Quaderni del volontariato
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Influenza e degenerazioni dei regimi totalitari e democratici nella storia della medicina: le vicende dell’eugenetica a cura di Manuela Marchi
a cura di Manuela Marchi
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“Politica e Medicina”
Fondazione Cassa Risparmio Orvieto Fondazione Cassa Risparmio Città di Castello Fondazione Cassa Risparmio Province Lombarde Politica e medicina
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Quaderni del volontariato
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Associazione BioEtica e Diritti Umani Centro Internazionale di Spoleto
“Politica e medicina” Influenza e degenerazioni dei regimi totalitari e democratici nella storia della medicina: le vicende dell’eugenetica
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© 2008 CESVOL 2008 FUTURA soc.coop. ISBN 88-95132-39-4
I quaderni del volontariato, un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale
Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.
Indice
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Introduzione
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Regimi non democratici e sultanistici: tipologia, caratteristiche, diversitĂ
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Regimi autoritari, totalitari e post-totalitari
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Il concetto di Stato totalitario in Platone: ripercussioni in campo medico
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Critica di Popper ai totalitarismi e a Platone
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L’Eugenetica dall’antica Grecia ai giorni nostri
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Interdipendenza tra regimi totalitari e medicina
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Politiche eugeniche nei regimi democratici e totalitari
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Fenomeni eugenetici dei nostri tempi
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Conclusioni
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Introduzione
In questo Saggio si vuole affrontare la relazione che intercorre tra politica e medicina, analizzando, attraverso un percorso storico, le influenze, le problematiche e le degenerazioni suscitate dal rapporto simbiotico tra interessi socio-politici ed etica medica. Il dibattito sull’argomento è ancor oggi di grande attualità e deve essere sviscerato con un’analisi comparativa tra autori di pensiero diverso, mediante il confronto tra teorie e sistemi dottrinali spesso in antitesi, approfondendo l’ascendente ed il peso che i regimi totalitari hanno avuto ed ancora continuano ad avere, nella sperimentazione medica. La storia dell’umanità è stata scandita, in ogni epoca, dalle imprese di “personalità di fuoco” che, con le loro idee, le loro passioni, le smodate ambizioni, hanno trascinato grandi masse umane verso la distruzione. È questa la storia dei regimi totalitari. Nella prefazione al suo libro “Totalitarismo” - Un regime del nostro tempo, Domenico Fisichella paragona il concetto di totalitarismo, all’andamento di un fiume carsico, che dopo uno scorrere tumultuoso, a tratti scompare, per poi inaspettatamente riaffiorare e riproporsi più avanti. Questa espressione figurata, ci dà il senso del percorso che hanno avuto nella storia i regimi non democratici che, soprattutto in alcune zone geografiche, possono ripresentarsi con estrema facilità, anche ai nostri giorni. Nel mondo, attualmente, la percentuale di regimi non democratici supera il numero dei Paesi a regime democratico. La tesi della genesi dei regimi totalitari che individua nell’antichità modelli e stereotipi più volte vissuti nel corso della storia, trova conforto nei testi di vari autori che saranno evidenziati nella ricerca. Particolare interesse suscitano le tematiche elaborate da Jacob Talmon, che ha influenzato il dibattito bellico e postbellico sulle teorie totalitarie, proponendo la tesi del “messianismo politico” da cui trae origine e si sviluppa successivamente la democrazia totalitaria. Nel libro Origins of Totalitarian Democracy, pubblicato da Talmon a Londra, nel 1952, partendo da una visione genealogica della storia, egli prospetta le conseguenze pratiche di
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Introduzione
quelle teorie politiche che hanno creato le premesse per la nascita del fenomeno dei regimi totalitari, riferite soprattutto ai totalitarismi di sinistra. Talmon ritiene che la secolarizzazione e il decadimento della religione siano le cause scaturenti del problema dell’uomo, che ha perso le sue certezze nell’ordine divino e che inizia a cercare un nuovo equilibrio sociale. La Rivoluzione appare quindi come un fenomeno necessario per la restaurazione di quest’ordine e di nuovi valori liberali. È a questo punto che si profila la divisione tra democrazia totalitaria e democrazia liberale. L’uguaglianza sociale per i regimi statalisti e la rigenerazione dello Stato per i regimi di destra diventano dottrine, concetti basilari della convivenza civile, da difendere a qualunque costo: il concetto democratico-totalitario prende inesorabilmente il posto del concetto democratico-liberale. La “democrazia totalitaria”, mentre si propone di eliminare le disuguaglianze sociali tra i cittadini o di fondare una moderna polis ed un totale cambiamento sociale, si sente legittimata ad utilizzare qualsiasi mezzo per inseguire un millenarismo che garantisca il raggiungimento di una società perfetta. La conseguenza è l’instaurazione di un regime dittatoriale “provvisorio” che persisterà fino a quando non sarà raggiunto questo ideale sociale. È chiaro il messianismo politico di queste teorie che accompagnerà tutta la rivoluzione francese, ma che sarà riproposto nei regimi totalitari del XX° secolo, soprattutto nell’Europa orientale ed in particolare in Russia. Il comunismo distributivo proposto dai babuvisti all’epoca della Rivoluzione francese, dimostra profonde analogie con il comunismo dei regimi totalitari moderni, che tentano di eliminare tutte le istituzioni e le agenzie sociali intermedie tra individuo e Stato, la pluralità dei partiti politici, lasciando spazio solo al terrore, che è contemporaneamente il mezzo per raggiungere lo stato sociale di uguaglianza ed armonia ed il sintomo della debolezza del regime. È insito in questa dottrina, utilizzata anche dai regimi totalitari di destra, lo spostamento dalla fede messianico-
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Introduzione
rivoluzionaria verso quella totalitaria. Talmon, ha offerto un contributo veramente originale ed intellettualmente onesto, per comprendere la storia dei totalitarismi, suscitando un dibattito culturale che era già stato avviato da altri studiosi. La sua teoria di un’unica genesi della democrazia liberale e totalitaria, metodologicamente dimostrata e storicamente confermata, insieme all’analisi del punto di demarcazione e divisione tra le due tipologie, sono ancor oggi, le teorie piÚ dibattute dagli esperti di scienza politica.
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Regimi non democratici e sultanistici
REGIMI NON DEMOCRATICI E SULTANISTICI: TIPOLOGIA, CARATTERISTICHE, DIVERSITÀ Nell’identificare un organigramma delle varie tipologie di regimi non democratici, Juan Linz e Alfred Stepan sono, senza dubbio, tra i politologi che maggiormente hanno contribuito alla chiarificazione delle distinzioni tra le diverse tipizzazioni che hanno suddiviso in quattro aree: a) regimi autoritari b) regimi totalitari c) regimi post-totalitari d) regimi sultanistici Questi ultimi sono diversi da ogni altro regime ed hanno come caratteristica distintiva una leadership personalistica che detiene un potere assoluto, consegnato alla figura del leader, con aspetti esasperati di patrimonialismo, dove prevale un’ideologia totalmente arbitraria. Secondo Lintz e Stepan: “... la fondamentale realtà in un regime sultanistico è che tutti gli individui, gruppi e istituzioni sono permanentemente soggetti all’ imprevedibile e dispotico intervento del sultano, e di conseguenza il pluralismo è precario”.1 Secondo Weber: “in casi estremi, il Sultanismo è propenso a nascere quandunque il potere tradizionale sviluppa una amministrazione e una forza militare che sono meri strumenti del detentore del potere... Dove il potere... agisce principalmente su base arbitraria, sarà chiamato sultanismo... . L’elemento non-tradizionale non è, comunque, razionalizzato in modo oggettivo, ma consiste solo nell’estremo sviluppo della sfera dell’arbitrio di un sovrano. È questo fenomeno che lo distingue dalle altre forme razionali di autorità”.2 1 Cfr. Modern Nondemocratic Regimes in Problems of Democratic Transition and Consolidation, John Hopkins University Press, Baltimore, 1996 2 Cfr. Economy and Society, University of California Press, Berkeley , 1978.
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Regimi non democratici e sultanistici
Gli autoritarismi sultanistici non vedono la presenza di nessuna ideologia, nessuna trasformazione verso la democrazia e solitamente hanno termine con la morte del sultano, sia essa una morte naturale o un assassinio o un colpo di stato militare. Sia nei regimi sultanistici che in quelli autoritari, il coinvolgimento dei militari è di basilare importanza, non casualmente la maggior parte dei regimi dittatoriali del dopoguerra si contraddistingue per il ruolo fondamentale delle organizzazioni militari. Le forze armate spesso sono parte costitutiva del regime, in alcuni casi ne diventano il gruppo dominante con un ruolo di governo esplicito, oppure sono partecipi come componente integrante. Secondo il politologo P. Huntington l’intervento dei militari in politica può essere definito con il suggestivo nome di pretorianesimo, facendo riferimento a episodi accaduti nel corso della storia, quando i pretoriani romani insorgevano per consentire l’ascesa del loro comandante alla carica suprema di imperatore. Egli distingue tre diverse tipologie di pretorianesimo: il Pretorianesimo oligarchico, il Pretorianesimo radicale e il Pretorianesimo di massa.3 Spesso i militari mirano alla costituzione di un vero e proprio regime militare, a tempo indeterminato, per costruire un nuovo sistema politico, e nell’analisi della dinamica dei colpi di stato, assume una particolare importanza il rapporto dei militari con i politici civili che, in alcuni casi, diventano complici, giustificando l’intervento dei militari come necessario per gli interessi nazionali.
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Josè Nun, studioso argentino, ha descritto i colpi di stato come tendenti a proteggere gli interessi personali attraverso i militari, che condividono gli stessi obiettivi generali.
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Regimi non democratici e sultanistici
Dopo l’ultima Guerra Mondiale i colpi di stato, in varie parti del mondo, si sono susseguiti in numero preoccupante, con governi militari di diverso tipo, in alcuni casi non esclusivamente composti da militari. Guillermo O’Donnell, studioso argentino, teorizzò il consolidamento dei regimi burocratico-autoritari destinati a durare a lungo. Le caratteristiche di questi regimi sono, oltre ad una base sociale rappresentata da una borghesia oligopolistica, l’uso di corpi militari esperti nella repressione, il coinvolgimento dei sindacati nel tentativo di sottomettere ogni settore sociale all’interno del processo burocratico, l’indifferenza verso le tematiche sociali con la conseguente sottostima delle tensioni prodotte nell’alveo della comunità. Ogni miglioramento sociale ed economico, rappresenta per questa élite al potere, una minaccia che può portare alla fine del regime.
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
REGIMI AUTORITARI, TOTALITARI E POST-TOTALITARI Analizziamo ora le differenze tra Autoritarismo e Totalitarismo. Juan Linz ha offerto la definizione classica di regime autoritario: regime con un pluralismo politico circoscritto, con una classe politica dispotica, assenza di un’ideologia guida, intesa come sistema di pensiero codificato rigido, sostituita da una “mentalità” con credenze più attenuate, una “ideologia ufficiale” tesa a cambiare la società con la forza per ricostruirla, fondandola sulla critica della società precedente, con a capo un leader carismatico o un piccolo gruppo dominante. Elezioni o altre forme di democrazia possono anche essere presenti nei regimi autoritari; esse non hanno tuttavia alcun significato sostanziale, ma unicamente un significato simbolico di approvazione, utilizzate dallo stesso regime come espressione di consenso e di legittimazione. Lo stesso vale per le forme di opposizione, che può essere attiva, passiva, o pseudo-opposizione, presenti nei regimi autoritari: per il regime può risultare più opportunisticamente comodo il fatto di tollerare un certo grado di dissenso politico, naturalmente manipolato, per fare mostra agli occhi degli altri Paesi, di una presunta, moderata libertà, in realtà assente. Componente importante dei regimi autoritari è la elaborazione della motivazione ideologica, contraddistinta dal fatto che la sua legittimazione si sedimenta sulla base di “mentalità”, espressione del sociologo tedesco Geiger, cioè “espressioni intellettuali” fondate su concetti che comunicano valori generali condivisibili quali patria, ordine, autorità, giustizia. Analizzando le modalità della genesi del regime autoritario, la storia dimostra che nel maggior numero dei casi, il movimento autoritario erompe dal conflitto dei gruppi sociali all’interno del sistema politico, e si concretizza con la vittoria dei gruppi antidemocratici, che si sentono legittimati ad usare la forza nel proporre un modello sociale in realtà non realizzabile.
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
Per quanto riguarda il Fascismo italiano, molte e controverse sono state le interpretazioni di questo periodo storico della vita politica italiana. La gran parte dei politologi tende a collocarlo nell’ambito dei regimi autoritari, seppur contraddistinto da alcuni elementi tipicamente totalitari. Nel panorama politico internazionale ci sono stati vari esempi che possono essere ricondotti all’idealtipo del regime fascista: il modello italiano si discosta notevolmente da tutti gli altri, soprattutto perché lo Stato fascista si proponeva come sintesi di ogni valore morale. Secondo lo storico Domenico Fisichella, il Fascismo fu un regime autoritario di mobilitazione; secondo la Arendt un totalitarismo incompleto. Quasi tutti i politologi sono d’altra parte concordi nell’affermare le significative differenze tra il nazionalsocialismo ed il Fascismo italiano. De Felice scrive che il fascismo fu una conseguenza della guerra, nel senso che senza i conflitti mondiali non avrebbe potuto assumere quella grande forza d’attrazione che ha magnetizzato le folle. Secondo Gentile il Fascismo italiano, considerato come prototipo dei regimi autoritari, ebbe alle sue origini dei guizzi totalitaristici. Come movimento politico tratteggiò la resistenza dei ceti dirigenti sulle classi popolari, attivando una mobilitazione secondaria della piccola borghesia, in presenza di quello che Gramsci aveva chiamato panico da status, provocato dalle teorie socialiste e comuniste che si stavano facendo strada all’epoca. Anche De Felice sostiene l’ipotesi del tentativo del Fascismo di diventare regime totalitario ma, trovando difficoltà nell’assoggettare le Istituzioni, esso optò per modificarsi in regime autoritario, concedendo un pluralismo limitato, non competitivo, utilizzando la monarchia, le forze armate e cercando di non inimicarsi le organizzazioni padronali e la Chiesa, alla quale venne concessa un’ ampia sfera discrezionale. Si assiste, nei regimi autoritari, ad una sorta di personalizzazione del potere, identificato nella persona di un capo carismatico.
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
Mussolini, leader indiscusso del movimento fascista, comprese la necessità strategica di mantenere in vita la monarchia e che il processo di fascistizzazione delle Forze Armate non sarebbe stato indolore. Creò il partito unico, che rappresentò un efficace strumento di governo, anche se non riuscì mai a conquistare un ruolo concretamente dominante sulle istituzioni. Tuttavia il Duce, approfittando del consenso attivo e passivo di cui godeva il regime, governò il Paese esercitando un potere arbitrario, tipico dei regimi autoritari, in un momento storico in cui l’ Italia usciva dal conflitto mondiale con profonde lacerazioni. Tra le tante interpretazioni del fenomeno fascista, quella in chiave psicosociale dello studioso Reich è senza dubbio una delle più interessanti. Reich, partendo dalle tesi freudiane, arriva ad interpretare il Fascismo in chiave sessuo-economica, come un fenomeno di psicologia politica delle masse depresse e frustrate. Secondo Reich, il successo del Fascismo è imputabile non al suo programma politico, ma al conflitto, presente in tutti gli uomini ed esteso a livello sociale, tra il desiderio di libertà e la paura reale della libertà stessa. “In contraddizione al liberalismo, che rappresenta lo strato superficiale del carattere, (per Reich quello represso e manipolato), e in contraddizione alla rivoluzione genuina che rappresenta lo strato più profondo (quello più naturale, vero centro biologico dell’ uomo), il Fascismo rappresenterebbe il secondo strato del vero carattere: cioè gli impulsi secondari (crudeltà, sadismo, invidia ecc)”. Egli afferma pertanto che il Fascismo è “l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media”.4
4 Cfr.
Renzo De Felice “Le interpretazioni del fascismo”, Ed. Laterza - Nuova edizione 2007
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
Secondo Fromm, (Escape from Freedom), il consenso fascista nasce dalla perdita dei valori di appartenenza alla comunità, causata dalla dottrina individualista introdotta dal capitalismo da parte dell’uomo che, liberato dai vincoli tradizionali, mette in atto quei meccanismi di fuga e di reazione che lo portano a rinunciare alla libertà verso l’autoritarismo. Ma altre interpretazioni classiche conducono verso scenari diversi. Croce afferma, prima in un articolo sul New York Times, poi in diversi Discorsi, che il Fascismo non fu prodotto da una singola classe sociale ma fu “un’ubriacatura, uno smarrimento di coscienza prodotto dalla guerra”. Secondo lo storico tedesco Meinecke, sia il Fascismo che il nazionalsocialismo hanno rappresentato “una sorprendente deviazione” sulla linea politica espressa dagli Stati europei in quel periodo storico. Kohn esprime una terza ipotesi circa la nascita del Fascismo, identificandone la genesi nelle teorie di quei movimenti filosofici che avevano esaltato, esasperandoli, il culto dell’uomo e della forza, negli anni precedenti alla guerra. Questi concetti, assolutamente astratti nel periodo prebellico, assunsero un diverso significato dopo la Grande Guerra, quando le tragiche condizioni economiche e sociali derivanti dal conflitto, indussero l’uomo, nel tentativo di risolvere ogni cosa con la forza, verso comportamenti irrazionali. Kohn riassume così il concetto: da Cogito ergo sum, si passò ad Agitamus ergo sumus. Il panorama storico dell’epoca vede la nascita e la legittimazione del regime fascista in Italia, del nazionalsocialismo tedesco ed il consolidarsi del regime dittatoriale sovietico, seppure le dinamiche politiche e gli elementi tipologici distintivi nei differenti regimi, evidenzino profonde differenze, storicamente dimostrate. Nell’analisi tipologica dei fenomeni totalitari, è opportuno iniziare studiando le caratteristiche comuni, le differenze e le specificità, attraverso il pensiero di storici e politologi.
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
I principi democratici negati nelle diverse forme di totalitarismo, rappresentano il concetto universalmente condiviso, come carattere distintivo essenziale del regime. È interessante esaminare la posizione di Hayek, economista austriaco, che fece convergere le sue critiche su quella che egli chiama “presunzione fatale della ragione umana” e che può essere considerata come fondamento ideologico di ogni regime totalitario e dittatoriale, nonché del socialismo. “La libertà risulta inscindibilmente connessa alla consapevolezza non solo della fallibilità delle nostre conoscenze, ma anche alla nostra «ignoranza”.5 Herbert J. Spiro contesta il carattere scientifico del concetto di totalitarismo, considerandolo più propagandistico che utile in un’analisi comparativa sistematica delle unità politiche. Ma, come dice Fisichella, proprio la consapevolezza di questa dimensione propagandistica del concetto, ci può aiutare a definirne l’ambivalenza. Il termine, che secondo alcuni è attribuibile al periodo della guerra fredda, come concetto anti-ideologico, contrapposto al concetto democratico condiviso nel mondo occidentale, vede, in realtà, la sua genesi nel periodo del fascismo italiano. L’ espressione sistema totalitario si legge per la prima volta in un articolo di Giovanni Amendola apparso ne Il Mondo e datato 12 maggio 1923. Altra storia ha il sostantivo totalitarismo, che viene fatto risalire ad un articolo di Lelio Basso ne La rivoluzione liberale (2 gennaio 1925).
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Da un articolo di Dasrio Antiseri: Von Hayek contro le utopie della ragione www.swif.uniba.it
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
Il primo riferimento al totalitarismo comunista, appare invece in un articolo del Times del 1929 e nell’Encyclopedia of the Social Sciences, dove Gorge Sabine chiama totalitari tutti quei sistemi in cui è presente un solo partito, includendo l’Unione Sovietica. Certamente, al di là della genetica del sostantivo e dell’aggettivo derivato, c’è una quasi totale condivisione, da parte degli studiosi, sui caratteri fondamentali che contraddistinguono il concetto di totalitarismo: * uso della Polizia segreta * monopolio dei mezzi di comunicazione * controllo di tutte le organizzazioni politiche, sociali e culturali * subordinazione delle forze armate. * partito unico * assenza di verifiche da parte del parlamento * scomparsa di ogni forma di pluralismo politico * uso del terrore * abolizione del confronto elettorale. La caratteristica comune tra autoritarismo e totalitarismo, è la precarietà, elemento attribuibile ad entrambe le tipologie politiche. Ma è nel periodo del dopoguerra che la parola totalitarismo viene citata dagli studiosi sempre più frequentemente, tanto che Benjamin R. Barber parla di totalitarismo come “un’assenza pressoché completa di consenso circa gli specifici regimi ai quali il termine può essere appropriatamente riferito”.6 Nasce un problema metodologico e di definizione concettuale. L’estensione del termine arriva ad annoverare tra i regimi identificati come totalitari, oltre al nazionalsocialismo e al comunismo, prototipi storici del termine, anche il regime della dinastia dei Maurya nell’antica India indoeuropea, (dove la società era divisa
6 Cfr.
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Domenico Fisichella “Totalitarismo” - Ed. Carocci 2002
Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
in sacerdoti-Brahmani, guerrieri-Ksathrya e contadini-Vaisya), anche la Cina, fino ad arrivare all’impero romano nel periodo di Diocleziano ed alla “Repubblica” di Platone. È opinione di vari studiosi, che tra i caratteri che conferiscono originalità al totalitarismo, sia da annoverare il fenomeno del terrore, elemento da secoli, presente nella politica dei regimi totalitari, definito dalla Arendt come l’essenza del potere totalitario. Montesquieu affermava che ogni tipo di Stato si caratterizza per un diverso elemento costitutivo: nella democrazia è la virtù civica, nell’aristocrazia la moderazione, nella monarchia l’onore e nel dispotismo la paura. La centralità della paura, compromette ogni libera scelta.È utile cercare di comprendere il ruolo che le passioni in generale, e la paura in particolare, assumono nella struttura di una teoria politica. “Non sono un buon naturalista e non so per quali impulsi la paura agisca in noi; fatto sta, però che è proprio una strana passione”. (Je ne suis pas bon naturaliste (qu’ils disent) et ne sçay guiere par quels ressors la peur agit en nous, mais tant y a que c’est une estrange passion...) 7. La paura ed il terrore hanno sicuramente svolto un ruolo preminente, nel corso della storia, nella teorizzazione delle diverse teorie politiche e nella formulazione di modelli di Stato. Si può tranquillamente ipotizzare che in questa esigenza della necessità dello Stato da parte dell’ individuo, la paura abbia rappresentato una delle componenti fondamentali. Negli Elementi filosofici sul cittadino, nella parte dedicata alla Libertà, Thomas Hobbes giustifica il superamento dello stato di natura, con l’innato timore degli uomini, e scrive: “(…) ogni patto sociale si contrae o per utilità o per ambizione, cioè per amor proprio e non già per amor dei consoci.”
7 Cfr.M
de Montaigne, Les Essais, chapitre XVII De la Peur - 1595.
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Si consideri, peraltro, che sul desiderio di gloria non si può stabilire nessuna società, né di molti uomini, né di molta durata; perché la rinomanza, come pure l’onore, se è per tutti non è per nessuno, dato che sorge da un confronto con gli altri e da una ragione di superiorità sugli altri; che se poi qualcuno ha qualche buona ragione di gloriarsi, non glie ne viene alcun giovamento dalla società con gli altri uomini, perché ciascuno vale per quello che può operare senza l’aiuto degli altri. Se è vero poi che le comodità di questa vita possono essere aumentate dal reciproco aiuto, è pur vero che questo si può ottenere meglio dominando sugli altri che unendosi a loro su un piano di uguaglianza: onde nessuno potrà dubitare che gli uomini, per loro natura, sarebbero portati, se non vi fosse il timore, piuttosto a dominare che ad associarsi. Bisogna dunque concludere che l’origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini, ma il reciproco timore”.8 L’origine di questo reciproco timore, secondo Hobbes risiede in parte nel concetto di “uguaglianza di natura” tra gli uomini e, in parte, nello “scambievole desiderio comune di nuocersi”. È interessante focalizzare la rilevanza della componente relativa al tema della paura e del terrore, nella composizione dei governi e dei regimi dei vari Stati, nel corso della storia: partendo dall’ambito filosofico, l’analisi correda la scienza politica di un originale ed efficace contributo. Infatti, se partiamo dalla considerazione che la paura sia un elemento fondamentale nella teorizzazione dei sistemi politici totalitari, come componente di carattere preventivo e come legame successivo, possiamo arrivare a definire i contorni ed i margini dell’ambiguo ruolo giocato dal sentimento della paura e del’uso che ne è stato fatto da parte dei go-
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Cfr. T. Hobbes, De cive (elementi filosofici sul cittadino), Editori Riuniuti, Roma 1979
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
vernanti Hobbes, nel Leviatano scrive: “La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri), nell’introdurre quella restrizione su se stessi sotto la quale li vediamo vivere negli Stati, è la previdente preoccupazione della propria conservazione e di una vita perciò più soddisfatta; cioè a dire di trarsi fuori da quella miserabile condizione di guerra che è un effetto necessario (come è stato mostrato) delle passioni naturali degli uomini, quando non ci sia un potere visibile che li tenga in soggezione e li vincoli con la paura di punizioni all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura ...”9. Judith Shklar, studiosa di scienza e filosofia politica, ha coniato l’espressione “liberalismo della paura”, una teoria molto raffinata, che spiega chiaramente come la vita dell’uomo possa essere condizionata dalla paura e considera la crudeltà un “vizio” della politica totalitaria. Per Montesquieu la paura rappresenta il fondamento di ogni regime antidemocratico, il mezzo per mantenere il potere. Hannah Arendt opera addirittura una sottile distinzione tra paura e terrore nelle strategie politiche dei regimi totalitari, che perseguono la finalità di creare una oligarchia egemone e afferma che il clima di terrore, confonde il concetto di colpevolezza e innocenza, plasma ogni principio morale, inibendo ogni reazione dell’individuo e legittimando qualsiasi azione compiuta in nome dell’ideologia. La paura non annulla totalmente l’uomo, mentre il terrore lo rende incapace di ribellarsi e di avere opinioni: è questa la principale differenza tra terrore e paura. Dal clima totalitario deriva anche il concetto di angoscia, instillato nel cittadino-suddito, che si differenzia, secondo un’attenta analisi psicologica freudiana, tra angoscia reale ed angoscia nevrotica.
9 Cfr.
T. Hobbes, Leviatano, Bompiani Milano, 2001
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
L’importanza politica dell’angoscia sta nel confine che divide il timore reale e l’angoscia nevrotica, concepita dall’Io preventivamente, che può essere causa di patologie depressive o di manie persecutorie ed è tipica dei regimi illiberali. Nei regimi totalitari l’angoscia, generata dal clima di terrore psicologico instaurato, appare istituzionalizzata come mezzo repressivo, ipotizzando l’imprevedibilità della sanzione: carattere unanimemente condiviso del regime totalitario è, infatti, l’arbitrarietà dell’uso della violenza. Louis de Bonald scrive: Il potere assoluto è un potere indipendente dagli uomini sui quali s’esercita, il potere arbitrario è un potere indipendente10 dalle leggi in virtù delle quali è esercitato. Ecco che il criterio dell’imprevedibilità della sanzione diventa efficace strumento dei sistemi totalitari, ma anche dispotici o tirannici e nel totalitarismo assume la connotazione, come afferma la Arendt, di terrore legale. Il terrore totalitario implementa anche la persuasione psicologica, attraverso cui il carnefice vede la vittima come il persecutore dal quale deve difendersi: scatta uno strano meccanismo di difesa, chiamato in psicoanalisi proiezione. Il terrore dittatoriale rappresenta una minaccia per i veri oppositori del regime, ma il terrore totalitario va oltre, arriva a minacciare anche i soli oppositori potenziali e talvolta gli stessi sostenitori del regime. In alcuni casi la “vittima” è scelta con un criterio casuale, che può essere anagrafico o territoriale, come nel caso delle deportazioni di massa di persone scelte tra quelle di una certa età o abitanti in un dato luogo. Non c’è differenza tra nemico reale, cioè colui che si oppone al regime e nemico potenziale, cioè quello appartenente ad un certo gruppo sociale, o confessione religiosa, o gruppo economico, ma che personalmente non ha fatto nulla e viene ugualmente perseguitato come portatore di tendenze, come scrive la Arendt, che specifica il concetto definendo gli elementi distintivi del nemico reale e quelli del ne10 www.conserv-azione.org
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
mico oggettivo. L’esasperazione del concetto di nemico oggettivo porta al delitto possibile: il crimine è ipotizzato anticipatamente, basandosi su criteri oggettivamente ammissibili, ma assai poco probabili nella realtà e rappresenta uno dei contributi più originali del regime totalitario. In base a questa pratica terroristica si arriva ad arrestare, deportare, o sopprimere una cospicua percentuale di individui di un dato territorio, solo perché possibili nemici oggettivi: è il dogma dell’innocenza che paga per il crimine, come afferma Joseph de Maistre. È la rivoluzione, sostiene Fisichella, che suggella come criterio di giudizio e di verità la forza del successo e in pari tempo decreta il successo della forza. Il potere totalitario si caratterizza oltre che per la figura del “nemico oggettivo” anche per il concetto di universo concentrazionario e per l’utilizzo della polizia segreta e di varie forme di tortura. Il ricorso alla tortura è concepito come arma politica e, secondo Gabriel Marcel, come tecnica di avvilimento. Nella storia, la tortura è presente da sempre, in alcuni casi come procedura fiscale brutale per i debitori incalliti, o con sistemi più sofisticati, come la tortura dell’insonnia, che Camus definì emblematica del modo nuovo di generare anime morte, che era già molto in uso tra i Romani, conosciuta come tormentum vigiliae o la tortura della fame in uso nei Lager (tormentum famis). L’utilizzo della tortura è strettamente legato al ruolo della polizia segreta che, pur se parte degli storici ritiene non possa essere considerata un segno tipologicamente caratterizzante del potere totalitario, assolve un ruolo di fondamentale importanza, tanto che Aron definisce i processi e le chiamate in giudizio, conseguenti l’opera della polizia segreta, come il punto culminante del terrore ideologico del sistema politico totalitario, soprattutto sovietico. Il processo diventa uno strumento di repressione terroristica, ma assume anche la forma di sistema per operare un continuo rinnovamento nella stessa classe politica del regime. Stalin, nel ’39, dopo una oceanica purga, dichiarò con grande compiacimento:
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“Il partito ha potuto promuovere a posti direttivi nello Stato e nell’apparato del partito 500 mila giovani bolscevichi”11, mettendo in atto un subdolo meccanismo, che si insinua nei funzionari promossi, cioè quello della complicità consapevole nell’ingiusto eccidio dei predecessori, con la conseguente difesa del regime e del suo crimine. Con riferimento al terrore instaurato da Lenin e praticato ininterrottamente da Stalin, Camus afferma: “L’Impero, nel suo sforzo convulso verso il regno definitivo, tende a integrare la morte. Si può asservire un uomo vivo e ridurlo allo stato storico di cosa. Ma, se muore rifiutando, riafferma una natura umana che ripudia l’ordine delle cose, per questo l’accusato viene mostrato e ucciso di fronte al mondo soltanto se acconsente a dire che la sua morte sarà giusta, e conforme all’Impero delle cose. Bisogna morire disonorato o non essere più, né in vita né in morte. In quest’ultimo caso non si muore, si scompare”.[...] “Per la stabilità dell’Impero anche un cadavere può risultare minaccioso, se la sua morte appare come un atto di Rivolta. Così la rivoluzione ha stroncato la rivolta. L’Impero della riconciliazione definitiva non può consentire la rivolta a meno di autonegarsi, di delegittimarsi quale unico e autentico interprete del Disegno della Storia”.12 Anche il ricordo viene abolito, come se la persna non fosse mai esistita: in questo modo il regime “uccide anche la morte”. Il concetto, già citato, dell’universo concentrazionario, è altresì, a parere degli storici della politica, l’elemento nuovo che caratterizza e contraddistingue il totalitarismo,come fenomeno quantitativo, cioè milioni di persone che,contemporaneamente, sono internate nei Campi ed è molto descrittiva la frase di Aleksandr Sol enicyn
11 Cfr. Arendt 12 Cfr. A.
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Po citata Camus, L’uomo della rivolta, 1951.
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quando scrive: “un intero arcipelago di città carcerarie che danno luogo ad un vasto subsistema sociale entro il sistema politico totalitario.” Lo scrittore parla di una vera e propria industria carceraria ed esordisce nel suo libro “Arcipelago gulag” con questo omaggio verso i suoi compagni:” “Dedico questo libro a tutti coloro cui la vita non è bastata per raccontare. Mi perdonino se non ho veduto tutto, se non tutto ricordo, se non tutto ho intuito”. Medvedev racconta di migliaia di campi di concentramento in cui era posto, sul cancello d’entrata, un cartello con la scritta : Arbeit macht frei cioè il “lavoro rende liberi”. Questo numero così enorme di cittadini internati, fa comprendere subito come i reclusi non potessero essere tutti oppositori del regime. È chiaro che l’universo concentrazionario è composto e popolato da milioni e milioni di persone che appartengono alle categorie dei nemici oggettivi, permanentemente internati; porzioni o intere fasce della società estirpate, che saranno cancellate per sempre. I campi di concentramento costituivano l’ambiente ideale per gli esperimenti medici, farmacologici e chirurgici, spesso improntati sul sadismo, più che sulla vera ricerca scientifica. In quei luoghi nessuno aveva per definizione “diritto alla salute e neppure alla vita”.13 I campi di sterminio sono storicamente datati alla fine dell’Ottocento. Furono creati dai sudisti nella guerra di secessione americana, per deportarvi i prigionieri dell’Unione.
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Cfr. R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori 1997.
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In seguito ne troviamo traccia con gli spagnoli a Cuba nella guerra ispano-americana (1898), ma fu in Sudafrica che apparve la katorga, inventata dagli inglesi durante la guerra anglo-boera (1899-1902) e utilizzata dagli italiani in Libia, (1911) nella guerra con la Turchia. I bolscevichi, ai tempi degli zar, istituirono la kartoga, prima usata come carcere, poi diventata “campo di rieducazione e lavoro” per coloro che erano sospettati di essere controrivoluzionari. La differenza tra le varie tipologie di katorga sta nel fatto che nei campi ispano-coloniali erano rinchiusi gli ostaggi di guerra, nei campi nazional-socialisti, venivano segregati gli oppositori ideologici, mentre i gulag russi (glavnoye upravleniye lagerej) erano stati concepiti e legittimati come conseguenza di una pianificazione economica in atto nel Paese. Durante la seconda guerra mondiale, anche 70.000 cittadini americani di origine giapponese e più di 40.000 giapponesi residenti in California, furono internati negli Stati Uniti a causa della guerra con il Giappone, tuttavia l’esperienza, universalmente conosciuta, rimane quella dei campi di concentramento tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Negli anni settanta la feroce dittatura di Pol Pot, in Cambogia, realizzò numerosi campi di concentramento e di sterminio, dove venivano internati i nemici politici. Più o meno nello stesso periodo in Sud America, Argentina e Cile, le dittature sudamericane utilizzarono campi di concentramento, così come i Paesi dell’ ex Jugoslavia negli anni Novanta.Un’ attenta riflessione non può che condurre alla conclusione dell’irrazionalità del modo di agire del totalitarismo, suffragata da altre dimostrazioni: Conquest scrive che, nel ’30, dopo la grande purga, in Unione Sovietica, il numero dei morti fu troppo grande qualunque fosse lo scopo politico da realizzare. E ancora, diversi studiosi sono d’accordo nell’affermare che, paradossalmente, nei regimi totalitari in genere ed in particolare in quelli comunisti, nei periodi di emergenza, si osservava una certa tolleranza, che veniva sostituita dalla più feroce repressione, nei
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periodi di pace. Scrive la Arendt: “Se la legalità è l’essenza del governo non tirannico, l’illegalità quella della tirannide, il terrore è l’essenza del potere totalitario”.14 Jerzy Gliksman, a proposito dell’irrazionalità del totalitarismo sovietico, ha coniato la teoria della profilassi sociale, che giustificherebbe i comportamenti del regime, non come conseguenza e sanzione per atti illegali commessi, bensì come misura preventiva politico-sociale, dato che il nemico reale può esaurirsi, ma il nemico oggettivo può anche non finire mai. Interessante emerge il pensiero di Gaetano Mosca, esponente della corrente di pensiero elitistica, che, nella sua analisi sul potere politico, teorizza una formula basata sulla constatazione che in ogni società il potere è detenuto da una minoranza organizzata, che prevale su una maggioranza che non è in grado di gestire finalità comuni. Diventa quindi essenziale per la minoranza al potere trovare, attraverso una “teoria politica”, la legittimazione morale alla propria supremazia nell’esigere l’obbedienza della maggioranza che ha manifestato il bisogno di sentirsi governata. Nei caratteri di novità che costituiscono il totalitarismo ci sono alcuni elementi, come la disgregazione sociale, l’istituzionalizzazione della guerra civile, la presenza della violenza nelle relazioni sociali, la direzione totale dell’individuo e della collettività, che interpretano una logica omnicomprensiva, volta a cambiare ogni forma della società, partendo dagli aspetti antropologici, fino a quelli culturali, politici e sociali, ma il tratto caratteristico più significativo, è l’attuazione storica della rivoluzione permanente, che da fenomeno antiregime, diviene essa stessa regime: “L’ideologia totalitaria è un nucleo progettuale di trasformazione totale della realtà sociale”.15 14
Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Ed. di
Comunità, Torino 1996 D. Fisichella, Totalitarismo, 1976, p. 209.
15 Cfr.
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La figura dell’uomo nuovo diventa l’obiettivo generato da una “nuova etica” in un contesto dove il regime diventa “garante” dell’ordine e della stabilità. Hitler ha goduto di un largo consenso per arrivare al potere, perché aveva promesso: “Nei prossimi mille anni non ci sarà più nessuna rivoluzione in Germania”. E come commenta Nolte: “Furono certo questa promessa e questa certezza che spinsero un popolo come quello tedesco, amante dell’ordine, a rinnegare così nettamente qualsiasi ordine”.16 Il totalitarismo viene commentato come un fenomeno nichilistico, la cui azione devastatrice nega i valori etici della tradizione e riduce la politica a pura tecnica di supremazia, che esalta il culto della violenza. L’Illuminismo e lo storicismo, hanno proposto come valori la ragione, la lettura degli eventi storici, il progresso della civiltà; il nichilismo oppone solo la cieca violenza, con la finalità di realizzare un ordine nuovo e una nuova società dominata dalla razza superiore o dal potere proletario comunista. Esistono però differenti interpretazioni del totalitarismo dal punto di vista ideologico. Il totalitarismo di sinistra della Russia stalinista si prefigge una totale integrazione tra uomo e Stato; il lavoro diventa espressione di ogni essere umano che sente di appartenere allo Stato. Una simbiosi tra fini individuali e collettivi che si compie nella società. Il totalitarismo di destra, hitleriano, è invece contraddistinto da una cultura politica di stampo nazionalista, che vuole raggiungere una parziale trasformazione sociale, che divinizza il ruolo carismatico del leader e dell’élite di regime, con forti connotazioni xenofobe e razziste, con il culto delle organizzazioni di stampo militare. Si assiste nei regimi totalitari alla duplicazione degli uffici, che spesso hanno gli stessi incarichi, con la conseguente formazione di una duplice autorità, lo Stato ed il Partito, fenomeno complesso che la Arendt definisce moltiplicazione, dove il Partito assume 16
Cfr. D. Fisichella, Totalitarismo - Un regime del nostro tempo, Ed. Carocci Spa Roma, 2002.
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un ruolo estremamente importante e di supremazia sullo Stato, a differenza dei regimi autoritari dove invece il Partito è sempre subordinato all’Autorità statale. Mao era solito dire: “Il potere esce dalla canna del fucile, ma è il Partito che controlla il fucile”.Unico elemento che tenta di contrapporsi al regime totalitario è la religione. “[...] Le leggi religiose appartengono ad un precetto superiore perché valgono tanto per il principe quanto per i sudditi”, afferma Montesquieu.17Infatti tutti i regimi totalitari tendono a distruggere, non solo i partiti e le associazioni, ma soprattutto i gruppi religiosi, organizzando l’educazione dei giovani su modelli anticattolici. Nel regime comunista russo, seppure lo Stato si sia sempre dichiarato neutrale verso il culto religioso, il Partito ha costantemente avversato ogni manifestazione religiosa, colpevole di rallentare quel processo di massificazione, di fondamentale importanza per il regime. Le persecuzioni etniche e verso le minoranze sono espressione di questa volontà di pianificazione. Nei regimi totalitari l’istituzionalizzazione del disordine rappresenta un altro carattere distintivo. Lo stato totalitario, utilizzando il suo monopolio della forza, vuole dimostrare di rappresentare l’interesse generale sugli interessi particolari, ma in realtà crea le condizioni per la premessa del cambiamento sociale. Hitler più che tendere a realizzare un nuovo Stato, voleva costruire una nuova “forma di vita tedesca”. Considerando che le società moderne sono il prodotto di stratificazioni successive, il problema che si presenta ai regimi totalitari è combattere e sradicare la pluralità di conoscenze che compone il tessuto sociale. Il vissuto storico-sociale rappresenta un ostacolo verso la costruzione del nuovo ordine.
17 Cfr.
D. Fisichella, op. citata.
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Tutte le forme di libertà e di pluralismo devono essere abbattute con ogni mezzo, per ricreare un tessuto nuovo nella vita associativa. Chiesa, famiglia e categorie sociali sono bersagli del regime che vuole distruggere ogni forma di appartenenza del singolo individuo. Come ribadisce il Nisbet: “Il senso del passato è di gran lunga più fondamentale per il mantenimento della libertà di quanto non lo sia la speranza del futuro. Il primo è concreto e reale; la seconda è necessariamente amorfa e si presta più facilmente ad essere guidata da coloro che possono manipolare le azioni e le credenze umane. Da qui gli sforzi inesorabili dei governi totalitari per distruggere le memorie del passato. E di qui le tecniche ingegnose per abolire le lealtà sociali dalle quali il ricordo individuale riceve la forza ed il potere di resistere”18. Cancellare il sentimento del figlio verso il padre, del fedele verso la sua chiesa, dell’uomo comune verso un suo simile, per sostituirli con il solo rapporto tra individuo e partito, senza intermediari, eliminando ogni forma di libera scelta, rappresenta uno dei canoni fondamentali del totalitarismo. Nell’accomunare i termini nazismo e comunismo nella categoria dei totalitarismi, è opportuno operare dei distinguo. Entrambi presentano le caratteristiche e le contraddizioni tipiche del regime totalitario, tuttavia, mentre il nazismo era arrivato a consolidare il suo potere attraverso l’eliminazione degli oppositori nell’ambito tedesco e indicava il proprio nemico proiettando all’esterno le politiche di sterminio verso altre etnie, in particolare verso gli ebrei, lo stalinismo identificava invece il nemico al proprio interno, come nel caso dello sterminio dei kulaki. Le diversità sono da ravvisarsi soprattutto nelle esperienze storiche che hanno contribuito all’affermazione dei due regimi: all’ideologia nazionalistica nazista dove prevaleva la componente razziale, il comunismo contrapponeva una diversa matrice teorico-poli18 Robert A.
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Nisbet, La comunità e lo Stato (1953), Ed. Comunità, Milano 1957.
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tica che è quella sociale, che identificava come principale nemico la borghesia che sfrutta il proletariato. La proposta politicoideologica di Hitler, che proclamava un programma per i futuri mille anni, risultò essere meno incisiva di quella marxista, ma l’analisi storica dei due totalitarismi conduce all’affermazione del concetto che definisce entrambe le ideologie totalitarie, utopiche. I filosofi della Scuola di Francoforte, in particolare Horkheimer, Adorno e Marcuse, autori della Teoria critica della società, hanno accomunato il totalitarismo al capitalismo, considerato come un sistema economico-sociale che si serve della cultura e della comunicazione di massa per spersonalizzare gli individui e poterne controllare il pensiero: la cultura viene declassata e diventa uno strumento per uniformare le coscienze. Se il totalitarismo, come afferma Sergio Romano, «è uno dei tratti caratteristici della storia del Novecento», che possiamo definire anche il secolo dei genocidi, o come scrive Eric J. Hobsbawn “l’età degli estremi”, il XIX secolo si caratterizza per il passaggio dalla teoria razziale al razzismo. Famoso fu un testo di Joseph Arthur de Gobineau, Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, dove sosteneva che la razza è alla base della civiltà e la degenerazione della razza comporta conseguentemente un decadimento della civiltà. Questo saggio divenne ben presto il manifesto delle teorie razziste che, durante la seconda guerra mondiale, portarono alla tragedia dell’olocausto. Gobineau sosteneva che per arrestare il decadimento della razza “ariana”, non si potesse che ricorrere a un progetto di selezione delle razze “inferiori”: la mescolanza delle razze, per Gobineau, rompeva l’ordine naturale delle cose e conduceva la civiltà verso la barbarie. Fortunatamente, in alcuni casi i regimi autoritari e totalitari evolvono verso la democrazia e Linz e Stepan indicano anche le sottocategorie dei regimi post-totalitari, che possono essere riassunte nel seguente schema:
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Regimi autoritari, totalitari e post totalitari
* regimi di post-totalitarismo iniziale, dove la leadership ha perso il suo potere carismatico e si è trasformata in leadership burocratica; * fenomeni di post-totalitarismo congelato, è generalmente un periodo di passaggio; * forme di post-totalitarismo maturo, cioè quando il partito ha ancora un notevole peso, ma è in corso un processo verso un pluralismo tollerato. La nascita del pluralismo dopo l’esperienza totalitaria, che si manifesta con l’inizio di un dialogo tra potere politico e società, può far implodere il regime per disfacimento, perdita di valore dell’ideologia, leadership destrutturata, come è accaduto nella seconda metà degli anni ’90 nei Paesi dell’Europa Orientale, nelle ex Repubbliche sovietiche, che hanno vissuto momenti drammatici nella fase di cambiamento. Compiendo un viaggio a ritroso nel panorama storiografico, appare evidente che il pensiero totalitario ha origini antiche. Le teorie politiche più studiate dagli storici sono quelle proposte dal panorama ellenico, dove la maggior parte degli studiosi di scienza politica ha concentrato gli sforzi nella comprensione della filosofia platonica, alla quale molti attribuiscono la paternità nelle ricadute totalitarie del ’900.
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Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
IL CONCETTO DI STATO TOTALITARIO IN PLATONE: RIPERCUSSIONI IN CAMPO MEDICO
La filosofia di Platone ha fortemente condizionato il pensiero politico dei secoli successivi, interpretata in maniera assolutamente non univoca da parte dei vari filosofi o politologi che, nel corso degli anni, hanno approfondito l’analisi delle sue opere. Secondo W. Fite le teorie di Platone sono state “manipolate” dagli studiosi, tanto che egli solleva alcuni dubbi sull’interpretazione ortodossa del pensiero platonico ed opera un distinguo tra il Platone storico e quello lasciato in eredità dal pensiero della tradizione. Non tutti perciò, sono concordi sul fatto che il modello di Stato totalitario proposto da Platone e i successivi sviluppi totalitari delle sue teorie politiche, siano consequenziali, seppure numerose sono le analogie che si presentano tra le due tipizzazioni. La rappresentazione e la conoscenza della cultura greca sono il punto di partenza per ogni successivo approfondimento sul pensiero di Platone, che persiste quale punto di riferimento essenziale per il successivo sviluppo della filosofia e della storia delle dottrine politiche. Il modello di Stato totalitario di Platone è la derivazione delle sue esperienze personali e delle sue convinzioni: la società greca del periodo platonico, si stava dirigendo verso derive incerte e pericolose a causa dell’impoverimento morale e sociale e del deteriorarsi dei costumi. Esaminando la politica greca e ateniese in particolare, Platone tematizzò la nascita e i difetti delle diverse forme di governo: oligarchia19, democrazia20, tirannide21, regimi greci e persiani22. 19 Cfr. Platone Repubblica VIII, 543C-545°;547B-548°;550C-551B.19 Cfr. Ibid VIII, 55° - 558D. 19 Cfr. Platone, Repubblica, VIII, 562°-564°; 565C-568°. 19 Cfr. Leggi III, 676°-702E; cf. Politico 291D-292D; 302C-303B; Lettera VII, 324C-325C. 20 Crf. ibid.,VIII, 55°-558D. 21 Cfr. Ibid. VIII, 562°-564°; 565C-568°. 22 Cfr. Platone, Leggi III, 676°-702E; cf Politico 291D-292D; 302C-303B; Lettera VII, 324C-
325C.
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Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
La conclusione dell’analisi lo porterà ad affermare: “ogni città attuale non è, in se stessa, una, ma molte, perché divisa fra sé, disunita dall’ingiustizia”23. Platone sa bene che il modello di città ideale che descrive nell’opera Repubblica (IV, 496C-497C; V, 462°-464B; VII, 539D-540C; IX, 591E-592B) non è realizzabile. Essa lo è idealmente, ma questo concetto deve servire per guidare l’azione dell’uomo, per fissare un ideale da concretizzare. La città “retta” è quindi, per Platone, quella in cui prevale l’ unità, mentre quella “cattiva” è la città in cui prevalgono la molteplicità e il disordine. Nella Repubblica ideale Platone esamina la diversa natura degli uomini e li suddivide in caste secondo le loro attitudini e capacità. Nel modello platonico tre sono i ceti fondanti della città ideale: * il ceto dei produttori, artigiani, commercianti e contadini, che assicurano, con il loro lavoro, la sussistenza della comunità, dove egli ravvisa la virtù della moderazione; * il ceto dei custodi-guerrieri che ha il compito di difendere lo Stato, la cui virtù è la fortezza; * il ceto dei sovrani filosofi, i sapienti che sanno come organizzare la vita sociale dei cittadini e governare lo Stato, che corrisponde alla ragione dell’uomo, dove la virtù dominante è l’ areté, il dominio della ragione. Alla guida dello Stato non possono che esserci i filosofi, unici a riuscire a contemplare l’idea del Bene e a guidare la Comunità verso questo Bene. I sovrani filosofi devono avere doti intellettuali particolari e ricevere un’educazione ed una preparazione omnicomprensiva nell’arco di cinquant’anni così suddivisa: fino ai 20 anni, formazione di base, fondata sulla musica, sulle lettere e sulla ginnastica; dai 20 ai 30 anni formazione scientifica, che comprende lo studio della matematica, dell’astronomia, dell’armonia; nei 5 anni successivi, esercizio della 23 Cfr.
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Platone, Repubblica IV, 422E-423°.
Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
dialettica-filosofica; dai 35 ai 50 anni, attività pratica nello Stato con compiti amministrativi e militari. Dopo i cinquant’anni, questi cultori della filosofia sono destinati a governare o a ritirarsi a vita contemplativa. Nasce così con Platone, il governo dei filosofi, che egli tenterà di concretizzare, con scarso successo, a Siracusa. La sua città ideale è fondata sulle classi sociali, sull’educazione dei filosofi che governeranno in un regime di dittatura “condivisa”: una città caratterizzata insomma dall’ equilibrio, dove non c’è alcun cambiamento che possa esser causa di caos o sconvolgimenti sociali. Egli ipotizza una politica che superi gli interessi del singolo e dei vari gruppi che compongono la società, descrivendo un modello politico “assoluto”, il modello assoluto, non reclamante evoluzioni né aggiustamenti. Lo stesso sviluppo storico viene identificato da Platone come fenomeno negativo e degenerativo. Dopo aver analizzato le varie forme di governo, (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannia), Platone giunge alla conclusione che il governo “aristocratico”, degli àristoi, inteso etimologicamente come governo dei migliori, dei sapienti, è la forma preferibile su tutte le altre forme. Fin dal 1930 si sviluppa un pungente dibattito riguardante la filosofia platonica, soprattutto per quanto concerne le sue implicazioni politiche successive. Mentre negli anni precedenti l’atteggiamento degli studiosi nei confronti di Platone era stato benevolo, a partire invece dagli anni ’30, vari politologi iniziarono a pronunciarsi in modo fortemente critico nei confronti del suo pensiero, colpevole di fornire le basi teoriche per la giustificazione e la legittimazione dei regimi totalitari che si erano affermati o che si stavano affermando in Europa in quel periodo. In alcuni casi si mostra piuttosto ingenerosa l’interpretazione totalitaria e illiberale attribuita agli scritti di Platone. Giovanni Reale, autore della tesi secondo cui la filosofia greca ha creato le basi della genesi di tutte le scienze del mondo occidentale, in un’intervista di qualche tempo fa, afferma: “Chi apra i dieci libri delle Leggi, che non sono all’altezza stilistica della 37
Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
Repubblica, può cogliere la critica platonica ai mali estremi: all’eccesso di illibertà, ovvero la tirannide o l’assolutismo, e all’eccesso di libertà, ossia la demagogia”.24 Considerare Platone padre di tutti i totalitarismi appare perciò, ad alcuni studiosi, una forzatura: lo Stato che egli ipotizza non coincide in toto con il modello totalitario del ’900. Nell’ideale platonico ogni cittadino partecipa alla vita dello Stato, in ruoli differenti, dove ogni singolo fa parte della molteplicità, nel rispetto delle gerarchie; tuttavia l’interesse generale della società ha la priorità sui bisogni e i sentimenti del singolo, concetto che ritroviamo anche nei regimi nazista e comunista. Volendo indagare in modo neutrale il modello di Stato platonico, possiamo condividere l’affermazione di Romualdi circa i caratteri distintivi della Politeia platonica: “L’identificazione dello Stato con la minoranza eroica che lo regge, il fervido sentimento comunitario, l’educazione spartana della gioventù, la diffusione di idee di forza per mezzo del mito, la mobilitazione permanente di tutte le virtù civiche e guerriere, la concezione della vita pubblica come spettacolo nobile bello cui tutti partecipano”25. Un considerevole gruppo di storici fa invece rivivere nell’esperienza del Nazionalsocialismo, il concetto della Tradizione del pensiero di Platone: diversi studi evidenziano che il totalitarismo europeo ricorda il “totalitarismo platonico” e come dalla figura di Hitler, capo indiscusso, soprattutto nel pensiero di Weber, si possa tracciare un parallelismo con il “mito della caverna” di Platone. Il filosofo politico che, dopo essersi liberato dalle catene, assolve alla missione di ritornare nella caverna per liberare i suoi compagni.
24 Cfr.
Intervista a Giovanni Reale, di Antonio Gnoli (Da la Repubblica del 23 agosto 2002) 25 Cfr. Da Il Pungolo, mensile di AU Cattolica, Aprile 2005.
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Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
Altra analogia è rappresentata dall’ ordinamento dello Stato individuato da Platone, che si basa sull’ordine gerarchico delle tre caste: i philòsophoi, casta dei “sapienti” che hanno il compito di governare, i guerrieri, addetti alla vigilanza e al mantenimento dell’ordine sociale e i ghèorgoi, i contadini, gli uomini vicini alla terra. Una simile suddivisione è riproposta e presente, nell’organizzazione statuale del Terzo Reich, dove al posto dei filosofi c’è la presenza del Führer, leader carismatico che concentra su di sé la sapienza e la capacità di governare nell’interesse di tutta la comunità. Questa tripartizione era presente anche tra i germani, nell’antica Roma e tra gli Sciiti: oggi in Iran il gruppo politico al potere è composto da Wilayatu’l Faqih e dal Consiglio dei Giurisperiti, formato dagli Ulama, dai Pasdaran, guerrieri della rivoluzione e dal popolo. Platone è conosciuto nel mondo mussulmano come “Imam dei filosofi”. Julius Stenzel, storico della filosofia antica e studioso di Platone, nell’opera più significativa, “L’educatore”, uscita in Germania alla fine degli anni ’30 e tradotta in italiano alcuni anni più tardi26, partendo dalla dialettica, fulcro della filosofia platonica, scriveva che il punto si partenza di ogni indagine storico-politica deve concentrarsi sulla precisa identificazione delle condizioni e dell’ambito storico entro i quali quella cultura si è sviluppata. Senza questo tipo di analisi, verrebbe a mancare tutta la funzione educativa che deriva dallo studio dell’antichità e la possibilità di utilizzo offerta dai modelli proposti dagli studiosi e dai filosofi antichi. Stenzel pensava che la cultura greca avesse raggiunto il suo apice nella filosofia di Platone, soprattutto per il concetto di uomo e di razza espressi dal filosofo greco.
26 Cfr.
J. Stenzel, Plato der Erzieher, Leipzig, F. Meiner, 1928; trad. it di F. Gabrielli, Platone educatore, Roma Bari, Laterza, 1974.
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Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
Non possiamo esimerci dal riflettere sulle somiglianze tra il nazionalsocialismo tedesco e le teorie platoniche sul concetto della difesa della razza: Platone parla dei meteci, cioè degli immigrati e racconta che essi non godevano dei diritti politici e della cittadinanza ateniese. Lo stesso sentimento diffuso nella Grecia antica verso lo straniero, chiamato genericamente ò barbaròs, il barbaro, lo straniero, l’estraneo, solitamente visto come oggetto di pregiudizio e di disprezzo, arbitrariamente considerato come crogiolo delle peggiori qualità umane, esprime una posizione, quantomeno di rigidità nei confronti delle persone esterne alla comunità. In ogni modo, considerando anche i differenti contesti storici, se è sicuramente probabile che l’ideologia nazionalsocialista abbia attinto al modello ellenico nella costruzione della propria piattaforma culturale, appare tuttavia ardito l’accostamento dei due modelli politici dal punto di vista dell’ identità comunitaria. È molto più evidente, a nostro avviso, il parallelismo possibile tra modello ellenico e nazionalsocialista, riguardo all’ educazione delle nuove generazioni. Limpide analogie sono infatti ravvisabili nella ricerca di giovani sani, esteticamente armoniosi, moralmente sviluppati, forti e valorosi, scelti dopo una rigorosa selezione, “uomini nuovi” che formeranno una nuova società; questo concetto si ritrova già nella Repubblica (415): “Dio comanda ai governanti di essere, innanzi tutto e soprattutto, attentissimi custodi ed osservatori acutissimi dei fanciulli, e di quale metallo siano composte le loro anime; e, se i loro stessi figli hanno in sè il ferro o rame, di non avere pietà, e dando alla natura il valore che a natura è dovuto, li caccino fra i contadini e gli operai; e se, invece, questi ultimi hanno avuto figlioli in cui si intraveda oro e argento, di riconoscerne il valore e di elevarli a governanti o a difensori”. L’ideale estetico e morale a cui deve essere ispirata l’educazione dei giovani, conduce direttamente ad un altro aspetto di raffronto fra “platonismo” e nazionalsocialismo, e cioè l’ idea di una società improntata essenzialmente su di una gerarchia
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Il concetto di Stato totalitario: ripercussioni in campo medico
meritocratica: ad ognuno il suo ruolo, secondo merito e capacità innate, fino a comporre un puzzle ineluttabilmente perfetto. Un ultimo elemento di analogia, che non può sfuggire, è infine quello identificabile nel modo di concepire la società di appartenenza nel suo insieme. La comunità è vista, ed è ritenuto auspicabile se non necessario che resti sempre, come un blocco monolitico. Frammentazione e disgregazione, dipendenti dai più disparati fattori, sono viste come elementi di massima pericolosità sociale, come potenziale scaturigine di devianze sociali e di alterazioni dell’ordine e dell’ armonia raggiunti. Al perseguimento platonico dell’unitarietà sociale, fa da contrappunto la ricerca del totalitarismo tedesco di creare una precisa forma dell’aggregazione sociale, attraverso la subordinazione di ogni vincolo sociale pregresso, e l’edificazione di un nuovo e predominante collante sociale generalizzato, cioè quello del Reich e del Partito. Questo tema della “fratellanza”, espresso soprattutto nel quinto libro, reinterpretato anche dai giacobini, diventerà il manifesto dei totalitarismi del XX° secolo.
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Critica di Popper ai totalitarismi e allo Stato totalitario di Platone
CRITICA DI POPPER AI TOTALITARISMI E ALLO STATO TOTALITARIO DI PLATONE Tra i tanti “nemici postumi” di Platone, non si può evitare di citare Popper. Karl Raimund Popper, epistemologo austriaco, di adozione britannica, è considerato uno dei maggiori filosofi della scienza del Novecento. Noto per la sua teoria della falsificazione, è anche considerato un filosofo politico di statura mondiale, sostenitore dello Stato liberale, difensore della democrazia e contrario ad ogni forma di totalitarismo. Nel libro “La società aperta e i suoi nemici” Popper imposta un’inclemente critica al platonismo ed allo storicismo, principali presupposti teorici di molte forme di autoritarismo e totalitarismo e difende lo Stato democratico e liberale. [...] “Abbiamo bisogno della libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e abbiamo bisogno dello Stato per impedire l’abuso della libertà”.27 [...] “Coloro che credono nell’uomo quale è, e non hanno dunque abbandonato la speranza di vincere la violenza e l’irrazionalità, devono esigere che a ogni uomo sia dato il diritto di organizzare autonomamente la propria vita, nella misura in cui ciò è compatibile con gli eguali diritti degli altri”. 28 Nell’opera di Popper, pubblicata nel 1945, nella prima parte, dedicata a Platone, egli prospetta la tesi secondo cui il pensatore greco sarebbe “inconfutabilmente” un fautore del totalitarismo e, seppure con alcuni distinguo, sostiene che le teorie platoniche si sono concretizzate nelle dinamiche politiche del Nazionalsocialismo tedesco.
27 Cfr.
K. Popper, Dal libro intervista: “La lezione di questo secolo”, Marsilio, Venezia 1992. 28 Cfr. K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972.
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Critica di Popper ai totalitarismi e allo Stato totalitario di Platone
Nei due libri in cui è divisa l’opera, (The Open Society and its Enemies), egli mette sotto accusa le teorie di Hegel e Platone : “Quasi tutte le più importanti idee del totalitarismo moderno sono direttamente ereditate da Hegel, che raccolse e conservò quello che A. Zimmern chiama «l’arsenale d’armi dei movimenti autoritari». Benché la maggior parte di queste armi non sia stata creata da Hegel stesso, ma sia stata da lui scoperta negli antichi tesori di guerra della perenne rivolta contro la ragione, fu senza dubbio il suo sforzo a riscoprirli e a porli nelle mani dei suoi seguaci moderni”. Popper contesta il pensiero platonico, colpevole di aver sviluppato idee opposte alla creazione di una società aperta: il filosofo greco, infatti, ha combattuto la prima società aperta nella storia occidentale, cioè la democrazia ateniese. Scrive Popper: “Egli soffrì terribilmente nella situazione di insicurezza e di instabilità politica del suo tempo”29.“[...] Con l’espressione ‘società aperta’ designo non tanto un tipo di Stato o una forma di governo, quanto piuttosto un modo di convivenza umana in cui la libertà degli individui, la non violenza, la protezione delle minoranze, la difesa dei deboli sono valori importanti. Nelle nostre democrazie occidentali questi valori sono per la maggior parte degli uomini cose ovvie. Il fatto che questi valori siano per noi tanto ovvi è uno dei pericoli che minacciano la democrazia. Pochi infatti riescono a immaginarsi la vita in una società moderna non democratica, quasi sembra loro che non potrebbe esisterne una diversa” 30. Popper evidenzia le connessioni tra lo storicismo di Hegel ed il totalitarismo ed esamina il rapporto tra platonismo e totalitarismo moderno. Per società chiusa egli intende un tipo di società tribale, gerarchica, immutabile, dove gli uomini non godono di nessuna libertà e ciascuno soggiace ai propri doveri. 29 Cfr. 30
K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1.
Cfr. K. Popper, Il futuro è aperto, Rusconi, Milano 1979.
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Critica di Popper ai totalitarismi e allo Stato totalitario di Platone
Il tribalismo, cioè l’insistenza sulla decisiva importanza della tribù, senza la quale l’individuo è assolutamente nulla...”31, è uno dei concetti platonici più contestati da Popper. La società aperta invece, è continuamente e progressivamente soggetta al cambiamento, gli aspetti culturali si armonizzano con le relazioni tra i gruppi politici e i modelli pluralistici. Platone, pur essendo allievo di Socrate, viene da una famiglia aristocratica e teme la mutevolezza della società aperta, fonte di problemi: tende perciò ad una sorta di restaurazione della società chiusa. Nel sistema autoritario prevale il tentativo di integrare le forze sociali al regime e la maggiore resistenza, in questo processo di annientamento di ogni categoria valoriale intersoggettiva, è prodotta dalla famiglia, con le sue profonde ed articolate radici di società naturale. “L’attaccamento alla famiglia – scriveva già Platone nella Repubblica – potrebbe diventare una fonte di disunione, quindi tutti credano d’esser tutti della stessa stirpe”32. Il regime totalitario, ispirandosi a questo concetto, deve allora necessariamente intervenire in modo drastico nella sua trasformazione della famiglia in un ruolo sminuito, sede solo del momento della procreazione di futuri sostenitori del regime. Popper tende a sottrarre l’uomo ad ogni ingerenza del regime politico ed auspica una sorta di liberazione, che sarà realizzabile solo a condizione che l’uomo ritrovi le sue ragioni di vita, le sue convinzioni e ricominci a credere nelle proprie capacità, soprattutto quelle morali ed intellettuali. Un uomo che ritorna a vivere, che ha ritrovato la sua umanità e che ha compreso che solo così può essere un uomo libero. Non un ritorno alle origini, ma il desiderio e la determinazione di riproporre l’uomo dal ruolo di vittima a quello di protagonista della storia.
31 Cfr.
K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1.
32 Cfr.
Ibid.
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Critica di Popper ai totalitarismi e allo Stato totalitario di Platone
Popper, parla spesso di “razionalità storica”, che, secondo lui, è sempre identica in ogni epoca, dall’antichità ai nostri giorni. “Siamo noi e noi soli responsabili di approvare o respingere certe leggi morali che ci sono proposte, siamo noi che dobbiamo distinguere tra veri profeti e falsi profeti.”33 Egli è fermamente convinto della potenziale ed inarrestabile possibilità umana di ricercare, e avanzare autonomamente [...] “La ricerca non ha fine”, rifiutando ogni determinismo, ogni limitazione, ogni suggestione, compreso quella televisiva [...] “Cattiva maestra televisione...” . Questa riproposizione dei valori e dei diritti umani, che parte dall’ambito filosofico è un momento rilevante ed è certo un’arma puntata verso i regimi autoritari e totalitari, che non possono negare l’obiettività di questa scienza, la filosofia, tale, non solo da permetterne una concreta applicazione e realizzazione nella società e nella storia, ma espressione innegabile di una reale necessità dell’uomo, che non può essere facilmente cancellata. “La filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù, è il sapere più nobile.”(Aristotele) La concezione proposta da Popper, di un’umanità libera, la rivalutazione delle libere riflessioni dell’uomo sulla vita, sulla storia e sulla politica, assurgono a dottrina. È racchiusa tutta in questo concetto la “pericolosità” delle idee popperiane nei confronti di ogni totalitarismo: [...] La pretesa che, se si vuole sicurezza bisogna rinunciare alla libertà, è diventata uno dei fondamenti della rivolta contro la libertà. Ma non c’è nulla di meno vero. Non c’è, naturalmente, alcuna sicurezza certa nella vita. Ma quel tanto di sicurezza che si può conseguire dipende dalla nostra vigilanza, rafforzata da istituzioni che ci aiutino a vigilare, cioè istituzioni democratiche che hanno il fine, (per usare il linguaggio platonico) di consentire al gregge di vigilare e di giudicare i suoi cani 33 Cfr.
K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando - Roma, 1996.
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Critica di Popper ai totalitarismi e allo Stato totalitario di Platone
da guardia.34 [...] “Il cosiddetto paradosso della libertà è l’argomento per cui la libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare a un’enorme restrizione, perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti. Questa idea, in una forma un po’ diversa e con una tendenza del tutto diversa, è chiaramente espressa da Platone.” L’analisi e la scomunica dei regimi totalitari da parte di Popper, si sviluppa fino a Marx e anche se inizialmente sembra apprezzare le teorie marxiste, Popper è stato forse il più duro critico contemporaneo del marxismo, tanto da arrivare ad affermare che il marxismo, è morto di marxismo. Ha confutato i vari aspetti del materialismo storico e dialettico, dimostrando anche che il pensiero marxista è un pensiero che contraddice il canone principale della ricerca scientifica, che è quello di accettare le confutazioni. Rispetto alle diversità palesi, messe in evidenza dagli storici tra regimi totalitari nazional-socialisti e comunisti, assume particolare rilevanza l’aspetto socio-economico, seppure comune ad entrambi i regimi sia riconoscibile il tentativo, riuscito, di eliminare ogni autonomia della sfera economica, attuando una politica dirigistica. Mosse, parlando del rapporto tra nazional socialismo ed economia, scrive questa frase molto significativa: “Il mito spinse gli interessi economici in una posizione servile”. La rivoluzione comunista ai suoi esordi, fu una rivoluzione politica, non sociale. Come afferma anche Martin Malia, fu la guerra a condizionare i cambiamenti interni russi. In un paese dove si erano alternati per decenni momenti di ascesa economica e periodi di regressione, dove Lenin aveva sempre professato la subordinazione dell’economia alla politica, le idee di Marx trovarono fertile terreno.
34 Cfr.
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K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando - Roma, 1996
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In certe circostanze, le idee possono rivoluzionare le condizioni economiche di un paese, invece di essere modellate da queste condizioni. Usando la terminologia di Marx, potremmo dire che egli aveva sottovalutato la forza del regno della libertà e le sue possibilità di conquista del regno della necessità.35 Nei sistemi totalitari anche l’imparzialità scientifica appare pesantemente compromessa. Premesso ciò, le finalità scientifiche assumono una particolare importanza ed appare evidente che al regime il progresso scientifico e tecnologico interessano solo in rapporto al condizionamento che possono esercitare sulla trasformazione sociale in atto.“Una società aperta (ossia, basata sulla tolleranza e soprattutto sul rispetto delle opinioni altrui) e una democrazia (ossia, una forma di governo consacrata alla protezione di una società aperta) non possono sopravvivere se la scienza diventa proprietà di pochi”.36 Popper, fautore della teoria falsificazionista, era fermamente consapevole che ogni evoluzione scientifica può avvenire solo tra affermazioni e negazioni: l’approccio metodologico deve essere aperto alla critica, assolutamente non condizionato, né manipolato da interessi economici o politici di regime. Nella Logica della scoperta scientifica racconta l’aneddoto di un soldato che un giorno scopre che tutto il suo battaglione, tranne lui, non marcia al passo. Questo soldato, che marcia con andatura diversa, è quindi l’unico tra tutti ad essere nel giusto. Volendo traslare questo esempio in campo scientifico, può accadere, infatti, che una moltitudine di scienziati possa sbagliare e che ed essere nel giusto sia un unico scienziato in disaccordo, rappresentato dal soldato che marcia con un passo diverso rispetto agli altri. La metafora non è da interpretasi tanto come esaltazione del dissenso, piuttosto come esortazione a non
35 Cfr. 36 Cfr.
Ibid. Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna 1995
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accettare, da parte del mondo scientifico, nessun principio senza riserve, preservando solo i valori etici universalmente condivisi. Platone non era certo un filosofo aperto alle novita, ma buon osservatore ed estimatore delle consuetudini di Sparta, divenne un precursore delle teorie eugenetiche, cioè di quelle pratiche costruite sulla selezione su base genetica, con la conseguente soppressione dei soggetti deboli o con difetti fisici, che rappresentavano uno dei canoni della tradizione spartana. Secondo la politica eugenetica di Platone “bisogna che gli uomini migliori si uniscano alle donne migliori più spesso che possono, e, al contrario, i peggiori con le peggiori; e si deve allevare la prole dei primi, non quella dei secondi, se il nostro gregge dovrà essere quanto mai eccellente”.37 Egli teorizzò così il controllo politico dell’eros privato. Questa sorta di conservatorismo estremizzato e radicale, di staticità e di chiusura, manifestati dal pensiero di Platone, possono facilmente dare luogo a sillogismi come quelli descritti nell’ analisi del filosofo austriaco. Varrà la pena approfondire l’ argomento, cercando di raccontare un percorso storico con un filo conduttore che ci porti fino ai giorni nostri.
37 Cfr.
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Platone, La Repubblica, 459.
L’Eugenetica dall’antica Grecia ai giorni nostri
L’EUGENETICA DALL’ANTICA GRECIA AI GIORNI NOSTRI Nella Repubblica, Platone esprime un altro concetto che avrà profonde risonanze nei secoli successivi: lo Stato deve avere il compito di scegliere gli individui da far accoppiare, in modo da ottenere una discendenza perfetta; è un primo esempio di eugenetica applicata per la supremazia della razza e di una futura classe dirigente. “[...] A questo scopo è importante che la classe dirigente si senta come una razza dominante superiore – dev’essere puro il genere dei guardiani”38. Non è azzardato quindi affermare che, storicamente, l’eugenetica è stata “sostenuta” da Platone (Pol. 458 segg.), anche se già in uso in Grecia. Con il termine eugenetica ci si riferisce a quella disciplina scientifica volta al perfezionamento della specie umana attraverso lo studio e la selezione dei caratteri ritenuti positivi, (eugenetica positiva) e la rimozione di quelli negativi, (eugenetica negativa). Il termine eugenetica deriva da EU (“buono”) e da GENOS (“razza, specie”): esprime il concetto di miglioramento della specie umana. Il termine fu inventato dallo psicologo inglese Francis Galton, fautore delle teorie evoluzioniste di Charles Darwin, suo cugino. Per Galton l’eugenetica era una scienza politica, che aveva il compito di salvaguardare il miglior patrimonio genetico dell’individuo e di eliminare ogni imperfezione della razza. Questa frase è emblematica per la comprensione delle idee di Galton e di Darwin: “Mentre tra i selvaggi, i deboli di corpo sono prontamente eliminati, noi civilizzati facciamo ogni sforzo per arrestare il processo di eliminazione: costruiamo ospedali per gli idioti e gli infermi, emaniamo leggi per soccorrere i poveri”.39 La dottrina eugenetica fu ammessa come teoria scientifica grazie
38 Cfr. 39 Da
Ibid. 460 un articolo di Maurizio Blondet - «Avvenire», 29 Settembre 2000
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L’Eugenetica dall’antica Grecia ai giorni nostri
anche a scienziati come lo psichiatra svizzero Ernest Rudin ed al biologo Alevis Carrel che ritenevano, e purtroppo non furono i soli, che i tratti sociali e le tendenze fossero ereditarie. In base a questa convinzione gli individui portatori di geni buoni dovevano essere assolutamente salvaguardati e protetti, mentre ai portatori di geni imperfetti doveva essere proibito riprodursi. L’eugenetica si sviluppò soprattutto in due direzioni: la sterilizzazione obbligatoria di individui ritenuti affetti da minorazioni fisiche e le limitazioni all’immigrazione, anche se non mancarono discutibili sperimentazioni. Diventò un movimento politico, sostenuto da medici, scienziati, politici ed intellettuali tra i nomi più famosi del secolo. Nell’Europa dell’inizio secolo l’eugenetica rappresentò l’utopia necessaria per lo sviluppo delle teorie darwiniane: la cultura del tempo non conosceva ancora il controllo delle nascite, si diffuse il movimento “neomalthusiano”. Donne famose e importanti come Maria Montessori, iniziatrice di un programma pedagogico che proponeva un messaggio per la “rigenerazione umana”, presero posizione decisamente favorevole all’eugenetica. Annie Besant, che fu tra coloro che parteciparono alla fondazione del Partito Laburista inglese, animatrice delle prime lotte femministe, affermava che allo scopo di migliorare il tipo fisico umano, doveva essere proibita la procreazione alle persone non perfettamente sane. La motivazione del controllo delle nascite veniva ricondotta alla necessità superiore di “rigenerare l’umanità”. Questo concetto di rigenerazione che anticamente apparteneva al Battesimo cristiano, venne trasformato nel periodo della Rivoluzione francese. Ellen Key, femminista svedese, nel libro “ Il secolo del bambino”, scritto nel ’900, manifesta le sue convinzioni in un ordine eugenetico della riproduzione ipotizzando che, in un prossimo futuro la società e la riproduzione saranno esclusivamente fondate sul valore dei discendenti e nel successivo libro “Linee di vita”, pubblicato nel 1903, propone un’eugenetica erotica fonda-
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ta su canoni della nuova teoria erotoplastica, da lei inventata. Si tentò di far passare il concetto di eugenetica anche attraverso la letteratura e la romanzistica: Mantegazza, Docente di Antropologia, nei suoi romanzi del 1800, diffuse questo pensiero. La pietà era considerata come una “debolezza” che peggiora la qualità della vita dell’umanità.
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L’Eugenetica dall’antica Grecia ai giorni nostri
INTERDIPENDENZA TRA REGIMI TOTALITARI E MEDICINA Andiamo ad analizzare alcuni tra i casi più emblematici del ’900, tentando un’analisi comparativa sulle dinamiche che hanno creato le condizioni del successo dei progetti eugenetici in Paesi come l’Italia, gli Stati Uniti, la Germania, la Russia, la Svezia, dove esistevano realtà sociali e culturali diverse, con la presenza di politiche democratiche o totalitarie di tipo nazionalsocialista o statalista. Gli studi sull’eugenetica nella storiografia internazionale, utilizzando un criterio comparatistico, mettono in luce un “arcipelago poliedrico”, tipizzato nelle varie realtà nazionali. In Italia, nel 1984, troviamo uno studio approfondito sull’eugenica, da parte di Claudio Pogliano, storico della scienza, che, in un articolo pubblicato sulla rivista “Passato e presente”, sottolinea gli elementi fondamentali dell’eugenetica italiana: il mito dell’ “utopia igienica”, le responsabilità della prima guerra mondiale, lo sviluppo della medicina politica e le interrelazioni con la ricerca. Si può affermare che l’eugenetica italiana è stata atipica e sotto alcuni aspetti moderata, senza dubbio molto diversa dal fenomeno eugenico tedesco che mitizzava la superiorità e la salvaguardia della razza ariana. Interessante anche il contributo offerto dalla tesi di laurea sull’eugenetica di Massimo Ciceri, che suscita interrogativi e spunti di riflessione nuovi sulle analogie tra la ancestral law di Galton e le teorie in Lombroso, che fa derivare dal senso primitivo dei caratteri degenerativi, il prototipo dell’individuo delinquente. Uguale processo è ipotizzato per i caratteri del “genio” che, per Galton e Lombroso, tendono ad incontrarsi, nel susseguirsi delle generazioni, nell’uomo medio, secondo la teoria di “regressione verso la media” prospettata da Galton. Ciceri riscontra negli scritti lombrosiani alcuni “punti di passaggio” verso l’eugenetica. Non meno interessante la riflessione di Roberto Maiocchi con inediti approfondimenti alle teorie precedenti dal punto di vista 52
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statistico-demografico e antropologico, che portano ad una nuova tesi, secondo cui l’eugenetica può essere considerata come una delle “radici” culturali e ideologiche del razzismo fascista. Il significato di tutela della razza era piuttosto generico e volutamente esteso e, proprio da questa sua genericità, derivava la sua importanza propagandistica, da impiegare in un gran numero di pretesti e di progetti sanitari. Giorgio Israel e Pietro Nastasi, autori di un testo sulla relazione intercorrente tra scienza e razzismo nell’Italia fascista, parlano di un progressivo “scivolamento” dell’eugenica dagli aspetti demografici, “quantitativi”, a quelli “qualitativi”. Claudia Mantovani si dimostra invece molto critica sia nei confronti di Maiocchi, quanto di Israel e Nastasi: nella sua approfondita ricerca individua nella genesi e nella storia dell’eugenetica un primo periodo, che va dal 1860 al 1915, in cui si creano le premesse storico-culturali che indica nella medicina sociale; un secondo momento, dal 1915 al 1938, caratterizzato dall’ influenza della guerra, la riorganizzazione del movimento eugenetico (1919-1924) e la sedimentazione del pensiero fascista (1927-1938). La Mantovani assegna un’importanza fondamentale al processo di secolarizzazione del pensiero politico e alla legittimazione culturale attribuita alla scienza ed al progresso tecnologico apparsi all’orizzonte, dai quali si può far derivare il concetto di “rigenerazione”. Il modello collettivista si scontra con l’ideologia liberale, creando i presupposti per una nuova etica che ammette la “cultura eugenetica”. Nei regimi dittatoriali gli aspetti etici sono stati sempre strumentalizzati per fini politici dal regime al potere. L’eugenetica, espressa, sotto varie forme e con progetti diversi, ha rappresentato uno dei cardini dell’orientamento totalitaristico e, in alcuni casi, anche dei regimi democratici. Esiste indubbiamente una corrispondenza concettuale tra il platonismo ed il mito della società moderna perfetta, attenta ad annullare ogni imperfezione, che si è concretizzata con la nascita dell’eugenetica nell’America degli anni ’20 e durante il nazismo, nel progetto
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per la “purezza della razza ariana”. Non mancano, nella storia del ’900, esempi di pianificazione eugenetica anche in altri Paesi europei democratici.
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POLITICHE EUGENICHE NEI REGIMI DEMOCRATICI E TOTALITARI La prima legge eugenetica, nel 1907, venne emanata nello Stato dell’Indiana; successivamente altri trenta Stati della Federazione americana emanarono provvedimenti legislativi relativi all’eugenetica. Vennero legalizzate tutte quelle pratiche di sterilizzazione che erano già state sperimentate negli anni precedenti soprattutto all’interno di carceri e manicomi. Le nuove leggi erano presentate come progetti di utilità sociale, se non filantropici, nel rispetto dalla tutela giuridica degli individui, ma, in realtà, si trattava, nella maggior parte dei casi, di interventi forzati che perseguivano la finalità di estinguere la “specie moron”, definizione coniata dall’eugenista Goddard per etichettare gli imbecilli “di alto grado”. Nel 1927 la Corte Suprema degli Stati Uniti, chiamata ad esprimersi sul caso Buck vs. Bell, deliberò la legittimità etica e legislativa delle sterilizzazioni, secondo i principi dell’epoca, orientati alla tutela degli interessi sociali del “benessere collettivo”. Le leggi, che almeno in teoria avrebbero dovuto riguardare solo gli individui “tarati”, indipendentemente dal loro gruppo sociale o etnico di appartenenza, furono poi generalizzate verso tutti coloro che appartenevano alle cosiddette categorie di degenerati, tra i quali immigrati e white trash. Nel 1924 fu introdotta anche la politica delle “quote”, che avrebbe dovuto limitare l’immigrazione di tipi di razza diversa, in base ad un rapporto che prospettava una stretta causalità tra degenerazione e patrimonio biologico “razzialmente inferiore”. La difesa dell’idealtipo WASP, dei valori Wasp, cioè quelli di un’America abitata da bianchi protestanti e di origine anglosassone, considerando come base la teoria di Alexis de Tocqueville che in “Democrazia in America”, scrive che l’intero destino dell’America è contenuto nel primo puritano arrivato in America, diventa un privilegio ed una “tradizione” insostituibile da difendere con ogni mezzo.
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Questo non ridimensiona le responsabilità dei politici dell’epoca, ma ci può far comprendere meglio la genesi storica del fenomeno eugenetico ed il senso messianico di questi gruppi di americani che si considerano un patriziato etico. Nel periodo della Depressione, le leggi eugenetiche si inasprirono poichè non fu difficile dimostrare che le spese assistenziali si erano ridotte anche per opera delle sterilizzazioni, che permettevano di rimettere in libertà un gran numero di individui internati dalle istituzioni. In alcuni Stati, come nel North Carolina e in Virginia, le sterilizzazioni si sono concluse solo negli anni ’70, con un picco massimo negli anni ’30. Negli Stati Uniti, in quegli anni, era famosa questa filastrocca, dal titolo “See the happy moron”, che veniva insegnata ai bambini delle classi elementari, come propaganda contro i diversamente abili: See the happy moron; he doesn’t have a care, his children and his problems are all for us to bear. (Ammira l’imbecille felice; non ha nessuna responsabilità, i suoi figli ed i suoi problemi sono tutti sulle nostre spalle).40 Henry Godard, Direttore della Vineland Training School nel New Jersey, che coniò il termine moron (dal greco idiota), per definire gli individui ritenuti inferiori, utilizzò la scala Binet nella selezione dei soggetti da sottoporre a pratiche di sterilizzazione. Mentre Alfred Binet, nel 1904, incaricato dal Ministero della Pubblica Istruzione francese di studiare un test, che porterà il suo nome, per distinguere il livello intellettivo degli studenti, utilizzava questa scala in ambito scolastico, Godard ne fece uno strumento selettivo razziale. Nella percentuale di “individui inferiori” furono annoverati anche alcolisti, tossicodipendenti, ciechi e sordi. Si deve tener presente che all’epoca l’eugenetica era valutata in maniera positiva da parte di tutti i ceti sociali, che la consideravano un’avanguardia scientifica per migliorare la razza umana e per mantenere inalterata l’identità originaria della stirpe. 40
In KUHL S., The Nazi Connection, New York - Oxford, Oxford University Press, 1994, trad. di Alessandro Berlini
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Questi stereotipi condivisi, insieme ad un distorto concetto nazionalistico, sono poi degenerati in pregiudizi e odio razziale verso l’individuo considerato diverso o non autoctono, con conseguenze drammatiche in campo politico. Negli Stati Uniti le sterilizzazioni obbligatorie sono state vietate solo nel 1973. Nell’agosto del 1932 nella sede del Museo di Storia Naturale di NewYork, si tenne il “Terzo Congresso Internazionale di Eugenetica”. Molti gli interventi che dimostravano i successi dei progetti eugenetici già realizzati. Come cornice ai discorsi del Congresso, era stata allestita una mostra di teschi di “razze inferiori”; il presidente del Museo, lo zoologo Henry Fairfield Osborne, tentò di motivare la tesi che suggeriva che la spiegazione per la crisi mondiale del 29, non era da attribuire al crack di Wall Street, ma alla sovrappopolazione, che occorreva quindi limitare. W.A.Pecker, un demografo americano, espose un progetto, già sperimentato in Virginia, per preservare la Purezza Razziale. Nello Stato americano fin dal 1924 era in vigore la Legge federale “Immigration Restriction Act”, che limitava l’immigrazione su basi razziali. In California, nel 1935, erano state eseguite la metà delle sterilizzazioni degli Stati Uniti. Grande successo ebbe anche il programma eugenetico, ideato da Margaret Sanger e pubblicato nel 1932 nella Rivista “Birth Control Review”, da lei fondata, dove venivano enfatizzate tutte le Campagne di eugenetica americane, le sterilizzazioni spiegate come procedimenti di “bonifica sociale”, da attuare su tutti gli individui portatori di patologie ereditarie di ordine biologico, ma anche su soggetti economicamente, socialmente o razzialmente “inferiori” o considerati un pericolo per la società. Il “Johnson Act”, provvedimento legislativo del 1924, poneva forti limitazioni anche agli immigrati. Esistevano, insomma, nella società americana, delle vite ritenute “non meritevoli di essere vissute”: la drammaticità di questo pensiero sta nel fatto che era fortemente radicato e condiviso dai politici e dagli intellettuali dell’epoca.
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I provvedimenti di igiene sanitaria ed altri programmi atti al miglioramento sociale, si mescolavano spesso con leggi di igiene razziale, frutto di teorie scientifiche e suggestioni culturali basate su ricerche di antropologia, psichiatria, biologia. Le dottrine eugenetiche si proiettarono, in breve tempo anche in Europa, in particolare in Germania sotto il regime nazionalsocialista. Claudio Vercelli, nel testo Tanti Olocausti, scrive che l’igiene della razza passò dai salotti intellettuali ai laboratori grazie al concetto dell’uomo diverso che doveva essere studiato in laboratorio. La sintesi del pensiero eugenetico, è espressa chiaramente nelle parole di Heinrich W. Kranz, direttore dell’Istituto dell’Università di Giessen: “Esiste un numero assai elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerarsi veri e propri parassiti, scorie dell’umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo.”41 Il culto della razza aveva travalicato ogni previsione: dal “razzismo eugenetico”, finalizzato all’eliminazione degli individui appartenenti a gruppi ritenuti geneticamente inferiori o incapaci di conformarsi alle norme sociali, (omosessuali, disabili, minorati psichici, comunisti, Testimoni di Geova, “asociali” ecc.), si passò al “razzismo antropologico”, che si prefiggeva l’eliminazione delle minoranze che potevano in qualche modo minacciare la purezza della razza ariana (ebrei, zingari, slavi, “negri” ecc.). Furono veramente pochi ad avere il coraggio di andare contro corrente in quegli anni. Merita di essere menzionato l’antropologo Franz Boas, tra i primi a cimentarsi con il problema del rapporto esistente tra razza, civiltà e cultura.
41 www.oism.info/it/terapia/manifesto_etico/malattia_mentale.htm
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Politiche Eugeniche nei regimi democratici e totalitari
Nel suo saggio “The Mind of the Primitive Man”, criticò aspramente e definì senza fondamento, le teorie che sostenevano la superiorità della civiltà bianca su tutte le altre. Dopo la seconda guerra mondiale, antropologi, scienziati e sociologi dovettero riconoscere che i caratteri fisici usati per le "classificazioni razziali" non avevano nessuna relazione causale con la socializzazione, con l’acquisizione culturale, con il comportamento individuale e collettivo. La scienza e la politica in quel periodo confezionarono la nozione di “razza” per legittimare scientificamente e ideologicamente i pregiudizi che avrebbero orientato l’opinione pubblica verso l’odio razzista. Dalle sterilizzazioni si passò, in America come in Germania, al progetto di eutanasia dei disabili, che si ispirava oltre alle motivazioni razziali, anche ad una scientificità economicista, basata sul risparmio di cui avrebbe potuto beneficiare lo Stato, sollevato dal mantenere migliaia di “vite indegne”. Fu un vero progetto eugenetico diretto al miglioramento della razza, coltivando i caratteri favorevoli (eugenici); parimenti si eliminavano con l’eutanasia, attraverso la sterilizzazione, o altro genere di esperimenti, tutti coloro che erano “portatori di caratteri sfavorevoli” (disgenici). La “componente inutile” dello Stato veniva eliminata per migliorare lo Stato stesso. Subirono questa sorte tra il 1940-1941 quasi ottantamila persone e con il successivo progetto Aktion 14F13, l’eugenetica venne estesa anche a tutti coloro che, per stile di vita e comportamenti fuori norma, “potevano diventare un pericolo per la società”. Il progetto nazista, da strumento di prevenzione delle patologie fisiche e psichiche, si trasformò in una macchina per la repressione ideologica. Ma il regime nazista andò ben oltre le discriminazioni eugenetiche, il sadismo dimostrato negli esperimenti di laboratorio e nei campi di concentramento, riferito dai pochi sopravvissuti, costituisce una macchia indelebile sulle coscienze di tutti coloro, medici, militari o politici che parteciparono o condivisero tali progetti. Hitler fu
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costretto a sospendere gli esperimenti più efferati nel ’41, tuttavia lo sterminio pianificato dei malati di mente e degli handicappati continuò fino alla fine della guerra. La politica nazista non si occupò mai di tracciare una separazione tra politica razziale e politica eugenetica, ma rese possibile un intollerabile interdipendenza tra i due concetti, da utilizzare nella lotta contro i “degenerati”. “Perché dei medici preparati in antropologia si posero accanto alla rampa di discesa dei vagoni ad Auschwitz ed effettuarono la selezione e le uccisioni?” - si domanda Benno MüllerHill, genetista tedesco, [...] Il fatto è che questi scienziati possono essere considerati i teologi, e/o i sacerdoti, del “culto dell’annientamento” di tutti coloro che l’ideologia nazista catalogava come razzialmente inferiori”.42 Nel processo di Norimberga vennero condannati sedici imputati tra i medici più coinvolti nelle sperimentazioni sugli ebrei e sette furono impiccati. Essi sostennero di aver agito per il bene della patria. I giudici, insieme alla sentenza, produssero un documento che divenne famoso come Codice di Norimberga e che comprendeva i principi fondamentali che devono guidare le sperimentazioni cliniche sull’uomo. Alla fine della seconda Guerra Mondiale, dopo l’orrore e l’indignazione, l’umanità si interrogò sulle motivazioni che avevano prodotto simili scenari: nacque un’attenta legislazione per evitare che simili situazioni potessero riproporsi. Dopo il Codice di Norimberga del ’47, seguì la Dichiarazione di Ginevra nel ’48, il Codice Internazionale di Etica nel ’49, la Dichiarazione di Halsinki nel ’64, il Rapporto Belmont, nel ’79, le Direttive Etiche Internazionali per la ricerca biomedica su soggetti umani nel ’93, le Norme di buona pratica clinica per l’esecuzione della sperimentazione dei midicinali della UE (D.M. Min 42 Cfr. B. Muller - Hill, Scienza di morte. L’eliminazione degli ebrei, degli zingari e dei
malati di mente 1993-1945, ETS, Pisa 1988 p. 107-109.
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Politiche Eugeniche nei regimi democratici e totalitari Sanità del 1° luglio 79),
il Consiglio d’Europa-Convenzione di Oviedo nel ’96, le Linee guida di riferimento dei Comitati Etici (D.M. del 18 marzo ’98). Particolare attenzione merita la “Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali”, documento votato all’unanimità e per acclamazione dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 27 nov. 1978. Nel documento si ritiene priva d’ogni fondamento scientifico qualunque dottrina che teorizzi differenze etniche, attitudinali, intellettuali o psichiche tra soggetti provenienti da diverse culture. Nel preambolo del documento si definisce chiaramente la comunità internazionale come “un insieme universale, ma diversificato”, viene introdotto concetto di “etnia” al posto del concetto di “razza” e si propone il valore positivo dell’incontro tra culture diverse: “tutti i popoli e tutti i gruppi umani, quale che sia la loro composizione o la loro origine etnica, contribuiscono secondo il loro proprio genio al progresso delle civiltà e delle culture, che nella loro pluralità e grazie alla loro interpenetrazione costituiscono il patrimonio comune dell’umanità”.Tuttavia il concetto di “razza” non è mai scomparso totalmente, ma è stato rimpiazzato in alcuni settori della comunità scientifica, erede di una tradizione già codificata e ancor oggi fomenta problemi etici di varia natura. Esperimenti e sterilizzazioni eugenetiche non mancarono nemmeno nel sistema comunista russo, anzi alcuni progetti furono veramente agghiaccianti. Negli Anni Venti il regime sovietico promosse una serie di sperimentazioni per creare una nuova razza di uomini-scimmia: il protagonista di quelle discusse ricerche fu lo zoologo Ilia Ivanov. Questo scienziato che è stato un anticipatore del trapianto embrionale e di altre tecnologie attuali nel campo della genetica, ha concentrato i suoi studi di eugenetica selettiva, per dar vita ad un antropoide destinato a diventare un umanoide-soldato ed un donatore di super organi geneticamente modificati, suscitando la disapprovazione di molti scienziati dell’epoca. In un articolo di «Repubblica», Giampaolo Visetti ha
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scritto di questa sconcertante scoperta storico-scientifica del ventennio russo: «L´Unione sovietica voleva creare un esercito di uomini-scimmia. Alla metà degli anni Venti Stalin, appena succeduto a Lenin, finanziò un piano segreto per generare in laboratorio “un nuovo essere invincibile”. [...] «Poco sensibile al dolore, resistente e indifferente alla qualità del cibo». In breve fu approvato un progetto di ricerca che venne affidato allo scienziato Ilia Ivanov, Il’ja Ivanovic Ivanov, (1870 – 1932), biologo russo, già famoso per i suoi esperimenti di ibridazione. Egli corresse e raffinò le tecniche di inseminazione artificiale, applicandole alla riproduzione dei cavalli: riuscì a dimostrare con quella tecnica, come diventasse possibile inseminare 500 fattrici con un solo stallone, diventando in breve tempo un mito in tutta la Russia. Ma la sua fama varcò i confini del Paese quando, con la tecnica dell’inseminazione artificiale, tentò di creare un ibrido uomo-scimmia, teoria che aveva già esposto nel 1910, in una relazione al Congresso mondiale degli zoologi di Graz. Nel 1924, mentre svolgeva le sue ricerche all’Istituto Pasteur di Parigi, Ivanov ottenne persino il sostegno del direttore dell’Istituto, che lo invitò a sperimentare le sue conoscenze nella stazione primatologica di Kindia, nella Guinea Francese. Tornato in patria, con l’aiuto di Nikolaj Petrovic Gorbunov, titolare del Dipartimento delle Istituzioni scientifiche russe, che nel 1925 caldeggiò un finanziamento da parte dell’Accademia delle Scienze dell’URSS (ora Accademia Russa delle Scienze), le autorità sovietiche decisero di affidargli la direzione degli esperimenti di ibridazione. L’anno dopo Ilianov organizzò la cattura di scimpanzé adulti all’interno della colonia, trasferiti successivamente in cattività presso l’orto botanico, sede dei suoi esperimenti, dove passò alla seconda fase del suo progetto, cioè l’inseminazione artificiale di due esemplari femmina con sperma umano, ma l’esperimento non ebbe successo. Nel 1927, programmò esperimenti di ibridazione mediante fecondazione di femmine umane con sperma animale a Sukhumi, 62
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ma nonostante il sostegno della Società dei biologi materialisti dell’Accademia comunista e delle autorità politiche, che gli concessero cinque anni di tempo e una notevole somma di denaro per ottenere il primo esemplare di quello che sarebbe dovuto diventare l´elemento combattente dell’esercito russo come Lenin aveva auspicato, Ivanov non riuscì a portare a termine il progetto. Successivamente fu accusato di attività politica contraria allo Stato e finì i suoi giorni in un gulag. Anche l’America, patria dell’eugenetica, insorse, ponendo più che altro il problema dello stato giuridico di questo umanoide generato in laboratorio Dopo ottanta anni alcuni studiosi russi, tra i quali Moskovskij Komsomolets, rivelarono, pubblicandone alcuni estratti, i dettagli e l’orrore di questa sperimentazione. In seguito alla disgregazione dell´Urss, l´allevamento georgiano delle scimmie per le sperimentazioni di questo tipo è stato finalmente chiuso. Negli ultimi anni diversi ricercatori russi hanno intrapreso un’opera di recupero della fama di Ilia Ivanov, inventore della metodologia per la fecondazione artificiale di un ibrido e recentemente, attraverso giornali e televisione, si è tentata una nazionalistica riabilitazione di questo ricercatore e, indirettamente di assolvere lo spirito pionieristico della scienza russa.43 Ad un attento osservatore, non possono tuttavia sfuggire le derive eugenetiche di forme meno eclatanti, ma infide ed apparentemente innocue di eugenetica, che vengono proposte all’opinione pubblica con nomi e caratteristiche diverse. Sono progetti più sottili e quindi molto più subdoli e pericolosi, legati a totalitarismi diversi, ma non per questo meno opprimenti e pericolosi, talvolta sono progetti o Campagne realizzati nei “civilissimi” Paesi occidentali.
43 Dal
sito www.storiainrete.com/newsletter/6-2005.rtf.
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Nel panorama internazionale la politica svedese ha da sempre rappresentato un modello funzionale di democrazia, abile nel far convivere l’aumento della ricchezza e la redistribuzione sociale. Iniziando dal primo ’900, i politici svedesi avevano intrapreso un processo di liberalizzazione in campo economico senza tralasciare programmi di welfare che accompagnavano il cittadino dalla nascita al momento della morte, attuando progetti e servizi sociali molto all’avanguardia. Questo non ha però impedito che anche la penisola scandinava non fosse attraversata da imbarazzanti politiche eugenetiche. Infatti, negli anni tra il 1934 ed il 1975, in Svezia, Paese noto a tutti per le sue avanguardie democratiche, è stata praticata la sterilizzazione dei “soggetti inferiori”. Nell’ambito di un progetto di welfare state è stata resa possibile, sotto gli occhi di tutti, una pianificazione di tipo eugenetico. Negli anni Novanta una ricercatrice svedese, Maija Runcis, casualmente, fece una scoperta scioccante: in Svezia, dove si era sempre proclamata un’attenzione particolare per tutte le categorie sociali, soprattutto quelle più deboli, erano state compiute in un arco di tempo di circa quaranta anni, oltre sessantamila sterilizzazioni, con l’ intenzione di eliminare la capacità riproduttiva delle persone «imperfette». Una sconvolgente memoria, che fu definitivamente archiviata dal ministro Olof Palme. Tuttavia questi quaranta anni, durante i quali la socialdemocrazia svedese ha attuato una legislazione a favore della castrazione, della sterilizzazione e dell’aborto, costituiscono una macchia indelebile nell’immagine del Paese. In un interessante libro, dal titolo “L’utopia eugenetica del Welfare state svedese” (1934-1975), Luca Dotti analizza le dinamiche e le condizioni politiche dell’epoca, che hanno consentito la nascita e lo sviluppo di questa “pianificazione sociale”. Nell’analisi teorizzata da Dotti, appare evidente la stretta relazione tra le teorie economiche socialiste e i progetti eugenetici. Anche la società svedese, che in quegli anni si stava preparando all’avvento di un
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“nuovo mondo”, era stata travolta dal mito del miglioramento della collettività e della stirpe. Come già ricordato, nei primi decenni del ’900 l’Eugenetica cominciò a godere di un notevole consenso di pubblico nei Paesi occidentali. Così in Svezia, i socialdemocratici, che furono ininterrottamente al governo dal 1932 al 1976, pensarono di lanciare una Campagna economicosociale, che altro non era che un progetto eugenetico di sterilizzazione finalizzato ad eliminare le “presunte” tare fisiche e morali di una certa tipologia di individui «di scarsa qualità». I coniugi premi Nobel Gunnar e Alva Myrdal, lui economista, per molto tempo capo del gruppo parlamentare socialdemocratico svedese, lei considerata una dei maggiori esperti delle problematiche della famiglia, realizzarono questo progetto, che fu valutato positivamente dalla comunità svedese, soprattutto dopo l’uscita di un libro che parlava della crisi demografica in Svezia e di quanto fossero necessarie misure, orientate ad eliminare gli «individui imperfetti e superflui», tali da evitare di spendere preziose risorse statali per persone giudicate non recuperabili e quindi di peso per la società. Nella civilissima Svezia furono così emanate, in tempi successivi, alcune leggi per sterilizzare un numero sempre più esteso di persone. Seppure la legge indicasse che, chi appariva capace di intendere e di volere, avrebbe dovuto sottoscrivere una richiesta per poter essere sottoposto alla sterilizzazione, ci sono forti dubbi sulla reale volontà dei soggetti da sterilizzare e sulle argomentazioni utilizzate, nell’opera di convincimento, da parte degli Organi preposti. Del resto per imporre la sterilizzazione di un internato o di un individuo non socialmente utile, era sufficiente constatare che il suo quoziente intellettivo fosse basso, o che ci fossero in famiglia soggetti che avevano avuto problemi con la giustizia, o che fosse un figlio nato da una relazione extra-coniugale, o affetto da problemi fisici: era sufficiente una pleurite o un disturbo mentale. Stessa sorte spettava ai poliomielitici, agli zin-
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gari, o semplicemente gli homeless, persone molto povere che rappresentavano solo un ingombrante fardello per la società, costretta a lavorare anche per loro. È evidente che nell’ottica della razionalizzazione e della pianificazione economica, la società statalista non possa occuparsi delle problematiche di questi individui, ma senta il “dovere” di risolverle alla radice. Nella voluminosa e informatissima Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo (diretta da Aldo Agosti per gli Editori Riuniti), riguardo all’ opera dei coniugi Myrdal negli anni Trenta ci si limita sostanzialmente a scrivere che si batterono «a favore di ampi ed efficaci programmi di assistenza»; senza appunto menzionare la determinazione con cui quei programmi miravano anche a liberare la società dal peso del «materiale umano scadente». Si trattava, insomma, di programmi non privi nella pratica di risvolti autoritari, come era forse conseguenza inevitabile di un socialismo fortemente statalista, animato da una marcata diffidenza nei confronti della soggettività individuale.44 Il progetto dei Myrdal è intriso di sottili contraddizioni: da un lato appare evidente l’azione coercitiva da parte dello Stato diretta a migliorare la razza svedese attraverso la sterilizzazione, la castrazione, l’aborto, dall’altro emerge la prospettiva collettivista degli aiuti sociali. Anche la figura della donna, così come quella delle minoranze etniche, viene considerata un peso per la società in quanto non artefice della produzione di beni collettivi. Il sistema politico socialdemocratico e collettivista sancisce la disgregazione dei diritti individuali, un ridimensionamento del ruolo della famiglia e di ogni altra cellula naturale, nata liberamente e riscrive l’uomo secondo quei bisogni, che lo Stato gli ha assegnato e che, con il consenso dello Stato, può soddisfare.
44 Corriere
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della sera del 3/3/2005, di G.Belardelli, Ombra scura sul modello svedese
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L’eugenetica ha potuto affermarsi solo dopo la rimozione e la sostituzione di alcuni paradigmi basilari della società: il soggetto non può più essere titolare di diritti individuali, la famiglia non deve più rappresentare il luogo delle differenze culturali, la vita e la salute dell’uomo hanno un valore solo se gli individui hanno un ruolo produttivo in ambito sociale. Dotti scrive che nella Svezia di quegli anni “i ritardati ineducabili erano considerati un peso, e la loro impossibilità a diventare produttivi permetteva l’assenza di cura ed istruzione”, mentre diverso trattamento era destinato ai ritardati in grado di lavorare.45 Nel 1922 era stato creato l’Istituto Statale per la Biologia Razziale, con l’intento di stimolare l’orgoglio della specificità etnica svedese. Come in Germania anche nella società svedese viene proposto il mito dei contadini, ritenuti la “razza pura”, incontaminata grazie al loro vincolo con la terra e i loro limitati rapporti con altre etnie e culture. Emergono pesanti analogie tra regimi democratici e dittatoriali nelle scelte e nella gestione delle politiche sociali e sanitarie.
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L’Indipendente, 10 Luglio 2005 - Tra socialismo ed eugenetica - di Carlo Lattieri
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Fenomeni eugenetici dei nostri tempi
FENOMENI EUGENETICI DEI NOSTRI TEMPI Nell’epoca in cui viviamo ci sono nuove forme di eugenetica: con lo spauracchio dell’aumento della popolazione mondiale, si cerca di imporre il controllo delle nascite anche nelle civiltà occidentali dove palpita il motto “sono migliori i figli desiderati dai genitori”. Fecondazione eterologa, cellule staminali e utilizzo degli embrioni scoprono nuovi orizzonti. Il fenomeno eugenetico, ai giorni nostri, non è affatto scomparso, come molti vorrebbero far credere. Le insidie eugenetiche del nostro tempo, non sono tutte imputabili a regimi totalitari, ma spesso ad una dimensione della democrazia distorta e strumentale. Si possono nascondere nelle pratiche della selezione delle nascite, nell’uso delle cellule staminali, nell’eutanasia, nelle prassi abortive. Molti governi europei si sono pronunciati a favore delle manipolazioni genetiche e l’attenzione dell’opinione pubblica viene spesso deviata con informazioni parziali, spesso strumentalizzate da più parti. Si assiste, soprattutto ad opera della stampa e della televisione, (di nuovo Popper [...] cattiva maestra televisione...), ad una informazione poco obiettiva, non super partes, che disorienta il cittadino. Le incombenti minacce di relativismo etico, evocate anche dal Papa, sono assolutamente presenti nella nostra epoca e se da un lato non è giusto limitare il progresso delle nuove frontiere scientifiche, è altrettanto necessario colmare i vuoti legislativi attuali, attraverso una legislazione che stabilisca confini etici, universalmente condivisi, alla ricerca. Il termine eugenetica riappare in questi anni, sul sito della Asl di Milano, sotto la voce di eugenetica preconcezionale, un esame a cui ci si può sottoporre prima di concepire un figlio, (proposta interessante, ma termine inopportuno), o alla voce “problemi eugenetici e di sterilità, della Asl 4 in Umbria. Il neonatologo Carlo Bellieni, membro corrispondente della Pontificia Accademia della vita, chia-
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risce la differenza fondamentale fra la diagnosi prenatale non invasiva e quella che scivola nell’eugenetica, come ha anche spiegato in un’intervista al Monde il decano dei bioeticisti francese, Didier Sicard. “La prima serve a curare, la seconda a selezionare”, afferma Bellieni. Secondo il Prof. Sicard la diagnosi preimpianto è una pratica eugenetica: [...] “Siamo di fronte non a una diagnosi fatta per curare, ma per eliminare gli embrioni malati”. In una collettività civilizzata, dove la perfezione, base dell’eugenetica prenatale, è diventata il mito della società contemporanea, la dignità dell’essere umano rischia di perdere il proprio valore intrinseco. “Vivere è una condizione privilegiata, che si accompagna all’inconsapevolezza della sua essenza e del suo sentire.”46 L’eugenetica ha continuato ad essere presente in diverse parti del mondo ed ancora ai nostri giorni, le moderne società civili, continuano ad accettare impotenti, pratiche eugenetiche proposte all’opinione pubblica con nomi diversi, spesso come campagne sanitarie con finalità benefiche. Oggi il Continente africano è sconvolto da un gran numero di sperimentazioni farmaceutiche, che potremmo definire ispirate a canoni eugenici, che richiamano alla memoria esperienze già proposte dalla storia, praticate su soggetti affetti da aids, malaria, sifilide, tubercolosi ed altre patologie. Vengono attuate senza alcun controllo, complici le corrotte amministrazioni governative locali di Paesi non democratici e in assenza di specifiche e praticate norme di gestione e verifica, hanno come finalità prevalente quella di far risparmiare all’industria farmaceutica tempo e denaro e di far arricchire governanti e funzionari locali. Innumerevoli sono stati i progetti sperimentali effettuati non solo in Africa ma anche in Cina, ed in alcuni Paesi asiatici, dove la sperimentazione con conosce regole né limiti e dove i ricercatori hanno a disposizione un numero elevatissimo di
46 Cfr.
Dall’articolo: “Le ombre e le luci di Eutanasia” del Prof. Pierluigi Gargiulo
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soggetti da testare. Naturalmente i dubbi sull’informazione che viene trasmessa ai soggetti-cavia circa i rischi per la salute che la sperimentazione può comportare, sono molto forti. Mi pare estremamente appropriato il termine che recentemente è stato coniato parlando di queste situazioni: “imperialismo etico”. Il film “The constant gardener” - tratto dal romanzo di John Le Carrè - ha focalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione delle sperimentazioni nei Paesi del terzo mondo. La storia del film è “ispirata” a fatti accaduti in Nigeria nel 96, nella città di Kano, dove era scoppiata un’epidemia di meningite. Un’equipe di Medici senza frontiere (Msf) era arrivata per aiutare la popolazione, presto soppiantata da un’altra equipe inviata sul posto dalla casa farmaceutica americana Pfizer Inc., ufficialmente mossa da un’irrefrenabile spinta umanitaria, in realtà per sperimentare un nuovo farmaco, il Trovan.47 La sperimentazione avvenne su 200 bambini, la maggior parte con genitori analfabeti che dettero un consenso orale e seppure i risultati immediati del test furono abbastanza soddisfacenti, il Trovan alcuni anni dopo, fu tolto dal mercato perchè si verificarono numerose morti per complicazioni epatiche successive, imputabili appunto a questo farmaco. La dottoressa Ames Dhai, capo del dipartimento di bioetica della prestigiosa Università Witwatersrand di Johannesburg, insieme ad una pletora di studiosi di altri Paesi, ha denunciato che gli esperimenti di farmaci testati nei Paesi a basso reddito, soprattutto dove sono presenti regimi totalitari o sultanistici, sono aumentati in maniera esponenziale negli ultimi anni. I rigidi controlli richiesti in Occidente per le sperimentazioni, sono facilmente superati in questi Paesi e c’è addirittura una corsa da parte dei Gruppi sperimentatori ad accaparrarsi le “cavie” per gli esperimenti: questi medici senza scrupoli si giustificano affermando che in fondo non uccidono nessuno che non sia già condannato dalla malattia. 47 Article
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by Joe Stephens, Washington Post Staff Writer - Sunday, May 7, 2006.
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Sorgono improrogabili problemi etici: quanto può essere consapevole il consenso informato in queste realtà sociali? Questa metodologia di ricerca che abbrevia i tempi, compromette la validità dell’esito finale della sperimentazione? L’obiettivo primario del progetto di studio è realmente quello di migliorare le condizioni delle popolazioni locali, di limitare gli episodi epidemici o è teso solo ad accrescere i benefici economici della casa farmaceutica che vede aumentare i suoi profitti? Successivamente i farmaci testati sono messi in commercio a prezzi molto alti, certamente non alla portata dei soggetti che sono stati utilizzati per la sperimentazione e le Campagne pubblicizzate come iniziative benefiche, sono in realtà solo operazioni commerciali, che ledono anche gli interessi della popolazione del mondo occidentale, incoraggiata ad utilizzare farmaci a rischio. La presenza di regimi non democratici con a capo governanti o gruppi di potere facilmente corruttibili, consente questo tipo di situazioni e crea forti rapporti di connivenza tra occidente e regimi militari. L’infibulazione è un altro fenomeno che potremmo considerare pratica eugenetica, seppure presenti caratteristiche differenti. Secondo la definizione dell’OMS le mutilazioni genitali femminili sono: “Tutte le procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altri interventi dannosi eseguiti per ragioni culturali o per altre ragioni non terapeutiche”. Centotrenta milioni di donne nel mondo hanno subito mutilazioni genitali. C’è un aumento di due milioni l’anno di queste pratiche ed ogni giorno seimila bambine vengono “infibulate”. Questa “arcaica tradizione” è presente in 28 Paesi africani, in Asia Occidentale e anche nelle comunità di immigrati residenti nei Paesi europei, del Nord America, in Australia e Nuova Zelanda. In sette Stati africani (Egitto, Eritrea, Gibuti, Guinea, Somalia, Mali, Sierra Leone) è “un obbligo dettato dalla tradizione”, praticato su tutta la popolazione femminile.
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Purtroppo l’Italia è al primo posto come numero di donne immigrate infibulate e che permettono che questa pratica sia estesa alle loro figlie. Il Dottor Omar Abdul Kadir Hussein, ginecologo, che opera a Firenze da alcuni anni, ha acceso i riflettori su questo problema che scivola nell’eugenetica, non tanto come prassi selettiva, ma come menomazione fisica discriminante “dettata” dalla tradizione, imposta nell’età adolescienziale, per salvaguardare l’integrità femminile e per migliorare la fertilità della donna, dopo il matrimonio. Il Dottor Kadir Hussein ha addirittura suggerito, visto che non si riesce a debellare questo flagello che lascia segni indelebili non solo fisici sul corpo della donna, di legalizzare questa pratica, come è avvenuto per l’aborto. L’unico vantaggio sarebbe di far vivere alle piccole infibulate questo terribile momento, garantendo loro almeno un’assistenza medica adeguata.48 Il messianismo politico, nato dopo il nazionalismo anti-colonialista, approdò in molti Paesi africani, che ottennero l’indipendenza politica negli anni ‘50 e ‘60, ma l’entusiasmo iniziale, dovuto all’indipendenza nazionale raggiunta, fece nascere l’aspettativa di profondi cambiamenti sociali che, ancora oggi, a distanza di vari decenni, non si sono verificati. Molte tradizioni tribali continuano ad essere considerate fondamentali anche nella società culturale odierna. Il falso millenarismo predicato, lo strumentale messianismo politico, hanno dato vita solo a povertà, guerre civili, continui colpi di stato e situazioni politiche precarie, fondate quasi sempre su regimi dittatoriali e totalitari. Nei Paesi a regime militare o totalitario, a qualsiasi latitudine si trovino, non esistono garanzie sociali, nè diritti umani.
48
Le informazioni sono tratte dalla relazione “Le mutilazioni genitali femminili” del Dr. Maurizio Silvestri
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I soggetti più deboli della comunità sociale, come bambini e donne, sono spesso vittime privilegiate. Dal precoce arruolamento per le missioni di guerra, ai rapimenti finalizzati alla guerriglia mercenaria, operati sistematicamente in alcuni paesi, derivano una serie di problematiche che sfociano in pesanti distonie psicofisiche presenti nell’età evolutiva. Intere generazioni di bambinisoldato che vengono sottratte, da regimi totalitari senza scrupoli, alla loro infanzia e costrette ad uccidere o a diventare schiave sessuali. Non siamo, in questi casi, di fronte ad un progetto eugenetico classico, ma ad un intervento eugenico finalizzato all’eliminazione o alla totale sottomissione di un alto numero di soggetti deboli, che procura un cambiamento nelle società di appartenenza. Lo stesso accade in regimi politici aggressivi come la Cina, dove permane il rischio della scomparsa di valori culturali classici come quelli tibetani, il rischio di perdere un’etnomedicina più che millenaria. Anche questo può essere accomunato ad una pratica eugenetica, che viene perpetuata da regimi totalitari su essenze culturali millenarie, attraverso la totale sottomissione o l’eliminazione dei portatori di quei valori e di quelle tradizioni. Assistiamo impotenti da decenni alle inumane leggi cinesi di pianificazione familiare ed alla politica selettiva contro la nascita delle bambine, che sconvolge l’equilibrio programmato dalle Autorità circa il numero ideale, per la società cinese, di individui di sesso maschile e femminile. La politica del “figlio unico” consente nelle zone urbane di avere solo un figlio, in quelle rurali due, ma solo se il primogenito è femmina. Queste leggi incivili portano spesso all’abbandono o addirittura all’uccisione delle neonate da parte dei genitori che temono di essere scoperti dalle Autorità: di recente hanno fatto il giro del mondo le terribili foto di neonate “clandestine”morte, buttate agli angoli della strada come rifiuti umani senza valore, nell’indifferenza generale. Il fenomeno delle discriminazioni razziali, delle pulizie etniche, delle purghe e degli eccidi programmati, purtroppo si è riaffaccia-
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to prepotentemente, anche nelle storia recente delle guerre dei Balcani. Popper scrive: “Io affermo che il nostro mondo, il mondo delle democrazie occidentali, non è certamente il migliore di tutti i mondi possibili, ma è tuttavia il migliore di tutti i mondi politici della cui esistenza storica siamo a conoscenza. Sotto questo punto di vista sono un ottimista incallito”.49
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Cfr. K. Popper, Tutta la vita è risolvere i problemi, Rusconi, Milano 1996.
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Conclusioni
CONCLUSIONI La qualità della vita nei Paesi democratici, seppure con tutte le problematiche, le ingiustizie, le differenze sociali e talvolta le discriminazioni che ancor oggi sussistono, è certamente migliore rispetto al genere di esistenza offerta dai regimi non democratici, dove valori fondamentali come la libertà ed il rispetto civile sono negati. Condivido profondamente l’ammonimento di Popper, citato da Dario Antiseri nella prefazione dell’opera: “Non esiste un metodo infallibile per evitare la tirannide, il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”. Vigilare vuol dire avere la consapevolezza del patrimonio valoriale contenuto nella Costituzione e del dovere di custodire e trasmettere principi irrinunciabili come il rispetto per i diritti umani e l’assoluta priorità della dignità dell’essere umano. I tentativi di proporre progetti di eugenetica spacciati come Campagne sociali per il bene comune, fondati su falsi miti che auspicano una società perfetta, offrono una griglia interpretativa che deve stimolare la riflessione e un attento controllo sui temi etici. La lezione derivata dalla storia del ventesimo secolo si fonda sulla percezione del pericolo delle utopie politiche e della loro attuazione. La consacrazione di nuove filosofie antropologiche, il messianismo politico e le forme di integralismo, sia politico che religioso, sono i mali del nostro tempo, che dobbiamo indagare e sconfiggere. È fondamentale un assoluto e continuativo controllo delle dinamiche che possono portare alla riproposizione di forme totalitarie nell’epoca della globalizzazione, in cui il peso dell’economia può influenzare molto gli equilibri politici. La memoria delle teorie che postulano il Bene e si trasformano in forme di coercizione sociale, nel tentativo dell’affermazione del Bene stesso, è un bagaglio culturale estremamente importante: la deriva moralizzatrice non può costituire il pretesto per una sacralizzazione dei mezzi verso il raggiungimento di un utopistico fine.
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Ringraziamenti
Un ringraziamento al Cesvol per aver consentito la pubblicazione di questo Saggio Un grazie alla Dott.ssa Paola Silvani per la sua collaborazione Un grazie al Prof. Danilo Breschi per i consigli e le indicazioni.
Avvertenze: Citazioni, documenti, riferimenti bibliografici, articoli ed altro materiale sono stati trasferiti, per motivi di spazio, in un CD che può essere richiesto all’Associazione BioEtica e Diritti Umani (E-mail: bioeticaedirittiumani@hotmail.it oppure: manuela_marchi@hotmail.it)
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