Quaderni del Volontariato 2016
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SALCI nel ricordo dei suoi abitanti
Salci nel ricordo dei suoi abitanti
A cura di: Ivonne Fuschiotto in collaborazione con Emanuela Lucacchioni Presidio del Volontariato “Insieme si può” Istituto di Istruzione Superiore “Italo Calvino” Accademia “Pietro Vannucci” Città della Pieve Regione Umbria Assemblea Legislativa
sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni
CESVOL PERUGIA EDITORE
Quaderni del volontariato 2016
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Quaderni del volontariato 14
Edizione 2016
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net
Edizione Novembre 2016 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide
tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata
ISBN 9788896649589
Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Se poi i contenuti parlano di impegno, di cittadinanza attiva, di solidarietà, allora il piatto si fa più ricco. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i nostri cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio
SALCI nel ricordo dei suoi abitanti
a cura di Ivonne Fuschiotto in collaborazione con Emanuela Lucacchioni Presidio del Volontariato “Insieme si può” Istituto di Istruzione Superiore “Italo Calvino” Accademia “Pietro Vannucci” Città della Pieve con il contributo di Regione Umbria Assemblea Legislativa
Sommario Introduzione pag. 7 Interviste e ricordi
pag. 9
Riflessioni, storielle, flash
pag 69
Poesie, detti, filastrocche, scioglilingua
pag. 86
Ricette pag. 97 Famiglie, Vocaboli e Coloni
pag. 103
Vocabolario pag. 106 Ringraziamenti pag. 116 Raccolta Immagini pag. 117 Allegati: pag. Statuti del Castello e della ComunitĂ di Salci pag. Cenno storico e genealogico Famiglia Bonelli pag. Archivio personale Massimo Neri pag. Elenco testimoni e ricercatori
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pag. 156
Salci nel ricordo dei suoi abitanti
Introduzione Il Progetto “Salci: un borgo da far rivivere” ha avuto inizio casualmente quando, nell’anno scolastico 2010 2011, l’Istituto Professionale per i Servizi Commerciali di Città della Pieve ha presentato alla Regione Umbria un progetto sul turismo sostenibile - “Turismo responsabile: un turismo che fa la differenza” -, coordinato dalle docenti Ivonne Fuschiotto ed Emanuela Lucacchioni, in quell’occasione gli studenti proposero quale esempio di turismo diffuso proprio il Borgo di Salci. La Regione ha dimostrato molta attenzione per il lavoro, tanto che ha invitato la scuola a continuare interessando l’Università di Perugia - Facoltà di Ingegneria - per uno studio di fattibilità; l’Università ha mostrato interesse al nostro Progetto; nel frattempo è stata coinvolta l’Amministrazione Comunale di Città della Pieve, in particolare l’Assessore Luca Cesaretti che ha tenuto per la scuola i rapporti con l’Università, peraltro già introdotti dalla stessa Regione, tramite il Consigliere Gianfranco Chiacchieroni. L’Università ha dato incarico a due laureandi di realizzare il progetto di fattibilità. La scuola ha quindi preso contatti con l’attuale proprietà per farsi concedere il permesso di accesso alle carte ed alla struttura per gli studenti universitari. Andando avanti con il progetto è aumentato l’interesse e l’entusiasmo intorno al Borgo anche da parte dei nuovi studenti tanto che la scuola si è impegnata nel raccogliere testimonianze su Salci. Nel mese di maggio del 2012, tramite i giornali, siamo venuti a conoscenza che l’attore-regista Carlo Verdone aveva eletto il Borgo di Salci a “Luogo del cuore”, per il FAI. A questo punto 7
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abbiamo presentato il progetto al FAI Regionale e Nazionale. Il Fondo Ambiente Italiano ha chiesto di raccogliere più firme possibile, in quanto più interesse si crea attorno al “Luogo del cuore” e più questa Fondazione Nazionale si impegna al suo restauro. La raccolta firme è stata portata avanti con l’entusiasmo degli studenti e non solo. Intanto a Città della Pieve si era venuto a costituire un Comitato “Salviamo Salci” con il quale ci siamo messi in contatto. Siamo riusciti a raccogliere, solo in forma cartacea, e quindi spedire 1.228 firme. Nella classifica nazionale dei “Luoghi del cuore” siamo alla 117ma posizione con 1.266 firme, in un totale che vede l’ultimo arrivato alla 10.219ma posizione, con un sola firma. La realizzazione del libro: una rete ben coordinata Il libro nato da un Progetto realizzato a scuola, anche su proposta degli studenti, ha poi avuto vita propria. Con l’aiuto del Presidio del Volontariato “Insieme si può”, nato all’interno dell’Istituto Professionale per i Servizi Commerciali di Città della Pieve, si sono raccolte le testimonianze di tanti salcesi che con interesse hanno accolto l’idea. La Regione dell’Umbria, informata dell’iniziativa, ha subito dato il suo assenso e promesso un contributo. L’Accademia “Pietro Vannucci” di Città della Pieve ha risposto alla richiesta del Presidio per la pubblicazione con il CeSVol di Perugia che ha dato seguito alla richiesta. Ivonne Fuschiotto 8
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INTERVISTE E RICORDI Intervista a Laura Marchini, nata nel 1937 La signora Laura ricorda che durante la sua infanziaadolescenza a Salci c’era il mercato una volta al mese di domenica, purtroppo non c’erano molti soldi, ma cominciarono ad arrivare indumenti degli americani che non costavano molto (circa 100-200 lire) e ricorda di aver comprato una camicetta bianca e una gonna nera che indossò la domenica successiva, una volta lavata e stirata, per andare a guardare i maiali nella speranza che passasse un ragazzo. I maiali per il caldo andarono dentro un fosso e si sporcarono di fango e lei fu costretta a seguirli e i fili d’erba coperti di fango sporcarono tutta la gonna; poco dopo arrivò un ragazzo ma, vista la situazione, fu costretta a nascondersi. Rispetto ai matrimoni, alla signora Laura piace farci sapere che il giorno della cerimonia i genitori non venivano in chiesa perché non c’erano abbastanza soldi per i vestiti. Solitamente quindi restavano a casa e si occupavano del pranzo mentre i parenti e gli amici seguivano gli sposi in chiesa. Se c’era il fango gli sposi venivano accompagnati con un carro su cui le sedie erano legate con funi e fiocchi decorativi. Per tradizione venivano fatti due pranzi: prima a casa della sposa e poi a casa dello sposo. Quando si sposò lei ruppe questa tradizione in quanto fece un solo pranzo. Con i soldi del secondo gli sposi andarono a Roma in viaggio di nozze. Del periodo della scuola ricorda che le cartelle erano di cartone o di legno, venivano utilizzati pochi quaderni ed al massimo si aveva una scatolina di pastelli Giotto. 9
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A lei piaceva molto studiare, specialmente l’italiano, però, come succedeva spesso all’epoca maggiormente alle bambine, la fecero smettere poiché nel podere in cui abitava iniziarono a coltivare il tabacco ed anche le mani di una bambina erano utili. Inoltre era l’ultima di quattro figli, c’erano poi anche i cugini nella stessa casa e nessuno aveva studiato e così anche lei si vide tagliate le ali in partenza. Le materie che venivano studiate erano per la maggior parte le stesse di oggi. Purtroppo era ancora più raro che i giovani proseguissero negli studi, in quanto serviva manodopera nei campi. Nella scuola da lei frequentata solo un ragazzo e due ragazze hanno studiato; nella classe dopo la sua ha studiato solo il colonnello Mario Giuliacci. Era anche difficile imparare un mestiere, lei per esempio nei mesi invernali, quando c’era meno lavoro nei campi, viene mandata dalla mamma a Fabro ad imparare a cucire e per farle ottenere questo “posto” vennero regalati alla sarta due paia di piccioni: uno all’inizio e uno alla fine. Le prime esperienze fuori dalla famiglia, e soprattutto dal paese, i maschi le facevano quando andavano a fare il servizio militare, all’epoca obbligatorio per chi non veniva riformato. I ragazzi partendo per il militare conoscevano nuove realtà; le donne invece rimanevano sempre nell’ambito contadino. La signora Laura ricorda anche le feste che si svolgevano a Salci: il 24 settembre si celebrava la Madonna della Provvidenza, ed era una festa grandissima, in questo giorno si facevano cresime e comunioni con la presenza del vescovo. Durante la cerimonia si scopriva la statua della Madonna, che era la più importante della chiesa 10
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del borgo. La statua della Madonna si scopriva anche quando stava male qualcuno e, per informare gli abitanti, suonavano le campane. Quando si doveva andare in paese, in occasione di feste o cerimonie, non ci andavano tutti i componenti della famiglia, perché qualcuno doveva rimanere a casa per accudire gli animali. Solitamente ci andavano le ragazze accompagnate da un genitore, questa era l’occasione per le giovani per conoscere i ragazzi. In inverno, a Carnevale, venivano organizzate feste da ballo in qualche piccolo locale ma maggiormente si ballava a casa di famiglie che possedevano una cucina grande, in queste occasioni veniva chiamato un fisarmonicista. Il 1° maggio era una festa molto sentita a Salci. Si preparava la porchetta e si mangiava vicino al paese su un prato, tutti con le proprie tovaglie. Anche in quest’occasione non partecipavano tutti i membri della famiglia sempre per lo stesso motivo sopra ricordato. Partecipavano per esempio i ragazzi, le ragazze ed il capo famiglia. La trebbiatura per i bambini era una festa, mentre invece per gli adulti era un lavoro enorme, però ci si aiutava a vicenda. Il raccolto poteva andare bene o male, ma se andava bene era una grande festa. Quando in un’aia la trebbia “faceva” 100 quintali, alla trebbiatrice si facevano fare lunghi fischi e le ragazze, che indossavano nuovi grembiuli e fazzoletti per la testa, portavano ai lavoratori dolci e vinsanto; durante il faticoso lavoro della trebbiatura ogni tanto passavano per dare da bere. A pranzo la tavola dei macchinisti era separata da quella 11
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della batteria degli operai, per i macchinisti si aveva un occhio di riguardo. Durante le feste veniva organizzato l’albero della cuccagna: un tronco di albero veniva pulito e reso scivoloso, alla sua estremità venivano messi dei premi che i concorrenti aggrappandosi dovevano riuscire a raggiungere. Altro divertimento consueto era il gioco delle pignatte, nel quale il concorrente veniva bendato e fatto girare per disorientarlo, doveva poi tentare di rompere la pignatta con un palo e se ce la faceva vinceva il premio contenuto all’interno. I concorrenti più burloni si giravano verso il pubblico con il palo alzato per avere così indicazioni sulla giusta direzione. Altri giochi erano la corsa dei sacchi e delle carriole. Un’altra festa molto importante era quella di San Pio che veniva celebrata il 5 maggio. Nelle feste più importanti in chiesa si celebravano le funzioni, alle quali partecipavano soprattutto le ragazze. Le ragazze di campagna una volta calato il sole, dovevano ritornare a casa, cosa che non avveniva per le ragazze di paese che si riunivano per stare insieme. Queste si differenziavano anche per i tipi di lavori che dovevano svolgere, che per le ragazze di paese erano più leggeri. La signora Laura fornisce alcune notizie su Salci e sulle abitudini del mondo contadino: il contado era ben popolato, c’erano 54 poderi ed in media per ogni famiglia c’erano 15-20 persone. Il padrone dei terreni era il signor Paganini, il fattore era il signor Piccioni ed il sotto-fattore era il signor Ragni Alberto. Il padrone si serviva poi di un guardiano, Ercolani Gino, che passava per i poderi a controllare e contare gli animali e i prodotti, come per 12
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esempio le spighe di granoturco. Dopo varie lotte, negli anni ‘50, i contadini sono riusciti ad avere il 54% del raccolto, e poi via via fino al 58% negli anni ‘60, mentre ancora prima era il 50% a testa. Gli animali si vendevano alla fiera, erano il sensale ed il fattore che contattavano gli interessati, e poi sentivano il parere del contadino, ma qualche volta quest’ultimo non era d’accordo ed allora doveva riportare a casa gli animali. Salci, il paese ed il contado, piano piano si è spopolato perché gli abitanti si erano trasferiti al Nord per lavorare in fabbrica. I “mestieranti”, come il muratore, il falegname, il fabbro ecc., avevano la casa nel paese ed ognuno aveva il proprio orto e una stalla dietro casa. In paese c’erano dei bagni pubblici che venivano puliti ogni tanto con dei secchi da una persona addetta, ed il loro contenuto veniva utilizzato per concimare i campi. Solo le famiglie più benestanti, come quelle del fattore e del sotto-fattore, si potevano permettere il bagno in casa. I contadini tenevano diversi animali come galline, oche, anatre ed avevano degli “obblighi” verso il padrone cioè bisognava, per esempio, dargli un certo numero di coppie di uova ogni anno e i capponi a Natale che dovevano essere di un certo peso ecc. La signora Laura ricorda che suo padre un anno aveva portato al padrone un paio di capponi che pesavano un etto e mezzo in meno, questi glieli aveva fatti riportare a casa, dicendogli che quando avessero raggiunto il giusto peso glieli avrebbe dovuti riportare; così suo padre li riportò a casa e, anche se il cibo per il pollame era scarso, fu costretto a nutrire meglio i due capponi per farli ingrassare un po’, altrimenti la 13
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sua famiglia sarebbe stata segnata in rosso sul libretto colonico, e suo padre sarebbe diventato uno che non era in grado di fare il proprio dovere nei confronti del padrone. Grazie alle lotte contadine anche gli “obblighi” furono aboliti. Una volta all’anno si uccideva il maiale, che nelle famiglie non mancava mai, ed era una grande risorsa perché non si buttava via niente. Per esempio con le ossa si faceva il sapone aggiungendo soda caustica, cera lacca ed altri ingredienti che venivano messi a bollire dentro un grande paiolo; il prodotto così ottenuto veniva utilizzato per lavarsi e fare il bucato. Ricorda ancora che, di tanto in tanto, passavano dei signori a raccogliere il ferro, gli stracci, le pelli, gli scarti di lana, ed anche questa era un risorsa; per esempio, le pelli di coniglio si vendevano a 20-40 lire. Si vendevano anche coppie di uova e di piccioni, privandosene perché bisognava comprare altre cose come il sale e le medicine. A Salci c’era un unico negozio che vendeva un po’ di tutto. C’era anche un unico forno che veniva utilizzato a turno dalle donne per cuocere il pane, la legna naturalmente ogni famiglia doveva procurarsela da sola. Il pane fatto dai fornai è arrivato a Salci molto tempo dopo. Inizialmente il pane si comprava e si faceva in casa, successivamente veniva solo comprato. Anche il bucato non si faceva più con la cenere quando cominciarono a diffondersi i primi detersivi. L’acqua proveniva da un’unica fontana e da un pozzo e con il tempo si crearono battibecchi tra le donne per poterla utilizzare e così il bucato veniva fatto nel fiume a valle sia in estate che in inverno. 14
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Come in tutti i poderi specialmente quelli in collina, intorno alla casa colonica della signora Laura c’erano delle vasche dove veniva convogliata l’acqua piovana che durava per molto tempo e veniva anche utilizzata per bere, filtrandola con un panno. Le case venivano riscaldate dal focolare ma il calore proveniva anche dalla stalla delle bestie vaccine che era a pian terreno. La stufa economica a legna, che veniva utilizzata anche per cucinare, è arrivata a Salci negli anni ‘50 - ‘55 e costava 50 mila lire. Dopo la guerra tante cose vennero trovate e riutilizzate. Per esempio la signora Laura ricorda che suo padre riuscì a recuperare un copertone forse di un camion, vista la grandezza e la pesantezza, da utilizzare, in caso di pioggia, per coprire la “barcaglia”, il covone del grano pronto per la carratura che consisteva nel portare sull’aia le “gregne”, cioè i fasci di grano, per la trebbiatura. Laura ricorda che, a Salci, c’era una sola ostetrica che si chiamava Irene, mentre il medico non era stabile e veniva da Città della Pieve, solo in seguito si è stabilito a Salci, altrimenti bisognava andare a Fabro. In tempo di guerra, sua cugina incinta, che si era rifugiata in una loro grotta molto profonda per stare più sicura, si sentì male in quanto doveva partorire, le iniziarono le doglie, allora suo padre andò a chiamare l’ostetrica, la quale si era rifugiata, insieme ad altre persone tra cui il fattore, in una grande grotta sotto Salci vicino alla Fonte del Bimbo. L’ostetrica però aveva molta paura e non voleva uscire, intervenne allora il fattore, che le disse: “Su sor’ Irene, si metta una mano sulla coscienza! Questa donna ha già abbastanza problemi, è anche orfana... vada!” Ed 15
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allora l’ostetrica si convinse e si recò dalla partoriente. Tra una doglia e un’altra, i calcinacci che cadevano e le travi che ballavano, nacque una bambina. Intervista a Giovanna Gattobigio, nata nel 1944, una delle ultime ad andarsene dal borgo - Come si svolgeva la vita a Salci? “La vita era molto attiva all’interno del borgo, ma anche fuori dalle mura dove erano dislocati 54 poderi in cui i contadini svolgevano le attività agricole”. - Quali attività si svolgevano a Salci? “Vi erano molte feste paesane, come la festa dell’Unità il 1° maggio e la festa della Madonna della Divina Provvidenza il 24 settembre, ma anche concerti, ne ricordo uno celebre nel 1975 con artisti famosi come Lucio Dalla, Rino Gaetano, Gabriella Ferri, Eugenio Finardi. Importante era anche la fiera del 6 novembre dedicata al patrono San Leonardo dove si compravano le castagne per festeggiare tutti insieme”. - Vi erano mezzi di trasporto che portavano al borgo? “Sì, vi erano dei pullman che partivano da Città della Pieve e dai paesi vicini”. - Dunque Salci era un paese frequentato. Quale era la vita sociale a Salci? “Sì, il borgo era frequentato da molti abitanti dei paesi circostanti in quanto punto di ritrovo comune e utile per svolgere le spese quotidiane. A Salci vi era anche la scuola elementare, che nell’ultimo periodo della vita del borgo era frequentata da pochissimi bambini, infatti vi 16
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erano solo 5 alunni per un totale di 5 classi. Nel pieno della sua attività Salci era densamente popolato, infatti per far fronte alla differenti necessità vi erano un bar, un negozio di generi alimentari, un ufficio postale e un sale e tabacchi. Inoltre alle famiglie veniva servito il pane a domicilio dal forno di Ponticelli che lo portava regolarmente con un furgone. Era presente anche un cimitero tuttora esistente. Quindi un borgo autosufficiente e completo”. - Chi è stato l’ultimo abitante di Salci? “Gli ultimi abitanti ad andarsene sono stati Maria Gobbini, proprietaria del negozio di generi alimentari e Don Calzoni, il parroco del borgo”. - Quali sono stati i motivi per cui Salci è diventato un paese fantasma? “Molti abitanti si erano trasferiti nei paesi circostanti quando il borgo fu acquistato dall’attuale proprietario, il signor Perrini, che fece allontanare anche gli ultimi rimasti”. - Se Salci tornasse a vivere le piacerebbe tornarvi? “Sì, sarebbe emozionante rivivere i momenti della giovinezza, credo che Salci non debba essere lasciato morire, dovrebbe invece essere aiutato a rinascere”.
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RICORDI Di Nazzareno Giuliacci (detto Ninetto), nato nel 1947 Sono nato a Salci in piazza Bonelli. A Salci all’epoca vi era tutto ciò che serviva in un paese ad eccezione della farmacia; c’era la Chiesa con il prete, il calzolaio, la posta, le osterie, il dottore, la levatrice. Salci faceva più di settecento abitanti; le famiglie erano composte anche da 20 persone. Io, con la mia famiglia costituita da sei persone, abitavo in centro, la mia casa era formata da cucina e camera, non avevamo il bagno come quasi tutti all’epoca; i bambini giocavano in piazza. Ricordo in particolare la cerimonia per la posa della targa dedicata ad Achille Piazzai, un illustre personaggio di Salci, un costruttore di navi. La targa è ancora visibile sulla facciata della sua casa di nascita in piazza Crescenzi. Di Marcello Marchini, nato nel 1947 Ricordo Salci come una grande azienda agricola, la vita nel borgo era tranquilla, la maggior parte dei suoi abitanti erano operai di Paganini, proprietario della tenuta. Uno dei modi per stare insieme era quello di unirsi per svolgere lavori agricoli, il momento più festoso era la trebbiatura. L’azienda agricola fu venduta intorno agli anni ‘70 al signor Perrini. A Salci nacque Achille Piazzai, il costruttore delle navi allora più veloci del mondo. L’ultimo cittadino fu don Pietro Calzoni, parroco di Salci, morto nel 1998. A Salci c’era l’ambulatorio medico, il primo dottore fu Dionisi, dopo di lui venne il dottor 18
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Pelliccia. Nel 1975 a Salci fu organizzata una grande festa alla quale furono invitati anche Lucio Dalla e Gabriella Ferri. Per l’occasione era stato istituito un pullman navetta da Fabro e da Poggiovalle a Salci, per il trasporto di chi voleva partecipare a questa manifestazione. Ogni 24 settembre, giorno dedicato alla Madonna della Divina Provvidenza, nel borgo si faceva una grande festa con un’imponente processione. La chiesa di Salci è stata costruita nel 1300. Salci anticamente era un feudo, diventò poi, in epoca contemporanea, la frazione più grande di Città della Pieve. Salci, quando ero piccolo, contava circa settecento abitanti. Di Lucia Delle Morracce, nata nel 1941 Ho abitato a Salci dal 1958 al 1961 al casolare “Babbuccio”. In quel periodo c’erano 54 poderi abitati dai contadini e dalle loro famiglie, che si dedicavano alla coltivazione dei campi con grano, orzo, favina, mais, tabacco e “fieno”, alcuni di questi prodotti venivano utilizzati per nutrire buoi, suini, ovini e cavalli. Il proprietario della tenuta era il Sig. Paganini e il parroco della Chiesa era Don Calzoni. Fuori dal paese c’erano la scuola, la Chiesa di San Pio, la fattoria e il castello, mentre all’interno delle mura c’erano un’altra chiesa, la tabaccheria, la macelleria, la posta, la locanda e un negozio di generi alimentari. Nel paese abitavano anche un falegname e un muratore, i quali svolgevano piccoli lavori di riparazione all’interno del paese. Ad alcuni contadini che vivevano nei dintorni di Salci venivano dati dei soprannomi buffi come per esempio “Bimbo” 19
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per via della minuta statura, “Cifusse” a causa della sua altezza e magrezza. Per usanza nel corso dell’anno venivano festeggiate due feste: quella del 5 maggio nella quale veniva ricordato San Pio, celebrando la Santa Messa e facendo la processione; e quella del 24 settembre, nella quale veniva celebrata la Santa Messa, poi gli abitanti si riunivano nella piazza per ballare e c’erano diversi giochi come le giostre e l’albero della cuccagna. Di solito, la domenica non si lavorava e gli uomini si riunivano nella locanda per giocare a carte, bere del vino in compagnia e chiacchierare del più e del meno e dei fatti che accadevano durante la settimana; mentre le donne rimanevano a casa o facevano delle passeggiate nei dintorni. Di Patrizia Marchini, nata nel 1952 Sono nata a Salci da una famiglia che vi viveva da almeno 2/3 generazioni. Abitavo nella seconda piazza, piazza Bonelli, davanti al pozzo ed al sagrato della Chiesa. Per l’Ascensione su ciascuna delle due piazze veniva acceso un grande fuoco, naturalmente c’era rivalità, perché ognuno asseriva che il suo era più bello e più grande. Ho dei bellissimi ricordi della piazza, perché praticamente lì si svolgeva la vita del paese, specialmente quando era bel tempo. Mio padre era un dipendente della tenuta di Salci di proprietà del Marchese Paganini, era responsabile della cantina e dei magazzini del grano. Amante della 20
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campagna, fuori dal paese aveva ben due orti, uno dove allevava anche galline e conigli, l’altro dove teneva pure caprette. Ho piacevoli ricordi legati anche alla vendemmia: lunghe file di carri, ognuno trainato da due chianine, piene di casse di uva che venivano scaricate nelle cantine del Castello, abitazione del Marchese Paganini, dove c’erano botti anche di 200 quintali di vino cadauna. La stessa cosa si ripeteva durante la mietitura, solamente che in questo caso il grano veniva scaricato nel magazzino della tenuta ubicato all’ingresso del paese. Le abitazioni erano sprovviste di acqua corrente che veniva attinta, con secchi e quanto altro possibile, alla fontana che si trovava sulla prima piazza dopo l’ingresso ovvero piazza Crescenzi. In seguito i secchi furono sostituiti da un lungo tubo di gomma che ciascun abitante attaccava alla fontana per riempire i conservoni presenti nelle abitazioni. Per annaffiare gli orti veniva utilizzata l’acqua del pozzo, posizionato proprio davanti casa mia, attinta con secchi agganciati ad una lunga corda. Durante il periodo estivo questa operazione non finiva mai perché tutti avevano gli orti e tutti dovevano annaffiare. Per lavare i panni, si andava con il “concone”, un grande catino, ai lavatoi situati in pianura prima di salire in paese, serviti da una vena di acqua con quattro vasche in cemento, tra andata e ritorno erano almeno due chilometri. Durante l’estate il paese si riempiva di ragazzi e ragazze che abitavano altrove e venivano dai nonni o altri parenti a trascorrere le vacanze. 21
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In questo periodo tutti insieme andavamo, sul tardo pomeriggio, a prendere il latte da un contadino che aveva le mucche, naturalmente c’era sempre qualcuno che tornava con la bottiglia rotta e quindi senza latte. Il passatempo più praticato era quello di andare fino alla chiesa di San Pio, raggiungibile tramite un lungo viale alberato ed ombreggiato, per posizionarsi sotto un grande olivo, presente nel campo adiacente al Castello, ad ascoltare dischi con il mangiadischi a pile. Altro punto di ritrovo era una radura in mezzo a tante piante di pini detto “rocolo”. Il periodo estivo era bellissimo anche perché nascevano tanti “amori”. Nessuno di noi, vissuto a Salci, credo si possa dimenticare delle bellissime giornate lì trascorse, anzi quando possiamo ci ritorniamo, anche se vedere come è ridotto stringe il cuore. Di Giancarlo Parretti, nato nel 1960 Salci era un piccolo paesino circondato da mura interrotte da due porte ad arco, opposte tra loro, una per entrare, l’altra per uscire. Era un paesino autonomo dove l’estate si riunivano gli abitanti dei paesi vicini come Piazze e Palazzone. Precisamente la gente si riuniva nella piazza principale del paese dove era un bar. Le sere d’estate c’erano degli spettacoli con i cavalli o di altro genere. Con gli amici si giungeva in bicicletta fino a Salci per andare a queste feste. Non c’era strada asfaltata. 22
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C’era una grande chiesa molto bella, curata e decorata ed un negozio di generi alimentari. L’attuale proprietario il signor Perrini decise di comprare questo borgo e tutti i pochi abitanti rimasti furono costretti ad andarsene. L’unico a rimanere fu il prete della chiesa a cui rimase la sua casa, ma siccome era solo e non poteva svolgere le Funzioni religiose poiché non vi erano più abitanti, restò a coltivare la terra a lui rimasta. Il signor Perrini decise di avviare tutti i lavori di ristrutturazione ma li interruppe e adesso di Salci è rimasto un paese pieno di cartelli indicanti “lavori in corso” con reti e divieti. Di Ilda Fiorani nata nel 1926 Abitavo a Poggiovalle, però andavo spesso a Salci. Mi sono fidanzata e sposata a Salci e poi mi sono trasferita a Ponticelli. A quei tempi il legame tra la popolazione di Salci e quella di Poggiovalle era molto stretto. A Salci c’era il falegname, il fabbro, la posta, una piccola bottega di generi alimentari che faceva anche da tabaccheria, la scuola elementare, la chiesa, il bar, c’era anche il cimitero a poca distanza. La chiesa aveva un prete che abitava a Salci, e organizzava tante feste, balli, giochi. La domenica si incontravano tutti e andavano alla Santa Messa. A Salci c’erano 54 poderi sotto un unico padrone assegnati in mezzadria ai contadini; il raccolto era diviso in due parti in quanto una veniva assegnata al padrone. Durante gli anni ‘30 la vita dei contadini era molto misera, tanto lavoro e poco guadagno. Negli 23
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anni ‘40 non c’erano neanche i mezzi pubblici e tutti andavano a piedi. A carnevale c’era la mascherata, un gruppo di uomini si vestiva con le maschere e passava per le case per far divertire i presenti, e le massaie, le “padrone” di casa, li ricompensavano con le uova. Il giorno del Giovedì Santo tanti giovani passavano per le case e dicevano “cucuciccio”, e le massaie davano loro la carne di maiale. A Pasqua si facevano le processioni e tanta gente accorreva. Il 6 novembre si svolgeva la fiera del bestiame, i contadini portavano i vitelli e i maiali a vendere. Si faceva la corsa del somaro, la cuccagna, la corsa dei cavalli. Se Salci tornasse a vivere ci tornerei volentieri. Di Simonetta Brillo, nata nel 1948 Ho vissuto a Salci per quasi 35 anni, dal 1951 al 1986. Prima abitavo a Città della Pieve dove sono nata nel 1948 ma, dopo la morte di mio padre avvenuta nel 1951, mia madre ed io ci siamo trasferite a Salci, dove vivevano i miei nonni materni. In questo piccolo paese ho trascorso gli anni dall’infanzia all’adolescenza. Ho frequentato a Salci le scuole elementari; ricordo una grande anzi grandissima aula, che si trovava a destra della chiesa nel palazzo ducale, nella piazza piccola, dove una sola maestra insegnava a tutte e cinque le classi. Un’aula piena di bambini, se considerate che a quei tempi il paese faceva quasi mille abitanti dislocati nei 54 poderi della tenuta. Una stufa di terracotta scaldava la classe, grazie agli abitanti del paese che portavano ceste piene di legna, noi bambini che abitavamo in paese si andava 24
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a scuola con lo scaldino o la borsa dell’acqua calda. I banchi erano di legno da 4 a 5 posti con il calamaio dove finivano spesso i fiocchetti delle treccine delle bambine, pettinatura molto in voga a quei tempi. I bambini che venivano dalla campagna, distanti dal paese anche due chilometri, attraversavano fossi, boschi, campi a piedi e prima di entrare in classe cambiavano gli stivali con le scarpe. Nel paese c’era vita: c’era l’osteria con il telefono pubblico, l’ufficio postale, il calzolaio, il falegname, il fabbro, il mulino, un negozio di sali e tabacchi, che vendeva di tutto e sfuso, dalle sigarette alla pasta, anche le caramelle che a quei tempi, mi ricordo, costavano una lira all’una, un negozio di generi alimentari, poi, dopo qualche anno, fu aperta anche una macelleria. C’erano persino il dottore e l’ostetrica, il parrucchiere che veniva una volta alla settimana da Palazzone; c’era anche un “postale”, un pullman, che collegava Salci a Città della Pieve. Nella piazza piccola del paese c’era, e c’è tuttora, il pozzo dove la gente attingeva l’acqua per annaffiare o lavare ma non era potabile. Se non veniva l’acqua dalla fontana nella piazza grande - dove si prelevava con brocche di coccio e secchi di ferro, ricordo ancora il loro cigolio, e dove si doveva fare la fila e spesso le donne del paese battibeccavano per il turno - si andava alla fonte di Doro o alla fonte di Pisse, che distavano dal paese circa 500 metri. Nelle case non c’era il bagno, ma in fondo alla piazza piccola, dopo la porta o arco di Siena di uscita dal paese, c’erano i bagni pubblici. A Salci c’era un locale grande, che l’allora proprietario, il marchese Paganini, aveva concesso agli abitanti del paese per guardare la televisione, da lui stesso regalata; 25
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il medesimo locale veniva anche utilizzato per fare le recite della scuola. Noi ragazzi di Salci lo chiamavamo la Grotta azzurra, per il colore delle pareti, e d’inverno la domenica pomeriggio con un giradischi ci si andava a ballare. Era la nostra discoteca! Come “luce psichedelica” c’era un filo intrecciato che scendeva dal soffitto con una misera lampadina che rifletteva nel muro facendo disegni di luce in base alla polvere che c’era sopra. Dall’arco di ingresso del paese, porta di Orvieto, partiva un viale alberato che portava alla chiesetta di San Pio dove noi bambini si andava in bicicletta, le macchine non c’erano, vi si poteva andare a passeggiare tranquillamente. In paese c’erano solo due macchine: una del prete e una del noleggiatore. A metà di questo viale c’era lo chalet in muratura e legno, dove abitava il custode del castello, con un grande orto pieno di alberi da frutto, e noi ragazzi d’estate ci si andava a “fregare” la frutta che si nascondeva nelle maniche del golf che si portava sulle spalle, legandole in fondo con un nodo, poi si mangiava tutti insieme, ridendo e scherzando, seduti sulle panche di pietra davanti alla chiesetta di San Pio. Dalla chiesetta di San Pio a destra, per una strada bianca, si saliva al castello, dimora dei marchesi Paganini, allora proprietari del paese. Tutto intorno al castello c’era un boschetto con tanti alberi di medio fusto, con sentieri puliti e levigati che servivano al custode per curare le piante, e dove noi ragazzi si andava a fare la “scivolarella”, ma se ci scopriva il custode ci correva dietro con un frustino e qualche volta ci prendeva, e allora si portava il segno sulle gambe per diversi giorni. Un viale di gelsi, usati anticamente per l’allevamento 26
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del baco da seta, conduceva alla fattoria, dove viveva il fattore della tenuta, e alla pineta del Rocolo dove si andavano a cercare i pinoli per fare il croccante. Nei paraggi del castello un ulivo secolare d’estate con la sua ombra ci riparava dai raggi del sole. Era il rifugio di noi giovani che con un giradischi acceso si parlava, si ballava, ci si corteggiava… sorgevano sotto l’ulivo le prime simpatie, i primi sentimenti. Ahi!!! se quell’olivo potesse parlare! Presa dai ricordi non ho ancora descritto come era fatto il mio paese. Il borgo medievale di Salci ha una forma rettangolare all’interno della quale sono disposte due piazze o corti: una piazza grande, piazza Crescenzi, chiamata dai salcesi “la piazza di sopra” perché si trovava all’ingresso del paese, e una più piccola, piazza Bonelli, detta “piazza di sotto”, dove era, e c’è ancora, la chiesa. A Salci ci sono due porte: una d’accesso, porta di Orvieto, composta da un arco con torre merlata, i merli continuano più bassi a destra, e la seconda, la porta d’uscita, porta di Siena, da dove si gode un bellissimo panorama verso la montagna di Cetona, ed un tramonto indimenticabile. Le due piazze sono divise da un arco dove anticamente c’era una torre con un orologio, torre dell’orologio. Tutto attorno alle piazze sono dislocate le case, un tempo con orti pieni di viti, olivi, alberi da frutta, ortaggi; si praticava anche l’allevamento di galline, conigli, maiali e vitelli. All’inizio del paese c’era un forno dove le donne a turno facevano il pane ma anche i dolci e i salati come ciambellone, crostate, pizze, torte pasquali; il profumo di pane, pizza e dolci si propagava per tutto il paese facendo venire l’acquolina 27
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in bocca. La domenica venivano i contadini dalla campagna, si fermavano all’osteria e bevevano vino a quartini o mezzo litro, o il “cognacchino”, il brandy di oggi, e poi giocavano a carte o a morra, gioco molto popolare all’epoca. I bambini giocavano a battimuro con le figurine di ferro che si trovavano nei cioccolatini della Ferrero, a mosca cieca, ad anello anellino, ad uno due tre stella, a campana, a nascondino, a guardie e ladri, con le bambole di pezza e con le pentole fatte con la creta. Alla vigilia dei giorni di festa, come l’Ascensione e il Corpus Domini, ogni famiglia portava in mezzo alla piazza una fascina di legna che veniva sistemata come a formare un tenda indiana, così in ogni piazza si accendeva un gran falò. Noi bambini per una sera diventavamo rivali, nemici, succedeva come per il Palio di Siena, per quale fuoco fosse più grande, più bello o quale durava di più, ma poi ci si rincorreva e tutti in circolo, prendendoci per mano, si faceva il girotondo intorno alle ultime braci. Tutte le feste religiose erano occasioni speciali per noi ragazzi. Per Pasqua veniva un missionario che suonava l’organo, situato dietro l’altare, ci faceva cantare e ci raccontava le sue avventure in Africa. Nei giorni di silenzio delle campane, nel periodo che precede la Pasqua, la Santa Messa si annunciava suonando il regolo e le raganelle, strumenti costruiti appositamente, mentre si faceva il giro del paese. Le feste più grandi erano: 5 maggio San Pio, 6 novembre San Leonardo protettore del paese, il 24 settembre festa della Madonna della Divina Provvidenza. I bambini prendevano la Prima Comunione preparati durante l’estate dal parroco Don Pietro Calzoni e da Mario Giuliacci, allora seminarista, 28
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oggi famoso meteorologo. Ogni anno c’erano corse di cavalli, tornei di ruzzolone e di bocce, veniva la banda musicale di Città della Pieve, la giostra, il circo, l’arrotino, venditori ambulanti di stoffe e biancheria, il gelataio con il suo tradizionale carretto attaccato ad una vespa che si annunciava suonando il clacson. Il paese si riempiva di gente, per un giorno abbandonavano il lavoro nei campi e si recavano a Salci per assistere alla Santa Messa, per partecipare alla processione che si snodava verso il castello, passava per la chiesa di San Pio poi prendeva il viale fino alla porta di Orvieto per rientrare in paese, dove le finestre delle case erano tutte addobbate di fiori e di coperte colorate, se la processione si svolgeva di giorno, se si faceva di sera invece le finestre erano illuminate dalle candele accese. Un altro periodo bello era d’estate il momento della trebbiatura, con mia madre andavamo presso i contadini ad aiutarli, mia madre in cucina e noi bambini impegnati a prendere, dalla grotta, acqua e vino fresco da portare a chi lavorava nell’aia, tra polvere e sole, a chi era intento ad innalzare il pagliaio, a chi stava nel capanno a sistemare la pula, a chi metteva i covoni di grano con i forconi nella slitta della macchina trebbiatrice. Era veramente la festa nell’aia. Si mangiava a crepapelle, tutto finiva la sera con i canti anche se la stanchezza era tanta. Siccome intorno al mio paese ci sono molti boschi, in quegli anni venivano smacchiati e poi i mulai con i loro muli portavano la legna nei posti accessibili vicino alla strada. Insieme alla mamma si andava al bosco con cesti e canestri per raccogliere i pezzi e le stecche che erano rimaste. Mi metteva in testa la “coroia”, un pezzo di 29
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stoffa quadrato o rettangolare che veniva attorcigliato e poi girato tra le dita della mano, e sopra il cesto pieno di legna e via a casa; quando arrivavo “non sentivo più il collo”. D’estate la popolazione del paese aumentava perché venivano parecchi giovani, ragazzi e ragazze, da Firenze, Milano, Roma, Torino nipoti e cugini dai nonni o dagli zii a trascorrere le vacanze estive. La sera ci si ritrovava tutti seduti sugli scalini della chiesa a parlare, a giocare al “cucuzzaro”, o ancora ad organizzare per il giorno successivo un bagno al fosso o una merenda in una delle aie vicino al paese. Questi sono alcuni dei ricordi da bambina e da adolescente, allora eravamo più poveri ma felici. Ho cercato di descrivere la vita a Salci ai miei tempi per far rivivere a chi legge le scene come in un film e trasmettere sensazioni, emozioni, profumi, sentimenti che ancora provo ricordando quei tempi. Da Salci poi sono andata ad abitare a Fabro, paese poco distante. Sono stata tanti anni senza metterci più piede perché la desolazione, l’abbandono mi stringevano il cuore e mi riempivano solo di tristezza e nostalgia. Preferivo ricordare il paese pieno di gente, con i carri trainati dai buoi, piuttosto che il periodo che lo ha portato alla sua morte, prima con la partenza dei contadini dai loro poderi, poi con l’abbandono dei paesani costretti a lasciare le proprie case con la scusa della ristrutturazione del paese, che poi non c’è mai stata, è solo iniziata in piccola parte. Vorrei cercare, insieme a tutti gli altri salcesi, di salvare questo borgo stupendo, il suo castello, la chiesetta di San Pio dall’abbandono e dall’incuria, per non farli morire definitivamente. Aiutateci!! 30
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Dell’Ing. Enzo Casolini, nato nel 1945 SALCI, CHE NOSTALGIA! I miei ricordi su Salci risalgono all’inizio degli anni ‘50. Ancora mi ricordo quando a 5 anni, con gli altri bimbi del paese, facevamo a gara per servire la Messa vespertina durante il mese Mariano. E quando nell’emozione di dover suonare il campanello dopo l’apertura del Tabernacolo, sbagliai il tempo e fui rimproverato aspramente dall’allora parroco del paese, don Antonio, di fronte a tutta la Chiesa gremita di gente! Fu l’ultima volta che accettai di servire Messa! A quel tempo il paese, compresi tutti i contadini della tenuta, contava oltre 1000 persone. Mio padre era nato a Salci, come me, mentre mia madre a Ficulle. A Salci si erano sposati nel 1937; a Salci era morta, all’età di due anni, mia sorella Loredana, loro prima figlia. È sepolta insieme ai miei genitori nella Cappellina di famiglia del Cimitero del paese. A Salci vivevano i miei nonni paterni, la sorella di mio padre, il mio bisnonno materno e le sue figlie, le mie pro-zie, della quali una era titolare dell’unica bottega di alimentari e tabacchi esistente a quel tempo nel paese. Mio padre lavorava in ferrovia e la sua sede di lavoro era a quel tempo a Roma. Con l’inizio della scuola, il mio rapporto con Salci è quasi esclusivamente legato al periodo delle vacanze scolastiche. Partivamo con il treno da Roma, scendevamo a Fabro Scalo e da qui raggiungevamo Salci, all’inizio usando una carrozza con cavalli e successivamente nel tempo, un’auto a noleggio. A Salci ho imparato ad andare in bicicletta. Tuttora ricordo mio nonno che mi sgridava perché andavo troppo forte entrando nel paese! Lo rivedo seduto sulla panca a 31
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destra entrando dalla porta di Orvieto, sotto la lapide che ricorda l’ingegner Achille Piazzai, nato a Salci e diventato famoso per aver partecipato alla costruzione della nave transatlantica Rex. Il paese era pieno di vita, con la sua osteria, l’ufficio postale, il calzolaio, il mulino ed ovviamente le scuole. Tutti gli abitanti avevano il loro orto, con uva, alberi da frutta, galline, conigli ed altri animali da cortile. Il forno del paese era situato a lato della porta di Orvieto, sotto l’appartamento dove vivevano i miei nonni. Che mangiate di bruschette con pomodori e torte di tutti i tipi, natalizie, pasquali e croccanti con i pinoli! L’acqua potabile veniva presa dalla fontana al centro della piazza più grande. Nella piazza più piccola dove c’è l’ingresso con scalinata alla chiesa di S. Leonardo, c’era invece il pozzo. Non c’erano bagni in casa, ma c’erano bagni pubblici situati a lato della porta di Siena del paese. Da questa stessa parte lungo la strada perimetrale c’era la cosiddetta “passonata” da dove si poteva vedere la vallata verso Palazzone, Belvedere ed il Cimitero. Dall’altra parte, partendo dalla porta di Orvieto, c’è il bellissimo viale alberato - il numero degli alberi è stato molto ridotto dal passaggio del fronte durante la guerra, perché molti sono stati abbattuti dalle mine piazzate dai tedeschi in ritirata che cercavano di ritardare l’avanzata dei carri armati alleati - che ha di fronte la chiesetta di S. Pio - risalente al 1300 e cimitero del paese prima del periodo napoleonico - e sulla destra il Castello con sotto lo chalet. Partendo dallo chalet si diramava una strada perimetrale che costeggiava il Castello per ritornare a S. Pio, da una parte, mentre proseguendo verso la collina 32
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si arrivava alla Fattoria e successivamente alla pineta di “Rocolo”. Qui noi bambini andavamo a cercare i pinoli per poi poter far fare alle mamme il croccante! A quel tempo il paese e tutta la tenuta erano proprietà dei marchesi Paganini, di origine genovese, che risiedevano nel Castello, a suo tempo dimora dei Duchi Bonelli, fiduciari del Granduca di Toscana. Infatti a Salci era situato il confine tra lo Stato Pontificio ed il Granducato, una lapide nel paese, sopra la bottega di mia zia, ricorda ancora il passaggio di Garibaldi, in fuga appunto dallo Stato Pontificio. Tutte le feste religiose erano occasioni speciali per noi ragazzi. Le processioni partendo dalla Chiesa, si snodavano verso la strada costeggiante il Castello, per ritornare in paese passando da S. Pio e poi nel viale fino alla porta di Orvieto. Ma una festa particolare che certamente tutti i salcesi ricordano con affetto, era la festa della Madonna del 24 settembre. In questo giorno ogni anno c’erano gare di corse dei cavalli, tornei di tiro del ruzzolone, banda musicale e altro ancora. Il paese si riempiva di gente sin dal mattino presto e dopo la Messa, con la Chiesa stracolma, cominciavano i vari eventi. Un altro momento che ricordo con grande entusiasmo era il periodo della mietitura del grano e della successiva trebbiatura. Noi bambini venivamo invitati da questo o quel contadino e, a fronte davvero di pochi aiuti che davamo, partecipavamo a pranzi buonissimi fatti da un numero infinito di portate! Era davvero la festa dell’aia! Certamente quelli delineati più sopra sono solo una piccola parte dei miei ricordi di bambino salcese che poi, nel corso della sua vita, si è trovato a girare il 33
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mondo. Mancano quelli da ragazzo e poi da adolescente. Ma devo confessare che preferisco ricordarmi il paese di quell’età, pieno di gente e di carri trainati dai buoi, piuttosto che quello successivo che ha visto lentamente spegnere la sua vita, prima con la partenza di tutti i contadini e poi con quella dei paesani. E nei miei occhi rimane purtroppo sempre viva ed indelebile l’immagine del pianto straziante di mio padre, costretto dall’attuale proprietario a lasciare la casa dove era nato, con la scusa di voler effettuare una ristrutturazione del paese che poi non è mai stata, se non in piccola parte, iniziata. Ma quella è un’altra storia. Ora cerchiamo di salvare questo borgo meraviglioso, il suo castello e la chiesetta di S. Pio dall’incuria e dall’abbandono. Non possiamo farli morire così! Di Luigi Neri, nato nel 1946 Sono nato a Castello II, un grosso podere posto su di una collinetta dirimpetto a Salci. La mia famiglia vi si trasferì nel 1925 dalla zona del Monte Nibbio. Ero l’ultimo nato, festeggiatissimo in particolare da mio padre che, dopo 5 anni interi trascorsi in guerra, finalmente riusciva a veder crescere un figlio. Ho passato la mia infanzia frequentando le scuole elementari, che allora erano situate nello stabile a sinistra di Porta d’Orvieto, ed aiutando mio zio, mio padre e mio fratello maggiore nei campi. Per me andare a scuola, allora, non era molto agevole: infatti da Capanna Battilani, podere accanto al mio, dovevo seguire uno stretto viottolo fangoso con cui 34
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raggiungere il Podere Prato e prendere, finalmente, la Strada Comunale che saliva verso Porta di Siena. Allora Salci era un bel borgo popolato ed autosufficiente: infatti al suo interno si potevano trovare una bottega di generi “vari”, una di mescita di vino, un falegname e l’Ufficio Postale, mentre il fabbro era in località Molinella, vicino all’attuale Centro Aziendale. Gli svaghi non erano molti, se non andare alle “veglie danzanti” nei poderi o guardare l’unica televisione del paese in uno stanzone appena fuori Porta di Siena. Memorabile, invece, fu la volta in cui mio padre mi portò con il treno a vedere i festeggiamenti del Corpus Domini ad Orvieto. Ovviamente, data la vicinanza, avevamo molti rapporti con Fabro. La Tenuta di Salci era la più grande del Comune, con i suoi 54 poderi di cui il più lontano era Senzano, verso il Monte Rufeno, Villalba. I proprietari, Mario e Roberto Paganini, l’amministravano, insieme alla madre, tramite fattori e guardiani. Intorno al 1959-60 la cedettero in affitto a Rodolfo Prudenzi, latifondista di Fabro, nonché proprietario delle prime storiche autolinee di trasporto pubblico dell’Orvietano. Prudenzi cominciò a vendere gli animali migliori e le attrezzature, peggiorando notevolmente le condizioni dei mezzadri, i quali tentarono, alla fine del 1960, di acquistare i loro poderi in forma cooperativa. Il Parroco era Don Pietro Calzoni, originario delle campagne perugine, che alternava l’attività religiosa al duro lavoro nei campi ed all’insegnamento nelle scuole di Fabro. Nonostante i tempi e la fatiche del lavoro agricolo, la vita 35
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a Salci era bella e ne serbo ancora un bellissimo ricordo. Purtroppo, a seguito di quanto detto sul peggioramento delle condizioni dei poderi, anche la mia famiglia, come molte altre, nel 1962 si trasferì a Città della Pieve, ma il mio rapporto col Borgo non si interruppe e tornavo spesso, in sella al mio motorino, a trovare amici ed amiche. Da allora il Podere dove risiedevo è rimasto disabitato, come, man mano tutti gli altri, ma l’orgoglio di essere salcese è rimasto immutato e tra noi abitanti, dell’incantevole Borgo, il legame non si è mai interrotto. Del Colonnello Mario Giuliacci, nato nel 1940 “I miei ricordi di Salci” Non è stata cosa per me facile riordinare e sintetizzare i ricordi che ho di Salci, mio paese natio, perché pur avendo vissuto lì solo fino ad 11 anni, tale breve periodo ha lasciato in me, nel bene e nel male, segni indelebili nell’animo. Ma andiamo con ordine. Sono nato nel 1940 da umile famiglia contadina, in un casolare di campagna. Ma la famiglia era un nucleo di tipo patriarcale di ben 12 persone: il nonno paterno Capo…tribù, i miei genitori, 4 zii, un fratello e 3 cugini. Il casolare, sulla cima di una collina, dominava dall’alto, a Sud la Val di Chiana, una valle larga una ventina di chilometri contornata da colline ove svettavano il borgo antico di Fabro, le cittadine di Monteleone d’Orvieto e di Città della Pieve, mentre a Nord la vista del paesaggio era delimitata dall’imponente Monte di Cetona, già 36
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territorio senese. Questo è stato tutto l’orizzonte geografico della mia infanzia perché fino a 10 anni non sono mai uscito da questi angusti confini. Il centro abitato più vicino era appunto il Borgo di Salci che distava, appena 2 km dal casolare ma anche qui venivo portato poche volte all’anno dai genitori in occasione di qualche evento. Comunque con un nucleo familiare così numeroso, avrebbe dovuto calzare a pennello il detto “molta brigata, vita beata”. Ma in realtà per me fino all’età di 5 anni non è stato così, perché i ricordi brutti prevalgono su quelli belli. Innanzitutto nei primi anni di vita ho vissuto la paura della Grande Guerra della quale ricordo ancora il riparo di giorno in una grotta, il fischio dei proiettili, la ritirata astiosa e minacciosa dei tedeschi, l’arrivo degli americani, un soldato che tutti i giorni mi portava sulle sue spalle e che per la prima volta mi ha fatto assaggiare il cioccolato. Ma ho anche sofferto molto per la mancanza del mio papà al quale era toccata la stessa sorte dei miei zii, erano stati inviati o deportati come soldati ai quattro mondi. Ma poi quando, finita la guerra, la famiglia-tribù si è finalmente riunita, il lavoro duro dei campi teneva lontani da casa, dal primo mattino a tarda sera, tutti gli adulti per cui restavo in piena solitudine a casa, o, al più, con il mio simpatico nonno. Ma alla sera quando dai campi tutti rientravano a casa per la cena, gli adulti erano così stanchi che non avevano il tempo di dare qualche carezza ai propri piccoli figli. Poche invece furono fino a questa età le occasioni liete: i doni per il giorno di Natale: “cavallucci” e “pampepato” - il progenitore del Panforte - e qualche arancia. Altro 37
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momento lieto era la festa patronale, tutti in processione, dopo di che seguiva il gioco della Cuccagna la rottura delle pignatte, sospese in aria con un cavo, ad opera di persone bendate e armate di un lungo palo; il tiro della fune; la bancarella dei dolciumi e infine la visione emozionate di un film proiettato nella piazza principale del paese dove le seggiole venivano portate direttamente da casa. Poi a 6 anni è giunto il momento della scuola elementare, le cui aule ovviamente erano dentro il paese. Ebbene quei 5 anni li ho vissuti con gioia, perché adesso, finalmente ogni giorno, abbandonavo il mio casolare per raggiungere la mia “città” ove incontravo tanti altri bambini vogliosi come me di giocare, di socializzare, di stringere solide amicizie. Ma tra i 5 e i 10 anni ho cominciato ad assistere e partecipare con gioia a numerose attività tipiche della vita contadina: la mietitura, la vendemmia, la trebbiatura, la lavorazione del tabacco, perché tutte queste attività venivano fatte in allegria con i vicini di casolare e con i loro bambini che venivano a dare una mano. E sempre tra i 5 e i 10 anni gli uomini adulti di casa dopo cena mi portavano a “veglia” ovvero si andava a visitare quello o quell’altro vicino e si vegliava fino a tardi. Gli adulti parlavano per lo più delle attività nei campi, un po’ di politica, qualche “spettegolezzo”. Per i bambini invece era un’altra ottima occasione per giocare. Altro momento straordinario era quello di andare con i genitori alla “fiera” che una volta al mese si teneva a Fabro Scalo. Lì, oltre a fare un bagno di folla, scrutavo le numerose bancarelle per cercare qualche oggetto di poco valore da 38
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farmi regalare dai miei genitori. All’età di 11 anni i miei genitori, avendo deciso di farmi proseguire negli studi e siccome a Salci e dintorni non vi era una scuola media, mi hanno mandato in collegio vicino Pistoia, a 150 km di distanza da casa. Nell’addio straziante per il lungo viaggio - 7 ore in un treno a vapore, piangevano tutti dai più grandi ai più piccoli, perché sapevano bene che sarei stato assente per tutta la durata dell’anno scolastico, vista la distanza e i costi del viaggio. Unica cosa che mi addolcì il traumatico distacco fu il treno: a 11 anni era la prima volta che vi salivo sopra. Fino ad adesso ho parlato dei ricordi di infanzia a Salci. Ma non posso dimenticare che tra i 5 e i 10 anni, nel frequentare il borgo quasi tutti i giorni ho iniziato pian piano a vederlo come il luogo che più mi procurava gioia e come tale il luogo più bello del mondo. Ed in effetti era ed è bello e così originale nella sua architettura tanto che sono convinto che in Italia non vi sia un borgo che ne sia una lontana copia. Bello! Si accede a Salci attraverso un arco sormontato di merli, tipico del Medio Evo. Al di là dell’arco si apre una grande piazza ellissoidale lunga una cinquantina di metri e a sua volta chiusa sul lato opposto da un altro arco sormontato da una piccola deliziosa loggia, la “loggia degli spiriti”. Al di là della loggia si apre un’altra piazza più piccola di circa 30 metri. Tutto intorno alle due piazze vi è una cintura di basse casette attaccate le une alle altre, gli edifici delle scuole elementari, la Chiesa, il laboratorio del falegname, quello del fabbro e del calzolaio, la drogheria, questa passaggio obbligato per noi bambini per comperare qualche piccola 39
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leccornia, ma qui ho acquistato, orgoglioso, la mia prima penna biro, avevo 10 anni. Al di fuori della cintura del borgo e a circa 100 metri vi è lo splendido e ben conservato castello medioevale, dimora del proprietario del vastissimo fondo agricolo e che è stato ed è inaccessibile a chicchessia. Alla luce dei numerosi borghi che ho avuto modo di ammirare, porto con me la convinzione che Salci non solo non ha nulla da invidiare, per bellezza, agli altri, ma la sua struttura architettonica è così originale da renderlo unico in Italia. A questo punto ho un grande rammarico, che un borgo così bello e così sui generis sia stato fino ad ora ignorato da chi dovrebbe. Se non si interverrà in tempo utile per riportarlo all’antico splendore, all’antica bellezza, magari per destinarlo a qualche attività turistica, allora presto al posto di Salci troveremo solo un cumulo di macerie. Ogni anno, nel ritornare nella mia Umbria, non posso fare a meno di visitare il paese della mia infanzia, magari con la segreta speranza che chi può e chi deve abbia messo fine all’attuale incomprensibile abbandono. Del Dott. Antonio Fiorito, anno di nascita 1937 C’era una volta, tantissimi anni fa - circa 70 - un ragazzino che cominciava ad emanciparsi nel lavoro dei campi e nella frequentazione della scuola elementare. Quel ragazzino c’è ancora ed è ancora qui con tutti i ricordi vivi e visibili come allora - con in più la malinconia per quel mondo e per quella avventura che iniziava. Oggi il 40
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mio non è un giudizio politico o sociale su quel tempo, è sentimento e sentimentalismo per quel mondo tutto mio o tutto nostro, riferendomi a quelli che vivevano la mia avventura. Lasciare l’età da bambino, e passare al lavoro iniziale del contadino era una soddisfazione. Il mio compito era badare i maiali al pascolo tre/quattro “troie” e due “magroncelli” destinati a divenire salumi, previo ingrasso, per il sostentamento della famiglia. La scuola elementare era bella, una grande aula, classi miste nel senso di 1a e 2a e talvolta anche 3a. I miei ricordi vanno alla maestra signora Covarelli Frullano. Qualcosa di me deve averla colpita. Ricordo che c’era una gara a chi scalava - sulla base dei meriti scolastici - la montagna ed io sono riuscito ad arrivare sempre primo. “Questo ragazzo ha qualcosa che mi colpisce e farò di tutto per farlo proseguire negli studi”, sosteneva spesso la maestra. La mia piccola fama si spandeva nel paesino e nelle campagne. Erano a conoscenza del talento di Tassino del Pantano - nome della località poderale da dove si era spostata la mia numerosa famiglia - il dottore, la levatrice e soprattutto il parroco Don Antonio. Mio padre, uomo attento al variare del mondo, seguiva orgoglioso e preoccupato questo piccolo coro di elogi. Alla fine delle elementari, senza che io sapessi di fatto niente, mi ritrovai in Seminario. Ho piacere ora di ricordare le mie elementari. Mi divertivo a leggere e studiare quel poco che ci dava la maestra. Portavo il libro al “pascolo” e andavo oltre la lezione. Rubavo i libri a mia sorella - più avanti di classe - e leggevo e studiavo anche quelli. La maestra mi diceva: “ma tu come fai, a fare tutto? A casa non lavori?” “Si, - rispondevo - ora 41
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bado al pascolo i maiali e aiuto la mamma con le trenta pecore circa, dato che i due gruppi di animali pascolano vicini”. Non ho intenzione di parlare del mio successivo percorso scolastico, se non incidentalmente. Questo percorso - visto a ritroso - può sembrare “pianificato” e “programmato” - no, tutto casuale. Anche se penso che una mano potente, buona e generosa “dettava” il percorso più coerente alle mie intime “caratteristiche”. Ora - finite le elementari e entrato in seminario - sono grandicello e durante le vacanze il mio ruolo, nel podere cambia. Divento aiuto bifolco. È un avanzamento di carriera. Aiuto nella stalla, governo le bestie, conduco il trapelo, un attrezzo agricolo. D’estate almeno tre/quattro volte si portano al fosso a lavare le bestie da lavoro. Ma in quel periodo comincio a guardarmi attorno e osservo cosa fanno quelli più grandi, gli anziani, i “vecchi” gli analfabeti - e scopro un mondo che mi meraviglia. Vedo Giocondo e Celeste che fanno gli zoccoli per l’inverno, riparano le botti, talvolta le fanno nuove; per piegare le doghe, mettono gli assi di legno predisposti ad ammorbidire all’interno della concimaia, il calore rende facile poi piegare la doga in modo da creare la pancia della botte. Stessa procedura per le pertiche del carro che poi venivano issate arcuate nella parte frontale di tale utilissimo mezzo. Ma allora - per esempio - i Mugnari sapevano fare i carri agricoli. La mia meraviglia non era nel vedere costruire il carro, ma vederlo realizzare con pochissimi mezzi: pialla, raspa, sega, ronchetto, succhiello per fare i buchi per le viti ed altri strumenti ancora più grossolani. Li guardavo e restavo ammirato. Ma c’era sempre tra i contadini meno giovani il piacere 42
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del proprio lavoro, la gioia dello stare insieme, la partita a morra la domenica pomeriggio al paese e le partite a briscola e tressette; di norma in palio: mezzo litro di vino più gazzosa. D’inverno poi le serate a veglia erano uno spettacolo. Partite a carte, anche a soldi, simbolicamente, il famoso gioco della “bestia”. E spesso nelle case dei contadini si ballava; tra i contadini c’era sempre qualcuno che sapeva suonare la fisarmonica o il famoso organetto. A me che curioso chiedevo come avevano imparato a suonare, dicevano: a “orecchio”. Ma era incredibile come imparavano subito le nuove canzoni. Alla fiera di Fabro Stazione, molto nota per il bestiame chianino e i lattonzoli, ascoltavano attenti il “cantante-strillone”. Tornavano a casa e riuscivano a riprodurre la musica con l’organetto. Incredibile! Ma ci sono anche altri aspetti ancora più gradevoli dei meno “giovani”. Le argute prese in giro, i racconti inventati sul lupo mannaro, sulla caccia alla lepre o alla beccaccia. Ma c’erano anche aspetti che stridevano con queste gradevoli amenità. I poderi della tenuta di Salci erano 54. Gli abitanti, compreso il paese, comunque strumentale alle necessità della fattoria, erano circa 1000. I poderi vicini erano per dimensioni simili e questo metteva in concorrenza i contadini tra chi era più bravo. Il riferimento era l’ammontare di grano raccolto. Ricordo meravigliato l’amarezza di qualche contadino che veniva superato dal vicino. Si narra che una volta un contadino quando si rese conto - mentre trebbiava - che non avrebbe superato il vicino di cui conosceva già il risultato, andò nel granaio, prese alcune balle del raccolto dell’anno precedente e lo rimise nella conta ridividendo così il suo grano con il padrone. 43
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Ricordo il vecchio Borione, personaggio interessante e arguto che avendo “superato” dopo tanti anni il suo vicino con il raccolto, diceva: “ora è tornato Pasquino abbiamo fregato anche Guerrino”. La rima girava per il paese e faceva imbestialire il contadino sconfitto. Pasquino era un membro della famiglia tornato dalla prigionia, Guerrino il contadino dirimpettaio. Questo Borione era un personaggio a modo suo anche “colto”. Prevedeva il tempo osservando il comportamento delle nuvole e del sole, era esperto dei prodotti spontanei dei campi. Mi piace raccontare un piccolo episodio a cui ho assistito. Erano venuti nella tenuta alcuni tecnici e operai di un’azienda agraria di proprietà della Facoltà di Agraria di Perugia. Dovevano insegnare a potare le viti. Ricordo un tecnico che voleva imporre ad un contadino come potare. Coscientemente consapevole di indicare il falso, invitò il contadino a tagliare i capi nuovi delle viti e lasciare quelli del precedente raccolto. Il contadino lo guardò e gli disse: “siete sicuro che si fa così? Voi siete professore?” Ed il tecnico rispondeva sempre sì. Il contadino spazientito disse: “sarete anche bravo, sarete anche professore, ma per me avete studiato tontologia”. Finì con una risata. Ma ora basta con i ricordi. Il mio pensiero, pieno di affetto, va a chi vide in me quello che ancora oggi non comprendo, a tutti i contadini di Salci che mi hanno insegnato il senso del dovere, ai miei compagni della prima età e a chi silenziosamente forse ha guidato con benevolenza i miei passi verso alti lidi. A tutti i salcesi con affetto. Tonino il contadino, Tonino 44
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il “banchiere”. Di Laura Marchini, nata nel 1937 Ritorno alla mia infanzia. Ti rivedo dopo tanti anni casetta della mia infanzia e mi sento smarrita nel vederti così abbandonata e nuda. Di te hanno fatto scempio le ruspe, i trattori e la mente dell’uomo con la sua modernità. Hanno cancellato la vita che avevi intorno, lasciando di te solo un rudere. Dove sono tutti gli alberi che ti facevano corona in ogni stagione? Gli ulivi, i ciliegi, i susini, i mandorli e tanto altro ancora? Nulla più ti assomiglia! Cancellate le strade e i viottoli, le vigne, le siepi che un tempo racchiudevano gli orti ricchi di prodotti. Dov’è il giardino con i suoi profumi di gigli e giacinti che inebriavano l’aria tiepida e annunciavano la primavera? Dove sono le belle vasche profonde scavate nel terreno per raccogliere le acque piovane utili a svariati usi?… Ricordo quella destinata agli animali da cortile, dove sguazzavano le oche, le anatre e tanta altra vita che regnava intorno. Le rane, i pesciolini e le rondini che in tante gremivano il cielo e con le loro stridule grida rallegravano la nostra vita silenziosa e monotona. E lì trovavano l’habitat naturale per costruire i loro laboriosi nidi. Questi, ben saldi, ornavano le travi degli ovili e le grondaie. Nulla, non esiste più nulla di tutto ciò, dei campi allora curati, ordinati e perfetti, dove tutto era naturale e genuino e quel tempo scorreva semplice, umile ed operoso. 45
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Dalla casa ormai diroccata, quasi irriconoscibile, affiorano altri ricordi: non vedo più la grande cucina, ma nell’unica parete ancora in piedi c’è il segno annerito lasciato dal grande focolare protagonista di tutte le vicende, dalle liete alle dolorose, che si svolgevano intorno ad esso: mi torna in mente che lì, proprio lì, mia sorella cadde con le manine sulle braci ardenti, ed aveva solo tre anni. Questo fatto increscioso e dei danni che la segnarono per sempre, lo seppi più avanti, al momento non ero ancora nata. Ricordo anche quanto quel luogo fosse animato per le grandi occasioni: per i matrimoni, per le festività natalizie e per le trebbiature; la mamma e le zie si alternavano intorno ai grandi pentoloni dove bollivano succulenti sughi e profumati brodi di gallina o di cappone. Erano questi i momenti più animati e allegri della vita contadina, il resto era segnato soprattutto dal duro lavoro dei campi, dalla moltitudine di impegni che il volgere delle stagioni portava con sé, ognuna con le sue priorità. Ricordo con nostalgia quando la sera il nonno mi teneva stretta e protetta tra le sue braccia davanti al fuoco, cullata dal suo respiro e dallo scoppiettio della fiamma, fino a quando, colta dal sonno, la mamma veniva ad infilarmi nel letto e sprofondavo nel materasso fatto di cartocci. Mentre tutti questi pensieri affollano la mia mente, cammino un poco più avanti, entro nella stalla anche se senza porte né finestre, è forse il luogo che è rimasto quasi inalterato, con le sue robuste travi, greppie e barconi al solito posto, qui vedo i ganci al muro e i grandi chiodi sporgenti, le mensole dove tu babbo eri intento a sistemare tutti i finimenti: i gioghi, le funi, i canapi e tutti 46
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quegli utensili che tu usavi in quel luogo a te abituale. Ti rivedo intento ad accudire vacche, vitelli e buoi; erano proprio i buoi che tu di buon mattino “giogavi”, gli mettevi il giogo, per arare il terreno per la semina del grano o altri cereali; a me sembra vederti e mi è caro ricordarti; quando il mattino mi chiamavi dicendomi di portarti il pentolino dove mungere un po’ di latte prima di slegare i vitellini, era quasi una faccenda privata tra noi due, il latte non si doveva sottrarre per bere!! Ma tu per me facevi eccezione perché ero ancora piccola. Correvo felice e dopo che mi avevi riempito il pentolino salivo in fretta le scale tenendo saldo tra le mani il mio tesoro, quel prezioso latte caldo dal profumo indimenticabile. A volte mi soffermavo a guardare i vitellini che a me facevano tenerezza quando prendevano il latte, così graziosi quando scuotevano il loro musetto ripetutamente contro le mammelle delle madri e se fuggiva loro il capezzolo svelti lo riacchiappavano, ed io, babbo, rassicurata dalla tua presenza tentavo di avvicinarmi loro per una carezza, e tu eri felice di starmi vicino perché sapevi di regalarmi almeno quel piccolo momento di gioia. Gli animali veri erano i peluche dei miei giochi; quelli finti non li conoscevo, ma sono sicura, non mi avrebbero fatto provare quelle stesse piacevoli emozioni. Di Remo Mugnari, nato nel 1946 Mi chiamo Remo Mugnari sono nato a Salci il 12 marzo 1946 dove ho vissuto fino all’età di 11 anni. I miei ricordi del paese sono memorie di bambino, forse un 47
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po’ sfumati, ma ricchi di allegria e spensieratezza. Il periodo è quello delle scuole elementari. Quanta fatica per andare a scuola! Vivevo, con la mia famiglia, in un podere chiamato “Guardiera alta” e per raggiungere la scuola il mio viaggio era lungo. Le famiglie allora erano molto numerose si viveva, non solo insieme ai genitori e ai fratelli, ma anche nonni, zii e cugini facevano parte della famiglia patriarcale. La mamma si chiamava Rosa e il babbo Giulio, i miei fratelli Agnese e Narciso. Negli anni cinquanta il paese era vivo e abitato, compresa la campagna che contava molti poderi; le famiglie erano numerose e tutti insieme eravamo una bella e affiatata comunità. Il proprietario era il Marchese Paganini, per noi bambini un personaggio misterioso che ci incuriosiva molto, personalmente non sono mai riuscito a vederlo. Abitava nel castello di poco staccato dal borgo. All’uscita di scuola, un gruppetto di noi, sgattaiolava nel canneto di bambù che circondava il castello e cominciava la missione: vedere l’interno dell’abitazione del marchese. Ci si arrampicava sulle grate delle finestre e si cercava di curiosare dentro. Si vedevano trofei di caccia grossa imbalsamati e si fantasticavano avventure, ma sul più bello eccolo, sempre lui, il guardiano che viveva nella casetta nel bosco, a cacciarci via. Nei sotterranei del castello c’erano le cantine con delle botti di legno enormi dove, nel periodo della vendemmia, tutti i contadini portavano l’uva. Mi ricordo benissimo la mia aula, era all’ingresso della porta d’Orvieto, al piano superiore. In classe 48
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eravamo sia maschi che femmine, la mia compagna di banco, Gabriella, dalle elementari non l’ho più vista. Il maestro era molto severo, la prima cosa che ci disse fu: “Ricordatevi io ho il cuore ricoperto di pelo!!!”. Ci faceva portare delle bacchette di legno che utilizzava sulle nostre mani al primo sgarro. Mio padre Giulio era sempre d’accordo con lui e gli diceva: “Lo picchi, lo picchi a suon di musica signor maestro!!” questa cosa la ricorderò per sempre. Varcata la porta d’Orvieto si entrava nel cuore del paese dove si svolgevano tutte le attività, a sinistra c’era il locale per le feste, quante belle feste si facevano a Salci in quegli anni! Tutti raccolti insieme a ballare sia grandi sia piccoli. Mi ricordo l’osteria dell’Orlanda e dell’Adalgisa dove si comprava il chinotto e la “gassosa”, bevande golose per noi bambini che ci venivano concesse solo nelle occasioni speciali. Nel paese c’era l’ufficio postale e la bottega di Velio il calzolaio, mi ritornano in mente i sandali alla fratina che mi confezionava, ma io preferivo comunque correre scalzo. In fondo, la bottega dell’Annetta dove si poteva comprare il sale, i fiammiferi, le acciughe, il baccalà e le caramelle, certo molto diversa dai centri commerciali di oggi. Vicino alla casa del prete, Don Calzoni, c’era la bottega di Piazzai che vendeva anche la carne e la bottega di Giulietto il falegname. Nella chiesa del paese ho ricevuto la Comunione e la Cresima. All’esterno della Porta di Siena c’era un locale dove si facevano le recite, me ne ricordo una in particolare. Durante tutta la rappresentazione non riuscivo a stare fermo e a smettere di ridere. Interpretavo il Re di Napoli, avevo una figlia, la mia compagna di banco, e dovevo 49
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darla in sposa a un principe africano. Il principe era tutto dipinto di nero con il carbone e indossava un gonnellino di paglia, se ci ripenso rido anche adesso che sono passati sessant’anni. Il grande avvenimento era la festa di San Pio, si organizzavano tanti giochi: la corsa al sacco, il tiro alla fune, il gioco dei pignatti, l’albero della cuccagna, era tutto divertente e noi bambini non vedevamo l’ora di gettarci nella mischia. Altra occasione di festa era la processione del Venerdì Santo, dove noi ragazzi, si faceva a gara per costruire la “raganella” più bella e rumorosa. Per i più giovani di oggi la raganella è un oggetto sconosciuto, ma noi lo ricordiamo bene, era uno strumento fatto con un pezzo di canna e una rotellina di legno dentata che girando riproduceva il gracidio delle rane, me lo ricordo bene perché sulle dita porto ancora le cicatrici del coltello che usavo per costruirla. Da quando la mia famiglia ha lasciato Salci, per trasferirsi a Fabro, molti compagni li ho persi di vista; loro come me, hanno abbandonato il paesino per altri luoghi. Alcuni li ho rivisti in occasione del pranzo organizzato recentemente e devo dire che tranne qualcuno con tutti gli altri ci siamo dovuti ripresentare e pensare… che eravamo sempre insieme! Oggi sono un amante di mountain bike, spesso passo per il paese e mi fermo sempre a fare un giretto nelle due piazzette, così ogni tanto si accende la lampadina di un piccolo ricordo e il cuore si riempie di nostalgia. Che sarà..., forse gli anni che passano!!! 50
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Remo Mugnari - Prima Comunione - foto con pannello sfondo
Di Luciano Festoso, nato nel 1946 In quale luogo incontrarsi, ridere, scherzare, imparare, crescere? La scuola fatta di niente, poveri banchi di legno consumati dal tempo, una vecchia stufa di terracotta alimentata a legna “omaggiata” dagli stessi alunni, ma soprattutto un re indiscusso: il freddo. Ma quanto fascino doveva mandare quella povera scuola, se “piccoli uomini e donne” facevano a piedi chilometri attraverso campi 51
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intrisi di pioggia o ammorbiditi da un soffice manto di neve? Eppure arrivavamo, i piedi umidi, le mani fredde, ma era importante esserci, imparare, riscattarsi da una povertà non solo fisica. Quante volte abbiamo chiesto ed ottenuto “asilo politico” alla maestra, che generosamente ci accoglieva nella sua casa, piccola, semplice, ma dove regnava un altro re: il caldo. C’era anche un meraviglioso doposcuola: il cerchione, spingerlo con un bastone di legno e fare a gara a chi riusciva a fargli percorrere più strada, era il divertimento quotidiano. Lo so, può sembrare un gioco stupido e poco stimolante, ma la nostra fantasia navigava, inventava, vedeva oltre la realtà e su queste nostre semplici cose e grandi sogni, siamo diventati adulti. Una volta diventati “piccoli leoni di 10 anni” una nuova tappa doveva essere raggiunta: saper andare in bicicletta. C’era un’unica possibilità per noi, prendere le biciclette che gli avventori domenicali dell’osteria “Orlanda Adalgisa” lasciavano incustodite. Questo scatenava l’ira dei proprietari quando, usciti dal locale, non le ritrovavano là dove le avevano lasciate. Risuonano ancora nelle mie orecchie le loro grida, gli “imprechi” e le nostre risate. Solo dopo una corsa affannosa eravamo salvi, a casa, pronti però a riprendere l’esperienza esattamente una settimana dopo.
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Di Francesco Ceccomoro, nato nel 1933 Sono l’ultimo “postino” di Salci e appartengo ad una delle ultime famiglie che ha lasciato Salci negli anni ’70. Io e mia moglie, Elda Baglioni, siamo nati a pochi mesi di distanza a Salci nel 1933, siamo stati bambini insieme, ci siamo conosciuti e innamorati e ci siamo sposati; dal matrimonio sono nati due figli, uno dei quali, Roberto, è l’ultimo bambino nato all’interno del borgo di Salci. Nasce in casa con l’aiuto dell’ultima levatrice del paese, Graziella Taddei. Nel 1963, anno di nascita di Roberto, la nostra famiglia si era momentaneamente trasferita a Palazzo Ducale nell’appartamento che era stato del fattore, sempre in piazza Bonelli, dove era anche la nostra casa abituale, al momento inagibile per la risistemazione del tetto. A Palazzo Ducale si trovavano anche gli appartamenti riservati alle ostetriche ed ai medici come pure l’ambulatorio di questi ultimi; il dottor Plinio Pelliccia, ultimo medico di Salci, è l’ultimo che vi ha abitato. Tutta la nostra vita fino al 1975 si è svolta a Salci. Per me Salci era la nostra casa, anche i miei genitori sono nati lì. La vita era scandita dai ritmi della campagna, delle colture, dell’allevamento, delle stagioni. I nostri averi erano dettati dai rapporti di mezzadria. Si lavorava per l’azienda e l’azienda ci dava in cambio quello che ci serviva per vivere e per allevare il bestiame. L’amministrazione era gestita da un fattore e da un sottofattore. Non c’erano fabbriche, ovviamente, ma c’erano il fabbro e due falegnami e tutti lavoravano sempre per l’amministrazione. Non è facile spiegare oggi come fosse la vita di allora. Semplicemente noi dipendevamo 53
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da Salci e Salci dipendeva da noi. Eravamo gli abitanti operosi della campagna e i manovali della struttura. Avevamo quello che ci serviva per vivere e offrivamo all’amministrazione quello che serviva per mantenere in ordine i campi e in salute gli animali. L’amministrazione all’epoca sapeva che per mandare avanti tutti quei poderi servivano le persone e le persone avevano tutto l’interesse che Salci fosse bella e in salute. Non era certo una vita comoda. Non c’era comunicazione, mancavano i mezzi di trasporto, se andava via la luce si rimaneva isolati anche per giorni. Non c’era l’acqua se non nella fontana della piazza. I panni si lavavano al fosso, gli inverni erano freddi. Ma era la nostra vita, non ne conoscevamo un’altra. I ricordi più belli di quegli anni riguardano la vita di relazione, eravamo una comunità, nel bene e nel male. La sera si stava insieme, i bambini crescevano insieme. Si scherzava prendendoci in giro, ma alla fine quando uno aveva un problema diventava il problema di tutti. Poi sono diventato l’addetto all’ufficio postale di Salci, la mattina alle 6 aprivo l’ufficio postale e consegnavo la posta al fattorino che la portava a Fabro Scalo al treno e riportava quella in arrivo. Alle 9 l’ufficio apriva al pubblico, controllavo la posta in arrivo e la consegnavo al portalettere che faceva il giro della campagna e del paese. Quando siamo stati costretti a lasciare Salci ci siamo sentiti sfruttati e sfrattati. Ognuno di noi aveva dedicato la propria vita a Salci. Negli anni migliori, quelli del lavoro, abbiamo lavorato. Quando molti dei salcesi erano ormai anziani e non potevano certamente più lavorare si sono ritrovati senza niente. Senza un’abitazione, costretti 54
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ad andarsene da quella che consideravano la loro casa. Tanti di noi hanno anche chiesto di potersi comprare la terra e la casa a Salci, ma niente. Come buonuscita ci è stato dato il raccolto ed il bestiame di un anno, dopo una vita di lavoro. I figli, che vivevano ormai fuori, sono dovuti venire a riprendersi i genitori che non avevano più una casa. Per noi vedere come oggi è ridotta Salci è un grande dolore. È come vedere la nostra storia andare in malora. Di Gianfranco Barbanera, nato nel 1937 DODICI - Piccola storia di un bambino dato a garzone ad una famiglia di contadini di Poggiovalle. Dodici, era il suo nome e ci teneva; come accade in certi paesi di provincia, dove il vero nome di battesimo si scopre, per la prima volta, sugli annunci mortuari incollati sui muri. Dodici, perché era nato nel 1912 e pertanto era della “classe del dodici”. Così risultava dalla cartolina del distretto militare che lo convocava a Firenze insieme agli altri del paese della medesima leva. Andò e fu l’unico riformato. Ci voleva poco per dichiararne la non idoneità: uno scheletrino, sotto l’uno e cinquanta d’altezza, trentotto chili di peso, vestito, compresi gli scarponi imbullettati, che tiravano su parecchio. Oltre le misure, anche l’abbigliamento e un certo odorino non giovò a suo favore. I calzoni erano rimasti corti, quasi un palmo sopra le caviglie; dico “rimasti”, perché erano sempre quelli del giorno in cui fu dato a garzone nel podere del Felcino. Sempre lì, nella stalla, dall’età di 55
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otto anni. In paese, Piazze, pochi se lo ricordavano, fino a quando riapparve vivo al momento della leva. La Patria, la grande madre, non dimentica i suoi figli; a quel tempo almeno era così, in verità, solo al momento dell’obbligo di leva. La stalla, per lui era camera da letto, sala, “servizi igienici”, da dividere, ovviamente, con gli inquilini, i bovini. Sempre lì, notte e giorno, e mangiare quando glielo portavano. In treno era un po’ spaventato, ma sorrideva e i compagni gli dicevano: “Oh, Dodici, come sei bellino con questa giacchettina!”, e gli levavano il cappello e se lo passavano tra di loro. Era enorme quel cappellaccio sulla sua piccola testa secca e tutti e due, lui e il cappello insieme, facevano il campanone della chiesa del paese. “Dodici, sei il meglio”, gli dicevano, facendolo ciondolare, din don, din don, dentro il cappello, come il batacchio della campana. Non ti dare troppe arie perché sei dodici, come gli apostoli, e dodici come dodici noci. “Muuu’, muuu’…” e imitavano il verso delle vacche, e non solo quello che usciva dalla bocca. Lui non si ricordava come si faceva a parlare, rideva contento di sentire le parole. Ricordò, ad un tratto di quando, all’età di tre/quattro anni, parlava sempre e la gente gli diceva “ma sta’ un po’ zitto”, ma lui non poteva; si girava da un’altra parte e continuava a parlare, parlare sempre, perché gli piaceva sentire la sua voce. Poi il silenzio, per più di dieci anni e solo il muggito delle bestie. 56
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Uno ad uno i proscritti entrarono per la visita e il medico militare diceva “abile, arruolato”. Lui fu riformato, e da quel giorno la sua vita cambiò. Ritornò a casa, in paese, a Piazze. Sembrava un altro, “il cane di un signore”: un paio di calzoni giusti giusti, che erano stati di un ragazzotto di undici anni e una giacchetta un po’ logora, ma con lo stemma di Casa Savoia. Si tenne invece quel cappellaccio: din don, din don. Era diventato la campana del paese. E la gente gli chiedeva: “Quanto mancava alla messa? A mezzogiorno? All’Emmaria?” Gli chiedevano soprattutto “quanto manca all’Emmaria?” Si sa che il suono della campana al vespro, l’Ave Maria, annuncia che la notte si avvicina, e “chi è per la strada, chi è per la via” deve affrettare il passo. Dodici ne era felice. Per tutti sempre “Dodici”. Il suo vero nome comparve solo quando morì, sull’annuncio funebre, Enio: “Enio Piazzai”, detto Dodici. Di Gianfranco Barbanera, nato nel 1937 “SALCI - UNA FOTO MI RICORDA…”
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Andavamo a Salci, seguendo il corso del Fossalto, mia mamma ed io che avevo 5-6 anni. In tutte le stagioni, di preferenza d’estate. Era la via più breve - naturalmente a piedi - da Piazze, dove abitavamo. Si preferiva seguire il corso dell’acqua, piuttosto che passare per la tenuta di Poggiovalle per evitare saliscendi. Nella tenuta di Salci, gemella di quella di Poggiovalle Paganini aveva due figli: Salci al maschio, Poggiovalle alla femmina -, nel podere denominato Giardino, abitavano i miei nonni materni e numerosi zii - cinque, allora vivi, e una morta ad otto anni - gli Scarpelli. La foto, evidentemente scattata in una giornata celebrativa del Regime, riunisce tutti i bambini di Salci - una pluriclasse di 34 alunni - con al centro la brava e famosa maestra Valentina Cupella. Tutti, scolare e scolari, rigorosamente in grembiule nero. Eccone uno, ben individuabile nella foto, siamo negli anni 1922-23, quello che impugna il gagliardetto è Oreste Scarpelli, fratello di mia madre - quella che nella foto risulta essere la penultima, in primo piano a destra -, che presterà servizio in guerra come pilota di aerei, con incredibili peripezie, e poi da civile nell’Alitalia. Sua figlia Gianna oggi soggiorna nel podere dove è nato il padre. Io Salci lo ricordo, contagiosa sensibilità del fanciullino, soprattutto in contrapposizione a Piazze, il paese in cui si è sposata mia madre e in cui sono nato io. Faccio, anche, lo scrittore e nel bene e nel male, sono condannato a combattere con le parole. A Piazze non si parlava o quasi, soprattutto gli uomini, 58
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peraltro gran lavoratori. Così, uscendo di casa alle quattro-cinque del mattino, si “nusavano” (verbo annusare) appena, biascicando un - “uh!” - a cui faceva riscontro un - “oh!” - come saluto. Un giorno, quando un tale osò dire all’altro “buongiorno”, scoppiò quasi una rissa, perché il “buongiornato” pensò di essere “coglionato”. A Salci, all’età di cinque-sei anni - vedi un po’ come ragionano i bambini - sentii per la prima volta quella bellissima parola, “buongiorno”, e si salutavano sempre: buongiorno quando era giorno e buonasera quando era sera. Questo stupore mi ha accompagnato per tutta la vita - lo stupore può salvarci -, unitamente ad una certa inquietudine perché non capito quel contrappunto tra saluto e non saluto. Oggi, che conduco ricerche storiche, ma forse non per questo, penso di aver capito. Piazze non ha radici, come uno di quegli insediamenti che nascevano all’improvviso nel West ad opera dei pionieri, Piazze è un po’ Texas. A Salci c’era il “padrone”, che insegnava “le buone maniere” e anche altro, del tipo “jus primae noctis” e… la caccia grossa. Nel castello erano esposte teste di animali uccisi in Africa. E fin qui, passi. Io li ho visti quei trofei. Un giorno il “padrone”, in presenza di amici di Perugia e amiche (?!) volle dare un saggio della sua mira. Dal castello puntò un’aia dove si trebbiava. Dal pagliaio cadde giù l’“omino”, tra gli applausi dei suoi invitati. A Salci tutti ne parlavano e io ho sentito questi racconti. 59
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Storie di “vegliatura”, leggende, miti? Lo storico li deve comunque segnalare. A metà del XX secolo Salci viveva il suo Medioevo, per la verità in compagnia di tutto il mondo rurale e dei paesi limitrofi. Altro ricordo sono i tori e quell’odore che saliva di sopra, in cucina e ci accompagnava sempre, e il loro trambusto che faceva tremare il pavimento all’ora di cena. Qualche volta, mentre ero solo in cucina, sollevavo il coperchio di legno della piccola botola - sotto la stalla e sopra la cucina, anche un modo per stare caldi - e loro, i tori, mi guardavano con i loro occhioni rossi sul muso bavoso. Bestie immense, come pure i verri, e tutta la tenuta veniva lì, dagli Scarpelli del Giardino per l’inseminazione. Io assistevo alla monta, il rituale iniziale, l’assalto e poi le scrofe e le vacche che ritornavano a casa “contente”, pensavo io.
Mio nonno Giuseppe
Mia zia Maria
Era il luogo della mia felicità, Salci, dove mi aspettava mia zia Maria, dolcissima e quei tre zii che andavano e venivano perché militari. 60
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Ma soprattutto mio nonno Giuseppe, grosso e bello con quei baffoni, che a sera mi accompagnava a letto e recitava con me l’Angelo Custode. Di Daniele Giuliacci, nato nel 1952 Sono uno dei tanti abitanti di Salci, uno dei 1200 circa tra paese e campagna. Poi, chi per scelta e chi per “forzatura” in quanto obbligato, abbiamo dovuto, per volere del nuovo proprietario, lasciare le abitazioni del borgo e dei poderi circostanti. Nel 1995, sfogliando la rivista immobiliare “Ville e Casali”, sono venuto a conoscenza della messa in vendita da parte del dottor Perrini, di un podere vicino al borgo, poco lontano dalla chiesa di San Pio. L’ho acquistato e ristrutturato interamente in poco tempo. Sono così potuto tornare al mio paese d’origine con mia moglie, che non è nata a Salci ma vi ha comunque trascorso 20 anni della sua vita. Oggi, passiamo in questa casa tutti i fine settimana con i nostri figli, nipoti, parenti e amici, con la speranza che si presenti un nuovo acquirente che possa ristrutturare il borgo, riportandolo a vivere come ai bei tempi della nostra giovinezza.
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Di Enzo Casolini, nato nel 1945 Estratto dal diario della mamma, Emilia Bracchetti, detta Mimma, nata il 20 marzo 1912 e morta il 15 dicembre 2005, scritto nella prima metà degli anni Novanta. Il mio nome è Emilia Bracchetti, sono nata il 20 marzo 1912 a Ficulle da Annunziata Carbonari e Italo Bracchetti. Ho vissuto dall’età di quattro anni, ed in seguito insieme a mia sorella Bianca, a Salci presso i nonni Pio Carbonari e Cristina Paladini e con la zia Anna (Annetta), sorella di mia madre. Mio nonno aveva l’unico negozio di generi alimentari e tabacchi esistente a Salci. Dopo la rivoluzione russa del 1917 e dopo la prima guerra mondiale, a Salci si era creata una situazione piuttosto critica per chi veniva considerato non comunista. Mio nonno Pio e la sua famiglia, in quanto proprietari del negozio, venivano considerati fascisti anche se non lo sono mai stati. Un paio di volte nonno Pio ha rischiato di essere malmenato da alcuni contadini ed una volta, ricordo in quanto ero presente anch’io, ci ha salvato Isolina Caporali che veniva considerata, a quel tempo, la segretaria della sezione del partito comunista di Salci. Dopo la marcia su Roma e con l’avvento del fascismo, si crearono violenze di parte opposta. La tenuta di Salci era passata, alla fine dell’Ottocento, ai marchesi Paganini, originari di Genova. Il loro amministratore agli inizi del Novecento era il signor Bressan, anche lui di Genova. Ad un certo punto questo signore fu trovato morto, si dice per le bastonate ricevute da alcuni contadini. Due dei suoi figli, Ottorino ed Antonio, rimasero a vivere a Salci ospiti dei marchesi Paganini. Ambedue parteciparono alla marcia su Roma e poi si iscrissero al partito fascista di Città della Pieve. Ottorino morì durante la guerra di Spagna, mentre Antonio, che aveva sposato mia zia Elvira Carbonari, nel 1927, divenne impiegato di banca ed andò a vivere con mia zia a Genova. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale 62
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si arruolò e, divenuto capitano di fanteria, morì nel 1942 in Albania. Intanto nel 1935 era morta anche mia nonna Cristina Paladini. Durante il periodo del fascio, segretario del partito di Salci fu nominato David Orlandi, il marito di mia zia Rosa Carbonari. Io a 18 anni mi innamorai di Domenico (detto Meco) Casolini, figlio di Daligo (detto Lallo) e di Maria Ghezzi. Non fu possibile celebrare il nostro matrimonio fino al 1937, in quanto il promesso sposo fu costretto ad arruolarsi e dovette partire per l’Africa. Nel 1939 abbiamo avuto una bambina, Loredana chiamata Lori, che è morta di leucemia a soli due anni lasciandoci nella disperazione. Nel 1945 nacque Enzo, ricordo ancora che, a seguito della tragedia avuta, poiché non mi fidavo del dottor Meoni che veniva ad esercitare a Salci, portavo spesso Enzo ad Orvieto dal dottor Rotili, una persona bravissima e di grande umanità, per un controllo più approfondito. Durante tutto il periodo tra le due guerre, ma soprattutto dopo la morte della nonna Cristina, io aiutavo sempre nella bottega del nonno insieme alla zia Annetta. Quando il nonno morì, zia Annetta rimase da sola a gestire la bottega ed io continuai ad aiutarla, nonostante a quel tempo mio marito fosse stato trasferito, dalle ferrovie, vicino Roma. Intanto a Salci la vita continuava. Ricordo ancora adesso che i militari tedeschi, di stanza a Salci, durante il passaggio del fronte e la loro ritirata verso Nord, ci raccomandarono di non fare gesti ai reparti delle SS, perché avrebbero potuto scagliarci addosso delle bombe a mano per dispetto. Le stesse truppe delle SS per far ritardare gli alleati che le stavano inseguendo, minarono parecchi degli alberi del viale verso San Pio. Alcuni vennero abbattuti ma, fortunatamente, molti di questi non caddero. Intanto i marchesi Paganini avevano dato in affitto la te63
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nuta ai signori Battaglia. Dopo un periodo piuttosto lungo i signori Battaglia, in particolare Odone, restituì la tenuta ai marchesi Paganini perché economicamente era divenuta gravosa. A quel punto Roberto Paganini primogenito ed erede della marchesa Paganini, mise come amministratore Rodolfo Prudenzi. Costui, secondo le chiacchiere che circolavano, non si comportava in maniera corretta e ad un certo punto alcuni contadini cominciarono a lasciare la tenuta. Successivamente il marchese Paganini mise in vendita i propri possedimenti. Inizialmente, si dice, ci fosse stata una richiesta di acquisto da parte delle Belle Arti di Perugia, con il patto che avrebbero lasciato il paese al proprietario per permettere così a tutti gli affittuari di poter acquistare il proprio appartamento. Poi però improvvisamente venne fuori la società R.A.U.T. che, facendo delle offerte vantaggiose ai contadini, cambiò l’esito della vendita ed il destino di Salci. All’inizio i rappresentanti di questa società, i signori Perrini (padre e figlio), fecero tantissime promesse dicendo che avrebbero migliorato il paese, i servizi ecc. Poi invece, finiti i 5 anni del diritto di prelazione per gli affittuari, con la scusa di ristrutturare il borgo, dettero lo sfratto esecutivo a tutti gli abitanti rimasti. Molti di questi, ormai anziani, compreso mio marito, non si sono mai più ripresi dal dolore di lasciare la casa dove abitavano da generazioni e sono morti poco dopo. Oggi, nel momento in cui scrivo, il paese è ormai un fantasma, è rimasta abitata solo la canonica col prete che tiene aperta la chiesa ed un negozio di alimentari che gestisce Maria Gobbini, vedova di Oreste Piazzai, che aveva preso la licenza da mia zia Anna. Finisco qui questa parte del mio diario. A chi lo leggerà mando tanti baci ed auguri di stare sempre in salute e avere tanta felicità. Vi voglio bene! Mimma Bracchetti 64
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Tratto da intervista alla maestra Assuntina Scargiali, nata nel 1934, una delle ultime maestre di Salci, pubblicata su “IO DONNA - Donne e lavoro dal medioevo ai giorni nostri” a cura dell’ Istituto Statale di Istruzione Superiore “Italo Calvino” - Istituto Professionale per i Servizi Commerciali - Con la consulenza di Nicoletta Mezzetti e Gaetano Fiacconi. Le scuole di campagna spesso si trovavano vicino alla chiesa o in piccoli edifici con al massimo un paio di classi. Erano riscaldate da stufe in coccio, a legna o a carbone; erano i bidelli ad accenderle la mattina oppure qualche genitore di buona volontà. Gli alunni erano molto più rispettosi, erano stati educati ad un grande rispetto della figura dell’insegnante. In queste scuole c’erano solo due maestre; una faceva 1°2°-3° insieme, e l’altra la 4° e la 5° secondo il metodo della pluriclasse. Salci, tra le scuole di campagna, era la più difficoltosa da raggiungere per la maestra, che arrivava fino a Ponticelli con il pullman e poi a piedi o con il veterinario fino alla scuola. In altre sedi disagiate la aspettava il postino del paese che dalla fermata dell’autobus la portava alla scuola. Altri passaggi di fortuna potevano capitare da camion che trasportavano animali o materiale edile. Il raggiungimento della sede scolastica era difficoltoso anche per gli alunni. Tratto da un articolo di Gaetano Fiacconi, nato nel 1975: “SALCI UN PAESE CHE MUORE D´OBLIO....” in occasione di una conferenza tenutasi a Città della Pieve sulla Storia di Salci: “Un Castello 65
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di Frontiera”, ad opera dell’Associazione “Pieve Nostra” con la collaborazione dell´Amministrazione Comunale. Percorrendo la strada bianca che da Ponticelli sale a Salci si ha già l’impressione di uscire dal nostro mondo per immergersi in un... luogo dell’anima. Ci sono luoghi che entrano nel cuore per la loro particolare identità e Salci è uno di questi. La sua storia narrata con puntuale precisione da Massimo Neri ha riportato alla ribalta un problema caro al cuore di molti cittadini. Massimo Neri fiero delle sue origini salcesi, ha ripercorso dalle origini fino al 1970 la storia di questo borgo, castello di frontiera, posto a pochi chilometri da Città della Pieve e subito affacciato sul confine toscano. Il ruolo di Salci nella storia del nostro territorio è di notevole rilievo: nel 1849 favorì a Giuseppe Garibaldi, in fuga dalla morente “repubblica romana”, il passaggio nel Granducato di Toscana, grazie alle aziende salcesi della marchesa Vittoria Guerrieri Spinola, figlia illegittima di Re Vittorio Emanuele II; alla fine dell’Ottocento a Ponticelli fu costruita la stazione ferroviaria. Perché fermarsi al 1970? Perché in quegli anni Salci ha iniziato a morire nella sua identità, l´ultimo proprietario “latifondista”, Paganini, cedette la maggior parte della proprietà alla società R.A.U.T. allontanando quasi tutti gli abitanti che, costretti a trasferirsi, approdarono nella vicina Ponticelli o a Città della Pieve. Oggi dopo la morte dell’anziano parroco (uno degli ultimi abitanti) Salci è abbandonato in attesa che la società organizzi i restauri... ma sono passati troppi anni e il borgo è fatiscente. Nel 1982 il borgo ha suscitato l’interesse della Regione e del Ministero per 66
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i Beni Culturali e Ambientali e, da allora, è soggetto ai vincoli di entrambe gli enti. È importante tutelare questo bene affinché rimanga comunque fruibile dalla comunità. Oggi a Salci solitaria, privata del suo popolo, regna il silenzio; confidiamo nell’impegno di tutti affinché questo non sia un silenzio d´oblio. Cenni storici tratti da: “Note storiche sul castello di Salci” di Francesco Federico Mancini, Anna Alberti, Maria Assunta Pallottelli, Franco Milani; Tesi di Laurea “Ville e grandi residenze di campagna nei Comuni di Città della Pieve e Piegaro” di Giorgio Garzi - Università degli Studi di Perugia - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Lettere - Prof. Alberto Melelli - Anno Accademico 1997/1998. Salci, nel Comune di Città della Pieve, è un antico borgo medioevale sviluppatosi nel XIII secolo e originato probabilmente da un antico castello medievale, raggiungibile da un percorso secondario che da Fabro conduce a Città della Pieve. L’abitato si sviluppa lungo una strada alle cui estremità sono poste in direzione est e ovest le due porte d’accesso principali che immettono rispettivamente nelle piazze dette dei Bonelli e dei Crescenzi, tra loro collegate. Le prime informazioni sulla zona pervengono per merito di un “diploma” del 1243, dove Federico II stabilisce i confini del territorio di Città della Pieve. Tra i secoli XIV e XV, il Borgo di Salci, posseduto dall’antica famiglia pievese dei Bandini, diviene oggetto di contesa tra Città della Pieve e Orvieto. Nel 1495 Gian Paolo Baglioni si impadronisce di Salci 67
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uccidendo Cesario Bandini. Poco dopo, Cesare Borgia Duca di Valentino, per conto del Comune di Orvieto, uccide Baglioni conquistando la proprietà di Salci. Dopo un alternarsi di sanguinose contese, nel 1497 la famiglia Bandini riprende definitivamente il controllo di Salci. Lucrezia Bandini, ultima esponente della famiglia, non avendo eredi, in morte lascia tutto il suo patrimonio alla pronipote Livia Capranica, che lo porta in dote a Michele Bonelli, al quale va in sposa nel 1574. Per tutto il secolo XVIII, Salci aumenta in popolazione, edifici e superficie coltivata, e si accresce il potere della famiglia, sia in ambito politico che religioso. Nel 1656 Michele Ferdinando Bonelli riceve il titolo di Duca di Salci dal pontefice Alessandro VII Ghigi. L’intera proprietà, tanto agognata e difesa, rimane in possesso dei Bonelli fino alla fine del XIX secolo, quando viene, nel 1886, acquistata da Vittoria Guerrieri Spinola marchesa di Mirafiori, figlia di Re Vittorio Emanuele II e di sua moglie morganatica Rosa Vercellana. La marchesa Spinola vi soggiorna con Paolo De Simone che, alla morte del marchese Spinola, diventa suo marito. La Spinola, per un colossale crac finanziario, è costretta, nel 1896, a vendere Salci al marchese Roberto Paganini di Chiavari. Nel 1912 Salci passa in eredità ai figli Giovanni e Francesca. Alla morte di Giovanni, Salci con annesse 52 colonie, diviene residenza abituale del figlio Roberto che nel 1970 vende tutto alla società Risanamento Agricolo Umbro Toscano “R.A.U.T.” di proprietà della famiglia romana Perrini.
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RIFLESSIONI, STORIELLE, FLASH di Simonetta Brillo, nata nel 1948 C’è chi scrive perché fa lo scrittore, chi per il gusto di scrivere, chi per raccontare le emozioni di situazioni che non riesce ad esprimere a parole, e chi per tramandare; io scrivo per non far morire le tradizioni di Salci. Questa raccolta vuol presentare storie di vita paesana dei salcesi, trascrivere e far ascoltare parole e fatti, aneddoti e vicende degli anziani del paese. Riporto le più curiose, anche quando l’autenticità è dubbia, frutto di canzonature, sarcasmi, ironie su miserie e piccolezze del paese; lo scopo è anche quello di divertire chi legge. Le storie si raccontavano d’estate e di sera, quando si stava fuori di casa al fresco seduti sulle travi che, poggiate su mattoni, si trovavano vicino alle porte delle case, o sugli scalini del sagrato della chiesa in piazza Bonelli, o ancora sul muretto vicino al “Sali e tabacchi” in fondo alla piazza Grande. In questi luoghi ci si radunava tutti a parlare, grandi e piccini, si raccontavano fatti recenti o accaduti negli anni precedenti per ridere e scherzare, anche se molte volte erano irriverenti nella loro comicità. Tengo a precisare che i nomi dei personaggi sono frutto della fantasia, per evitare identificazioni.
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RIFLESSIONI Una volta le campane Il suono delle campane regolava la nostra vita, separando il giorno dalla notte, l’inverno dall’estate, la primavera dall’autunno. Accorciava o allungava le giornate secondo le stagioni. La lieta o la triste novella veniva diffusa dal campanile. I suoi suoni e i suoi rintocchi variavano secondo le ore e secondo le circostanze. Era il nostro mezzo di comunicazione, la nostra lingua. Dal suono delle campane la gente apprendeva quello che era accaduto o stava per accadere. Le giornate incominciavano alle sette del mattino; a quell’ora i rintocchi ben scanditi diffondevano la nascita del nuovo giorno. Non erano ancora terminati i rintocchi che la mamma nel buio con la mano cercava già, sul comodino, la peretta - interruttore a pulsante posto all’estremità di un filo elettrico libero - che avrebbe acceso la lampadina elettrica. La luce si accendeva, era questo il segnale del nuovo giorno e la mamma si alzava dal letto. Dalla strada già si sentivano le voci delle persone che venivano al paese. Dalla campagna venivano i contadini per fare rifornimenti di sementi nel magazzino sotto le finestre della mia camera. Era mezzogiorno e suonava il Gloria. Nel campanile si vedeva oscillare la grande campana che suonava a distesa. Tutte le donne per strada si facevano il segno della croce. Era un suono gioioso ed esultante. La campana era l’orologio della nostra vita. 70
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Quando, in gennaio alle 16 e 30 e in agosto alle 18 e 30, suonava “l’Ave Maria” voleva dire che era il crepuscolo: gli operai tornavano dal lavoro, il contadino lasciava l’aratro, il fabbro il martello. Tutti rientravano nelle loro case. Infreddoliti e stretti intorno alla tavola, cercavamo di goderci l’ultimo calore prima che la mamma portasse via lo scaldino. Nelle camere fredde ci si spogliava in fretta per non perdere calore e tra i brividi il sonno arrivava veloce. Nei giorni di festa, anziché i rintocchi, la grande campana suonava il “Gloria” e quel suono solenne irrompeva per tutta la campagna. Da secoli il suono delle campane ha continuato, e continua, ad essere messaggero di piccoli e grandi eventi anche se tutto è cambiato; il campanaro non c’è più e le campane sono silenziose da molti anni. I batuffoli gialli Avevamo un orto, sulla destra della passeggiata di San Pio, dove la mia mamma teneva galline, piccioni, conigli. Separato dal pollaio, c’era uno “stalletto” - una piccola stalla in mattoni con tetto - dove la mamma metteva a covare una chioccia. Un giorno, mentre ero all’orto con mia madre, dalla grossa cesta piena di paglia, dove covava una gallina, vidi sgusciare qualcosa di colore giallo. La gallina “crocchiava” - verso della chioccia quando ha i pulcini - come per avvertirmi che non gradiva la mia presenza. Ma ero troppo curiosa! Allora la mia mamma con una mano tenne ferma la testa e il becco della gallina e con l’altra le sollevo un’ala. Che spettacolo emozionante! Sotto c’erano tante piccole 71
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“cose” gialle che si muovevano. Alcune erano ancora chiuse per metà nel guscio dell’uovo, cominciarono a pigolare con un piccolissimo filo di voce e intravidi la testa, le zampine e il becco. I pulcini, la nascita dei pulcini: ecco un altro ricordo della mia infanzia. Erano gialli, soffici, teneri come batuffoli di ovatta o peluche, ma erano vivi. Arriva l’ombrellaio “Ombrellaio, donne! Chi ha ombrelli o ombrellini da accomodare. Ombrellaio, donne!” Chi non conosce il grido dell’ombrellaio? Girava per le piazza del paese in autunno, all’inizio dell’inverno o in primavera. Chiamava le donne del paese che si affacciavano dalla finestra. L’ombrellaio percorreva le piazze del paese in lungo e in largo e, di tanto in tanto, ad intervalli regolari, ripeteva il suo grido. Finalmente qualche donna dalla finestra gli faceva un cenno d’intesa, poi scendeva le scale di casa e consegnava all’ombrellaio un vecchio ombrello, “tartassato” dalla pioggia, rovinato e disastrato dal vento, logoro e consumato dall’uso. L’ombrellaio si sedeva accanto al portone, sullo scalino fuori dalla porta, metteva accanto a sé la cassetta contenente ritagli di stoffa, astine sottili di varia lunghezza da inserire nella raggiera dell’ombrello in sostituzione di quelle rotte o mancanti. Quindi con filo, filo di ferro, aghi, pinze, forbici si metteva silenziosamente al lavoro. Tutt’al più scambiava qualche parola con noi bambini che ci affollavamo intorno a lui e lo interrogavamo sulla sua vita, mentre lui a testa bassa, continuava il suo lavoro. L’ombrellaio, ricordo, 72
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indossava un vecchio e logoro giaccone nero, pantaloni tipo militare, scarpe grandi e robuste da camminatore, in testa un cappellaccio nero. Veniva da molto lontano, era sceso dalle montagne dell’Abruzzo. Il circo Quando arrivava il circo a Salci montava il tendone in piazza Crescenzi, a sinistra dell’arco di entrata nello spazio tra le case e la fontana. Prendeva la corrente a casa mia. I circensi erano una famiglia di una decina di persone e non avevano bestie feroci ma solo cani che facevano il loro numero durante lo spettacolo. Ricordo, in particolar modo, il trapezista, il pagliaccio, l’equilibrista. Il ragazzo sul trapezio volante, Athos, volteggiava nell’aria con grande scioltezza. Indossava un abito, senza ornamenti né fronzoli, che gli aderiva alla perfezione, nulla doveva intralciare i suoi movimenti. Avanti e indietro, su e giù, volteggiava nell’aria, più in fretta e più lontano ad ogni oscillazione. Ecco, i tamburi rullavano per qualche istante, poi tornava di nuovo il silenzio. Tutti trattenevano il respiro… il trapezista si era staccato dal trapezio, era sospeso nel vuoto, girava su se stesso, tutti erano con il naso all’insù..., faceva un doppio salto mortale e… incredibile! Ce l’aveva fatta! Con una precisione fantastica era riuscito ad afferrare un altro trapezio. I pagliacci, per far ridere il pubblico, avevano la faccia dipinta in maniera buffa, sulle gote due macchie rosse e un enorme naso a peperone. Il circo aveva diversi pagliacci che gridando in modo confuso entrando in pista, con le scarpe lunghissime dalla punta rivolta all’insù, i 73
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pantaloni larghi e “sbrindellati” i panciotti coloratissimi e i più strani cappellini. Le loro buffe scenette avevano inizio. Un pagliaccio travestito da dottore inseguiva con un’enorme siringa un paziente che fuggiva terrorizzato. Altri pagliacci si rovesciavano secchi di acqua addosso e in testa, si davano potenti scappellotti e si facevano lo sgambetto. Cadevano e con una capriola subito si rialzavano in modo goffo. Il pubblico rideva e applaudiva alle loro trovate. L’equilibrista, sempre Athos, camminava su una corda tesa nel vuoto da una parte all’altra del tendone del circo. Ad ogni passo oscillava, muoveva le braccia, si chinava, spostava il peso del corpo, curvava i piedi e le punte, mantenendosi in equilibrio sul filo. E di nuovo tutti a bocca aperta ed il naso all’insù. La grande nevicata del 1956 Gli uccelli erano partiti, il vento che invadeva la campagna intorno aveva portato via tutti i colori e i suoni del bosco che era diventato tutto nero e gli alberi scuotevano i rami. Poi venne la neve e incappucciò di bianco il paese, il bosco, gli alberi, la campagna sottostante. Sotto quel manto bianco si poteva immaginare il fremere delle piante che si piegavano sotto il peso della neve, poi si sollevavano e plaf!… la neve cadeva giù con un tonfo sordo. La neve…! La neve…! Ai miei tempi la neve veniva quando era la sua stagione, non come oggi che è capace di comparire a febbraio o magari a marzo o anche ad aprile. No, allora le stagioni erano puntuali: a dicembre o a gennaio si poteva essere certi di vedere nevicare. E che neve, cari miei! Soffice, 74
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asciutta, fitta, a fiocchi grossi e leggeri come la neve del presepio o delle favole. Quell’anno di neve ne cadde un metro e più tanto che, in alcuni punti, coprì i portoni delle case. Superava la mia altezza, avevo all’epoca circa otto anni. Non c’era lo spazzaneve, questo evento eccezionale aveva portato tutti a rimboccarsi le maniche, con le pale si aprivano viottoli per raggiungere la fontana. Le stradine si congiungevano le une alle altre, si incrociavano, come una grande ragnatela. Sul fondo della strada rimaneva uno strato bianco e compatto che cedeva sotto i piedi come fosse ovatta… ma se gelava si scivolava, si cadeva. Dai tetti della case scendevano “candelotti” che sembravano grandi spade di cristallo. Noi ragazzi si andava alla “Passonata”, un luogo dopo l’arco di uscita dal paese, dove c’era una lunga discesa fino a “Pisse” e si sciava. Mettevamo i sacchi di plastica sotto al sedere e via, come il vento, ci precipitavamo per il pendio. Ricordo le nostre grida…, ma, che fatica poi tornare al paese a piedi! In quei giorni era una festa! Non si andava a scuola, le strade erano bloccate, il telefono pubblico non funzionava, la luce non c’era. Eravamo isolati. Si vedevano soltanto i camini delle case fumanti, ci si aiutava a portare la legna e le donne insieme facevano il pane nel forno a legna del paese. Noi bambini, tutti incappucciati con berretti, guanti, pesanti calze di lana, e scarponi giocavamo tutto il giorno nella neve. I guanti di lana, fatti a mano dalla mamma o dalla nonna con un gran numero di ferri da calza, utilizzati per fare a pallate o costruire un pupazzo, avevano un difetto, si bagnavano. Allora si correva a casa per farli asciugare davanti al fuoco, mentre la mamma cuoceva la polenta, 75
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che borbottando nel paiolo spandeva in cucina un buon odore. Dopo esserci rifocillati e scaldati, si tornava in piazza, si inventavano nuovi giochi, aspettando che le campane del paese suonassero il crepuscolo… Era ora di tornare a casa! Vorrei precisare che la gente del paese affrontava quei giorni di grande disagio e di fatica con gioiosa grinta. Le lucciole Ai piedi dei platani lungo la passeggiata di San Pio e lungo la siepe che la costeggiava, nelle tiepide sere di giugno, brillavano nell’aria piccole luci intermittenti. Minuscoli punti luminosi si accendevano e subito scomparivano, altri punti occhieggiavano da terra. In quelle serate si assisteva ad uno spettacolo indimenticabile: le lucciole volavano lente sopra l’erba o ai margini dei cespugli emettendo lampi di luce. Ad un lampo che balenava in alto rispondeva un altro preciso e regolare in basso. Noi bambini cercavamo di prenderle con le mani, seguendo quelle emissioni di luce mentre volavano. Si diceva: “lucciola, lucciola vien da me...”. Se riuscivamo ad imprigionarle, si tenevano in un fazzoletto di stoffa e tornanti a casa si mettevano sotto un bicchiere rovesciato, credendo che avessero il potere di fare i soldi. La mamma, durante la notte, metteva 20 o 30 lire, noi alla mattina, eravamo felici, anche se erano pochi spiccioli. E la sera dopo si rincorrevano di nuovo…
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Primo di aprile L’usanza di organizzare scherzi il primo giorno di aprile è antica e bisogna dire che, nel corso degli anni, le persone si sono sbizzarrite ad ideare burle e tiri birboni, non sempre innocui e di buon gusto. Ai miei tempi si facevano scherzi divertenti e soprattutto inoffensivi. Si prendeva della carta bianca dal quaderno di scuola, o anche di giornale, si disegnavano le sagome dei pesci che poi venivano colorate e ritagliate. Si procurava del nastro adesivo, una strisciolina del quale veniva fissata sul bordo di ciascun pesce, ed una piccola parte all’estremità esterna veniva lasciata libera. Ci si avvicinava con naturalezza ad un amico e con fare disinvolto, tenendo ben nascosto il pesce in una mano, si sfiorava la sua schiena e si attaccava, con un tocco leggero. Se l’amico non si accorgeva di nulla, lo scherzo era riuscito e tutti vedendolo ridevano. Ma attenzione… bisognava controllare anche le spalle proprie! Il silenzio d’estate a Salci Oggi - 13 luglio 2013 - sono a Salci. Mi sono seduta vicino alla chiesetta di San Pio sulla strada che porta verso la campagna, guardo, osservo la natura tutta intorno. È mezzogiorno. Splende un sole cocente. Non si sente un canto di cicala, non un canto d’uccello, non un volo di farfalla, non un rumore né vicino né lontano. Sembra che la natura dorma. Ma… ad un tratto tutto si anima nella mia immaginazione: sento suoni indefiniti, come di grida lontane, fruscii prima a molta distanza poi più vicini, qui e là, da dove vengono di preciso non so. 77
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Sembra proprio che nell’aria ci sia qualcosa di magico. S’avvicina, s’allontana, ritorna, si direbbe qualcosa o qualcuno che voglia animare la campagna intorno. Ad un tratto… si sente un ronzio d’insetto. Passa. Torna il silenzio. Si sente un fruscio, mi volto… è caduta una foglia. Poi sbuca una lucertola dall’erba, si ferma, è immobile, sembra stia ad ascoltare anche lei, ma, come spaventata da quel silenzio, scappa via. La campagna di Salci ha qualcosa di straordinario che dà al cuore pace e serenità. Uno strano concerto Se vogliamo sentire un buon concerto per archi, e non solo, basta andare a Salci, borgo in aperta campagna, e porsi in ascolto, in un pomeriggio d’estate, durante il crepuscolo. All’imbrunire cavallette e grilli danno inizio alle loro esibizioni e fra l’erba e le zolle riecheggiano i loro richiami. Ogni specie ha le sue note. Qualche volta altri insetti rispondono con brevi accenti. Altri canti, più monotoni e più sonori, spesso assordanti, riecheggiano durante il giorno fra gli alberi. Sono le cicale. Mentre farfalle variopinte, rosse, blu, gialle, danzano nell’aria veloci in un ballo colorato. Ballano sui fiori, nell’aria, nel nulla. Ma… ci sono solo io ad applaudirli…!? Salci oggi Una volta fiorente borgo medioevale, Salci è stato abbandonato dall’ultimo abitante nel 1998. La torre appare all’improvviso ad una svolta della strada. 78
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Tra gli alberi fittissimi si intravedono brandelli di mura, occhi vuoti di finestre in rovina. Le strade conducono entro il perimetro delle mura attraverso la porta del paese. Le abitazioni sono diventate irriconoscibili, le volte crollate, le pareti profondamente erose. Nel groviglio della vegetazione, alberi, arbusti avvolgono le rovine con un’opera di demolizione impercettibile, ma lenta e continua. Le radici affondano contorcendosi tra le pietre, i rami sondano le aperture vuote delle finestre, i rampicanti svolgono un inestricabile e soffocante intreccio. La luce filtra tra i rami con toni irreali. Ogni passo riserva uno scorcio inatteso, una prospettiva nuova. Il silenzio delle rovine si anima solo a tratti di frulli improvvisi di uccelli, schianti secchi e misteriosi fruscii. Sugli squarci delle mura aperti come ferite, la luce gioca con effetti magici. Emerge soltanto il campanile della vecchia chiesa di San Leonardo. Resiste ancora relativamente intatto, come fosse l’ultimo albero di una nave che sta affondando. Le strade sono ormai deserte nel loro polveroso e secco silenzio.
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STORIELLE Negli anni quaranta le famiglie erano numerose e c’era tanta povertà. Anche Giovanni aveva una famiglia numerosa, ma pochi guadagni, era così costretto ad acquistare generi di prima necessità a debito. Spesso i creditori gli chiedevano i soldi, ma lui ogni volta trovava una scusa per non pagare. Un giorno, mentre era nel bosco a tagliare legna, si sentì tirare forte per la giacca. Si voltò e vide che era un rovo. Siccome non riusciva a levarselo di dosso, lo tagliò con la roncola e disse: “Porco cane… che, anche te c’avanze!” Giacomo era anziano, viveva da solo e stava in buona salute, non era mai stato dal dottore. Un giorno si sentì male così decise di andare dal medico che gli prescrisse una cura a base di pastiglie e supposte. Dopo qualche giorno Giacomo ritornò dal dottore e gli disse: “Dotto’ … ma che medicine m’ete dato?” ed il dottore “Eh!… t’ho dato le medicine che ti servivano”. “Va beh!… replica Giovanni - per le supposte… magna… magna… l’ho magnate; ma le pasticche… ‘nfila… ‘nfila… non so’ riuscito a ‘nfilalle”. Tanto tempo fa viveva in campagna un contadino, che non sapeva né leggere né scrivere, ma aveva una certa parlantina, per questo diventò Consigliere Comunale. Si vestiva di tutto punto, metteva persino la cravatta, anche se si vedeva che era un coltivatore della terra, e si recava a Città della Pieve, persino a piedi. Una volta fu convocato al Consiglio per il bilancio finale. Il Sindaco 80
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illustrò le entrate e le uscite del paese, ma il bilancio aveva un deficit di 30.000 lire e terminò dicendo: “Vorrei dai consiglieri un parere e un’idea per risanare il debito che ha il paese”; il contadino, seduto in prima fila, alzò il dito per chiedere la parola e disse: “Consumiamo intanto il deficit!”. Renato con la sua lambretta aveva sempre fretta e ai semafori passava anche con il rosso, se non vedeva mezzi in circolazione. Un giorno ad un incrocio, guardò sia a destra sia a sinistra, con il semaforo rosso, vide che la strada era libera, dette gas alla sua lambretta e passò dalla parte opposta... ma fu fermato da una pattuglia di carabinieri che si era nascosta dietro ad un albero vicino all’incrocio. “Non l’hai visto il semaforo rosso ?” - disse il maresciallo: “Il semaforo rosso l’avio visto… è ma voe che non v’avio visto!” Nel 1958 Maria e Antonio poterono comprare finalmente la televisione e la posizionarono proprio di fronte al focolare. La sera stessa che l’elettricista aveva istallato la televisione, Antonio, ritornando dal lavoro dei campi, mise gli attrezzi in magazzino ed entrò subito in casa. Era tutto felice e desideroso di vedere la sua prima trasmissione. Si sedette di fronte all’apparecchio, accese la televisione, senza lavarsi le mani e con i panni da lavoro. Maria stava preparando la cena e quando sentì la voce della televisione si arrabbiò e disse: “Anto’, ma che fae, ma che see matto a accenne la televisione?” “No, … perché?” - rispose Antonio. “Perché cocco mio che dironno quelle che stonno da la parte dillà, dentro 81
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la televisione, che te vedono sporco accusì, … prima d’accenne… datte subito ‘na ripulita e ‘na cambiata a ‘ste panne!” Molti anni fa, l’allora fattore della tenuta decise di piantare quaranta olivi. Chiamò i suoi operai, tra cui anche Gino, analfabeta ma gran lavoratore. Le buche erano pronte, gli olivi furono piantati, ma avanzò tanta terra che Gino, guardando quel mucchio disse: “Sor fatto’… ma che ce famo con tutta sta terra?” Il fattore con un sorriso gli rispose: “È facile… Gi’… scava una gran buca e assotterrela.” Cazzottino - soprannome noto in paese - era un uomo alto circa un metro e mezzo o poco più, era candidato politico alle elezioni e chiudeva la campagna elettorale proprio a Salci con il suo ultimo comizio. Molti paesani erano accorsi per sentirlo parlare, anche se veniva appena intravisto a causa della sua bassa statura. Nel bel mezzo del suo comizio venne interrotto da un suo oppositore politico e tra i due nacque una discussione. Cazzottino, risoluto e non pensando minimamente alla sua statura, si rivolse alla popolazione e disse: “Paesani… salcesi… vi prego di sostenere la mia candidatura e di votare per me, perché voi mi avete visto nascere e crescere in questo paese.” Dal fondo della piazza il suo oppositore politico gridò: “ Nascere sì, ma crescere no!...” Erano gli anni quaranta una coppia di sposi Franca e Giuseppe, dopo quattro anni di matrimonio avevano già quattro figlie. Giuseppe avrebbe tanto desiderato quattro 82
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maschi perché sperava che quando fossero stati grandi lo avrebbero aiutato nel lavoro dei campi. Ma Giuseppe non si scoraggiò e dopo qualche anno vennero alla luce due gemelli… ma erano femmine. Il settimo figlio non fu cercato, capitò per caso, ma sorpresa… di nuovo femmina. Giuseppe, sempre con il suo chiodo fisso del maschio, ci riprovò ancora... ma nacque femmina. Senza dire niente alla moglie si recò in Comune per dare il nome alla bimba, e l’impiegato gli disse: “Giuse’… allora… come la chiamiamo questa?” “Finimola” rispose Giuseppe, “Come? - replicò l’impiegato - Finimola?… che nome strano!” “Strano o non strano!… La chiamo Finimola” soggiunse Giuseppe. E fu proprio l’ultima figlia. Giovanna era una contadina che viveva in un podere lontano dal paese. Veniva a Salci una o due volte al mese per fare scorta di generi di prima necessità. Una volta, dopo aver fatto spesa, si recò nell’unica osteria del paese che era gestita dall’Orlanda e le disse: “Orla’… per favore, me dassivo ‘na birra?” “Grossa” - chiese Orlanda - “Sì, grossa” replicò Giovanna” “La bevete qui o è per porta’ a casa?” - si informò Orlanda - “Pe’ porta’ a casa a quell’omine che stonno a lavora’ giù pe’ le campe. Ma, quanto costa?” “1.000 lire questa e 900 quella col voto a perdere” - risponde Orlanda. Giovanna ci pensò e poi disse: “Orla’… sintite… dateme quella da 1.000 che se a quella da 900 el voto perde me se molla tutta la roba che c’ho ma la borsa.” Benito andava spesso a Roma a trovare i parenti. Si 83
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racconta che una volta aveva girato per molte osterie e si era ubriacato di santa ragione. I suoi parenti lo accompagnarono alla stazione Termini, gli fecero il biglietto Roma-Fabro - stazione più vicina a Salci - e lo misero in uno scompartimento vuoto. Benito si addormentò. Quando si svegliò, verso Orvieto, vide che nel suo scompartimento si era seduta una signora, proprio di fronte a lui. Benito si alzò poi si risedette e aprendo bene gli occhi si accorse che era brutta, ma proprio brutta. Così inconsapevolmente, sotto gli effetti dell’alcol, le disse: “mamma mia… quanto sei brutta!” “Mamma mia… quanto sei ubriaco!” - rispose la signora. “Sì, - replicò Benito - è vero… ma a me tra poco la sbornia me passa!” FLASH SU SALCI L’odore caldo del pane che cuoce nel forno. Il canto del gallo appena si fa giorno. La biancheria stesa sul prato. Il sole che picchia nel campo arato. Il suono delle campane. Le donne che parlano sulle scale. L’azzurro del cielo sereno. 84
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Le colombe che volano sul tetto. La fontana nella corte che getta acqua. I bambini che giocano nel viale. I gatti sopra i davanzali delle finestre. Le bambine che asciugano i capelli al sole. Il secchio che cigola nel pozzo. Gli alberi che si muovono con il vento. Il canto del cuculo in campagna. Le violette lungo i fossi. Il glicine fiorito sul muro della piazza.
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POESIE, DETTI, FILASTROCCHE, SCIOGLILINGUA di Simonetta Brillo, nata nel 1948 POESIE Il mio paese: Salci Piccolino è il mio paese sotto il cielo turchese. Venti case, un gran cortile, qualche stalla e qualche ovile. Un palazzo che si staglia col tetto di muffa e paglia, che dà asilo ad uccellini, topi e pipistrelli. Un viale lungo e stretto dove si gode il fresco, la chiesetta nella piazzetta col suo piccolo sagrato dà conforto all’abitato, con l’aguzzo campanile che suona a distesa nel mese di aprile, una fontana gocciolante che ristora l’abitante. Tutto questo è il mio paese “e per questo il cor mi prese”. Che cosa è rimasto del mio paese Tante case vuote, i muri scrostati, i tetti crollati. 86
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Le finestre aperte, staccate e sconnesse. Solo il suo arco d’ingresso si eleva con ardore, si allunga verso il cielo per ricevere il visitatore. Nella passeggiata alberata e ombreggiata di San Pio, si sente solo il rumore delle foglie gialle, che come ali di farfalle, si staccano lievi dai rami, volteggiano nell’aria, e come monete d’oro si posano e fan decoro sulla siepe e sulla ghiaia, mentre dai piedi degli alberi vola via una ghiandaia. Le piazze sono deserte, il silenzio fa da padrone e nello scorrere delle ore porta il ricordo nel mio cuore: voci di bimbi che giocano felici, e di donne, che stanche, stan sedute sulle panche, aspettando che il sole tramonti dietro il monte.
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La mia casa a Salci La cucina un gran stanzone con cinque porte ed un portone. A sinistra il lavandino con un mini finestrino, sul suo piano di cemento quattro secchi e una brocchetta. Ai chiodi sono attaccati coperchi, pentole e tegami. Sulle mensole son posati bicchieri, piatti, olio e sale. Più avanti il focolare grande… enorme… per ospitare quattro persone ed il mangiare. Dalla cappa scendeva la catena, grossa e nera, dove il paiolo sul fuoco brontolava e l’acqua riscaldava. Una porta, un corridoio poi sui travi potevi notare grappoli d’uva ad essiccare e per terra sacchi e sacchi per il mangime delle galline. Tre scalini ed una porta (è la camera di mia nonna) un lettone, uno sgabello, un armadio ad uno sportello dove sotto a tutto c’era l’ombrello. Alle finestre non ci sono tende e… il sole risplende, 88
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ma crepe nei muri e… il vento si sente, per sentirci più sicuri si chiudevano gli scuri. Poi, non è una porta ma una credenza che contiene la dispensa. Un tavolo, una macchina da cucire con cui mia madre guadagnava da vivere. Tre scalini ed una porta (è la camera mia e di mia madre) con una toletta con bricco e catino per lavarsi al mattino. La porta della soffitta con una scalata lunga e stretta dove il bucato lì si faceva e un otre per l’olio sul pianerottolo giaceva. In cucina, un quadro alla parete la Sacra Famiglia rappresentava con un fiore, con un lume, tanta pace ci dava. La mia casa era grande e povera … allora non si poteva…! di quel poco che avevamo ci accontentavamo. I miei ricordi I miei ricordi di Salci sono come una collana di ciliege: belle, rosse, 89
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rotonde, saporite con un nocciolo duro; dove una tira l’altra. La collana è lunga, lunga, e non finisce mai. DETTI e FILASTROCCHE Stella stellina Stella stellina la notte s’avvicina la fiamma traballa la mucca è nella stalla la mucca e il vitello la pecora e l’agnello la chioccia coi pulcini la gatta coi gattini la capra ha il suo capretto la mamma ha il suo bimbetto. Ognuno ha la sua mamma e tutti fan la nanna. Cavallino arrò arrò Cavallino arrò arrò piglia la biada che ti do piglia i ferri che ti metto per andare a San Francesco. San Francesco è sulla via per andare alla badia. Alla badia ci sta un frate 90
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che prepara le frittate. Le frittate non son cotte mangeremo le ricotte. Le ricotte son salate mangeremo le frittate. Giro girotondo Giro girotondo casca il mondo casca la terra tutti giù per terra. Cecco Rivolta C’era una volta Cecco Rivolta: ruzzolò per le scale si ruppe il collo e non si fece male, ma all’ultimo scalino si ruppe il mignolino. Occhio bello Questo è l’occhio bello, questo è il suo fratello, questa è la chiesina, e questo il campanello: din don din don din don. La testina bionda, la guancia rubiconda, la bocca sorridente, la fronte innocente. Din don din don din don. Domani è festa Din don dan, domani è festa 91
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si mangia la minestra la minestra non mi piace, si mangia pane e brace la brace è troppo nera, si mangia pane e pera la pera è troppo bianca, si mangia pane e panca la panca è troppo dura, si va a letto addirittura. Il grillo e la formica C’era un grillo in un campo di lino la formicuzza gliene chiese un filino. Disse il grillo “Che cosa ne vuoi fare?” “Calze e camice, mi voglio maritare”. Disse il grillo “lo sposo sarò io”. La formicuzza “Son contenta anch’io”. Era fissato il giorno delle nozze: due fichi secchi e due castagne cotte. Andarono in chiesa per mettersi l’anello, cadde il grillo e si ruppe il cervello. La formica corse verso il mare a cercar l’unguento e il grillo medicare. Quando fu là, laggiù vicino al porto, venne la nuova che il grillo era morto. Suonano le nove, di là dal porto si sente dire che il grillo è sotterrato. La formicuzza, per il gran dolore prese le zampine e se le ficcò nel cuore. Suona il tocco, nel campo di riso si sente dire che il grillo è in paradiso. Quattro grillini vestiti di nero portarono il grillo sino al cimitero. 92
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Quattro formiche vestite di bianco portarono la formica al camposanto. Chicchirichì Chicchirichì, galletto zoppo Chicchirichì chi l’ha zoppato? Chicchirichì le tre formiche Chicchirichì dove son ite? Chicchirichì son ite al bagno Chicchirichì che arte fanno? Chicchirichì fanno la tela Chicchirichì che c’è per cena? Chicchirichì c’è l’insalata. Chicchirichì chi l’ha portata? Chicchirichì l’ho portata io, Chicchirichì mangiala tu, che non la voglio io. Filastrocca di Cincirinella Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, panbiscotto e mortadella. Viva la moglie di Cincirinella. Cincirinella aveva un podere e tutti i giorni l’andava a vedere: se gli mancava un tozzo di pane dava la colpa al povero cane; se gli mancava un fuscellino dava la colpa al contadino; se gli mancava una pera spina dava la colpa alla contadina.
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Giorni e mesi Trenta dì conta novembre con april, giugno e settembre di ventotto ce n’è uno tutti gli altri ne han trentuno. Rosso di sera Rosso di sera bel tempo si spera. Rosso di mattina vento e pioggerellina. Din din din Din din din gattino mio, tutto il bene lo voglio a te, la ciccina la mangio io, l’ossicino lo do a te. Ninna - nanna oh! Ninna nanna, nanna oh! Questo bimbo a chi lo do? Lo darò alla Befana che lo tiene una settimana. Lo darò all’uomo nero che lo tiene un anno intero. Lo darò alla sua mamma che lo mette a far la nanna. Ninna nanna, nanna oh! Lucciola Lucciola, lucciola, vien da me! Ti darò il pan del re, 94
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ti darò il pan della regina, lucciola, lucciola maggiolina. Lucciola, lucciola, vien da me! Ti darò veste da re, e poi manto da regina, lucciola, lucciola vespertina. Lucciola, lucciola, vien da me! Ti darò letto da re, e lenzuola da regina. Lucciola, lucciola, lucciolina. La bella lavanderina La bella lavanderina che lava i fazzoletti per i poveretti di tutta la città. Fai un salto, fanne un altro guarda in su guarda in giù dai un bacio a chi vuoi tu.
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SCIOGLILINGUA Se l’Arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescoviscostantinopolizzasse vi disarcivescoviscostantinopolizzereste voi? Trentatre trentini entrarono a Trento tutti e trentatre trotterellando. Il Papa pesa e pesta il pepe a Pisa e Pisa pesa e pesta il pepe al Papa. Sopra la panca la capra campa sotto la panca la capra crepa. Apelle figlio di Apollo fece una palla di pelle di pollo tutti i pesci vennero a galla a mangiare la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo.
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RICETTE in dialetto salcese di Simonetta Brillo, nata nel 1948 con la collaborazione di Mafalda Totino, nata nel 1930 Le prime due ricette si usavano fare in tempo di trebbiatura Crostine de la trebbiatura: Che ce vole: fegatine, sellaro, cipolla, pritosello, cappere, olio, sale, aceto. Come se fonno: ma na cazzerola ce se mette l’olio, ‘n po’ de sale, la cipolla tajata fina fina, e se fa soffrigge’. S’aggiunge ‘l sellaro sempre tritato fino e se continua la cottura, poe s’aggiungono le fegatine già lessate prima, le cappere, l’aceto, verso la fine, ‘n pizzico de pritosello; poe se passa tutto col passatutto. S’abbrustoliscono poe ‘n po’ de fette de pane, ce se spalma sopra ‘l composto e se servono. Pe’ fa più morbido ‘l pane se bagna co ‘l vinsanto o co ‘l brodo. Siccome non se buttava gnente, se recuperava anche il pane duro, ce se faceva la minestra de pane con quello che passava l’orto, ne ‘sto caso bietola e fagioli, ed ecco la ricetta. Minestra de pane: Che ce vole: ‘l pane duro, ‘na cipolla, ‘na costola de sellaro, ‘na carota, olio, sale, pepe, bietola e faciole. Come se fa: se fa soffrigge’ la cipolla, ‘l sellaro, la carota co’ l’olio, ‘l sale, ‘l pepe. Ce se mette poe ‘n mazzetto de bietola e ‘na manciata de faciole lesse, se fa bolli’ per circa ‘n’ora. Se taja ‘l pane duro a fette. Se fa ‘no strato de pane e ce se mette sopra ‘l brodo già fatto e ‘na manciata de cacio. Se fanno due 97
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o tre strate e se fa ferma’ all’incirca per mezz’ora e poe se sminestra. Crostine co’ le fave Che ce vole: fave, finocchio, olio, sale, pepe, ajo, pane. Come se fonno: se lessono le fave e se sbucciono. Se conniscono co’ olio, sale, pepe. S’abbrustolisce ‘l pane, ce se strofina l’ajo, se bagna coll’acqua do’ se so’ lessate le fave e ce se stendono sopre le fave connite, s’aggiunge l’olio d’oliva (sirebbe mejo quello casareccio). Antipasto piccante Che ce vole: olio, ajo, peperoncino, sale, pomidoro, pane Come se fa: se soffrigge ajo e peperoncino ma l’olio, s’aggiugne ‘l pomidoro, se sala e se mette ‘n po’ de pepe. Se coce pe’ 15 20 minuti e poe se spalma ma ‘l pane. Bruschette Che ce vole: fette de pane, pomidorine, ‘no spicchio d’ajo, origano, sale, pepe. Come se fonno: se preparano le pomidorine a pezze, se conniscono co’ l’olio, ‘l sale e l’origano. Se mettono le fette de pane ma ‘l forno a abbrustoli’ (sirebbe mejo ma la gratella ma ‘l focolare); quanno so’ belle abbrustolite se mettono ma ‘n piatto, ce se struscia ‘n po’ d’ajo e ce se mettono sopre le pomidore connite co’ tutto l’olietto ch’honno fatto.
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Crostine co’ l’acciughe Che ce vole: burro, pasta d’acciughe, pane. Come se fonno: se tira fore ‘l burro dal frigorifero ‘n po’ prima, poe se sfragne ma ‘n piatto co’ ‘na forchetta e ce se mischia la pasta d’acciughe fin’a che ‘n se fa ‘n impasto morvido. Se stenne l’impasto sopre le fette de pane e si uno vole se posseno guarni’ le crostine col pritosello. Pancotto Che ce vole: pane vecchio e duro, carota, sellaro, cipolla, pomidoro, pecorino Come se fa: se mette ‘l pane raffermo ma ‘n piatto, se fa bulli’ carota, sellaro, cipolla, pomidoro pe’ ‘n po’, poe se versa ‘l brodo ma ‘l pane. Se po’ poe conni’ col pecorino. Pasta co’ cece e salciccia Che ce vole: pancetta, rasmerino, salvia, dado, olio, sale, cece lesse, salciccia Come se fa: se mette la pancetta a pezzettini e la salciccia ma ‘na cazzerola e se fonno rosola’, ce se aggiungheno le cece e ‘l dado e ce se mette ‘n po’ d’acqua. Quanno l’acqua ‘n c’è più se spegne. ‘Ntanto se coce la pasta, se scola e se connisce co’ tutto ‘l resto. Ce se po mette’ anche ‘na spolveratina de cacio. Stracciatella Che ce vole: ova, cacio, pangrattato, brodo de ciccia. 99
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Come se fa: se mescolono l’ova, ‘l cacio e ‘l pangrattato. Se mette a bolli’ ‘l brodo e ce se butta giù tutto, girando col mestolo. Tempo poche minute e la stracciatella è bell’e pronta. Pollo a la rabbiona Che ce vole: pollo, ajo, rasmerino, olio, sale, vino, pomidore fresche. Come se fa: se taja ‘l pollo e se mette ma ‘na cazzerola, se fa rosola’ e poe se scola l’acqua de cottura, ce se mette l’olio, l’ajo, ‘l rasmerino e se fa coce ma ‘l foco basso. A mezza cottura s’aggiunge ‘l vino e quanno ‘l vino è svaprato ce se mette ‘l pomidoro a pezze e s’aggiunge ‘n po’ d’acqua; se continua a coce e se serve caldo. Torta sotto ‘l foco Che ce vole: farina, acqua, sale, ‘n pizzico de bicarbonato Come se fa: s’empastano tutte l’ingrediente e se fa riposa’ l’impasto. Se stenne la pasta col lanzagnolo sopre ‘na spianatoia, e se lascia alta due centimetre circa. Se pulisce ‘l camino caldo da la cenere e ‘l carbone. Se poggia la torta su le mattone e se ricopre de cenere calda e qualche carbone. Se coce pe’ 30 minute. Ancora calda se po’ riempi’ co’ la salciccia e le rape. Faciole co’ le codiche Che ce vole: faciole, cipolla, codiche, olio, sale, pomidoro, sellaro Come se fonno: se fa ‘l soffritto co’ l’olio, la cipolla e ‘l sellaro, poe ce se mette ‘l pomidoro e le codiche tajate a striscioline. Se fa 100
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‘nsapori’ e s’aggiungheno le faciole. Se sala e se fa bolli’ fino a quanno nun se so’ cotte. Baccalà co’ ‘l sughetto Che ce vole: baccalà, cipolla, ajo, pomidorine, sellaro, olive nere, cappere, sale, pepe, vino. Come se fa: se fa a pezze ‘l baccalà dopo ch’è stato a bagno pe’ sdisalasse. Ma ‘na padella se fa soffrigge la cipolla tritata, l’ajo, ‘l sellaro, l’olive e le cappere ma l’olio, se sala e se ‘mpepa. Dopo ‘n po’ ce se mettono le pomidorine. S’aggiunge ‘l baccalà e ce se dà ‘na bella spruzzata de vino. Se fa coce ‘l tutto e poe se serve. Ciambelline al mosto Che ce vole: ‘n bicchiere de zucchero, ‘n bicchiere de mosto, ‘n bicchiere d’olio, ‘na bustina de pinole, ‘na bustina de lievito, uvetta, farina quanta ce vole Come se fonno: se mettono tutte l’ingrediente ma ‘na terrina, se fa l’impasto, poe se preparano le ciambelline e se friggono. Biscotte co’ l’anice Che ce vole: farina, ‘na tazza de vinsanto, ‘na tazza d’olio, ‘na tazza de zucchero, mezza bustina de lievito, anice. Come se fonno: se mettono tutte l’ingrediente ma ‘na terrina, se ‘mpasta tutto, se fonno le biscotte e se cociono ma ‘l forno pe’ circa 15 minute a 180 grade.
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Castagnole Che ce vole: 3 ova, 2 cucchiarate de zucchero a ovo, ‘n cucchiaro d’olio d’oliva a ovo, la buccia grattata de ‘n limone, ‘n bicchiere de cognacche, ‘na bustina de lievito. Come se fonno: se fa co’ la farina ‘na fontana, ce se mettono drento tutte l’ingrediente, se maneggia tutto quanto, poe se fonno tutte strisce tonne e se tajeno come ‘no gnocco. Se mette l’olio ma ‘na padella e poe se friggono. Quanno so pronte se mettono ma ‘n piatto da portata co’ sopra ‘l miele o lo zucchero. Tortucce Che ce vole: un chilo de farina, lievito e semi d’anice Come se fonno: se ‘mpasta la farina, l’acqua, ‘l lievito e i semi d’anice; se forma ‘n bel pane e se lascia lievita’. ‘Na volta lievitato se divide in piccoli pani, se schiacciono col lanzagnolo, fin’ a che vengono sottile e tonne. Poe bisogna friggele in olio bollente. Quanno sironno de colore dorato, bisogna levalle dal foco e connille co’ zucchero o sale a piacere. Pesche dolci Che ce vole: 4 ova, 400 grammi de zucchero, ‘n quarto de latte, ‘n quarto d’olio, ‘n limone, ‘n chilo de farina, 2 bustine de lievito, archemes, Martini, crema, cioccolata. Come se fonno: se fonno de le palline piccine, se mettono ma ‘l forno a 180 grade pe’ 10 minute, se bagneno co’ l’archemes e ‘l Martini poe se mette drento crema o cioccolata in mezzo e s’accoppieno a due a due; a la fine se passeno ma lo zucchero. 102
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Da Simonetta Brillo, nata nel 1948
dal libro contabile dell’Amministrazione F.lli Battaglia Tenuta Salci
Elenco delle famiglie che, nel 1931 - 1932, abitavano in paese, a Salci Angeli Salvatore Bennati Artemio Carbonari Clemente Carbonari Pio Ceccomoro Francesco Ceccomoro Pietro Ceccomoro Tullio Gambelli Giovanni Innocenti Natale Mogioni Daniele Orlandi Davide Riccagni Anselmo Tempesta Tito Casolini Daligo Caporali Tersilio Falcinelli Giovanni Ercolani Carlo Sassetti Angelo Piazzai Elpidio Fornaca Luigi Giuliacci Domenico Riccagni Angelo Diamanti Torello Dott. Galli Spacci Irene Foscoli Umberto 103
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Vocaboli e Coloni Arcidiaconato - Gattobigio Giuseppe Babbuccio - Giuliacci Leonardo Ballerino - Mugnari Settimio Capanna Battilana - Guidarelli Rodolfo Capanna di Salci - Scarpelli Giuseppe Capanna dell’Unto - Lupi Mariano Caprareccia - Marchini Nazzareno Carnaiolese - Lucioli Pietro Carnevale - Cicerchia Argenio Caroma - Mugnari Nazzareno Caromoli - Marchini Adamo Casina - Minestrelli Filomena Casone - Giuliacci Pasquale Castello I - Gallinella Nazzareno Castello II - Neri Ermete Cerreto - Franci Giulio Cicione - Ansano Egisto Corno - Chiaroni Augusto Croce - Laurini Giuseppe Cruccolo - Mugnari Gennaro Ercoletto - Ghezzi Nazzareno Felcino - Beligni Sante Fontebotte - Passeri Isidoro Fonte di Salci - Pattuglia Luigi Fornace di Salci - Giuliacci Francesco Fornace laterizi - Casolini Concetto Fossato - Frullano Nazzareno Giardino I - Lupi Celeste Giardino II - Frullano Sante 104
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Guardiera alta - Vergari Giovanni Guardiera bassa - Torroni Luigi Laghetto I - Billi Ferdinando Laghetto II - Fiorito Nazzareno Laghetto III - Mencarelli Giocondo Napoli - Della Ciana Leopoldo Olmo - Giuliacci Domenico Pisellino - Ansano Camillo PodestĂ - Volpi Dionisio Prato - Baglioni Nello Poetalla - Mugnari Federico Querce verdi - Di Mario Girolamo Salci - Carbonari Edoardo Santa Cristina alta - Ghezzi Angelo Santa Cristina bassa - Gattobigio Gino Santa Caterina - Passeri Pio Sensano - Bacci Dante Sorignano - Mencarelli Raffaello Storno - Giuliacci Pietro Troscia I - Giuliacci Camillo Troscia II - Giuliacci Leopoldo
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VOCABOLARIO A abbrustoli’ = abbrustolire accenne = accendere accoppieno = accoppiano accusì = così acquaio = lavandino aggiugne = aggiunge aggiungheno = aggiungono ajo = aglio annamo = andiamo annato = andato apparecchio = aereo archemes = alchermes assotterralla = sotterrarla avemo = abbiamo avio = avevo avronno = avranno B baiocco = soldo balorchio = cieco bardassa = ragazza bardasso = ragazzo bavero = colletto bevanna = bevanda biscotte = biscotti bolli’ = bollire borgone = grande pozza d’acqua bove = bue 106
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breccole = sassi bucatojo = recipiente per la bucata bullette = chiodi C cacio = formaggio campe = campi capagno = canestro cappere = capperi casca’ = cadere c’avanze = ci avanzi, devi riavere dei soldi c’avemo = ci abbiamo c’avria = ci avrebbe cazzerola = pentola cece = ceci ceccia = seduta ce l’ete = ce l’avete cencio = straccio centimetre = centimetri ce se = ci si c’ete = ci avete ciampelle = ciabatte ciccia = carne ciovatta = ciabatta citilena = lume a petrolio citrullo = sciocco co’ = con coce = cuocere cociono = cuociono codiche = cotiche cognacche = cognac 107
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colla = con la conni’ = condire connille = condirle connisce = condisce conniscono = condiscono connite = condite consijato = consigliato coppola = crosta del pane cor = cuore costola = costa cretto = rotto creso = creduto crostine = crostini cucchiaro = cucchiaio cucchiarata = cucchiaiata curato = prete D dajela = dagliela dajelo = daglielo dassivo = dareste dateme = datemi datte = datti de = di dillà = di là, da l’altra parte dironno = diranno ditto = detto do’ = dove drento = dentro du’ = due 108
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E emo = abbiamo empastono = impastano erono = erano ete = avete F faciole = fagioli fae = fai famo = facciamo fatto’ = fattore fegatine = fegatini ferma’ = fermare, lasciare a riposare fija = figlia fijo = figlio fini’ = finire finimola = finiamola, facciamola finita fo = faccio foco = fuoco foje = foglie fonno = fanno fore = fuori friggele = friggerle G gamma = gamba gassosa = gazzosa gaucciolo = gomitolo ‘gna = bisogna gnente = nulla gnocche = gnocchi 109
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grade = gradi guarni’ = guarnire H honno = hanno I ingrediente = ingredienti ire = andare ita = andata ito = andato L ‘l = il l’ = gli lanzagnolo = mattarello lasagnolo = mattarello lavora’ = lavorare le = i lessono = lessano levallo = toglierlo loto = fango lute = fiamme M ma = a ma la = nella ma ‘l = nel magnare = mangiare ma ‘n = in un mana = mano 110
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manciata = pugno marmette = pentole martinicca = freno del carro mattone = mattoni m’ = mi me = mi mejo = meglio mellà = là ‘mpasta’ = impastare ‘mpepa’ = mettere il pepe merigge = ombra merollo = cotto mesa = madia mi’ = mio millì = lì minute = minuti moje = moglie morvido = morbido mozzico = morso N ‘n = un ‘na = una ‘ndua = dove ne = in ‘nfila’ = infilare ne la = nella ‘nsaporì’ = insaporire ‘ntanto = nel frattempo nun = non ‘ n se = non si 111
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O oietto = olietto omine = uomini orlogio = orologio ova = uova P panne = abiti, vestiti passeno = passano pe’ = per peccia = muscolo della gamba pezze = pezzi pezzettine = pezzettini pijate = prendete pignatta = tegame di terracotta pincelle = fiocchi di neve pinole = pinoli pitale = vaso da notte poe = poi pole = può pollo a la rabbiona = pollo all’arrabbiata pomidore = pomodori pomidorine = pomodorini ponno = possono pora = povera poro = povero porta’ = portare posseno = possono prena = incinta prepareno = preparano proma = sponda 112
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pritosello = prezzemolo postale = pullman Q quanno = quando quillo = quello R ragolo = ramarro rasmerino = rosmarino resteronno = resteranno ricaldellare = riscaldare riempì’ = riempire rifilacce = rifilarci rosola’ = rosolare rota = ruota S saccoccia = tasca satollo = sazio sbucciono = sbucciano scavicchiare = scardinare scapicollasse = cadere schiacciono = schiacciano sdisalasse = togliere il sale s’ = si se = si see = sei sellaro = sedano sfragnono = schiacciano sieda = sedia 113
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sindico = sindaco sintite = sentite sirebbe = sarebbe sironno = saranno sminestra = versare la minestra sui piatti so’ = sono sopre = sopra sor = signor spenne = spendere spenna’ = spennare spolveratina = piccola quantità spullerasse = sdraiarsi ‘ste = queste stenne = stendere stennono = stendono ‘sto = questo stonno = stanno strate = strati strufineno = strofinano soffrigge’ = soffriggere svaprato = evaporato T taja = taglia tajata = tagliata tajate = tagliate tajeno = tagliano tamanta = grande tienete = tenete traveggole = visioni 114
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trettica’ = tremare tutte = tutti U ugne = ungere upri’ = aprire V ve = vi voe = voi vole = vuole vo’ = vado voto = vuoto, contenitore vulticare = rovesciare Z ziro = grande recipiente per l’olio
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RINGRAZIAMENTI Si ringraziano: - testimoni e ricercatori - Assemblea Legislativa Regione Umbria - CeSVol - Perugia - Accademia “Pietro Vannucci” di Città della Pieve - Comitato “Salviamo Salci” - Alessandro Bonelli (discendente della Famiglia dei Duchi Bonelli proprietari di Salci fino alla seconda metà dell’Ottocento)
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RACCOLTA IMMAGINI Immagini di Salci
Salci
Castello di Salci 117
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Salci - Piazza Crescenzi oggi
Stampa degli anni ‘40 raffigurante il borgo di Salci
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Salci - Castello
CARTOLINA CASTELLO DI SALCI La cartolina fu fatta realizzare dai Marchesi PAGANINI allora proprietari di Salci in occasione dell’apertura dell’autostrada del Sole A1, tratto Orvieto - Chiusi - casello di Fabro, avvenuta il 4 ottobre 1964 119
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Torre del Sole Porta d’Orvieto - accesso a Salci
Torre del Sole Porta d’Orvieto - accesso a Salci disegno di Simonetta Brillo 120
Chiesa di Salci con porta tra piazza Cresenzi e piazza Bonelli
Chiesa di Salci disegno di Simonetta Brillo 121
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Palazzo Ducale
Piazza Crescenzi (anni ‘80)
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Loggia degli Spiriti
Porta di Siena
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Scorcio piazza Crescenzi
Chiesa di San Pio disegno di Simonetta Brillo 124
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Scene di vita
Al Fossalto - borgone costruito dai giovani del paese - in primo piano Enzo Casolini inizio anni ‘60
Ballo d’estate presso Rocolo pineta di Salci - anni ‘60
Bambini in Piazza Crescenzi - anni ‘50
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Fernando con il suo motorino Piazza Bonelli - inizio anni ‘60
Trebbiatrice in un’aia sotto il paese - inizio anni ‘60
Gruppo di paesani davanti al Castello - inizio anni ‘60 126
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Famiglia Casolini Il ragazzo è Domenico Casolini, padre di Enzo Casolini La donna è Maria Ghezzi, madre di Domenico e nonna di Simonetta Brillo e di Enzo Casolini In braccio a Maria Ghezzi è Dorotea Casolini, madre di Simonetta e zia di Enzo
Remo Mugnari - Cresima - foto con pannello sfondo Luciano, Laura e il piccolo Roberto - ultimo nato a Salci - Piazza Crescenzi 1965 127
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Matrimonio Emilia Bracchetti e Domenico Casolini genitori di Enzo Casolini - Salci 1937
Giro giro tondo casca il mondo casca la terra tutti giĂš per terra - Castello - anni ‘50
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allegati - Dall’archivio personale di Enzo Casolini, nato nel 1945 Documenti ritrovati in un baule, proveniente dalla casa di Salci, dove erano conservati i certificati del bisnonno di Enzo, Pio Carbonari - Dall’archivio personale di Massimo Neri, nato nel 1970 Documento: “Lavoratori! Cittadini!”
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Dall’archivio personale di Massimo Neri, nato nel 1970
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ELENCO TESTIMONI e RICERCATORI Testimoni: Laura Marchini pag. 9, 45 Giovanna Gattobigio pag. 16 Nazzareno Giuliacci pag. 18 Marcello Marchini pag. 18 Lucia Delle Morracce pag. 19 Patrizia Marchini pag. 20 Giancarlo Parretti pag. 22 Ilda Fiorani pag. 23 Simonetta Brillo pag. 24, 69, 86, 97, 103 Enzo Casolini pag. 31,62 Luigi Neri pag. 34 Mario Giuliacci pag. 36 Antonio Fiorito pag. 40 Remo Mugnari pag. 47 Luciano Festoso pag. 51 Francesco Ceccomoro pag 53 Gianfranco Barbanera pag. 55, 57 Daniele Giuliacci pag. 61 Assuntina Scargiali pag. 65
Mafalda Totino
pag. 97
Ricercatori: Gaetano Fiacconi pag. 65 Francesco Federico Mancini pag. 67 Anna Alberti pag. 67 Maria Assunta Pallottelli pag. 67 Franco Milani pag. 67 Giorgio Garzi pag. 67 Alberto Melelli pag. 67 Allegati: Enzo Casolini pag. 130 Massimo Neri pag. 155 156