo primo giorno di scuola, del primo brutto voto o di una bambina che ti piaceva tanto. Cominciare così e proseguire ancora e ancora. Ma presto tua madre ha cominciato ad estraniarmi. Non dovevo avvicinarmi a te perché non era mai il momento giusto, dovevi mangiare, dormire, giocare sempre lontano da me. Non so perché avesse tanta paura di me. Ma io cominciavo ad avere paura di lei, lei ti stava possedendo e io non sapevo come affermare i miei diritti di padre. Diritti e doveri, non fraintendermi, ma non solo il dovere del mantenimento finanziario, sto parlando del dovere e anche piacere di parlare con te, giocare con te, scoprire le emozioni con te. Ero escluso, da una condanna senza replica o appello, ero semplicemente sbagliato, ma se provavo a chiedere una spiegazione, una motivazione, tua madre cominciava a urlare che fingevo di non capire, la stavo opprimendo con le mie richieste di attenzione e cure. Ma io non chiedevo attenzione per me, non ero un narciso egoista come dici tu, io volevo che venissero presi in considerazione i miei sentimenti verso di te per condividerli e parlarne. Volevo ragionare e non pretendere, non ero fuggito di fronte ai dubbi 96


Libera-Mente e alle incertezze è che semplicemente non ne ero immune. Per tua madre invece sembrava che tutto fosse limpido: lei non aveva incertezze ed ero solo io a procurargliele con la mia insistente caparbietà a voler valutare ogni gesto e ogni iniziativa ponendo il dubbio se potesse andar bene o male. Di sicuro sbagliavo ma era a fin di bene. Lo ammetto, non avevo certezze, ma temevo che le presunte certezze di tua madre servissero a nascondere una paura forse anche più grande della mia.” “Ammetti di aver avuto paura, quindi è stato questo a farti andare via, a scappare come un vigliacco.” “Sì, effettivamente sono scappato, come un vigliacco forse, ma per tentare di salvarti. La tensione con tua madre era intollerabile e tu ne risentivi. Ricordo come rimanevi impietrito a guardarci mentre ci scambiavamo accuse infamanti, ti nascondevi in un angolo della stanza per non farti vedere ma io sapevo che eri lì e cercavo di mantenere la calma. Una calma che tua madre scambiava per indifferenza e mi accusava di trascurarvi, ma se alzavo la voce per difendermi mi accusava di diventare violento. La realtà è che non trovavo le parole per rassicurarla. Non sapevo neanche di cosa dovessi rassicurarla, le ero accanto disposto ad acconsentire a qualsiasi sua richiesta, ma quello che mi chiedeva era troppo: starti lontano.” “Se voleva questo avrà avuto le sue buone ragioni.” “Mi sono chiesto quali fossero in tutto il tempo in cui ti sono stato lontano. Solo i ricordi dei bei momenti passati insieme 97


Libera-Mente mi confortavano quando il dolore della tua lontananza si faceva intollerabile. Ti ricordi quando passavamo intere giornate fuori, tra uomini come dicevi tu, e sperimentavamo insieme la scoperta di un paesaggio, la suggestione di un tramonto, l’avventura di una gita in barca? Eppure al ritorno tua madre mi rimproverava di averti trascurato, ti avevo fatto prendere freddo o non ti avevo fatto mangiare abbastanza, o meglio ti nutrivo con cose sbagliate. Tutto era sbagliato, io ero sbagliato, e la gioia dell’esperienza sfumava nei rimproveri di tua madre che non tollerava la nostra condivisione delle stesse emozioni. Non poteva controllarci e anche se ti vedeva felice non accettava di non aver controllato tutto con la sua ingombrante presenza.” “Come ti permetti di giudicare ingombrante la presenza di mia madre?” “Non è un giudizio, è una constatazione, non si può privare un padre del suo diritto a crescere un figlio, tua madre ti stava assorbendo in un controllo asfissiante, per amore, lo so, solo per amore, ma voleva un controllo assoluto su di te. Io non dovevo più esistere. Temeva la mia presenza, mi giudicava troppo poco meritevole per starti accanto, per lei che tanto tempo prima aveva dichiarato di amarmi io ero un pavido, un fallito, una profonda delusione, non voleva che tu potessi somigliarmi. Aveva tardivamente scoperto che per lei ero stato una scelta sbagliata, non avrebbe dovuto stare acanto a me tanto a lungo, tu, nostro figlio, eri quanto di meglio la vita le potesse offrire perché eri figlio suo e non avevi niente 98


Libera-Mente di me. Tu eri forte, deciso, audace, non mi somigliavi per niente e io avrei potuto intaccare le tue doti. Sai, un giudizio del genere può annientarti, cominci veramente a pensare di poter danneggiare un figlio, fargli del male, seppure involontariamente, portandosi dietro i propri fallimenti. Se un figlio giudica il padre un fallito tutto si fa molto umiliante, ma se un padre pensa di poter rendere il figlio un fallito la paura spinge a pensare che lasciarlo sia l’unica occasione per farlo vivere, per salvarlo. In fondo tua madre era questo che mi spingeva a pensare. Te l’ho detto, una madre sa come crescere un figlio, lo sente nella pancia e lo conosce anche da piccoli segnali, un padre deve governare le sue emozioni che lo travolgono e confondono, deve usare la mente per gestire le emozioni che salgono da dentro di lui ma non sono vissute come una madre che ha dato alla luce. E’ diverso avere un figlio dal crescerlo, una madre sa con la pancia, un padre sente l’istinto di protezione ma non sa compiutamente come gestirlo, deve pensare e questo comporta dei tempi che possono creare uno sfasamento rispetto ai tempi della madre. Ma non è una potenza minore, è solo filtrata da un ragionamento che a una madre non serve perché ha un’esperienza sedimentata da una memoria millenaria.” “Mente, memoria, possesso, per me l’unica cosa che conta è l’amore che ho ricevuto, e non da te. E’ vero, ora mi ricordo dei momenti passati insieme, li avevo rimossi, mi sembravano finti, senza significato, e invece ora ne riesco a cogliere l’intensità; mi hanno provocato dolore quando cercavo di 99


Libera-Mente riportarli in superficie dal profondo dell’animo, temevo che mi avessi sempre mentito, che ti fossi divertito a giocare con me come se fossi un oggetto senza importanza.” “Non sei mai stato un oggetto ma una persona per me importantissima, quanto eri importante per tua madre. Sei la ragione delle nostre esistenze anche se le viviamo separati. Ho accettato la separazione mio malgrado e non ho cercato conforto tra le braccia di nessuno. Se chiedevo di te mi sentivo rispondere che stavi bene e non dovevo preoccuparmi, dovevo però starti lontano per non alterare il tuo equilibrio. Nei pochi pomeriggi che all’inizio mi furono concessi per incontrarti il cuore mi batteva forte alla sola idea di rivederti, ma quando tornavi a casa da tua madre lei sbrigativamente ti faceva entrare in casa senza lasciarmi il tempo di darti un ultimo saluto prima dell’incontro successivo. Te l’ho detto, tua madre aveva paura per la tua incolumità fisica e mentale e temeva che io potessi essere responsabile di procurarti un danno, quando io volevo solo amarti. Alla fine mi arresi e cominciai a non venire più, fantasticavo su quello che presumibilmente stavi facendo in quel momento e mi illudevo di condividere le tue esperienze sperando che nella tua mente brillasse ancora una scintilla della mia memoria.” “Il tuo racconto è intriso di dolore, come quello che abbiamo provato io e mia madre, continuo a non capire perché tu ti sia arreso, ma comincio a provare pena per la tua sofferenza, non mi fraintendere, non intenzione di perdonarti, ma ti concedo il beneficio del dubbio, forse non era solo tua la responsabilità 100


Libera-Mente della separazione. Devo ammettere che mia madre è stata a volte opprimente, aveva sempre paura per me e pensavo che non si fidasse abbastanza di me quando prendevo una nuova iniziativa. A volte mi pesava il suo atteggiamento ma lo attribuivo alla responsabilità che gravava solo sulle sue spalle. E’ difficile capire i genitori, forse bisogna diventare genitori a propria volta per capire davvero come vanno le cose, ma per ora sono ancora incerto sulla valutazione che posso dare a voi due come genitori.” “Le tue parole mi confortano, stai parlando di me e tua madre come coppia, per la prima volta mi concedi il diritto ad esistere, sapessi quanto è importante per me.” “Continuerò a pensarci, ma non ti garantisco nulla. E’ difficile ricostruire un rapporto dopo tanti anni, l’incomunicabilità diventa un solco profondo difficile da colmare.” “Per me è fondamentale cominciare a fare un passo, uno alla volta, è già una speranza. Ormai sei diventato un uomo, giovane ma già un uomo, è tempo che tu prenda le tue decisioni mettendo sul piatto tutte le variabili che hanno purtroppo condizionato la tua vita. Non ti ruberò altro tempo, ora so di essere riuscito a dirti tutto quello che mi premeva sul cuore.” “Va bene, ci penserò, ciao papà.”

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Libera-Mente

IL FREDDO DENTRO “Sta facendo buio.” “Entra, non prendere freddo.” “Non è il freddo del tempo che temo, ma il freddo dentro.” “Cosa intendi?” “Non ho più calore, da dare, da sentire, mi manca un figlio.” “Ma se non ne hai mai voluti!” “Questo lo pensavi tu e mi hai condizionato.” “Ho solo seguito le tue aspirazioni, volevi occuparti della tua carriera, scrivere, lavorare, dicevi che chi non sa creare procrea e tu avevi ben altri progetti che dedicare il tuo tempo ad un figlio.” “Devo ammettere che l’ho pensato, ma continuo a dire che tu mi hai condizionata.” “In che modo?” “Hai voluto da me la più totale condiscendenza, ricorda che il mio lavoro era funzionale alle tue ricerche, al prodotto della tua grande intelligenza, alla tua smania di lasciare una traccia indelebile nella storia del pensiero, eri completamente delirante.” “Non ti capisco, non capisco questa tua tardiva recriminazione, se volevi davvero un figlio potevamo parlarne, trovare un accordo.” “Ma ti ascolti quando parli? Trovare un accordo, come se si trattasse di stipulare un contratto, un figlio lo si desidera dalle viscere, non per la convenienza o meno.” “Ormai è tardi per discuterne.” 102


Libera-Mente Sì, è tardi per rimediare a troppi errori, a troppe emozioni represse perché offuscassero il prorompere dell’istinto più antico, dare la vita, essere trascinati dal nuovo in un mondo tutto da esplorare. Io sono rimasta ancorata ad un controllo rigido, freddo, distaccato, la ragione doveva avere il sopravvento su tutto, e tu mi hai avvallato in questo!” “Di nuovo mi attribuisci una responsabilità che non sento di avere, hai deciso autonomamente.” “In una coppia non si è autonomi, è difficile capire dove può arrivare la propria identità, presupponendo di sapere quale sia la propria.” “La tua identità era forte fin da subito, mi ricordo bene come mettesti in chiaro che la collaborazione con me avrebbe dato uno slancio formidabile ai tuoi progetti ed eri pronta a rinunciare a tutto pur di raggiungere i tuoi scopi, sei stata più tenace di quanto pensi e se ora non senti più, come dici, il calore, beh, è un problema tuo, per quanto mi riguarda mi sento a posto con la mia coscienza, ti ho dato tutto il riconoscimento che cercavi e per quanto mi riguarda un figlio non mi manca proprio.” “Tu hai rifiutato anche la sola idea di averne uno, ti ricordo che ci fu un momento in cui si incrinarono le mie convinzioni, cominciavo a pensare che il lavoro non mi bastasse, e una gravidanza ci fu.” “Eri molto perplessa, se ben ricordo, all’idea di portarla avanti o meno e l’aborto spontaneo non lo vivesti come un dolore ma con profondo sollievo.” 103


Libera-Mente “Non potevo permettermi di mostrare il mio dolore.” “Forse non ne provavi.” “Non avrei ricevuto nessun ascolto, nessuna considerazione, non avevi il tempo di ascoltarmi.” “Dovevo lavorare.” “Tu hai sempre dovuto lavorare, non c’è spazio per nessun altro, a meno che non sia funzionale ai tuoi interessi.” “Di nuovo chiami in causa le mie scelte, io almeno sono stato coerente.” “Tu non provi altro che freddezza, per questo non senti la mancanza del calore.” “Il calore a volte può bruciare.” “Sì, ed è una realtà che bisogna prendere in considerazione, il calore dell’amore estremo può distruggere, la luce diventare buio, ma una donna agisce solo per amore.” “Un padre, se lo desidera, non pensi che possa arrivare a fare altrettanto?” “Non con la stessa forza.” “Ti trovo strana, all’improvviso incomprensibile, non ti seguo più!” “Ascolta, allora, credo di aver capito dove avrei potuto spingermi e questo mi ha costretta a congelare le mie emozioni, far nascere un freddo sottile che ormai mi ha completamente pervasa.” “Continuo a non capire questo tuo atteggiamento, se avevi dubbi così profondi e angosce così devastanti, perché hai ostentato tanta sicurezza?” 104


Libera-Mente “Perché per gli uomini, e chiamo in causa anche te, il nostro mondo, il mondo delle donne, è oscuro e temibile, in fondo avete paura di noi, della nostra capacità di creare legami tanto profondi da diventare inscindibili e impenetrabili. Ora sto leggendo con altri occhi quello che per anni ho guardato con distanza, come se gli avvenimenti fossero così lontani da essersi persi nel tempo e non avere più un collegamento con l’attualità. Mi sono ravveduta e ho cominciato a capire quanto l’archetipo dell’amore materno possa essere drammaticamente attuale, anche se con una veste diversa. Tante volte abbiamo parlato e discusso nei nostri studi di quanto la classicità abbia trasmesso valori che poi si sono persi nella nebbia della rielaborazione culturale, ricordo i miti e le tragedie e quante risorse ancora inesplorate continuano a trasmetterci. Pensavo, in particolare, al più doloroso dei miti, letto peraltro sempre e solo al maschile, il mito di Edipo.” “Lo conosco bene, ne abbiamo discusso a lungo e pensavo ne avessimo tratto tutte le considerazioni possibili, Edipo è sottoposto alla pressione del destino che lo spinge ad uccidere il padre e congiungersi con la madre nella più totale inconsapevolezza, il destino può leggersi come istinto e la figura paterna nella realtà ristabilisce il suo ruolo per non essere metaforicamente ucciso dal figlio, che uscito dal rapporto diadico con la madre rivolge il suo amore verso un’altra figura femminile. La paura della vendetta paterna lo spinge ad immedesimarsi con il padre che rappresenta l’ideale realizzazione.” 105


Libera-Mente “Uno schema ineccepibile ma che trascura un elemento fondamentale.” “Quale? Non hai forse sempre condiviso questa teoria? E’ una dato di fatto incontrovertibile, le due figure genitoriali sono complementari, o almeno è auspicabile che lo siano, certo sono sfumati i ruoli ma esistono a prescindere dalle mode e dai tempi.” “Sto parlando della madre, non solo del suo ruolo ma della viscerale esperienza che vive quando sente che un figlio le sta crescendo nella pancia. La pancia, non la mente, non la razionalità pura che spinge a progettare, ma l’istinto primordiale e generativo, che nutre e travolge insieme, che spariglia le carte della vita sia che un figlio sia pianificato sia che una gravidanza arrivi all’improvviso. E anche in quel caso, quanto desiderio inespresso c’è dentro allo stupore, all’inaspettato, al dubbio lacerante che spinge a pensare di non essere pronte, l’incubo di essere lasciate sole, la paura di non possedere più la propria vita, e nello stesso tempo il senso del possesso estremo, se il figlio non può essere mio non sarà mai di nessun’altra. Per una donna il figlio è soprattutto una propria creatura, è una forza ingestibile quella che spinge ad accettare o rifiutare. E’ il tutto o niente, ora o mai più. Mi spiego, è una scelta difficilissima, lacerante, devastante, non ci sono in realtà figli desiderati o indesiderati, ci sono donne che vengono lasciate sole di fronte al loro destino, sono lapidate dal peso delle parole sociali, è molto difficile esprimere cosa si prova quando diventi potenzialmente responsabile di 106


Libera-Mente un’altra creatura, di cui non conosci ancora niente ma che sai cambierà la tua vita per sempre, perché tu sei la sua vita e lei sarà la tua. Il peso di un figlio grava soprattutto su una madre ed è un solco incolmabile quello che separa due genitori: la gravidanza è un’esclusiva della madre.” “Le tue parole mi sconcertano, parli come se noi uomini fossimo sordi alle vostre richieste, anche per noi è complesso pensare ad un figlio, anche per noi la ragione cede e il sentimento prende il sopravvento, il problema è che se non riusciamo a capire le vostre problematiche ci tagliate fuori. Ti lamenti di essere stata lasciata sola da me, ma non pensi alla complessità che vedevo in te, dibattuta tra il desiderio e il rifiuto.” “Contavo su di te per trovare il coraggio di non amare troppo.” “Di nuovo non capisco!” “Ho riletto il mito e l’ho fatto dalla parte di Giocasta, la regina, la madre.” GIOCASTA SECONDO GIOCASTA “Sono una donna: una realtà apparentemente semplice ma di fatto indefinibile. Quando una donna si guarda allo specchio sa cosa vede e valuta quello che gli altri vedranno, o meglio quello che lei vorrebbe gli altri vedessero. Io come ogni donna, ho dovuto guardare oltre e vedere il dolore profondo e annichilente che ha tormentato la mia storia dall’inizio alla fine, la vita che ho condotto e che ho strappato rabbiosamente al destino, il destino di essere una donna senza diritti, senza 107


Libera-Mente identità, con una sola grande incontenibile colpa: essere appunto una donna. Io sono l’archetipo di tutte le donne, forse quella che ha pagato il prezzo più alto: il mio nome è rimasto inalterato nei secoli ma nessuno ha mai potuto attribuirmi una volontà. Non è forse il destino di tutte le donne o meglio di gran parte di esse o meglio di noi? Siamo l’altra metà del cielo ma anche la parte oscura della luna, portatrici di una luce di non facile identificazione: è una luce di vita o di morte? Una luce che riscalda o una luce che acceca? Nessuno è mai riuscito a conoscerci, forse neanche noi. Io sono il doppio di chi scrive, il doppio di chi ha vissuto la mia storia o almeno ha rischiato fino alla fine di viverla: io sono Giocasta, la regina. Ho amato la vita che ho dato più della mia stessa vita e dare la vita è la ragione stessa della vita per ogni donna. Ci nutriamo da chi nutriamo in un ciclo praticamente infinito. Io sono il doppio di chi ha pagato il prezzo dell’isterilimento per non risucchiare una vita in un circuito chiuso di assorbimento esistenziale. Io ho compiuto il passo fatale ma devo spiegare, posso spiegare cosa mi ha spinto. Sono stata madre, amante, moglie della stessa vita che era uscita da me e poi entrava in me, la storia mi ha condannata con l’attenuante della mancanza di volontà, dell’inconsapevolezza, dell’abbandono al destino, la realtà è diversa, è terribile ma è diversa. Scrivo la mia storia che è biografia e autobiografia cosciente e dolorosissima. La mia è una storia dalle molteplici sfaccettature; è una duplice realtà che si fonde in un’unica essenza: l’amore sconfinato che rigenera se stesso, ma nel 108


Libera-Mente rigenerarsi provoca morte e nuova vita. L’impossibilità di un distacco che diventa dolore ma mantiene in vita un amore. Ecco che amore e morte si coniugano. Il risucchio dell’altro nella nostra identità lo priva della sua reale dimensione, la luce che nutre si espande nella luce che acceca, che annienta. Io sono il doppio di chi si è isterilito per non annientare un’altra vita ma ha annientato la sua, la sublimazione è un percorso molto doloroso, straziante, estraniante. Il mio doppio autobiografico ha desiderato possedere, seppure in modo metaforico, innamorarsi dell’amore perfetto, costruito con pazienza e devozione, l’amore che appartiene, l’amore che non tradisce, ha quasi commesso il mio stesso errore, ma si è fermata un attimo prima, un attimo che vale una vita. Dicevo che posso spiegare la mia storia, eccola dunque. La mia storia si dipana come un giallo, costellata di dettagli apparentemente insignificanti ma che non possono sfuggire ad un occhio attento. Trascurati da sempre, analizzarli avrebbe significato cogliere il potere estremo dell’amore che si ammanta di una presunta inconsapevolezza. Ma torniamo alle origini: io sono una regina, ma quale donna non vorrebbe sentirsi una regina? Non è il potere formale ma un ascendente così forte che ci permette di scegliere il compagno ideale, per cominciare a costruire un progetto, o nella versione più oscurantista, a tessere la nostra trama. Ci lasciamo sedurre da chi abbiamo già sedotto ma questo è solo il primo passo. Perché amare chi non ci è parente, chi non è sangue del nostro sangue quando possiamo amare il nostro sangue, le nostre viscere, la nostra 109


Libera-Mente mente, la nostra stessa vita? Un desiderio intenso e carnale per me, mito oscuro dell’eterno femminino, ma desiderio limpido e cosciente del dramma per il mio doppio. Io sono una regina dunque, una donna senza potere ufficiale, fedele compagna del re da cui mi aspetto, come unico contraltare alla mia fedeltà che mi conceda un figlio. Un’attesa spasmodica e sempre più intensa. Ma un velo di tragedia doveva funestare la mia attesa. Un oscuro vaticinio di un vecchio oracolo, un uomo, sostenne che il mio bambino, e sottolineo il mio, non doveva nascere perché avrebbe ucciso il padre e sedotto la madre. Sedurre me? Sciocchezze! Una vita che avrei curato amorevolmente, scopo della mia stessa vita, sarebbe dipesa da me, dal mio nutrimento, dal mio amore, dalle mie cure. La seduzione sarebbe stata reciproca, ma io avrei avuto il maggior potere. Io avrei potuto permettergli di sedurmi. In me era racchiuso il potere. La mia vita però non contava nulla, il mio pensiero, la mia speranza, il mio desiderio, non avevano voce, non avevo nessun potere. Il re, mio marito, mi considerava solo un’incubatrice vuota e priva di qualsivoglia emozione, una non persona, senza vita. Ma la mia vita era forte, convinta, autorevole, innamorata della vita stessa e della vita che avrei dato. No, tutto questo non contava nulla, la paura di uno scontro devastante ebbe il sopravvento e la decisione fu presa a mia insaputa. Il mio bambino non sarebbe mai nato. Non mi fu riferito nulla ma le voci nei corridoi, nei saloni freddi, negli oscuri meandri del palazzo corrono e si ingigantiscono. Seppi e per un momento 110


Libera-Mente mi sentii morta, finita, stritolata nella più crudele delle torture: non poter dare alla luce mio figlio. Vita della mia vita e ragione stessa della mia vita, una vita che mi avrebbe sedotto perché io gli avrei permesso di sedurmi, unico vero grande amore perché nato da me, appartenente a me, totalmente mio. E poi perché avrebbe dovuto uccidere? Avremmo vissuto un amore simbiotico, avvolto in se stesso e che si sarebbe nutrito proprio della dualità: una diade inscindibile e una vita che comunque mi apparteneva. L’unica speranza era rivolgermi alla mia vecchia nutrice. Lo so che nella storia secolare questa figura non è contemplata, ma tutto il mondo delle donne non è contemplato. Ma se fate attenzione è proprio il mondo delle donne che ha retto i fili della storia tragedia e del legame tra amore e morte. Odiavo mio marito, il re debole e vittima di una paura infondata, quanto mai irrazionale, che voleva impedirmi di essere madre. Non l’avevo mai amato, o almeno non dell’amore perfetto che si nutre per una creatura che si può forgiare a propria immagine senza interferenze, un figlio procreato, il figlio perfetto. Un uomo marito non lo si ama allo stesso modo, è il figlio di un’altra donna, non è il proprio figlio. Il vaticinio dell’oracolo mi aveva ingessato in un dramma senza apparente via d’uscita, tranne quella di forzare il destino. Obnubilare la mente del re ed essere fecondata. L’unica cosa che per me avesse importanza, la vendetta sarebbe arrivata dopo. Una volta scoperta la mia gravidanza mi venne concesso di sentire la vita nel mio grembo a patto che mi venisse strappata appena il bambino fosse nato. Tutti 111


Libera-Mente sapevano cosa sarebbe successo e tacevano, ma un servo e la mia nutrice impietositi mi avevano riferito il funesto progetto. La gravidanza rappresentava una sfida al destino e forse avrei dovuto pagare il prezzo di questa sfida? Organizzare un piano di emergenza per salvare quella creatura, la mia creatura. Pagare un servo, raccomandarsi alla nutrice, ricamare un drappo reale come segno di riconoscimento per chiunque avesse trovato mio figlio a cui non potevo neanche dare un nome perché chiunque l’avesse trovato l’avrebbe chiamato in un altro modo. Dovevo imporre ad un servo di fingere di uccidere la mia creatura, controllare che qualcuno, chicchessia, se ne prendesse cura. Era stato previsto che venissero forati i piedi del bambino per appenderlo ad un albero e farlo morire, una tortura che apparteneva alla povera gente che non poteva crescere troppi figli, una morte da povero, da disgraziato, una morte lenta, atroce. E tale fu fatto in un primo tempo, secondo il progetto della corte, ma io avevo fatto avvolgere il mio bambino nel drappo che io stessa avevo ricamato e sapevo che il servo, incaricato di appenderlo ad un albero, lo avrebbe in realtà lasciato in bella vista vicino ad un sentiero dove qualcuno lo avrebbe raccolto. Era stato incaricato di assicurarsi che qualcuno lo notasse e lo prendesse, e così fu. Di questo ero cosciente ma non potevo conoscere tutto quello che sarebbe avvenuto dopo, forse non volevo conoscere per salvare la vita del bambino. Ma ora vorrei lasciar parlare mio figlio.” “Sono Edipo, sono stato chiamato così a causa del mio 112


Libera-Mente piede che è stato perforato. Non me ne hanno mai spiegato la ragione, ma mi hanno amato e protetto i miei genitori, a cui sono legato da un profondo amore anche se a volte mi sento turbato da un’inquietudine di fondo che mi tormenta e di cui non so spiegare l’origine. Sono figlio di re, il mio corpo era ricoperto da un drappo regale quando sono nato, anche se qualcuno sussurra questo fatto a bassa voce e con una certa evasività come se volesse nascondere un segreto. In fondo non faccio molto caso a tutto questo, sono occupato nella cura del mio corpo da atleta, devo pensare al mio futuro da re, quando succederò al mio amato padre, e alla regina mia madre di cui vorrò sempre avere amorevole cura. Sono amato con rispetto e quasi devozione, mi definiscono un dono degli dei, ma ritengo che quest’espressione faccia parte della loro devozione. Il popolo mi ama anche se non mancano dei nemici che comunque non temo perché so difendere la mia vita e il mio regno, niente può toccarmi. A volte però ritorna quel tarlo che mi tormenta: perché alcuni si rivolgono a me con circospezione, come se volessero rivelarmi qualcosa ma temessero, nel farlo, di provocare la mia rabbia? Cosa posso mai temere, io principe Edipo, da pochi cortigiani senza potere reale? Eppure penso che ci sia qualcosa che loro sanno e non vogliono rivelare. Qualcosa di inconfessabile che potrebbe frantumare il mio mondo. Ma cosa, mi chiedo cosa? Ho provato ad interpellare i miei genitori ma da loro non ho avuto risposta. Eppure qualcosa ci deve essere. Per volere degli dei lo scoprii un giorno nel più feroce dei modi. Un mio 113


Libera-Mente nemico giurato, per offendermi e ferirmi nel profondo, mi rivelò che non ero il figlio dei miei genitori ma un trovatello, una povera creatura abbandonata da genitori scellerati che avevano avuto l’unica cura di avvolgermi in una coperta. Già, la coperta, il drappo che avevo visto fugacemente mentre la mia balia lo ripiegava con cura e fece di tutto per nascondere quando si accorse che la stavo osservando. Quella coperta forse poteva essere la chiave per scoprire la mia vera origine. Chiesi spiegazioni ai miei genitori ma non confermarono nulla, anzi addussero come scusa l’assoluta infondatezza delle dichiarazioni del mio nemico proprio in ragione della sua ostilità nei miei confronti. Mi sentii confortato, o forse volli esserlo, da quelle dichiarazioni, ma ciò nonostante mi sentivo crescere dentro una rabbia inspiegabile. Un desiderio di fuga alla ricerca della mia identità, del mio vero ruolo. Ero figlio di re e destinato al trono ma tutto questo non mi soddisfaceva, sentivo di dovermi allontanare. Lasciai la mia casa e mi volsi verso la strada che conduceva a Tebe, città ricca di stimoli, pensavo, e comunque un ambiente sicuramente nuovo. Avevo anche sentito parlare dell’orrendo incubo della Sfinge, che divorava i viandanti che l’incontravano e non sapevano rispondere al suo quesito. Un tributo di sangue che pesava come un macigno sulla città devastata dall’angoscia e preda della disperazione. Mi incamminai verso il nuovo destino pronto ad affrontare qualsiasi prova. La mia cieca rabbia e il mio sconfinato orgoglio mi facevano sentire imbattibile. Il mio carro e pochi averi erano tutto quello di cui avevo 114


Libera-Mente bisogno. Andavo incontro ad un destino che potevo creare con le mie mani. Ma la prima prova doveva arrivare poco dopo. Ad un trivio un carro scortato da guardie armate mi bloccò il passo e mi impose di arretrare, opposi un rifiuto netto e fui aggredito da una delle guardie. Il mio istinto mi portò a lottare ed avere la meglio sulla guardia, misi in fuga l’altra e trascinai l’uomo avvinghiato alle mie redini finché non lo vidi morto. Avevo compiuto la mia vendetta perché nessuno doveva intralciare il mio percorso. Arrivando presso Tebe ebbi il fatale incontro con la Sfinge. Orrenda creatura insondabile ed oscura, che mi pose il suo quesito: lo risolsi senza pensarci troppo, era evidente che faceva riferimento all’uomo, al suo percorso nella vita e alla conclusione che tutti dobbiamo affrontare. La Sfinge, ormai sconfitta, si gettò nel mare e concluse il suo dominio su Tebe. Entrai in città e una volta saputa la notizia fui accolto come un eroe, un liberatore, l’uomo del destino. Già, del destino, lo stesso di cui parlava la Sfinge, la storia dell’uomo, di ogni uomo, che non ha ritorno e non può sovvertire l’ordine delle cose. L’ordine delle cose, questo pensiero mi tormentava, gli dei ci provocano con i loro capricci e le loro esigenze ma noi potevamo placarli con offerte e preghiere e interpretare il loro volere con gli aruspici per seguire coscientemente il destino. Seguire coscientemente il destino, sembra una contraddizione in termini ma in fondo è la prova per ciascuno di noi, conoscere il nostro destino e affrontarlo in modo coraggioso e volitivo, senza cedere passivamente. Io ero destinato ad essere un 115


Libera-Mente eroe, un vincitore, tutto questo mi rendeva ebbro di felicità e orgoglio. L’eroe di Tebe doveva essere portato in trionfo e per volere del reggente, visto che il re era stato ucciso dai briganti, io avrei sposato la regina, la regina Giocasta. “ “Ora riprendo la parola, sono Giocasta la regina e tutto quello che riguarda Edipo prima del suo arrivo a Tebe l’ho ascoltato dal suo racconto fatto di fronte alla corte. Lo osservavo e cercavo di cogliere nelle sue parole e nel suo volto dei tratti che mi fossero familiari. Mi colpivano la sua vivace intelligenza e l’ardore dei suoi modi, la bellezza del viso e la virilità del suo giovane corpo. Era davvero un giovane baciato dagli dei. Lo guardai mentre si muoveva sicuro trai cortigiani e mi parve di cogliere per un istante un turbamento nello sguardo, qualcosa di indefinito, incerto ma per certi aspetti preoccupante. Cosa poteva alterare il suo trionfo? Ero attratta da lui ma qualcosa mi portava a respingerlo. Non capivo perché provassi sentimenti così ambivalenti. All’improvviso mi ricordai delle parole dell’oracolo, il figlio che uccide il padre e si congiunge con la madre. Ma tutto questo cosa aveva a che fare con Edipo? Era arrivato da trionfatore e io sarei stata la sua sposa. Certo era molto più giovane di me, quasi avrebbe potuto essere mio figlio, ma non lo era. Eppure, per quanto lo ammirassi, qualcosa mi respingeva lontano da lui. Di nuovo provavo quella strana ed ambigua sensazione. Potevo scrutarlo più da vicino quando fossimo stati soli, uno di fronte all’altra, pronti a scrutarci, a conoscerci. Il suo nome mi aveva fatto pensare, Edipo, piede ferito, il mio bambino era stato perforato ad un 116


Libera-Mente piede per essere appeso ad un albero, ma poi fu deposto nel drappo e vicino ad un sentiero. Chissà quanti bambini hanno subito questa sorte e in qualche modo sono sopravvissuti. L’avrei interrogato sulla sua vita e avrei avuto le risposte che cercavo. I festeggiamenti proseguirono per giorni. Tebe era stata liberata dall’incubo della Sfinge ed ora aveva un nuovo re. Ora era chiaro l’enigma: l’uomo e il suo naturale percorso, ciclico e infinito, ma che non si può sovvertire in alcun modo pena il suscitare l’ira degli dei, il vecchio non può rubare la vita al giovane e il bambino non deve vivere come un vecchio. Eppure quante volte trasgrediamo questo imperativo esistenziale, seppelliamo i nostri figli vittime di guerre fratricide, annientiamo la loro esistenza per realizzare la nostra volontà, abusiamo della loro vita per nutrire la nostra. Quanto è complesso vivere la vita e accettarla con tutte le incertezze che ci affliggono, il desiderio di rifuggirla e il bisogno di amarla. Ecco, avevo bisogno di ricominciare ad amare la vita, avevo bisogno di ricominciare ad amare una vita. Dopo i festeggiamenti mi ritrovai nella camera nunziale con Edipo, ora potevo sapere, o meglio avere la conferma di quello che temevo già di sapere. Lo interrogai a lungo, senza pressarlo ma chiedendogli di espormi tutti i particolari. All’improvviso mi parve intimidito, spaurito di fronte a cambiamenti così repentini della sua vita, come se messo di fronte al destino ora non sapesse più come affrontarlo. Gli chiesi delle sue origini e mi rivelò che erano presunte, aveva capito che quelli che riteneva i suoi genitori in realtà non 117


Libera-Mente lo erano anche se lui li amava come tali, delle sue origini dunque non poteva dirmi molto ma della sua vita sì. E fu un fluire di ricordi, emozioni, esperienze che lo avevano segnato e lo avevano portato lontano dalla sua casa. Mi raccontò della lotta con le guardie di scorta ad un uomo anziano e arrogante e senza rimorsi mi confidò di averlo ucciso. Per me fu un colpo improvviso e illuminante. Dalla descrizione del carro capii che si trattava del re mio marito, il mio odiato marito, e quel giovane mi aveva reso il favore più grande che potessi mai aspettarmi: porgermi la mia vendetta. Ma nell’immediato capii chi avevo di fronte: le parole dell’oracolo mi esplosero nella mente e quasi persi i sensi. Edipo aveva ucciso il padre ed ora era di fronte a me, potevo ricongiungermi al mio amato figlio, il figlio tanto atteso e che mi era stato strappato. Uno slancio incontenibile mi portò ad avvicinarmi a lui e toccare con leggerezza la sua guancia. Volevo stringere il suo petto, aggrapparmi alle sue braccia, travolgerlo nel mio amore ma per un momento mi fermai. Non potevo perché questo avrebbe portato sventura. Ma in fondo a chi? Per me, avevo già sofferto abbastanza. Il re, aveva pagato il prezzo della sua arroganza. E poi il vaticinio di sventura era il frutto della mente di un povero vecchio come Tiresia, e poi Edipo era stato una figura dimenticata, annullata nel momento stesso della nascita, cancellata come la sorte della madre. Edipo non somigliava proprio al padre, uomo debole che crollava di fronte alle parole di un indovino che poteva anche sbagliare parlando della vendetta degli dei. Io potevo pensare solo 118


Libera-Mente all’amore che ormai traboccava incessantemente, io sapevo chi era Edipo e mi lasciai andare, il ricongiungimento divenne congiungimento, il fato si compì, il resto è storia, anzi tragedia. Tragedia perché il ricongiungimento sperato aveva oltrepassato l’inesplorabile, il più arcaico dei tabù, la trasgressione della vita rubata. Perché la vita che diamo possiamo anche riprendercela, diamo la luce ma possiamo creare il buio dell’annientamento, nell’impossibilità di sopravvivere portiamo con noi la vita che ci appartiene. Si obnubila la coscienza per troppo amore che diventa possesso ma non oscuro dramma senza motivazioni. E’ un amore trascinante ed estremo che può portare noi donne a soffocare un figlio, a privarlo del suo destino. Ma è uno slancio d’amore, di amore estremizzato, perché noi sappiamo che amare un figlio non è come amare un marito. Il solo concepire di dare una vita provoca un’ebbrezza che rasenta l’onnipotenza, ma sentire davvero la vita è un’altra cosa. E’ un’esperienza che può provocare rifiuto o assorbimento emotivo, ma tutto parte dall’amore, da un immenso grande amore. Noi donne, nonostante tutto, sappiamo amare.” “Vedi dunque quale percorso si può compiere seppure involontariamente, quanto bisogno di sostegno emotivo abbiamo noi donne nel momento in cui ci avviciniamo ala maternità? Ci attribuite per principio regole e comportamenti codificati ma in realtà le emozioni possono travolgere in un fluire senza possibilità di trovare un argine a cui aggrapparsi, e ogni scelta che dobbiamo compiere ricade soprattutto sulle 119


Libera-Mente nostre spalle, non siamo chiuse al contatto o alla condivisione ma ogni vostro gesto o parola può pesare come un macigno emotivo sulla nostra consapevolezza. La comunicazione non è complessa perché siamo irrazionali o misteriose, il problema è che diventa particolarmente difficile spiegare cosa succede alla nostra mente, al nostro corpo, alla nostra memoria, abbiamo bisogno di tempo e di accoglienza, quando sta per nascere un bambino in realtà sta per nascere anche una madre che fin da subito deve staccarsi ma nello stesso tempo rimanere unita per nutrire. E’ un contatto intensissimo che deve preludere a un distacco perché un figlio deve avere vita propria, ma capisci bene che una fusione simbiotica necessaria per la vita non ha necessariamente tempi e modi scanditi in modo rigido per favorire lo sviluppo di due vite: quella del figlio che diventa autonomo e quella della madre che ritrova la sua identità nel distacco. Il vostro amore non è sicuramente meno intenso ma il non sentire la vita nella pancia, come ti dicevo, crea una frattura che è difficile comporre. Volevo da te passione nelle emozioni, per aiutarmi nel momento in cui avessi sentito che il figlio mi apparteneva totalmente e avessi rischiato di assorbirlo, ma tu eri freddo alle mie richieste.” “Avevo paura, di te, della tua forza emotiva, trascinante oltre ogni limite, e ti vedevo controllata e ostinata nel negare il tuo bisogno di maternità. Non ero sordo ma confuso, non sapevo come avvicinarmi. Posso confessarlo, avrei voluto diventare padre, e sentirmi rassicurato da te, forse, come dici, ritenevo che tu potessi codificare tempi e modi della crescita, 120


Libera-Mente del distacco autonomo della vita, sì, forse vi attribuiamo competenze che pure avete ma vi deleghiamo troppo perché non sappiamo bene come muoverci. Essere genitori, insieme, la sfida più complessa che si possa immaginare. Non me ne volere, non sono stato pronto ad accoglierti e tu hai avuto la consapevolezza di non potercela fare da sola. Ormai la confessione è diventata una dichiarazione a viso aperto, senza infingimenti, senza nessun rancore, forse con la sola presa d’atto della nostra inadeguatezza. Ma ci rimane comunque un legame, per me è forte, la condivisione, riusciamo a dirci tutto e possiamo condividerne il dolore, guardarlo, affrontarlo e decontaminarlo. Non lasciamoci trascinare dal non vissuto, traiamo spunto da ciò che non è stato per far divenire qualcosa che diventi analisi e opportunità per trasformare il dolore in energia, per combattere, comunicare, vivere comunque. Anch’io ho la mia passione, ti chiedo solo di lasciare che possa viverla, e riconoscerla.” “Capisco, mi rendo conto che mi chiedi di uscire dal lutto della mia maternità irrisolta, come staccarsi dalla memoria di un figlio come se lasciassi vivere un figlio reale, capisco il senso delle tue parole, ma adesso puoi, e devi, starmi accanto.”

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Libera-Mente

LESSICO DELLA DIVERSITA’ Lessico, percorso del linguaggio, origine, significato, valore, potenza evocativa delle parole, regola, struttura, funzionamento della convenzione comunicativa, in fondo speranza di un contatto costruttivo, efficace, rassicurante. Usiamo molte parole di cui conosciamo il significato ma non ci rendiamo conto dell’impatto, a volte devastante, che possono avere. Nello specifico voglio soffermarmi su una sola parola che ne contiene in realtà moltissime: diversità. Ci sono tante accezioni che possono definire il concetto, alcune approssimative altre all’apparenza lusinghiere; qualche esempio: lo scemo del villaggio, l’estroverso, il matto, mattacchione, la linea sottile che separa il genio dalla follia, l’insicuro introverso asociale, il disadattato, il pazzo pericoloso, l’infantile viziato e smidollato. Sono solo alcune definizioni che cercano di circoscrivere il problema, perché di questo in realtà si tratta, di un problema molto complesso. All’origine della mancata integrazione che escluderebbe il bisogno di trovare una definizione esaustiva c’è un’enorme sofferenza, quella che nasce dall’impossibilità di comunicare. A prescindere dalla diagnosi psichiatrica che può arrivare più o meno tempestivamente, si crea comunque fin da subito la consapevolezza di qualcosa che non va. Spesso il disadattamento si manifesta in un’età molto precoce, quando ancora non si trovano le parole per spiegare cosa sta succedendo, presupponendo che si riesca a trovarle dopo. La difficoltà comunicativa consiste essenzialmente nel provare 122


Libera-Mente emozioni così intense da non poter essere gestite, il desiderio di compiacere o provocare che un bambino diciamo normale esercita per tastare il terreno della condiscendenza degli adulti, in un bambino definito genericamente con problemi diventa uno sforzo intollerabile. Posso parlare per esperienza diretta, un’esperienza che comunque negli anni ho potuto conoscere e osservare equivalente in altre persone che avevano dovuto subire e affrontare un percorso come il mio. Nella mente di un bambino disturbato, definizione omnicomprensiva che contempla una varietà di atteggiamenti, diventa difficile decodificare il messaggio comunicativo, il rapporto con gli altri, genitori, educatori, parenti, i suoi pari, i coetanei, è confuso e approssimativo. Dicevo che le emozioni si fanno intensissime, proprio per questo qualsiasi richiesta o provocazione diventa eccessiva e difficile da gestire, tutto diventa esponenzialmente incontrollabile. Il controllo delle emozioni, non tanto per comprimerle ma per comunicarle con sufficiente limpidezza, è un esercizio che richiede tempo e pazienza, ma un bambino e la sua famiglia non sempre hanno il tempo necessario per capire e capirsi. Parlare di un bambino e della sua famiglia significa parlare di un unico organismo simbiotico che vive di osmosi: le emozioni di uno si riversano nell’altro e ne vengono restituite rielaborate. Tutto questo non funziona in modo automatico e consequenziale neanche nelle migliori condizioni di salute mentale, figuriamoci quando si manifesta la cosiddetta diversità, il bambino diverso, insano, disadattato e viziato 123


Libera-Mente secondo i commenti più umilianti e sbrigativi. Quando non si ha il controllo delle proprie emozioni si teme di perdere anche il controllo della mente, dei pensieri che vengono prodotti in conseguenza di stimoli che possono essere ritenuti appropriati ma incomprensibilmente suscitano reazioni incontrollate. Sviluppare un’identità significa sapere cosa e come si è, almeno in modo approssimativo. Cosa si desidera, come si spera di ottenerlo, cosa provoca piacere o soddisfazione e in quale grado. Ora quando i pensieri procedono con un ritmo che definirei sostenibile allora si può parlare di progettualità ed eventuale condivisione, ma quando i pensieri si rincorrono e affastellano in modo confuso e inestricabile? Le ragioni scientifiche sono in mano ai ricercatori ma la percezione è nella carne di chi vive e sopravvive alla costante percezione di una mente che sfugge. L’aspetto più sconcertante del disagio, e non sto a specificare oltre il disagio mentale che sotto svariate forme ha comunque una radice comune di estrema sofferenza, è che non ci sono segni fisici di estrema evidenza, e quello che non si vede, non si tocca, suscita a dir poco perplessità se non profondo rigetto. Chi soffre, e non si tratta solo della persona diversa ma di tutta la sua famiglia perché l’incomunicabilità che si crea produce fratture dolorose e penosissime, non ha modo di mostrare limpidamente l’origine, la causa, l’effetto fisico concreto del male che lo tormenta, e questo fa sottintendere la gravità della situazione. Di sicuro c’è che non si crea il disagio come forma di fuga volontaria perché la soluzione, seppure lo fosse, è peggiore 124


Libera-Mente anche del male che c’era all’origine. Eventi traumatici sono probabilmente il fattore primario dell’evidenziarsi di un problema comunicativo che diventa problema di identità, ci specchiamo negli occhi degli altri ma soprattutto in noi stessi e se ci sfuggono i nostri pensieri allora siamo i primi ad aver paura di noi stessi. Per definire cosa significa non avere il controllo della propria mente, essere in breve definito un matto con tutto quello che ne consegue in termini di disapprovazione, evitamento e paura, bisogna fare mente locale alla sedimentazione delle esperienze di condivisione con il mondo dei pari e quello che rappresenta il nostro progetto evolutivo. Se il quotidiano confronto non ci permette di essere al’altezza o non riuscire a decifrare i codici comportamentali allora non si struttura un’identità stabile, tutto diventa precario, si comincia a percepire la diversità. La diversità non è semplicemente una fuga o un’incapacità, che sia volontaria o indotta, di capire ed essere capiti, è in realtà un involucro che si struttura intorno alla persona che subisce la tremenda pressione di un guscio che lo stritola, come un muro di gomma che ci circonda da cui traspare la realtà con cui però non si riesce ad entrare veramente in contatto. La mancanza di contatto, di comunicazione, ingenera paura, una paura devastante e paralizzante che genera rabbia. Perché nessuno riesce a capirci? In realtà in molti casi di tentativi di aiuto ce ne sono ma restano inascoltati. Il rapporto non è unidirezionale, si chiede aiuto e non lo si riceve, o al contrario il sostegno viene offerto e metodicamente rifiutato. In realtà 125


Libera-Mente si crea uno sfalsamento nel contatto, si aprono porte di condivisione che poi si richiudono all’improvviso e in modo inesplicabile. Questo continuo chiedere e chiudere è un flusso alterato proprio dall’intensità delle emozioni che possono esplodere incontrollate per un accumulo di rabbia o perché si riattivano meccanismi difensivi di cui non si è presa piena coscienza. La mente non procede con ritmi codificati e tranquilli, ognuno ha la sua battaglia da combattere e teme intimamente di perderla, si realizza allora un meccanismo proiettivo: se solo si intuisce che una persona è diversa allora diventa ricettacolo esclusivo di rischio e deve essere espulsa dal contesto sociale creativo e produttivo. Se anche si volesse ritenere in modo meccanico che la diversità va ghettizzata, espunta da un consesso sano, o si ritenesse che il diverso è orgoglioso della sua dimensione perché lo rende narcisisticamente speciale, si commetterebbe il grossolano errore di una valutazione superficiale e approssimativa. E’ il dolore che va combattuto e non la persona. Il dolore spaventa e allontana, questo è umanamente comprensibile, ma non è socialmente ed eticamente accettabile condannare senza appello la diversità. Dietro la diversità ci sono persone che vogliono e possono integrarsi perché sanno di poter dare un contributo costruttivo alla comunità, non solo di appartenenza ma a quella umana. Un diverso è una persona che soffre di un male che non si vede ma è vivo, reale, che vorrebbe spiegare prima di tutto a se stesso ma è molto difficile farlo. E’ complesso spiegare cosa succede nella mente quando è 126


Libera-Mente proprio la mente che sfugge. Eppure è l’unica strada percorribile. Dobbiamo spiegare noi diversi come siamo fatti, quanto è difficile la nostra convivenza con un male invisibile che può propagarsi fino a soffocarci e intossicarci l’anima, darci una tregua e poi provocare recrudescenze inaspettate e indesiderabili. E’ difficile spiegare ma necessario. La mente esplode in mille pensieri di cui è difficile seguire il filo conduttore, ci vengono consigliati, quando la condizione è evidentemente insostenibile, farmaci che possono chimicamente incidere sulla nostra funzionalità, ma abbiamo paura di un’intossicazione peggiore. E’ strano a dirsi ma la sofferenza che ci portiamo dietro, per quanto intollerabile, rappresenta la nostra identità e non vogliamo perderla per rischiare di ritrovarci sconosciuti a noi stessi. Va considerato poi il fatto che la diversità va valutata in rapporto alla definizione di normalità, media condivisa e condivisibile, anche se pure il concetto di normalità varia, si evolve, comprime e trasforma continuamente. Forse è più congruo parlare di riferimento all’equilibrio, una condizione di sufficiente autostima che permetta di gestire la propria esistenza in termini di relativa serenità. In questo caso diventa più evidente parlare di diversità. Il diverso non è un originale, un eccentrico, un narcisista egocentrico, è una persona che si dibatte tra mille tormenti emotivi. Diventa allora necessario creare un linguaggio che traduca la diversità, non si tratta solo di parole ma di un’evocazione di emozioni, parole complesse che racchiudono significati mentali, appunto il 127


Libera-Mente lessico della diversità. Il primo termine che vorrei prendere in considerazione è ADATTAMENTO. Qualsiasi essere umano comincia da subito a doversi adattare ad un ambiente che gli è sconosciuto, a rielaborare stimoli che provengono sia da fuori che da dentro di sé, deve integrare gli stimoli e le risposte in un continuum che gli garantisca la sopravvivenza. Deve fin da subito uscire da un involucro, un guscio che lo ha protetto o provocato fin dalle prime sensazioni e percezioni. Rimane una memoria per quanto inconsapevole di tutto questo e possono fin d’ora provocarsi fratture e discontinuità che possono creare nocumento al successivo sviluppo. Anche nei casi in cui non si manifestino lampanti mancanze nell’accudimento pur tuttavia la simbiosi tra una creatura e l’ambiente affettivo può interrompersi, il guscio protettivo diventa una tenaglia soffocante, che stritola. L’immagine è molto cruda ma lo è volutamente perché il bisogno di protezione diventa di colpo elemento che nuoce al bisogno di svilupparsi. Più è precoce l’insorgenza di un contatto traumatico più sarà difficile trovare la strada di un distacco graduale. Può sembrare paradossale che un legame involontariamente deviato possa ipotecare uno sviluppo che non riesce a slegarsi dall’impatto delle origini, resta invece una specie di collante esistenziale alla perenne ricerca di quella profonda rassicurazione che di per sé stessa può favorire un distacco perché crea una sicurezza di fondo su cui costruire un’identità. Quando la simbiosi traumatica ha un’insorgenza precocissima non si rielaborano motivazioni o 128


Libera-Mente consapevolezza razionali ma una spinta emotiva potente e assolutizzata che pervade ogni riflessione, allora anche le emozioni di adulto diventano estreme e incontrollabili. Non si ricordano gli eventi primordiali ma rimane una specie di stampo mentale che riproduce l’effetto tenaglia, si vuole indipendenza ma non si riesce a trovarla perché non si sente una sufficiente stabilità emotiva, tutto può esplodere all’improvviso e allora bisogna trovare un responsabile. Subentra a questo punto un altro termine da analizzare: PROIEZIONE. Quando ci si sente pervasi da una rabbia incontrollabile, perché in fondo tutto fa riferimento a questa emozione primaria, l’immagine che abbiamo di noi stessi diventa intollerabile, tutti sperimentiamo il bisogno di condivisione come viatico per un’accettazione sociale che precede la piena integrazione, ma se non ci sentiamo in grado di esercitare un controllo si apre lo spettro della solitudine, dell’isolamento, dell’emarginazione. Si rischia di diventare delle non persone, umani non sufficientemente tali da essere accolti dai propri simili. Si cade o si rischia di cadere in un baratro senza fondo. Allora si innesca un processo di svuotamento da sé della negatività che viene appunto proiettata ma qui si ingenera un altro meccanismo perverso: la negatività è al di fuori ma allora diventa minaccia, il processo di isolamento non si interrompe perché si comincia a sentirsi vittime di una congiura sociale. CONGIURA: La congiura diventa una vera e propria sindrome. Gli elementi si possono riscontrare in modo abbastanza limpido nell’osservare 129


Libera-Mente dal di fuori chi rifiuta ogni genere di aiuto, umano, psicologico, amicale, sociale, ma va spiegato cosa succede a chi la vive dal di dentro la congiura. Ritengo che alla base ci sia una colpa inesplicabile e altrettanto intollerabile che viene proiettata perché ritenuta insopportabile e quindi si imputa a chi ci pone aiuto la recondita minaccia di volerci fare del male per ragioni che non riusciamo a spiegarci, il mondo diventa particolarmente ostile e in conclusione non ci si preoccupa neanche più di sapere il perché, si fugge e basta, oppure si costruiscono complesse ragioni basata su una presunta invidia sociale, o sul desiderio di sfogare un istinto distruttivo che viene canalizzato proprio in direzione di chi si sente vittima. Ovviamente chi si sente vittima si sente profondamente incompreso e sottovalutato e questo lo spinge ad esaltare narcisisticamente le proprie potenzialità di sopravvivenza e affermazione, elemento che può concretizzarsi nel rifiuto della terapia farmacologica che induce a pensare che ci sia solo un tentativo di azzeramento della coscienza. L’origine della condizione di vittima può partire in modo subdolo e poco chiaro per cominciare proprio nella mente di chi si costruisce un’identità fragile, appunto di vittima, ma che in realtà diventa una spessa corazza psicologica per non affrontare la propria vera identità. IDENTITA’. Parlare di identità è una sorta di sfida perché si possono adoperare mille sfumature di significato per definirla ma partiamo dall’idea che sia l’insieme delle idee di desiderio, cioè di realizzazione di un progetto che nasce da un istinto e 130


Libera-Mente può materializzarsi con il sostegno, la guida, di chi ci sta intorno o l’uso di oggetti materiali, beni di consumo che ci fanno sentire oggetto di approvazione, ma ad un livello più profondo, pensiamo a quanto l’attenzione affettiva può costituire viatico per la garanzia non solo della sopravvivenza ma del miglior modo per affermarsi. Identità è convivere con la propria dimensione: sociale, emotiva, culturale. Parliamo anche di confronto costante con i gruppi con cui si entra in contatto, e riflesso della propria immagine, primo rispecchiamento, scoperta, intensità delle emozioni, dolore, gioia, soddisfazione, compiacimento, e desiderio di realizzazione spontanea, non riflettuta, piena espressione naturale non filtrata. Ma anche sforzo nell’adeguamento, rifiuto dell’omologazione, desiderio di compiacimento, flusso irregolare nella comunicazione, percezione di un disagio, sofferenza somatizzata con dolori che ci colpiscono nelle parti vitali e più intensamente innervate. Il corpo manda messaggi perché la mente deve affrontare complessi percorsi per trovare stabilità. Ci si conforma per quanto possibile a regole condivise ma bisogna comunque scendere a patti con la propria consapevolezza. La consapevolezza nasce con l’essere umano, rielaboriamo molto rapidamente gli stimoli per capire cosa ci dà benessere, rielaboriamo informazioni per sapere chi siamo e cosa vogliamo e comunque si ha bisogno di risposte per trovare una strada fluida. Ma se si sente che la testa, per usare un’espressione corrente, non funziona? Allora non funziona più niente. Funziona però la 131


Libera-Mente coscienza. Si è comunque consapevoli di qualcosa che non va, la sofferenza è un messaggio chiarissimo. Anche nelle condizioni mentali più precarie si è coscienti di una condizione di disagio, o in altri momenti di un buon livello di stabilità. Bisogna allora lavorare in quest’ambito. Ma cosa ci fa soffrire? Come possiamo reagire? Perché la mente sfugge? Non siamo codificati, come esseri umani, in modo così restrittivo da avere comportamenti automatici, dobbiamo costantemente negoziare regole di comportamento che si adeguino al più rapido raggiungimento di uno stato di benessere fisico e mentale. Ci sono molteplici tentativi per semplificare la ricerca ed accelerare il tempo necessario per raggiungere un obiettivo. Quando un’identità, in breve la scoperta di sé stessi e delle proprie capacità di adeguarsi a regole temporaneamente standardizzate e ritenute le più appropriate, si scontra con una difficoltà costante nella comunicazione, che è poi condivisione, si cancellano pezzi di realtà attribuendogli l’origine del proprio dolore. Possiamo chiudere gli occhi di fronte a quello che vediamo, rapporti, richieste, rifiuti, arriviamo a non tollerare la condiscendenza, diventiamo vittime di una rete di relazione in cui non solo non riusciamo a primeggiare ma neanche a integrarci. Da cosa dipende tutto questo? Possono esserci alterazioni organiche e funzionali ma che comunque non alterano la nostra ricerca della propria condizione di benessere. Una cosa è ormai certa, la coscienza delle propria dimensione di sofferenza è automatica in ogni essere umano e soprattutto 132


Libera-Mente siamo creature modificabili, auto modificabili. Nel tentativo di automodificarci per entrare in relazione dobbiamo scegliere quali elementi della nostra identità dobbiamo mettere da parte, l’integrazione è condivisione di progetti ma per trovare la giusta dimensione dobbiamo allontanarci da una parte di noi, cedere una quota di potere. Il potere sta nell’imporre a tutti i costi una propria visione, alla base c’è la mancata identificazione delle priorità che riteniamo irrinunciabili. Se vogliamo affermare tutto di noi senza un filtro adeguato allora si arriva all’imposizione. Quando diventa difficile gestire le proprie emozioni, nella difficoltà diventa più difficile filtrare le priorità e allora si vuole imporre la propria identità a tutti i costi: mancanza di adeguamento uguale fissità ideativa. Arriviamo ad una rapida conclusione: mancata integrazione dell’identità comporta una notevole fatica collegata ad una percezione di profonda sofferenza, spontaneamente ci si allontana dalla sofferenza e si arriva allo scollamento dalla realtà. La presenza di una figura affettivamente molto importante, assoluta, nel mio caso il padre, può creare una forte competizione affettiva per diventare esclusivo oggetto d’amore e screditare le altre figure familiari altrettanto importanti, madre, fratelli. Ora in una condizione di stabilità cerebrale, intendo la pura funzionalità, si possono sufficientemente bene elaborare i contenuti emotivi di un desiderio di garanzia di sopravvivenza e affermazione vitale e sociale, ma se il cervello stesso ha un funzionamento esponenzialmente orientato diciamo ad un eccesso emotivo 133


Libera-Mente allora sia l’amore che la colpa conseguente al desiderio di eliminare ogni ostacolo diventano insormontabili, non vengono rielaborati, l’angoscia diventa insanabile, si cerca di espellere da sé l’orrore che si prova e allora la colpa si proietta al di fuori, ma a questo punto chi ci circonda è ammantato di una colpa, e qui scatta l’idea della colpa sociale: appunto la congiura. TERAPIA. Abbiamo visto che potenzialmente è dal gioco colpa, proiezione, congiura che nasce il rifiuto, e il primo che viene ovviamente offerto è quello farmacologico, per ovvie ragioni funzionali al tempo di efficacia e al potenziale di stabilizzazione. Assumere farmaci consapevolmente è difficilissimo, ripeto che tutto quello che scrivo è frutto di una lunghissima e personalissima esperienza, nasce un vero e proprio terrore all’idea di dover assumere farmaci particolari, psicofarmaci, che per loro stessa natura incidono sulla mente. Ora bisogna considerare il fatto che non viene alterato il pensiero ma reso più tollerabile. Riprendo un riferimento precedente: impariamo a conoscerci anche se l’identità è intrisa di sofferenza e preferiamo imporre la nostra sofferenza piuttosto che cercare una stabilità che potrebbe comportare la perdita dell’identità. E’ evidente l’aspetto del rifiuto ma è difficile spiegarne con chiarezza le motivazioni. Verrebbe naturale pensare che si sia disposti a tutto pur di ridurre il dolore e quindi accogliere volentieri l’aiuto farmacologico, ma il termine stesso di psicofarmaci crea un vero e proprio terrore, quello di essere vittima di una manipolazione. Un problema che può sorgere è l’adattamento 134


Libera-Mente alla terapia, non tutti i farmaci sono adeguati per ogni paziente e gli effetti possono essere positivi o devastanti, ci vogliono tempo e pazienza per raggiungere il giusto equilibrio terapeutico e gli effetti collaterali: sonnolenza, torpore mentale, difficoltà di parola, per quanto temporanei e risolvibili, sono motivo di rigetto e paura. Ci vuole del tempo perché una terapia farmacologica trovi il giusto equilibrio ed un’efficacia adeguata ma quello che manca in una condizione di diversità è proprio il tempo. Tutti possiamo sperimentare come intense emozioni positive o negative possono influenzare la nostra percezione del tempo, che si comprime o dilata a seconda delle condizioni, proviamo allora a immaginare cosa può succedere quando le emozioni sono sempre particolarmente intense e il tempo viene costantemente percepito in una contrazione o dilatazione che può dare il senso dell’implosione o della frammentazione. La percezione mentale diventa elemento fisico somatizzato che può paralizzare fino al punto di non riuscire più a muovere nemmeno un muscolo. L’inspiegabile impotenza di fronte ad iniziative ritenute di quotidiana semplicità deriva dal terrore di dover affrontare la complessità del messaggio comunicativo, le emozioni nascono dall’interazione ma se esse stesse sono incontrollabili allora la stessa vita relazionale si distorce in modo intollerabile. Un altro aspetto che può diventare funzionale al proprio controllo è l’immobilismo ideativo: si deve affermare un’idea che deve essere accolta senza contraddittorio, si reputa un atteggiamento infantile la pretesa 135


Libera-Mente che tutto si realizzi secondo i propri desideri o aspettative ma in realtà quello che in un bambino è provocazione per sperimentare un limite, in una persona con disagio mentale è il tentativo di non provocare a se stessi una pressione emotiva. L’esplosione e l’irrigidimento sono due estremi che a volte esplodono consecutivamente e a volte sedimentano in una progressione più lenta ma non certo per questo più rassicurante. La convivenza di una persona diagnosticata, uso questo termine essenzialmente burocratico perché diventa a suo modo un’identità, con sé stessa è molto difficile e abbiamo già accennato alle difficoltà relazionali, ma se quelle extrafamiliari possono essere parzialmente risolte con l’evitamento, rimane irrisolto il rapporto con il nucleo fondante dell’affettività relazionale: la famiglia. FAMIGLIA. La famiglia è la prima trincea in cui si combatte la battaglia della diversità. Si tratta di una vera e propria lotta quotidiana, per cominciare c’è la difficoltà nel capire cosa sta succedendo ai propri figli, si intuisce che qualcosa non va. I comportamenti stereotipati, intrisi dei più diversi rituali, la non accettazione delle più elementari regole di comportamento, gli apparentemente immotivati scatti d’ira, la violenza reiterata verso chi porge affetto, l’impossibilità di rielaborare gli scompensi affettivi nei confronti dei fratelli, il costante fallimento nel tentativo di negoziare quote di affetto, l’isolamento affettivo e mentale che spesso fa pensare ad un forte ritardo nello sviluppo mentale, sono tutti segni di una situazione complessa e di difficile definizione. Come se tutto 136


Libera-Mente questo già non bastasse a creare una situazione difficilissima, si deve subire anche un profondo isolamento sociale. Neanche ci fossero potenziali elementi di contagio di un disagio. Si aprono dolorosi scenari intrafamiliari: l’angoscia per il futuro, la rabbia per il dolore, la fatica del quotidiano spingono i genitori ad addossarsi reciproche colpe, che sono poi il riflesso di quelle sociali che vengono imputate alla coppia: una drammatica ereditarietà, incapacità di essere dei bravi educatori, generiche attribuzioni di responsabilità non meglio definite. Considerando che già essere una coppia e avere una famiglia comporta un adattamento quotidiano molto articolato che mette in gioco dinamiche emotive, di aspettative, di delusioni e sfide che è difficile gestire in condizioni di relativa normalità, immaginiamo cosa può succedere quando un figlio presenta forti sintomi di disagio mentale. Non c’è il tempo di capire cosa stia succedendo perché le provocazioni si susseguono con ritmo incessante e imprevedibile, non si possono strutturare accordi di compromesso funzionali ad una convivenza tollerabile, tutto si fa confuso e sfinente, si perde la misura delle cose e si finisce per sintonizzarsi sull’esponenziale espressione emotiva di chi vive il disagio lasciandosi involontariamente trasportare in un mondo di emozioni così intense da perdere il filo conduttore della consapevolezza. L’isolamento del disagio diventa isolamento familiare e, come abbiamo già definito, è proprio l’isolamento a ingenerare dolore. Gli esseri umani sono fondamentalmente esseri sociali, la condivisione è l’elemento cardine dell’identità 137


Libera-Mente e della sopravvivenza, in una parola per vivere abbiamo bisogno di scambi emotivi. Quando si interrompono si apre un vero e proprio baratro esistenziale a cui ci si avvicina pericolosamente fino, a volte, a caderci dentro, e allora si scatena l’irreversibile tragedia. Con un’attenzione meno spaventata e più consapevole si può trattenere chi rischia di lasciarci e lasciare dietro di sé un dolore di difficile elaborazione. Certo sono perfettamente consapevole della estrema difficoltà del contatto, ma per cominciare ritengo che sia di fondamentale importanza dare fiducia a una famiglia riguardo alle proprie risorse rigeneratrici. Cominciando da questo passo basilare e in fondo di non difficile attuazione, si può ingenerare un percorso creativo. Ma come tendere una mano? Compiere il percorso più semplice all’apparenza ma il più doloroso e difficile per chi si sente implodere? Io sono riuscita a tenderla e tutto il resto è venuto da sé, l’aiuto, la condivisione, il sostegno, lo stimolo, la guida, la protezione, la sicurezza, la voglia, in una parola, di vivere, propria quella che nell’estrema solitudine manca e fa perdere il senso delle proporzioni e fa scattare la molla dell’abbandono, allora tutto diventa facile e desiderabile, un attimo ed è tutto finito: si riesce a smettere di vivere, a procurarsi la morte. Mi riesce ancora difficile spiegare come sono riuscita a tendere la mano, a guardare fuori da me e vedere un intero, vasto, variato mondo di stimoli positivi, certo non tutti lo sono ma sono in grado di distinguerli, quelli buoni da quelli negativi, cominciando a rivedere la memoria, di tante cose dette, 138


Libera-Mente spiegate, condivise, rielaborate, un ricco patrimonio sedimentato negli anni di cui possiamo disporre ma che in alcuni casi è come se si disattivasse, una luce che si spegne e allora non riconosci più gli ostacoli, puoi camminare ma con il rischio di cadere ad ogni passo e allora resti paralizzato. Cerco disperatamente e freneticamente le parole per spiegare, in fondo per chi prova l’atroce lacerazione della solitudine anche il solo parlarne ingenera altro dolore, ma in fondo proprio parlare di solitudine è l’inizio di un contatto che può sconfiggere la solitudine stessa. Ho capito che dovevo guardare al di fuori di me quando il dolore della fatica, somatizzata con un profondo senso di sfinimento, di stanchezza che non si placa mai visto che non si riesce a fermarsi per tentare di fuggire da sé stessi, si è fatto tanto intenso da diventare insopportabile, un elemento che mi ha spaventato più di ogni altro è il fatto che non mi bastava più scaricare su di me la violenza fisica e verbale e su gli altri quella verbale, stavo diventando pericolosa socialmente, ero consapevole del rischio che stavo correndo e stavo facendo correre e questo mi ha spinta ad affidarmi, una casa famiglia. Sono sempre stata ferocemente indipendente e l’idea di vivere con persone che si assicuravano che mi prendessi cura di me, pasti, sonno, farmaci, dialogo, sicuramente non rientrava nei miei progetti, ma visto che mi si prospettava come l’unica soluzione percorribile, accettai e cominciai a valutarne le conseguenze. Nei tre anni di convivenza e permanenza, ho condiviso, osservato, sperimentato, valutato, analizzato e 139


Libera-Mente confrontato situazioni in cui potevo rispecchiarmi. E ho conosciuto una donna in cui mi sono rispecchiata talmente tanto da riuscire a legarmi a lei profondamente. Ci lega un vissuto molto simile, un passato che per certi aspetti si può sovrapporre, lei conosce tutto di me perché ho potuto confidarglielo senza remore o timori, mi ha incondizionatamente sostenuto nei momenti in cui stavo per cadere e io ha sostenuto lei quando sentiva il peso del suo passato. Le ho teso la mano e l’ha toccata, ora l’ha fatta scivolare perché forse io non l’ho stretta abbastanza forte o lei ha deciso di ritrarla perché il contatto le apriva un mondo emotivo che ancora non riesce a gestire. Il passato può pesare molto. Ho cercato infinite volte di spingerla a guardare sé stessa scoprendo quanta bellezza interiore abbia, che non ha bisogno di trucchi e orpelli, ma forse il mio trasporto emotivo ha sortito l’ effetto opposto, l’ho stancata o spaventata. Ho agito con le migliori intenzioni e ho un ricordo ricco, intenso, vitale di lei. Per il momento parlo di ricordo, perché la fisicità si è interrotta e la sua mancanza è decisamente pesante da sopportare, ma nella mente ogni gesto, decisione, atteggiamento lo posso riportare al confronto, alla valutazione, alla condivisione con lei. Non so sinceramente se i nostri destini potranno incrociarsi di nuovo ma posso dire con sicurezza che ho dato tutto quello che potevo e ho ricevuto moltissimo, spero ardentemente che la sua sofferenza sia breve e che possa riprendere in mano la sua vita, come è poi diritto di tutti, per il momento mi impegno a spiegare chi siamo tutti noi, perché arrivi voce anche a 140


Libera-Mente questa cara amica che mi manca molto. Molto abbiamo parlato della nostra condizione, quella che io definisco di diagnosticate. Lei voleva sempre distinguersi da quello che riteneva un gruppo di persone perse, soggetti irrecuperabili ad una vita sociale pienamente integrata. Aveva paura di perdersi, forse si sentiva già persa. Le comunicavo le mie considerazioni con pacatezza, ognuno di noi non dimentica come è veramente, semplicemente a volte, o forse spesso, ha paura di confidarlo a sé stesso. Abbiamo bisogno di distinguerci ma anche di essere uguali, sembra un paradosso ma infondo cos’è l’integrazione se non il bisogno di rispecchiarsi? Lei aveva paura di doversi equiparare a una categoria che aborriva:”non sono mica matta” dichiarava facendo trapelare un profondo rancore verso molti, forse troppi, che secondo lei la ritenevano tale. Essere matti, non integrati o integrabili, non è una condizione che si cerca, ma se la si affronta chiamandola nel modo più appropriato, cioè profondo disagio, allora si può cominciare a ragionare. La personalità di ognuno, scelte, desideri, consapevolezze, considerazione di sé, delusioni, aspettative, esigenze, speranze, si estrinseca in modo non necessariamente limpido e consequenziale, si chiama difficoltà dell’esistenza. L’unico modo per trovare un ordine nelle cose è fare leva sulle proprie risorse,energia, competenza, esperienza, ricordo, consapevolezza. E’ impossibile rivivere il passato per recuperarlo ma si può cercare di impostare il futuro. La lacerazione del distacco da una persona o da sé stessi, che poi 141


Libera-Mente in un certo modo è la persona che meglio riteniamo di conoscere, può diventare estrema fino a bloccarci, allora si cristallizzano e reiterano meccanismi di affermazione che avevano avuto un senso prima che si sedimentassero esperienze deludenti o piacevoli che comunque rimpiangiamo troppo, la reiterazione spinge a inibire il processo evolutivo, cioè la valutazione delle proprie risorse per capire come impostare scelte successive. Il processo evolutivo altro non è se la valutazione delle proprie risorse, come abbiamo reagito di fronte ad esperienze che ci hanno profondamente segnato, e a volte anche quelle che sembrano irrilevanti rivestono grande importanza, semplicemente le rimuoviamo, per questo non gli diamo grande importanza. Il dolore che si prova non è segno di debolezza, la paura non è segno di vigliaccheria, non è debole una persona che si sente impotente di fronte alle sfide dell’esistenza, semplicemente le provocazioni possono essere arrivate in un momento in cui eravamo più fragili o abbiamo ricevuto giudizi malevoli. Ci vuole più coraggio ad ammettere la propria debolezza che a voltare le spalle alla vita. Ci sono tante cose difficili che è ben faticoso rendere facili: alzarsi la mattina e gettare un ciao al collo del mondo e sentire nello stesso attimo che quel saluto si ferma in gola come un groppo che toglie il respiro, smorza ogni energia e ci spaventa. E’ faticoso aprire bene gli occhi e guardarsi in uno specchio che ci rimanda un impietoso riflesso della nostra stanchezza, della nostra fatica di vivere perché in fondo tutti i giorni sono uguali, nella loro monotona fatica. A quel punto 142


Libera-Mente tanto vale allora aumentare lo sforzo e rendere il risveglio facile, pensare positivo e leggere nella previsione del quotidiano anche un incontro inaspettato, un’emozione che riusciamo a provare più profonda e coinvolgente, aspettiamoci l’inatteso. E’ allora facile avere una maggiore considerazione di sé stessi perché sappiamo di valere, almeno quel tanto che ci permette di gridare:”Io ci sono, io esisto e sono una bella persona.” E’ difficile amare, ma è ancora più difficile accettare di essere soli, è facile voltare le spalle ma è difficile sopportarne le conseguenze, è facile in fondo lasciare un sorriso, dare un abbraccio, è facile anche lasciarci prendere dalla paura di non aver amato e capito abbastanza, ma non è poi così difficile rendersi conto che siamo in grado di trovare il tempo per pensare e recuperare la distanza che si può azzerare in un attimo, il tempo di una telefonata per dire semplicemente:” Sono io, volevo sapere come stai.” Facile e difficile sono due facce di una stessa moneta, coniata dall’esistenza, valuta di scambio di intere vite trascorse in una continua negoziazione, basta non pretendere di ricavare profitti immediati ed eccessivi a scapito di chi ci sta intorno e avremo raggiunto una parità di scambio, è un lavoro difficile, ma una volta avviato tutto diventa facile. Ammettere la propria debolezza significa dover affrontare un percorso di disamina, toccare il dolore, capire come reagire, come incanalare le proprie emozioni perché non diventino un fiume in piena che devasta. Ci vuole coraggio a chiedere aiuto perché si può rischiare di non riceverlo, ma si può sempre 143


Libera-Mente ritentare. Sicuramente per un non diagnosticato può diventare difficile capire cosa succede nella mente di chi ha una diagnosi, viene naturale pensare istintivamente al protrarsi di crisi così acute da diventare ingovernabili, ma va fatta mente locale alla considerazione che gli stati emotivi sono incostanti e si possono alternare momenti di apertura all’altro e periodi di chiusura violentissima. Quello che crea una continuità è il dolore della percezione di non poter governare la propria mente e nello stesso tempo temere, con la terapia farmacologica e l’analisi, di perdere la propria vera identità o scoprire che è irrecuperabile. Proviamo a porre a un non diagnosticato alcune semplici domande per tentare di farlo entrare, seppure ipoteticamente, nella mente di un diagnosticato: Cosa fai quando senti che le forze ti vengono a mancare e quasi non riesci neanche ad alzarti dal letto? Come riesci a guardare una persona negli occhi senza temere il suo giudizio? Come valuti la tua vita convivendo con una diagnosi psichiatrica? Potresti definire il disagio mentale? Ti sei dato una spiegazione sul perché soffri tanto e sembra che nessuno se ne accorga? Quanto valore dai alla tua vita? Pensi che la vita vada comunque vissuta? Pensi che gli altri abbiano paura di te? Vorresti soffrire di un’altra qualsiasi malattia che abbia 144


Libera-Mente comunque dei sintomi evidenti? Nutri speranza per il tuo futuro? Guarire significa in qualche modo spersonalizzarti, non riuscire più a riconoscerti? Anche la sola ipotesi di un tentativo di risposta è complesso. Si provi allora a immaginare di doverlo affrontare con penosa frequenza. Ritorniamo per un momento all’origine del discorso: si sta male e si vuole chiedere aiuto, questo è chiaro, ma per spiegare cosa? Non ci sono parole sufficientemente chiare perché tutto è rimosso, per vergogna, confusione, paura, terrore di un giudizio, incubo del completo disadattamento sociale, mancata integrazione, scollamento dalla realtà, vuoto, rabbia, mescolando tutto questo si ottiene l’effetto somatizzato di una paralisi; se non c’è un minimo di ordine nei pensieri allora non si possono più valutare le conseguenze delle proprie azioni di cui peraltro non si è più sicuri di avere il controllo. Un passo che si può compiere è il rispetto per chi si ritrova a doversi porre le domande che ho elencato pocanzi e tentare insieme di dare una risposta. Nel dire insieme e rispetto faccio riferimento a un sostegno medico e sociale per la persona che sta per essere diagnosticata o è già diagnosticata e la sua famiglia perché quando la sofferenza colpisce, quella mentale in particolare, la famiglia è un unico organismo colpito nei suoi gangli vitali. Per usare una metafora informatica è come se un virus invertisse tutti i codici che stabilizzano le relazioni e quest’inversione cancella tutto il prodotto che si tenta di realizzare. Tutta la famiglia va 145


Libera-Mente protetta, sostenuta e incoraggiata. La famiglia stessa poi deve affrontare il complesso percorso rielaborativo di chi decide di affrontare un percorso di analisi. ANALISI. Affrontare una terapia di analisi comporta come primo problema quello di sapere quanto potrà durare e quanta fatica si dovrà fare. Si può scoprire che ci si può risvegliare da un incubo ma anche rendersi conto di aver perso buona parte della propria vita, scivolata via dalle mani perché non si era in grado di guardarla ad occhi aperti, con la piena consapevolezza delle proprie scelte. Il tempo della terapia può essere più o meno lungo e non c’è una graduale progressione, anzi è molto più probabile che si creino sviluppi seguiti da repentine regressioni: si può definire un effetto Penelope. L’inizio nasce dal bisogno, dalla fiducia, dalla mancanza di altre opportunità per risolvere i propri problemi legati ad un quotidiano che non si riesce più ad affrontare. Presto arriva il dubbio: se mi inoltro nell’analisi delle mie problematiche, del mio peculiare modo di reagire di fronte alle provocazioni, faccio mente locale a quello che penso e provo soltanto pensando a quello che ho vissuto cosa potrò scoprire? Sarò travolto da altre emozioni, scoprirò di avere metodicamente sbagliato ogni scelta e quindi dover sopportare il peso di errori che non posso più correggere? In realtà le cose non sono né così semplici né così drammatiche come possono apparire. Il fatto stesso di aver vissuto, seppure male, con sofferenza, sta a significare che abbiamo fatto tutti i possibili tentativi di adattamento alle circostanze e delle discrepanze più o meno marcate tra quello che abbiamo 146


Libera-Mente voluto ottenere e quello che è effettivamente successo sono fisiologiche. Quello che ci fa pensare di dover rivedere tutto in modo così radicale da non poterci più riconoscere o dover ammettere di aver semplicemente sbagliato tutto o aver vissuto senza adeguata consapevolezza è la percezione di un unico danno che sentiamo dentro di noi; la percezione di una parte di sé che non funziona settorializza e circoscrive il problema: solo una parte non funziona, per così dire è solo un settore, ma il non riuscire a prenderne le distanze porta a pensare a un generale degrado, irreversibile e ingovernabile. Quello che ci far star male viene dimenticato superficialmente, in realtà resta incardinato nella nostra memoria. Lo scollamento dalla realtà sta a significare che ogni genere di rapporto può diventare fonte di difficoltà, non sappiamo come negoziare le nostre quote di potere e ci rinchiudiamo in un mondo isolato dove siamo assoluti padroni. Ma proprio questa chiusura porta alla paura del quotidiano. In fondo una certa quota di scollamento è presente in ognuno, è facile osservare come si imitano più facilmente modelli che rappresentano l’affermazione estremizzata di loro stessi senza nessun filtro sociale. Quando lo scollamento si fa troppo forte, con l’accentuazione della memoria di esperienze che ci hanno permesso di calmierare il dolore, allora l’insistenza con cui pretendiamo di reiterare certe reti di relazioni con relative conseguenze ottunde la capacità di rinegoziare un’identità che si rapporti a diverse reti di relazione. La vita è una continua ricerca di spazio vitale, ma 147


Libera-Mente bisogna tener presente che il proprio non deve, per quanto possibile, ledere il necessario spazio dovuto a chi ci sta intorno. Il dover essere rapportati comunque ad una dimensione più attuale può provocare lo scollamento patologico. Per scollamento patologico non intendo dire che sia irreversibile, posso parlare per esperienza diretta, ma una fase in cui tutta la memoria del vissuto viene letta in un’ottica deformata. In precedenza avevo parlato della sindrome della congiura, la sindrome comincia a costruire una falsa coscienza, si sfruttano tutti gli elementi della memoria ma incardinati in una successione inversa rispetto a quello che si è effettivamente vissuto. La memoria della fatica di vivere e della non accettazione, della difficoltà di integrazione e del lavoro necessario per affermare una propria identità spinge a costruire un passato che ha una sua logica ed è meno scollegato dalla realtà di quanto si possa immaginare. In sintesi si invertono i tempi e la memoria della realtà che si è vissuta. Parlare di realtà è un concetto che può diventare fuorviante, non c’è un’unica realtà omologabile e ampiamente condivisa, cos’è in fondo la realtà: in modo approssimativo la potremmo definire come la soddisfazione delle nostre esigenze in base alle pressioni, provocazioni e opportunità che abbiamo di fronte. Ma allora a ben guardare ciascuno ha la sua realtà, ovvero ciascuno ha la sua peculiare identità. Identità che in ogni caso si può modificare. Ma in base a cosa? In prima battuta si può modificare la propria identità per soffrire meno, cioè migliorare i propri accordi di compromesso sociale per 148


Libera-Mente poter essere socialmente integrati. Ma una personalità rigida non vuole perdere parti di sé e si isola. L’isolamento è una condizione innaturale per ogni essere umano e allora si possono creare identità alternative che mostrino la forza di affermarsi. Quasi fossero più tollerabili. Si amplificano memorie di momenti di successo per farle diventare un continuum che si immagina possa aver contraddistinto un’intera esistenza, ma lo sforzo non regge perché riaffiora comunque la memoria della sofferenza vera. Nello sforzo di cancellare la vera memoria si amplifica la costruzione di una nuova identità: parallela perché è una specie di contraltare di quello che si è veramente vissuto. Una parte di sé ricostruita che ha reagito positivamente nel passato e che ora è diventata la vera identità: si parla di DELIRIO, di profondo scollamento dalla realtà, ma ad un’analisi più profonda è sempre alla stessa realtà che si fa riferimento, soltanto si invertono i termini dei rapporti, non più vittime di insostenibili provocazioni ma persone in grado di sopportare il peso della complessità; a ben vedere c’è sempre un substrato di logica anche nella follia e lo scopo è sempre lo stesso: ridurre il dolore. In quale modo è possibile riportare la coscienza verso un’autentica memoria di quello che è realmente accaduto? In termini di accadimento faccio un duplice riferimento: sia i fatti come si sono svolti in sé e per sé, e il modo peculiare in cui si è reagito emotivamente. L’unica persona che possa effettivamente ritrovare il suo filo conduttore è chi ha realmente vissuto determinate esperienze. Ora il problema è 149


Libera-Mente che deve essere automotivato. Indubbiamente il sostegno dei familiari, del personale delle strutture, quello farmacologico e la terapia analitica possono semplificare il lavoro, ma se non c’è un’adeguata consapevolezza da parte di chi si allontana dalla sua realtà i risultati saranno sempre piuttosto precari. Che cosa spinge a isolarsi fino al punto di creare un’identità alternativa che diventa una seconda pelle, oltre al dolore di cui abbiamo già parlato? Tutti proviamo dolore e in fondo molti di noi, nelle loro scelte, cercano di indossare un’identità che non gli appartiene esattamente, ma essendo socialmente condivisa gli dà la garanzia di una riconoscibilità sociale. Ma non si arriva allo scollamento dalla realtà. Credo che quello che può portare a scollegarsi dalla realtà abbia un’insorgenza molto precoce, non razionalizzata e non presente in modo limpido nella memoria, ma che riesce a provocare una sottile frattura che si allarga con il tempo fino a diventare un baratro. Un baratro di incomunicabilità. Non c’è, a mio avviso, una condizione irreversibile e incontrollabile, non si tratta di una vana speranza ma della profonda consapevolezza della presenza di un costante livello di coscienza, condizione che può portare ad un’automodificazione. AUTOMOTIVAZIONE. L’unico modo per favorire un contatto costruttivo è la personale convinzione di aver bisogno di mettersi in discussione, affrontare il proprio vissuto, scendere a patti con la propria memoria accettando tutto quello che è successo anche se non corrisponde alle nostre aspettative. Nessuno di noi sceglie di venire al mondo e per 150


Libera-Mente affrontare la fatica di vivere vogliamo realizzare i nostri progetti senza ostacoli e fallimenti. Ma la vita è una sfida continua a trovare in noi stessi le risorse e capire che l’aiuto ci viene offerto ma non necessariamente per eliminare ogni ostacolo. Dobbiamo comunque lavorare su noi stessi per modificare i nostri atteggiamenti, diventare meno rigidamente esigenti, e soprattutto capire quali sono le nostre vere priorità perché la vita è sicuramente continuo adattamento, ma sia chiaro non spersonalizzazione, e non si può pensare di ottenere incondizionatamente quello che ipotizziamo possa darci sicurezza. La fuga da un evento traumatico può far insorgere una patologia mentale, che dipenda da una predisposizione genetica o sia di origine appunto traumatica è tema che esula ovviamente dalle mie considerazioni, a conti fatti l’elemento che mi interessa mettere in luce è che la patologia si innesta in una personalità che è comunque unica e irripetibile. Il momento della diagnosi viene affrontato con estrema difficoltà e di conseguenza l’assunzione di una terapia farmacologica, perché è difficile capire che non si diventa una diagnosi, si rimane sé stessi seppure con un problema che richiede tempo e pazienza per essere risolto. Qualsiasi problema di salute che colpisca organi o tessuti richiede farmaci, la testa ha bisogno di psicofarmaci. Come se non potessimo più ragionare perché la malattia colpisce la testa. Ma come dicevo esiste la coscienza, di star male, quindi per certi versi la stessa testa funziona benissimo. E’ difficile spiegare cosa ci succede ma per prima cosa bisogna capire 151


Libera-Mente che si soffre di una patologia mentale ma non si diventa la patologia mentale. Ognuno di noi resta sé stesso, con il proprio vissuto, le proprie esigenze, gusti e predisposizioni. La diagnosi permette di avere un generale quadro di riferimento riguardo ad atteggiamenti comuni che appunto fanno rientrare in una diagnosi, ma che non omologano in una diagnosi. Se vogliamo ci sono naturalmente gusti e predisposizioni comuni in modo estremamente naturale, e ognuno può realizzare con il proprio personale contributo la condivisione di un progetto comune, altrettanto nella patologia mentale. Se per esempio nella depressione c’è la stessa ansia che paralizza alla sola idea di affrontare le problematiche del quotidiano o una spinta irrefrenabile ad affrontare ogni genere di impegni per sfuggire alle proprie inconfessabili paure, ebbene ognuno avrà comunque il suo vissuto da rielaborare, stimoli circostanti differenti, una dimensione emotiva, affettiva, familiare, sociale, probabilmente molto diversa da un altro che soffre della stessa patologia, quindi ritorniamo a confermare che la personalità, leggi identità e risorse e cumulo di esperienze, rimarranno sempre e comunque diverse. E’ questa diversità la garanzia del mantenimento della propria identità. Ci possono essere riferimenti allo stesso tipo di terapia farmacologica, spesso alcune si rivelano particolarmente efficaci proprio in ragione dell’utilizzo da parte di determinati pazienti, ma non per questo ci sarà lo stesso identico dosaggio perché ogni organismo reagisce in modo diverso. Riconfermiamo il tema 152


Libera-Mente della diversità. Altro elemento è capire che c’è una parte di noi che ci fa soffrire, ma non incide sulla totalità del nostro essere. Per avere sufficiente fiducia nelle proprie risorse bisogna rendersi conto che non siamo totalmente creativi o degenerati, ci sono molteplici aspetti in ogni personalità e bisogna sfruttare la memoria della positività non come una suggestione da rimpiangere perché irripetibile ma come spinta ad affrontare gradualmente gli aspetti penosi del nostro passato che incidono sul presente per circoscriverli in un’ottica di migliore contenimento. Verrebbe da pensare che la vita di un diagnosticato, diciamola tutta di un pazzo, non valga la pena di essere vissuta. Incubi, fobie, atteggiamenti stereotipati, carente produttività ideativa e quando c’è fortemente slegata dal comune senso logico, attacchi di panico, blocchi emotivi, paralisi degli arti, insomma una totale inadeguatezza anche ai minimi standard di rendimento ritenuti fisiologici per una persona bene integrata, non dico addirittura un leader ma quantomeno consapevole del suo ruolo. Ebbene posso consapevolmente affermare che c’è comunque una vita, sofferente certo ma degna, che va riconosciuta e difesa. Non si tratta solo di una valutazione propriamente etica, e mi riferisco ovviamente sia a quella laica che a quella religiosa, ma alla mia personale esperienza di fasi difficilissime attraversate con sovrumani sforzi per capire come rimanere collegata ad un quotidiano che di colpo mi appariva incomprensibile e invivibile. Anche in quei momenti comunque vivevo, pensavo, elaboravo, codificavo 153


Libera-Mente messaggi seppure in una distorsione provocata da un disturbo pervasivo dello sviluppo prima e dalla depressione poi. Nella realtà anche chi soffre di una patologia mentale riesce a sentire tutte le emozioni di tutti quelli che possono ritenersi perfettamente sani di mente, in grado di decifrare compiutamente i codici comportamentali e reagire di conseguenza ottenendo un beneficio personale senza andare a intaccare i solidi principi sociali di etica convivenza. Quello che non va è la distorsione, non la totale impossibilità di capire. Il cervello ha straordinarie doti di autorigenerazione sfruttando potenzialità che a volte rimangono inespresse. Bisogna concentrarsi sul fatto che il problema è costituito dalla migliore strategia di ricerca che va trovata e non pensare che sia la persona ad essere irrecuperabile. Un problema colpisce la persona ma non è la persona ad essere il problema. Con questo non intendo giustificare qualsiasi atteggiamento o scelta di chi ha un disagio mentale perché, come ho già detto, rimane la coscienza, ma non si può pensare che la lotta sia persa in partenza perché il problema è complesso. Chi soffre di un disagio viene spinto a rendersi conto che ha bisogno di aiuto, nei casi più estremi si ricorre all’imposizione, è traumatico ma assolutamente necessario, la strada più efficace è arrivare all’autoconsapevolezza. L’automotivazione è la migliore spinta per ritrovare la giusta prospettiva. Nella malattia mentale si perde la giusta angolazione con cui guardare gli eventi. Probabilmente fin da ben prima si guardava da un’angolazione troppo rigida o ravvicinata, non 154


Libera-Mente si riusciva ad avere un effetto d’insieme. Mi spiego meglio: facciamo riferimento ad un’esperienza che sicuramente ha riguardato molti di noi: la nascita di un fratello. All’improvviso cambiano tutti i parametri di riferimento, non più esclusivo oggetto d’amore ma competitore per le attenzioni dei genitori. Si scopre di avere maggiore competenza ma di dover pagare lo scotto della cessione di una quota di potere, il fratello piccolo ha bisogno di più attenzioni; valutiamo altre situazioni: crescendo si affermano caratteri diversi ed esigenze diverse che si scontrano con le aspettative della famiglia, altro cambio di prospettiva, pensiamo poi a quanto della nostra identità ci viene riflesso dai coetanei. A ben vedere prima di stabilire le proprie priorità bisogna costantemente confrontarsi con un mondo di stimoli e provocazioni molto complesso e un’identità rigida, per non spezzarsi, tenderà a richiudersi in sé stessa. Ma sappiamo che l’isolamento è contrario all’essenza stessa della natura umana e allora la ricerca del contatto da parte di una personalità rigida finirà per diventare fisso e stereotipato. Una sorta di rituale che ha come unico scopo quello di controllare una situazione che potrebbe sfuggirci di mano. Ogni situazione può far riaffiorare eventi remoti attraverso collegamenti del genere più imprevedibile, e il riaffiorare di emozioni troppo intense genera il terrore. In fondo chiunque cerca di sfuggire al dolore. Ma è importante capire che non si deve solo temere di essere travolti da un fiume in piena di emozioni che può farci pensare di esserne travolti fino a morire, bisogna invece 155


Libera-Mente lavorare su un cambio di prospettiva. I ricordi e le emozioni con cui lavorare sono gli stessi di sempre ma deve cambiare l’ottica con cui li guardiamo. Nello specifico ciascuno deve analizzare la propria memoria, non soltanto i propri sogni o le proprie aspettative. Analizzare la realtà vuol dire rivedere lo svolgersi degli eventi nell’ottica delle emozioni che si sono succedute di volta in volta. Già il partire dal presupposto di un’analisi del proprio vissuto sta a significare che ne abbiamo prese le distanze perché possiamo rifletterci e quindi siamo in una posizione di vantaggio: non ne siamo stati completamente travolti, siamo allora perfettamente in grado di pensare. E’ già un punto di partenza a nostro favore. La vita quasi sempre non va come avremmo voluto ma a ben vedere possiamo trovare risorse per recuperare terreno. Parlando come donna posso confrontarmi con l’esperienza della maternità: non ho potuto realizzarla per una serie di motivi contingenti che mi hanno impedito di realizzare questo progetto ma mi sono resa conto che non si è comunque esaurita la mia capacità affettiva nei confronti dei figli che io chiamo sociali, figli non miei ma a cui comunque sento di dover e volere dare affetto, stima, comprensione. Forse il progetto non è altrettanto complesso ma di sicuro non spreco risorse. La vita per varie ragioni mi ha portato a confrontarmi con il disagio mentale, ho vissuto come un intollerabile peso questa condizione pensando per molti anni che non avesse senso vivere una vita a metà, ma ora ho capito che non esistono mezze vite, esistono vite e basta e bisogna lottare per affermarle. La mia lotta ha 156


Libera-Mente cominciato ad avere un senso quando ormai pensavo di dovermi arrendere. Avevo fatto riferimento in precedenza alle case famiglia. Prima di tutto va spiegato che non si tratta di piccoli manicomi a misura d’uomo, case di reclusione in semilibertà dove rinchiudere persone che non sanno o non possono integrarsi, o case protette che raccolgono disperati senza speranza. Sono centri di riabilitazione psichiatrica, e l’angolazione di visuale non deve centrarsi solo sul termine “psichiatrica” ma “riabilitazione”. In fondo non si riabilita anche la funzionalità degli arti? Allora si può riabilitare anche la mente. Altro cambio di prospettiva: non solo creare il miglior adattamento sociale ma raggiungere in primis quello con sé stessi. Non si sconta una condanna per una gravosa colpa sociale ma si lavora, e questo lo posso garantire si lavora davvero tanto, per trovare un ordine nella propria mente, ritrovare il rispetto e la considerazione per sé stessi, il giusto peso da dare alla propria vita che non è una vita a metà ma è integra e complessa e ha diritto ad affermarsi sempre tenendo presenti tutti i fondamentali punti di riferimento dell’etica personale e sociale. Abbiamo vissuto decenni in cui l’etica sociale si è andata progressivamente impoverendo a favore di un atteggiamento fortemente edonistico, di affermazione personale realizzata ad ogni costo a scapito anche del benessere di chi ci stava intorno. Si è creato uno scompenso sociale enorme che spinge a cercare capri espiatori responsabili di un forte degrado di cui patiamo ancora le conseguenze. La storia si ripete e quando la società è in 157


Libera-Mente sofferenza si cerca di selezionare i cosiddetti elementi migliori per una nuova rinascita. Dobbiamo attentamente vigilare sulla reiterazione potenziale di atteggiamenti discriminatori perché non si ripetano tragedie già vissute. Non sto parlando di un’integrazione automatica del disagio mentale ma del profondo rispetto che si deve a chi combatte con grande fatica per guadagnare un giorno alla volta e riconoscere il diritto alla speranza. Dalla legge Basaglia sono passati più di tre decenni, a ben guardare un periodo relativamente breve dopo secoli di ghettizzazione e si sono ottenuti risultati insperati. Non ci si può permettere di tornare indietro, sarebbe un allucinante spreco di risorse. Dal punto di vista sociale negli ultimi decenni si è realizzato un enorme e illuminato percorso in termini di valutazione delle potenzialità di un buon livello di convivenza con la propria diversità e di prospettive di un’integrazione sociale perfettamente compiuta. Molta strada c’è ancora da percorrere ma si è ormai capito in quale direzione bisogna rivolgerci. Ho personalmente sperimentato il benefico effetto delle case famiglia, un distacco monitorato dall’intricato groviglio affettivo che diventa la vita familiare per ritornare illimpidita a riscoprire affetti che aspettavano solo di essere riconosciuti come tali; la stessa filosofia giuridica ha riconosciuto e sancito non solo il diritto ma le ricche potenzialità produttive di chi veniva considerato irrecuperabile. Ho percorso un lungo tratto di vita costellato di enormi problemi e grandi opportunità, quello che scrivo è solo un iniziale e piccolo contributo al progetto che tutti noi 158


Libera-Mente che viviamo il disagio mentale vogliamo realizzare: semplicemente vivere, con la nostra ricchezza emotiva che possa diventare finalmente creativa e appagante. Abbiamo tutti il diritto dovere di continuare a vivere per ricordare quello che di bello ci hanno lasciato quelli che per estrema stanchezza ci hanno lasciato, non lasciamoli morire due volte, fisicamente e nella nostra memoria, perché anche il loro contributo di dolore è una forte spinta a proseguire sulla strada della definizione della nostra identità per sconfiggere la paura, l’isolamento, la fina. La rete di relazione che già si è instaurata tra tutte le figure che a vario titolo, ma con pari dignità, ci aiutano a lavorare, può essere riccamente ampliata con infiniti contributi, quindi, e qui concludo, questo è solo l’inizio.

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