ELABORATI DEL CONCORSO DI POESIA E NARRATIVA "SAVERIO MARINELLI" 1° Edizione - Anno 2015 Cesvol Editore
RAGGIO DI SOLE ELABORATI DEL CONCORSO DI POESIA E NARRATIVA “SAVERIO MARINELLI” 1° Edizione - Anno 2015
Cesvol Editore
ISBN: 9788896649466 copertina tratta da un disegno di Saverio durante l’anno scolastico 2005/2006
RINGRAZIAMENTI L’Unitre ringrazia tutti gli autori delle opere perché hanno reso possibile la realizzazione della presente antologia; senza i loro scritti, naturalmente, non si sarebbe potuta realizzare. Un sentito ringraziamento va alla Regione dell’Umbria, all’ Amministrazione Comunale e all’Associazione Turistica Pro Loco di San Venanzo per la collaborazione ed il sostegno economico dato al Concorso di poesia e narrativa “Saverio Marinelli”. Si ringrazia, ancora una volta, l’Amministrazione Comunale, nella persona del Sindaco, sig. Marsilio Marinelli, del vicesindaco, Stefano Posti e dell’ assessore alla cultura, Samuele Codetti, che, sensibili alla promozione della cultura in tutte le sue espressioni, hanno sovvenzionato la pubblicazione del libro. Un ringraziamento va, poi, alla Commissione esaminatrice (prof.ssa Giuditta Forasiepi, prof.ssa Deanna Mannaioli, Prof. Giancarlo Busti, Agnese Vescovo), che si è resa disponibile dedicando gran parte del proprio tempo alla selezione delle poesie e dei racconti. Si ringrazia inoltre: la professoressa Rosalba Maria Farnesi che ci ha elargito gratuitamente e gentilmente con tanto entusiasmo 8 premi per i vincitori; 3
la Pro Loco che ha offerto anch’essa altri 8 premi per i vincitori; la signora Floriana Spaccini che ha decorato i piatti di ceramica dei primi premi con tanta cura e delicatezza, mettendo in rilievo il disegno di Saverio. Si ringrazia in particolare il carissimo Presidente Nazionale dell’ Unitre, prof. Gustavo Cuccini, che ha diffuso in tutte le Unitre d’ Italia il bando del Concorso e lo si deve al suo gentile invito se hanno partecipato molte persone di varie parti d’ Italia. Si ringrazia, infine, il CESVOL di Perugia che ha curato la pubblicazione del libro con tanta creatività e fantasia……
4
I libri sono i migliori amici. Essi non ti abbandonano mai. Tu sicuramente li abbandoni, di tanto in tanto. Loro, nel più completo silenzio e con immensa umiltà, ti aspettano sullo scaffale. (Emily Dickinson)
ELABORATI DEL CONCORSO DI POESIA E NARRATIVA “SAVERIO MARINELLI”
1° EDIZIONE -
5
ANNO 2015
Prefazione “Raggio di Sole”: con questo libro l’Unitre di San Venanzo ha incorniciato il grande successo del concorso di Poesia e Narrativa “Saverio Marinelli” che ha visto la partecipazione di tanti bambini, ragazzi e adulti di tutta Italia, uniti dallo stupendo messaggio “la vita è sempre un dono meraviglioso”. Forte è l’apprezzamento che l’Amministrazione Comunale vuole esprimere per un progetto che promuove amicizia, solidarietà e piacere per la scrittura. Le grandi difficoltà del nostro tempo, dal disagio giovanile, all’egoismo personale, alla solidarietà spesso oscurata da modelli di vita competitivi oltre misura, rendono necessaria la riscoperta dei valori fondamentali della vita e del coraggio di viverla sempre e comunque. L’opera è strumento ideale per apprezzare la gioia di vivere e provare quel sentimento forte di dolcezza e amore che Saverio ci ha donato. Il Vice Sindaco di San Venanzo Stefano Posti
7
INTRODUZIONE La presente Antologia “Raggio di sole” comprende tutte le opere degli autori che hanno partecipato alla prima edizione del Concorso di poesia e narrativa “Saverio Marinelli” cosicché chi vorrà acquistarla potrà avere un ricordo duraturo della propria opera e farla conoscere ai propri parenti ed amici. Il titolo del libro è tratto dalla poesia “Raggio di sole” della classe V della Scuola di Fabro (Terni) vincitrice del primo premio. Come un raggio di sole ha dato la gioia di vivere a Saverio, così le poesie e i racconti raccolti in questa antologia sono come un raggio di sole che dissolvono le tenebre e il buio della nostra vita, suscitando belle emozioni e dando gioia e speranza. Il risultato delle adesioni al Concorso è stato davvero sorprendente, oltre ogni aspettativa: sono giunti 202 elaborati, tra poesie e racconti provenienti da varie città d’Italia. L’Unitre ringrazia calorosamente il nuovo Presidente Nazionale dell’Unitre, Prof. Gustavo Cuccini, per aver divulgato il bando del Concorso a tutte le Unitre d’Italia. Sono diversi anni che l’Unitre di San Venanzo bandisce i concorsi aperti a tutte le categorie. Quest’anno ha voluto cambiare volto al concorso e dedicarlo a Saverio Marinelli, un ragazzo del nostro paese scomparso in età giovanile. 8
Il Concorso, nel ricordo di Saverio, è volto a promuovere tra i giovani valori di amicizia, solidarietà, rispetto dell’altro e gioia di vivere sui quali improntare il proprio stile di vita. L’obiettivo è suscitare il piacere della scrittura e della lettura mediante la poesia e il racconto, per vivere emozioni e sentimenti. Saverio Marinelli era un giovane studente di San Venanzo (Terni), volato al cielo il 23 giugno 2014 all’età di 19 anni per una grave malattia genetica. E’ stato il primo ragazzo al mondo a ricevere all’ età di 14 anni il trapianto di un cuore artificiale. Quando si è svegliato dall’ operazione, la prima parola che ha detto è stata: “ce l’ho fatta”. E questa frase, che abbiamo scritto per volere dei genitori sul bando del concorso, dimostra la gioia di vivere di un ragazzo malato, ma pure felice ugualmente, e ciò ci fa riflettere molto. Era, infatti, un ragazzo speciale con un sorriso stupendo, che amava la vita. In una intervista, Saverio ha detto: “Nonostante le mie difficoltà sono felice. La vita è sempre un dono meraviglioso. Mi piace studiare, esco con gli amici, seguo la mia Juve in televisione e ascolto tanto i Coldplay ma anche i Queen”. Saverio lascia a tutti un patrimonio di valori spirituali: forza di volontà, coraggio e soprattutto amore per la vita. Le poesie e i racconti raccolti in questo libro pre9
sentano un’ampia panoramica di argomentazioni: da spaccati di vita quotidiana a sentimenti legati a persone scomparse prematuramente, facendoci riflettere sul vero valore della vita. Nel secolo dell’ apparire anziché dell’essere, le poesie e i racconti sono mezzi indispensabili per imparare a cogliere l’essenza delle cose e per vivere emozioni che appagano l’ animo. I buoni libri arricchiscono le nostre menti. Come il corpo ha bisogno di cibo per vivere, così la mente trae sostentamento dalla lettura. La lettura sviluppa la nostra immaginazione e la capacità di pensare. I libri sono stati i primi mezzi di aggregazione e di diffusione di idee nel tempo e nello spazio ed hanno quindi rappresentato il primo passo verso il progresso. I libri, che oggi stanno perdendo la loro importanza in favore della moderna tecnologia, rappresentano un patrimonio mondiale immenso di cui, tutti noi, dovremmo avere la massima cura. Questa antologia, pertanto, è il modo migliore per raccogliere, diffondere e conservare nel tempo tutte le emozioni che gli autori hanno espresso nei loro elaborati, con l’augurio che seguiranno altre edizioni nei prossimi anni. Il Presidente dell’Unitre di San Venanzo Gina Ubaldini 10
ALLA DERIVA Alla deriva! Un piccolo battello alla deriva! E la notte sta scendendo! Nessuno guiderà un piccolo battello Alla città più vicina? Così marinai dicono - che ieri Proprio mentre il crepuscolo imbruniva Un piccolo battello abbandonò la lotta E gorgogliò giù e giù. Così angeli dicono - che ieri Proprio mentre l’alba rosseggiava Un piccolo battello - stremato dalle raffiche Rialzò l’alberatura - rispiegò le vele E si lanciò - esultante lassù! Emily Dickinson
11
Panorama di San Venanzo
POESIE SCUOLA PRIMARIA La lettura dei buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori del passato che ci danno consigli per vivere bene. Cartesio
13
RAGGIO DI SOLE Se non ci fosse la felicità, il mondo sarebbe una nuvola nera. Ma come accade spesso dopo un temporale, il sole torna a splendere con un raggio e la nuvola nera scompare. Ecco, quel raggio di sole è la felicità tra le nuvole nere della vita. Così un ragazzo ha portato con sé sempre quel raggio, anche nel mezzo di un temporale, e con coraggio ha affrontato il suo viaggio. Il giovane ci ha trasmesso questo messaggio: cercare un raggio di sole, che possa in ogni momento della vita indicarci la strada e il giusto passaggio. Classe V Scuola Primaria di Fabro (Terni) – 1° classificato AWATIF Ad Awatif voglio tanto bene perché in me ha lasciato un seme, un seme pieno d’amore che è cresciuto nel mio cuore. Ora lei è andata via ma per sempre sarà 14
amica mia. Fluturie Pajaziti – Classe V Scuola Primaria di San Venanzo (Terni) 2° classificato IL RITORNO DELLE FARFALLE Vola leggera farfalla vola fresca farfalla vola lucida farfalla unica nell’arcobaleno colorato di primavera. Le tue amiche verranno domani dai prati lontani leali arriveranno seguendo 15
il sentiero delle tue ali. Uscendo all’improvviso tra foglie verdi tra foglie arancioni sull’acqua profumata delle sere, finalmente sui prati verdi di primavera si vedono arrivare le farfalle. Niccolò Baccaille – Riccardo Sciri – Classe IV Scuola Primaria di San Venanzo (Terni) - 3° classificato LE MIE STELLE Il mio cavallino si chiama Spazzolino ma c’è anche un altro che è Morellino. Mi hanno rubato il cuore 16
e per loro provo tanto amore. Quando li vedo galoppare laggiù mi sembrano stelle che brillano lassù. Poi monto in sella e mi sento tanto bella. Mi piace tanto cavalcare che rinuncerei anche a cantare. Io provo così tanta gioia che non conosco mai la noia. Con loro mi piace anche parlare e non faccio altro che chiacchierare. Io devo ancora tanto imparare ma come Elisa voglio diventare. Marta Cavalletti – Classe 1° Scuola Primaria San Venanzo (Terni) Menzione speciale LA MANO E’ UN REGALO Le mani chiuse a forma di pugno possono far male alle persone, se la mano è aperta serve per dare affetto a tutti. 17
La mano quando è chiusa è per cattiveria o per tristezza, la mano aperta serve per abbracciare e per amare. La mano chiusa serve per offendere gli amici, aperta è un dono per aiutare il prossimo Lorenzo Balestro – Benedetta Grotto - – Classe IV Scuola Primaria LA MANO E’ UN AMORE La mano perfetta è un abbraccio, per un amico o per un saggio, la mano aperta è un abbraccio, per amore o per una carezza. Chiusa è una cosa molto dura, aperta è un’amicizia infinita, di tocco come una carezza. La mano chiusa è un pugno per la guerra e la pace, la mano aperta è un fiore rosso come il cuore pieno d’amore. Andrea Cacciamano – Giulia Fattorini – Federico Troianello - Classe IV Scuola Primaria 18
SE IO FOSSI… Se io fossi un uccello volerei da una parte all’altra del mondo. Se io fossi una volpe ruberei ogni amore. Se io fossi un colore disegnerei la gioia. Se io fossi un prato accoglierei l’amicizia. Classe IV Scuola Primaria di San Venanzo (Terni) LA GIOIA DI VIVERE Non importa se l’amore per un amico sia troppo o poco, basta che sia vero. Nei momenti difficili, l’amico vero sarà sempre pronto ad aiutarti. Proprio come Saverio che pur avendo una malattia molto grave, capì il senso dell’amore e dell’amicizia, amava la vita per quello che era e non per come l’avrebbe voluta lui. Questo ragazzo, scomparso troppo presto, 19
messo alla prova dal male non era triste e i suoi diciannove anni li aveva vissuti con il cuore e l’amore per la vita. Tutti dovremmo conoscere la sua storia, perché così giovane ha lasciato un messaggio importante, godere la vita con serenità, anche nei momenti difficili. Questo messaggio spero che per tutti sia chiaro: la vita bisogna goderla a pieno, convivendo anche con la tristezza e la difficoltà, poiché la gioia è un momento di estasi, che poche persone riescono ad avere. Classe V Scuola Primaria di Fabro (Terni) CANE CANE BUFFO Cane cane buffo che sopra la testa hai un ciuffo! Sorride sì lo so abbaia anche un po’! Sei birbante e assordante come un cantante! Ma ricorda sempre lui è cane buffo come un gran puffo! Vuoi giocare? 20
Di sicuro vuole barare… E con un sì lui vuole affermare! Alessandra Farnesi – Chiara Giontella - Classe IV Scuola Primaria LE DOLCEZZE DELL’INVERNO La neve colora la terra. Dentro in casa si sta. I colori freddi vengono avanti. La luce del sole sorge tra le nuvole. Gli alberi indossano uno splendido vestito bianco. I pettirossi cantano allegri. Il paesaggio si sveglia lentamente. Le nuvole ricoprono caute il cielo. La neve è candida e bianca. Il vento fischia contento. Giulia Fattorini – Classe IV Scuola Primaria LA LUNA La luna sale piano piano, è luminosa e il suo splendore illumina la terra, gioca, si nasconde dietro le foglie. La luna nel cielo 21
crea ombre, lega con i fili d’oro le foglie e con la sua luce inventa molte danze. Guarda la luna ti farà sognare. Andrea Madalina Florea - Classe IV Scuola Primaria I SOGNI I sogni sono avventure a volte anche paure ma non bisogna spaventarsi perché c’è sempre dove aggrapparsi. I sogni sono pensieri dove si trovano i guerrieri che ti proteggono e non ti distruggono. I sogni sono bellezze che danno le carezze e sono dolci come una torta di miele dove non mancano le mele. Chiara Giontella - Classe IV Scuola Primaria LA MAMMA La mamma la mattina ci sveglia e sulla terra il sole già veglia è una cosa speciale 22
molto più del carnevale. La mamma è una sorpresa con cui vado a fare la spesa è molto affettuosa e prepara una spremuta succosa La mamma è tutto dove sopra io mi butto e mi fa tante carezze ed anche molte prodezze. Chiara Giontella - Classe IV Scuola Primaria TUTTO TRANNE ME Vedo gli uccelli che giocano a nascondino vedo le farfalle che scoppiano un palloncino vedo tutte le cose, tutto tranne me e queste sono gioiose. Vedo gli scoiattoli giocare a mosca cieca vedo le aquile andare in biblioteca vedo l’allegria tutto tranne me e io sono triste. Vedo….vedo….e vedo e non ascolto neanche col cuore ma penso: “Potrei essere una persona migliore? Chiara Giontella - Classe IV Scuola Primaria
23
IL CAMALEONTE Un animale bello e innocente è il camaleonte. Bello e dipinto di tutti i colori, sembra un bel multicolore, arancione, azzurro, violetto, rosa… sugli alberi si posa per nascondersi da chi lo vuole mangiare. Se il camaleonte astuto si mimetizzerà mai nessuno lo troverà. Giulio Lo Grasso - Aurora Spaccino - Classe IV Scuola Primaria L’AMORE L’amore è un sentimento fortissimo, difficile da spiegare ma possibile da dimostrare: con un bacio, con un abbraccio, con uno sguardo, con un regalo, con un gesto. Ma amare è farlo dal più profondo del cuore. Allora sarà facile rispettarsi, volersi bene, essere gentili. 24
Ma l’amore non viene dal nulla, è una conquista, un traguardo da raggiungere. Martina Minciotti - Classe IV Scuola Primaria L’ AMORE ……. L’amore è un sentimento molto forte; quando lo provi ti viene voglia di volare, quando lo senti ti viene da impazzire. L’amore è quella storia che vogliono tutti, perché l’Amore è per grandi, piccoli e brutti. Per l’ Amore si piange, si ride e si spera, ma un’ unica cosa è vera: l’Amore si vive solo con il cuore. Cristina Marchetti – Classe IV Scuola Primaria LE BELLEZZE DELL’ESTATE Il sole che riscalda i cuori. Le piscine che fanno rispecchiare il sole. Il mare è calmo. I bambini che corrono per i prati. L’allegria che sorge in ogni viso. La scuola che chiude. I girasoli rivolti al cielo per guardare il loro re. Il ciliegio carico di frutti. I panni stesi al sole. 25
Le carote che sbucano dal terreno. L’estate che viene indossata da tutti. Le montagne di gelato sulle vetrine dei bar. Cristina Marchetti - Classe IV Scuola Primaria HO GUARDATO Ho guardato l’orizzonte e ho visto l’ Arcobaleno. Ho guardato l’ orizzonte e ho visto il ciel sereno. Ho guardato il mare e ho visto il suo fondale. Ho guardato il mare e ho visto un piccolo animale. Ho guardato la terra e ho visto un fiore. Ho guardato la terra ho visto l’ Amore. Cristina Marchetti - Classe IV Scuola Primaria Il GATTO Il gatto miagola mansueto un miagolio di amore di tenerezza 26
di dolcezza di tristezza di affetto di fame e di gioia per le persone per gli altri animali e per tutto ciò che li circonda. Smettono di miagolare quando ricevono amore e rispetto. Cristina Marchetti – Giulia Rellini – Classe IV Scuola Primaria SOFFERENZA La sofferenza è un cuore a pezzi: l’orfano, che spera in un giorno in cui una mamma e un papà lo accolgono nella loro vita; un bambino, che ha visto la mamma morire e vive solo col padre in un’altra casa, in un’altra scuola; un povero, 27
che non ce la fa neanche a mangiare e spera che qualcuno lo aiuti; un bullo, che non ha amici, che si crede forte ma che anche lui ha tanta dolcezza nel cuore. Sara Offredi – Classe V Scuola Primaria A SAVERIO… A chi ha sofferto per tutta la vita per colpa di una malattia. A chi sempre un sorriso aveva, la forza e la speranza ardeva. A chi aveva sempre la voglia di stare con gli altri, il suo amore per la vita sbocciava come un campo di fiori. A chi per colpa di una malattia, non ha vissuto il meglio della vita. A chi aveva il sogno di alzarsi da quella sedia a rotelle e camminare … era un gran sognatore. Molti bambini sono malati, ma le loro malattie sono curabili, se sostieni … TELETHON!!! Tommaso Olimpieri – Classe V Scuola Primaria
28
I DELFINI Siam qui a raccontare quel che sui delfini siam andati a imparare, son mammiferi acquatici, giocherelloni allegri e simpatici, son sempre sorridenti e san fare cose sorprendenti: tuffi in acqua e capriole e queste non son le sole! Vivon felici in mezzo al mare e si diverton a nuotare, di pesciolini sono ghiotti ne mangerebbero a botti, la loro impronta digitale è la loro pinna dorsale. Alla fine di una cosa siam sicuri sono amici dolci e puri. Edoardo Pasquini - Morad Sadraoui - Classe IV Scuola Primaria LE RONDINI Le rondini volano lievi come farfalle nel cielo blu fondo, un ballo rosso arancione 29
verde azzurro bianco granata giallo violetto; nel cielo, nell’erba, nel nulla, sempre allineate. In fila, ora sono andate via. Eduard Josif Augustim Popovici- Classe IV Scuola Primaria PRIMAVERA Una giornata di primavera vidi un’ape tutta nera. Avevo paura, non era gialla di tintura. Sembrava pericolosa e si posò su una rosa. La rosa si spezzò e l’ape via volò. Alessandra Romano – Classe V Scuola Primaria
30
SENTIMENTI Sono un bambino un po’ timidino ma sono affettuoso e anche rispettoso. Mi piace studiare ma preferisco giocare. Quando guardo il televisore provo tanto dolore nel vedere i bambini come me, che invece di giocare pensano già a sparare. Ma la cosa brutta, penso io, è che si fa la guerra in nome di Dio. Perché non possiamo essere liberi di amarlo senza aver paura di farlo? Raffaele Rossetti – Classe V Scuola Primaria RAFFAELE Il mio amico è molto fedele, il suo nome è Raffaele. Giocando a basket lui si diverte e non si abbatte neppure se perde; è un bravo scolaretto e suona anche il clarinetto. E’ un bambino assai sincero e gli voglio bene davvero. Andrea Spaccino – Classe V Scuola Primaria 31
TOMMY Io ho un amico speciale che è molto gentile, aiuta nei compiti tutta la gente perché è molto intelligente. Non è mai fanatico ma molto simpatico. Ti voglio bene Tommy. Matteo Todini – Classe V Scuola Primaria
32
RACCONTI SCUOLA PRIMARIA “Basta guardarsi attorno e nascono i racconti” Massimo Troisi
33
VIAGGIO NEL TEMPO -Presto, sbrigati e ricordati di prendere il disintegratore- urlò Mike a Scott. -Ehi, datti una calmata, abbiamo ancora molto tempo per agire- rispose Scott. Invece sì, Mike e Scott sono stati scelti per un’importante missione, viaggiare nel tempo per evitare la catastrofe che l’indomani avrebbe distrutto l’umanità. -Andiamo!- disse Mike molto scocciato. -Dove, nel passato o nel futuro?- chiese l’amico stufo del comportamento del compagno. -Nel passato, dobbiamo vedere cosa sta per distruggere la Terra, ovviamente- ribatté Mike. -Ah già, scusa- disse Scott cominciando a capire. -Come si fa a viaggiare nel tempo?- chiese sempre Scott all’amico. <<Questo è un replicante che non capisce>> pensò Mike. -Con il teletrasporto, oltre a portarci in un altro luogo ci accompagnerà anche in un altro tempo- rispose una seconda volta Mike, evitando di scaldarsi troppo nei confronti dell’altro ragazzo. -Va bene, ma io avrei bisogno di mangiare- si apprestò a dire Scott. -No, al massimo ti porterai via un panino, dobbiamo salvare la Terra- disse Mike spegnendo l’entusiasmo del suo amico. -Allora partiamo!- urlò Scott senza perdere l’entu34
siasmo che il compagno aveva cercato di spegnere. I due amici si diressero verso il teletrasporto, entrarono e partirono per un passato non tanto lontano, in una galassia sperduta nel Cosmo, lontani sia nel luogo, sia nel tempo. Arrivarono e scesero su un pianeta piccolo, roccioso, di un colore verdognolo, pieno di piccoli vulcani che sputavano fumo e in certi casi fuoco. -E’ fantastico questo luogo e poi avendo la pancia piena è ancora più bello, ci verrei in vacanza!- esclamò Scott -Sì, ma per venirci in vacanza dobbiamo salvare la Terra- disse Mike spegnendo per l’ennesima volta l’entusiasmo dell’amico. -Ma dai, stiamo qui una settimana e poi torniamo sulla Terra- borbottò stupidamente Scott. -Sì, ma se rimaniamo qui senza fare niente, la Terra verrà distrutta!- esclamò Mike scioccato dalla stupidità del compagno. -Non è così grave se noi ci troviamo qui- spiegò Scott. - Se non facciamo qualcosa, tutte le persone, quasi sette miliardi, verranno uccise e… saresti contento!?- esclamò Mike quasi all’esasperazione. -Ah, già- sussurrò tra sé Scott. I ragazzi si girarono e rimasero stupiti da quello che stavano vedendo: la cosa che stava per distruggere la Terra. -Sarà quel “coso” la causa della distruzione che av35
verrà ormai tra meno di un giorno- intuì Scott che per la prima volta capiva cosa stava per succedere. -Quel “coso” è un meteorite- disse Mike rimproverando ancora il suo amico nonostante la giusta intuizione. Il meteorite aveva un colore rosso fuoco, attaccato ad una catapulta grande quasi quanto la metà del piccolo pianeta, sembrava molto potente, forse è per questo che esso arrivava ad una velocità molto alta, evidentemente l’assassino della Terra oltre ad aver infiammato il meteorite con i vulcani aveva, sul suo pianeta, una tecnologia molto più evoluta per costruire una catapulta del genere. Mentre Mike e Scott si guardavano intorno, mancavano venti ore alla catastrofe, e si chiedevano dove fosse il creatore del meteorite e quindi della catastrofe. Ad un certo punto uscì da sotto la catapulta, dove i due amici non potevano vedere, una figura strana che assomigliava ad un… mostro-alieno! Quel mostro-alieno aveva delle antenne che sembravano spiccare il volo, due occhi grandi quanto la metà della sua buffa faccia a forma di goccia in cui sporgeva un naso lungo ed una bocca molto piccola. La sua corporatura massiccia lo faceva sembrare una roccia, ma la sua statura un tappo. Questo corpo molto strano vestiva un abito spaziale bianco con un bottone che gli permetteva di respirare nelle atmosfere come quella terrestre. 36
Il piccolo alieno aveva anche molte armi: un fucile stellare che sparava stelle che stordivano, una bomba carica di una sostanza che creava lentezza, una spada che scagliata addormentava per un po’ di minuti e un disintegratore che poteva distruggere ogni materiale creato nello spazio. -Come fa a tenere tutto quel peso?- chiese Scott a Mike. -Non hai visto la sua corporatura?- ribatté con un’altra domanda l’amico. -Si, hai ragione un’altra volta come sempre d’altronde- disse Scott un po’ invidioso dell’intelligenza dell’amico. -Finalmente hai capito- replicò sempre Mike vantandosi. Il meteorite fu lanciato durante la discussione e lì i due avevano poco tempo per agire. Mike e Scott andarono all’opera cercando di fermare il piccolo mostro-alieno che svantaggiato e in inferiorità numerica scappò, in un lontano futuro. Gli amici rientrarono nel teletrasporto e viaggiarono nel tempo, ma non nel luogo. Arrivarono quando mancavano circa dodici ore. -Ehi, ma mancano dodici ore per noi,… ma quando stavamo nel passato, e quindi per il nostro tempo mancano...quattro ore, abbiamo sbagliato i calcoli! - esclamò quasi urlando Mike. -Presto troviamo l’alieno e distruggiamogli il medaglione- disse sempre Mike. 37
-Il medaglione?- chiese Scott all’amico. -Sì, il medaglione, il mostro-alieno ne ha uno che controlla il meteorite, se lo distruggiamo, lo fermeremo- spiegò il più intelligente. -Sì, ma prima che entri nell’atmosfera- ribatté Scott. -Perché?- chiese stranamente l’amico. -Se il meteorite è già dentro l’atmosfera quando lo fermiamo, cadrà sulla Terra ad una velocità ancora più elevata- spiegò Scott. -Non ci avevo pensato, hai ragione, quindi non quattro ore, ma calcolando… circa due ore e mezza, sbrighiamoci- disse Mike. -Ma come facciamo a trovare l’alieno?- chiese il compagno. -Proviamo con il teletrasporto, faremo prima- spiegò sempre Mike. Salirono su di esso e si spostarono circa cinque volte, prima di trovare il mostro-alieno. Quando lo trovarono, non se lo fecero sfuggire, lo bloccarono e gli presero il medaglione, ma non gli tolsero le armi e il piccolo alieno riuscì a scagliare la spada e ad addormentarli. Quando si svegliarono mancavano solo due ore alla distruzione dell’umanità e i due nonostante aver dormito erano molto stanchi, perché si trovavano sullo spazio da quasi un giorno e non si erano mai potuti riposare. Ma non persero la lucidità, si capiva che erano eroi. Lo cercarono in ogni tempo e luogo, ad un’ora dalla 38
catastrofe, dopo aver girato tutti i mondi. Lo trovarono per la terza volta, in un futuro ancora più lontano, circa tremila anni dopo il loro tempo. -Possiamo vedere se la Terra esiste ancora, così sapremo se abbiamo salvato la Terra- propose Scott. -No, ho troppa paura a scoprirlo- rispose Mike con un po’ di fifa. -Ti capisco, qui c’è in gioco il destino del nostro pianeta, la Terra, che bello viverci- disse poeticamente Scott. -Sì, ma questo tra un’ora non esisterà più se non facciamo qualcosa- rispose il compagno mentre gli scendeva una lacrima amara dall’occhio. -Dai che ce la faremo, la nostra amicizia trionferà, vero?- chiese sicuro Scott. -Sì!!!- esclamò Mike asciugandosi la lacrima. -Chi siamo noi?- chiese l’amico -Gli eroi della Terra!- rispose il più triste, ma il più forte. -Benissimo, andiamo, il mostro-alieno è lì- borbottò Scott. Loro si diressero verso il piccolo mostro, gli presero il medaglione e lo distrussero a circa dieci minuti dall’entrata del meteorite nell’atmosfera. I due, però, non fecero del male al piccolo alieno che si scusò per aver causato dei guai e aver rischiato di uccidere moltissime persone, ma non spiegò perché l’avesse fatto, comunque l’importante è che la Terra fosse salva e fuori pericolo. 39
Il mostro-alieno chiese di poter tornare con loro sulla Terra e di diventare il loro animale domestico, promettendo di non creare più guai. La soddisfazione più grande era soprattutto quella di Mike perché aveva salvato la terra, possedeva un nuovo amico, aveva Scott, l’amico di sempre un po’ maldestro, gli aveva dato la forza di continuare, che senza di lui la Terra non si sarebbe salvata e loro non sarebbero dove sono adesso. Tommaso Tisei – Classe V Scuola Primaria – 1° classificato FAMIGLIA Quando penso alla mia vita capisco di essere una ragazzina molto fortunata. Io ho, infatti, la cosa più preziosa che esista al mondo: una famiglia unita che, per me, vale più di centomila diamanti. Grazie ai miei familiari io mi sento amata, protetta e al sicuro da ogni male. Sulla mamma, papà e mia sorella posso sempre contare, condividere ogni gioia e ogni sofferenza. La mia vita cambierà, i problemi aumenteranno ma io avrò sempre una spalla sicura su cui fare affidamento. Mi dispiace per chi non ha una famiglia così perché non ha la possibilità di provare un sentimento così grande come il sentirsi amati davvero. Alla mia famiglia devo tutto quello che sono: mi ha trasmesso l’amore per gli animali e la natura. 40
Io amo i miei cani che sono una parte del mio mondo e non riesco a capire come si fa a maltrattare gli animali, esseri viventi che sono più affettuosi e sensibili delle persone. Mi ha trasmesso l’amore per i miei parenti, che non ci sono più e che io non ho neanche conosciuto, e per tutto quello che hanno fatto per noi. La mia famiglia è la fonte di quei sentimenti che mi caratterizzano, che sono parte di me, che sono me. Non posso pensare che a qualcuno dei miei familiari succeda qualcosa perché sarebbe come se io stessa morissi. Giada Rossetti – Classe V Scuola Primaria - 2° classificato AMICIZIA Matilde ora era triste, odiava tutti e rispondeva in modo scontroso. Sentiva che la sua vita era a pezzi, pur avendo soltanto dodici anni. Eppure era stata sempre affettuosa e gentile anche con chi non conosceva, solare e sorridente. Ora però aveva capito che le sue amiche, con cui si sentiva tanto legata, in realtà non le volevano bene e lei si sentiva sola, profondamente sola. Si sentiva tradita da quel loro modo di fare, indifferente ai suoi sentimenti. Per lei era come aver perso il cuore e, senza cuore, non si vive. Piano piano rinunciò a tutto ciò in cui aveva sempre creduto. Non voleva andare più a scuola, nè fare 41
quello sport che le piaceva tanto. Voleva solo chiudersi in camera sua e stare lì, tutta sola con il suo caro diario, l’unico a cui poteva confidare tutto di sé, tutte le sue profonde emozioni, senza che lui la tradisse mai. Infatti lui non parlava, lui non le rispondeva, lui non provava emozioni. Un giorno le sue amiche bussarono alla sua porta. Erano preoccupate perché non la vedevano più da un po’ di tempo. Lei era uscita con il padre, che cercava in ogni modo di distrarla. La madre le fece accomodare nella camera di lei e videro il diario di Matilde. Decisero di leggerlo, per capire meglio cosa stesse succedendo alla loro amica e si resero conto di essere loro la causa di tutto quel dolore. Capirono che le vere amiche non sono false ma sempre sincere, non girano le spalle ma ti cercano e ti coinvolgono. Al ritorno di Lucrezia non dissero una parola ma la abbracciarono piangendo. Avevano capito ciò che lei provava e ciò che loro avevano fatto. Da allora non si lasciarono mai più. Ludovica Mazzocchini - Classe V Scuola Primaria - 3° classificato I BAMBINI VIZIATI C’ erano una volta due bambini viziati e tristi, che si chiamavano Luca e Marco. Loro dicevano di avere ogni cosa e non avevano bisogno di uscire all’aperto. La loro domestica, mamma di un bambino di nome 42
Saverio, doveva far loro il bucato, ma proprio quel giorno era malata e non poteva recarsi alla loro casa. Allora chiese a suo figlio Saverio di andarci. Lui ubbidì, si recò da loro e fece amicizia. Saverio chiese a Luca e Marco se volessero uscire all’aperto, ma loro gli risposero di no. Anzi gli ribatterono: “Qui abbiamo tutto”! Saverio per convincerli, gli rispose che fuori potevano correre, saltare e stare a contatto con la natura; ma i bambini aggiunsero che il sole faceva loro male e poi che fuori c’erano un sacco di pericoli. Saverio tornò a casa, ma non si arrese e studiò un modo per convincerli ad uscire e far loro scoprire la gioia e la felicità della vita. Così decise di nascondere, dentro la cesta del bucato, alcune foto del paesaggio e arrivato dai bambini gliele fece vedere. Incuriositi, Luca e Marco, si convinsero ad uscire e dissero: “Sai questo posto non è male”! Saverio contento aggiunse: “Questo è niente, via venite”! I bambini andarono camminando, ma Saverio disse loro che dovevano correre per sentire com’era bello avere l’aria sul viso. All’inizio i bambini si lamentarono, ma poi corsero e il loro broncio e la loro tristezza svanì. Saverio vide una luce in loro e i due bambini aprirono le braccia, sorrisero dicendo che non sarebbero più stati tristi e che sarebbero usciti sempre. Luca e Marco ringraziarono Saverio e dissero: “Ora nel nostro cuore sentiamo un calore magnifico. Gra43
zie, grazie di tutto”. Saverio contento tornò a casa e pensò che ora quei bambini sapevano che la vita è bella e bisogna viverla aprendosi al mondo con gioia. Classe V – Scuola Primaria di Fabro (Terni) ME LO RIPRENDO Tutto cominciò di martedì pomeriggio, quando Elisabeth andò al parco con il suo fidanzato Giulio. Mentre passeggiavano, incontrarono Filippo, uno di quegli amici che non vedevano più da tanto tempo. Dopo saluti e abbracci, Filippo li invitò ad una festicciola, per quella stessa sera, al pub in via Giuseppe Garibaldi. Quel pub non aveva una buona nomina ma decisero di andarci, per rincontrare i vecchi compagni. Quando arrivarono, videro subito ciò che si immaginavano. Si trovarono circondati da alcool e cocaina. Erano tutti ubriachi fradici e tra di loro c’era anche Francesca, una tipetta che era stata sempre innamorata di Giulio. Giulio iniziò a bere qualcosa e anche Elisabeth lo fece perché non voleva essere da meno di Francesca. Alla fine della serata, quando presero la macchina per tornare a casa, erano anche loro ubriachi. Un paio d’ore dopo, la T.V. dava la notizia di un grave incidente sulla A1. Elisabeth non ce la fece mentre Giulio, dopo vari in44
terventi, si salvò. Francesca tornò all’attacco con Giulio. Con la scusa di consolarlo gli stava sempre addosso fino a che i due si misero insieme. Ma non sapevano che c’era qualcuno che li teneva d’occhio. Elisabeth, nell’aldilà, non trovava pace perché il suo amore per Giulio non poteva finire con la morte. Così, una notte tornò a far visita a Giulio. Lo prese, lo sollevò dal letto in cui dormiva e se lo portò nell’oltretomba, tenendolo con sé per tutta l’eternità. Lucrezia Listanti - Classe V Scuola Primaria IL PIRATA BARBAROSSA C’era una volta il pirata Barbarossa, che navigava per i sette mari. Era brutto, con la sua barba rossa, e aveva una nave nera come il cielo durante una tempesta. Nessuno lo aveva mai visto d’avvero ma tutti sapevano che era cattivo e avevano tanta paura di incontrarlo. Un giorno io l’ho incontrato: non era tanto brutto, la nave non era tanto nera e mi ha aiutato a trovare la giusta rotta. Ho capito che non bisogna fidarsi delle chiacchiere della gente. Jon Costantin Marcus - Classe V Scuola Primaria
45
SEI GRANDE NONNO Il venticinque giugno sono entrati i ladri a casa di mio nonno e lì c’ero anch’io. Vado spesso dai miei nonni e, qualche volta, mi fermo anche a dormire da loro. Quella sera, dopo aver cenato, mi fermai. Andammo a letto tardi, perché ci piaceva guardare la televisione tutti insieme. Appena mi misi a letto, sentii un grande botto provenire dal piano di sotto. Pensai che fosse lo zio. Lui fa il fornaio e parte verso mezzanotte per andare a lavorare ma è sempre molto silenzioso. Così mi sentii un brivido di paura e decisi di andare a dormire nel lettone dei nonni. Quando entrai in camera loro, il nonno era in piedi. Anche lui aveva sentito quel rumore forte. Mi disse che lo zio era già partito e che sicuramente c’erano i ladri. Io mi infilai nel loro letto, la nonna chiamò i carabinieri con il cellulare e il nonno decise di scendere a vedere cosa stesse succedendo. Ma qui lui è stato proprio forte. Non accese la luce ma prese un accendino e diede fuoco ad un pezzo di carta per vedere. Non andò in cucina ma in garage e accese il trattore per spaventare i ladri. I ladri ebbero paura e uscirono di casa, corsero alla macchina e partirono. La cosa forte è che la macchina gli si impantanò perché aveva piovuto tanto. Così non riuscirono a fuggire perché arrivarono i carabinieri che li arrestarono. Si può proprio dire che il nonno è stato il nostro salvatore. Sei grande nonno! Andrea Pasquini - Classe V Scuola Primaria 46
TIGRI DEL BENGALA IN 3D Il 23 aprile del 1972 l’avventuroso Jonas di New York partì alla volta dell’India, con il suo idrovolante, per incontrare e osservare da vicino le famose tigri del Bengala. Da sempre aveva questo sogno perché questi animali sono a rischio di estinzione a causa della caccia sfrenata degli agricoltori e allevatori del luogo e lui voleva vederli liberi e felici nel loro habitat naturale. Atterrò, dopo numerosi giorni di viaggio e varie soste, nell’immenso delta del fiume Gange, immerso nella più grande foresta di mangrovie del mondo. Iniziò qui la sua grande avventura a contatto con la natura selvaggia. Armato di coltello, incominciò ad addentrarsi nella giungla, tagliando i rami per poter passare. Dopo aver trovato un’altura, costruì un riparo per la notte e accese un fuoco per tenere lontani gli animali selvaggi. Non aveva portato con sé una grande attrezzatura perché voleva rispettare la natura. Così, per poter mangiare, affilò un bastone e lo usò come lancia per pescare. Era la sua prima esperienza e incominciò a capire che la sua impresa era più difficile del previsto. Riuscì comunque a prendere qualcosa e, dopo aver mangiato, si addormentò. La mattina seguente, infatti, mentre Jonas si preparava a entrare ancora di più nella giungla, un esemplare di tigre gli si presentò a distanza ravvicinata. Era un enorme bestione, con un manto striato arancione e nero che sembrava risplendere, un muso enorme 47
e gli occhi di un marrone quasi arancio. Finalmente stava realizzando il sogno di una vita: vedere le tigri in 3D allo stato naturale. Non aveva paura ma era estasiato da tanta bellezza e potenza. La tigre sembrava aver capito il suo profondo rispetto. Lo guardò per un po’ e poi si allontanò in silenzio, così come era venuta. Jonas aveva finalmente provato quel brivido che cercava da anni. Se ne tornò a casa, pieno di un grande sentimento di rispetto per la potenza e la bellezza della natura. Nicolò Pasquini - Classe V Scuola Primaria LA PANCHINA In una calda mattina d’estate Lucrezia passeggiava sotto il sole. Risplendeva come un diamante: gli occhi erano di un blu più intenso delle acque. Si sedette su una panchina. Un bel ragazzo la notò e si sedette vicino a lei. Lucrezia sentì il suo cuore palpitare forte e, senza sapere il perché, scappò via. Da quel giorno non fece altro che pensare a quell’incontro. Anche il ragazzo non riuscì a dimenticarsi di lei e organizzò una festa per rivederla. Invitò tutti gli studenti della scuola, perché era certo che c’era anche lei in quell’istituto, anche se non l’aveva mai vista. Infatti frequentava la terza effe. Emozionata da quell’invito scelse un vestito da favola, rosa e pieno di cristalli. Quando andò alla festa, lui la notò subito e le chiese di ballare. Ballarono tutta la sera. Da allora non si 48
separarono mai più. Il loro amore durò tutta la vita. Benedetta Posti –Classe V Scuola Primaria MIA MADRE Mia madre sa cosa significa la morte perché l’ha vista da vicino più di una volta. Quando aveva otto anni le è capitata la prima esperienza terribile. Lei andava spesso a trovare un suo amico diversamente abile, che aveva un cane con cui giocava sempre. Un giorno però il cane l’attaccò, forse perché l’aveva vista all’improvviso e non l’aveva riconosciuta. Fortunatamente i proprietari furono pronti e subito corsero in suo aiuto, togliendole il cane di dosso. Ma ebbe comunque gravi ferite alla testa e un orecchio staccato. All’età di venticinque anni ebbe una malattia improvvisa. Una notte le si gonfiò enormemente un orecchio, da cui fuoriusciva del liquido, e fu ricoverata d’urgenza con la febbre altissima. Era un’infezione molto grave da stafilococco, streptococco ed eterococco. I medici non diedero molte speranze ai miei nonni ma gli antibiotici funzionarono e se la cavò anche questa volta. Queste esperienze hanno fatto di lei una donna molto forte di fronte ai problemi e capace di amare la vita. Mi ricorda spesso questi fatti che lei ha vissuto per farmi capire che la vita va amata e che non bisogna mai fare le tragedie per le cose sciocche, perché 49
non saranno mai gravi e irrisolvibili come la morte. Azzurra Rossetti - Classe V Scuola Primaria TORNARE A SORRIDERE Un bambino di nome Jack aveva un nonno che era molto malato. Inizialmente Jack non si rendeva conto della gravità della situazione, anche se vedeva che il nonno peggiorava sempre di più. I muscoli diventavano sempre più lenti e fiacchi tanto che, presto, non riuscì più neanche a masticare. Il nonno arrivò a nutrirsi grazie a delle macchine collegate direttamente alla pancia. Jack però non pensava che il nonno soffrisse tanto, non credeva che potesse morire, che un giorno non ci sarebbe stato più. Quel giorno però arrivò e Jack sentì addosso tutto il dolore del mondo. Iniziò a comprendere quanto il nonno avesse sofferto e ora gli mancava tanto. Adesso era Jack che piangeva, pensando che avrebbe potuto essergli stato più vicino. Un giorno d’inverno, mentre l’aria era gelida e faceva molto freddo, Jack sentì sul viso il calore di un raggio di sole. Quel calore riportò la mente del bambino a suo nonno, ma in un modo diverso. Quel raggio gli sembrò essere una carezza, un abbraccio di qualcuno che voleva rassicurarlo dicendogli che stava bene; quel raggiò gli sembrò la voce del nonno che gli diceva che ora era libero da quella malattia che lo aveva ingabbiato per anni; era finalmente 50
sano, felice e per sempre vicino a suo nipote. Jack guardò il cielo e tornò a sorridere. Filippo Sarnei - Classe V Scuola Primaria UN AMICO MOLTO SPECIALE Un bambino bravo, intelligente e tanto dolce. Questo è il mio grande amico Matty. Ha tanti grandi pregi, dunque, e un solo piccolo difetto: si stanca presto nel fare le cose. Per fortuna non si è mai stancato di me e ciò che provo per lui è tanto, tanto affetto e amicizia. Gli voglio bene e mi piace aiutarlo nei compiti e vorrei farlo in tutti i momenti della sua vita. Per me è una persona speciale. Ti voglio bene Matty. Tommaso Tisei – Classe V Scuola Primaria
51
POESIE SCUOLA SECONDARIA DI 1° GRADO “La poesia è il segreto dell’ anima” Gibran Khalil
Polo scolastico dell’Istituto Comprensivo di San Venanzo 52
LA SOLITUDINE La Solitudine, un silenzio che ci chiude dentro noi stessi, un’inquietudine, la paura di sentirsi estromessi, una moltitudine di pensieri complessi. La Speranza di un aiuto che arrivar non vuole, e ne resto molto dispiaciuto. Il mio cuore se ne duole, ne rimango, ne rimango sempre più deluso, per essermi tanto illuso. La Solitudine è questo per me, un altro significato non ce n’è. Chiara Romano – Terza media – San Venanzo (Terni) 1° Classificato SE TU Se tu sei il fuoco io sono l’acqua, pronto a spegnerti. Se tu sei una stella io sono la luna, pronto a coprire la tua luce. Se tu sei quello che cercavo 53
allora non voglio cercarti più. Se tu mi hai ignorato dopo tutto quello che abbiamo passato ti cancello dalla mia memoria come una gomma su una scritta a matita. Simone Offredi – Terza media - San Venanzo (Terni) 2° Classificato AMICA MIA La mia amica è come una sorella, una sorella mai avuta, ma che c’è sempre stata. La mia amica è come una stella, che a volte non si vede, ma che sempre brilla. La mia amica è una ragazza che adorano tutti, bella, intelligente, una persona che io adoro più di tutti. Stefany Ceci - Terza media - San Venanzo (Terni) 3° Classificato
54
INNO ALLA VITA Giovani, amate la vita! Vivere è una cosa molto bella anche se non facile. Un cuore che batte è simbolo della vita, ma noi giovani non dobbiamo sprecarla. Sta a noi viverla, anche nelle sofferenze nelle delusioni nelle difficoltà…. Non dobbiamo permettere ai problemi di comandarci, dobbiamo gustare il dono che Dio ci ha dato: la vita! Impariamo a vivere e a vivere con gli altri. Insieme il mondo non conoscerà distruzione e morte. Insieme si possono superare divisioni, lotte, guerre: e questo è il mio sogno. Nouhaila Assadi - Terza media LIFE Vivere per me è amicizia vivere per me è amare e, se vivi quello che Dio ti ha dato con gli amici, la vita ti sorriderà. 55
La vita è una magia, una magia piena di colori, luci, suoni e tante sorprese. Gli amici possono trasformare una vita qualsiasi in una vita speciale da condividere con tutte le persone che ti vogliono bene. Giulia Bernacchia - Seconda media IL MOBILE NELL’ IMMOBILE Il vivente crede che tutto sia mobile, che il vento soffi, che l’acqua scorra, che la terra giri intorno al sole. Il non vivente, invece, è immobile: il vento soffia ma è fermo; l’acqua scorre ma non si muove; la terra gira ma resta amorfa. È questa staticità che rende il non vivente integro, saldo, 56
perché non perde niente di sé e rimane un tutt’uno con il mondo, con l’universo e con se stesso. Caterina Manzaroli – Terza media LA MIA VITA Quello che mi stupisce della vita è che dà origine a migliaia di vite senza nemmeno accorgersene. A me la vita ha donato degli amici fantastici, che mi aiutano a superare qualsiasi ostacolo e tutte le paure che ogni giorno ci tormentano. La vita va ringraziata per quello che ci dà e io lo farò sicuramente. Offredi Simone - Terza media
57
RACCONTI SCUOLA SECONDARIA DI 1° GRADO “Il racconto è un giardino dove poter far stare bene il lettore” Andrea Camilleri
58
GRADO SETTE Il grande giorno era arrivato. Il sole splendeva lucente nell’azzurro del cielo limpidissimo. Gli uccellini cinguettavano, i fiori si erano schiusi e non tirava un filo di vento. Sembrava tutto così splendidamente perfetto. Una mattina come tante, ma in realtà non lo era. Era arrivato il giorno che aspettavo da circa un anno: il saggio di danza di fine anno. Mi svegliai qualche ora prima del solito. Dopo che ebbi fatto un’abbondante colazione e i soliti lavaggi di routine, suonò il campanello. Era una delle compagne con cui avrei eseguito lo spettacolo. Anche lei era molto nervosa. Subito controllammo i borsoni: assolutamente non doveva mancare nulla. C’erano il tutù e i body di ogni tipo, le calze, tutte le scarpette, il pettine, la spazzola, la lacca, le forcine, mollette e retine, svariate bottigliette d’acqua (non si sa mai) e uno spuntino. C’era proprio tutto. Poi iniziò la sessione dedicata al “trucco e parrucco”. Mia madre ci truccò e ci pettinò come ci era stato detto dall’insegnante. In fretta e furia partimmo da casa e, dieci minuti dopo, arrivammo a teatro. Spinsi la porta di vetro e superai il tendone rosso. Il cuore mi batteva fortissimo, sentii le gocce di sudore scendere sulla fronte: arrivò quel momento in cui l’emozione e soprattutto la tensione cominciano a salire rapidamente. Feci un respiro profondo ed entrai. Vidi le mie amiche di corso che mi venivano in 59
contro correndo: eravamo tutte quante elettrizzate! Decidemmo di indossare il tutù. Era bellissimo: aveva un corpetto color blu notte con molte paillette cucite, un’ampia gonna con tanti strati, completamente in tulle bianco e, infine, c’erano delle bianche maniche a palloncino, chiuse da un nastro di raso dello stesso colore del corpetto. <<Grado sette!>> gridò la maestra e subito ci precipitammo sul palco per le prime prove della giornata. La musica partì e noi con lei. Eseguimmo il balletto quasi alla perfezione perché, si sa, l’emozione gioca brutti scherzi. Poi andammo al ristorante vicino al teatro per pranzare tutte insieme. Un momento fantastico. Stare insieme, chiacchierare, scherzare e ridere al di fuori dello sport. Successivamente tornammo alle prove, ma questa volta le eseguimmo con più concentrazione. Arrivò il fotografo e iniziammo a provare un balletto dopo l’altro, secondo la scaletta ufficiale dello spettacolo. Iniziarono a volare le prime farfalle nello stomaco. Erano le prove generali! Come si faceva a restare calmi? Le ore passarono e giunse il momento di tornare a casa per un pit-stop e poi di corsa di nuovo al teatro. Stavo tremando dalla testa ai piedi. Arrivando vidi un sacco di gente fuori che aspettava di andarsi a sedere. Mi feci largo tra la folla e entrai. Salii le scale e raggiunsi il camerino. Entrai e vidi le mie compagne che, già vestite del tutù, saltavano e 60
strillavano frasi senza senso in preda all’agitazione. Misi il tutù. Dopo qualche minuto (che parvero ore) sentimmo la maestra presentare. Con una scorciatoia esterna raggiungemmo le quinte del palco. Ecco. Era il momento. Fu una cosa emotivamente indescrivibile. Il palco e le sue assi, il tendone, le quinte, la polvere, le luci, le casse, il pubblico, i boati, gli applausi, e poi il battito che accelera, la tensione che sale fino al colmo, le mani e le gambe che tremano. Poi ancora le occhiate di intesa con le altre, gli sguardi al pubblico, i tanti nomi del Padre, le strette di mano fortissime per farsi coraggio a vicenda e i gran salti in silenzio per cercare di calmarsi. E poi eccola, la musica: partì e noi la seguimmo. I passi, i salti, lo sguardo, gli occhi, i giri, i grand- jetè e poi finalmente la posa finale, gli applausi e l’uscita di scena. Questo è stato il grande giorno, quello che le parole tentano di descrivere ma che, con le parole, descrivibile non è! Ludovica Spaccino - Terza media – San Venanzo (Terni) 1° Classificato ……..SAVERIO PER ME Saverio per me è sempre stato un grande punto di riferimento. Già dai miei primi anni di vita l’ ho sempre stimato. Dal primo momento che l’ho visto è stato subito una persona speciale perché al contrario di 61
tante altre, era un ragazzo dotato di una grande voglia di vivere con un sorriso da donare a tutti. Quando frequentavo le elementari vedevo Saverio uscire da scuola con la carrozzella e a volte Francesco, il fratello, mio coetaneo, si metteva dietro, sopra alla barra di metallo, in gesto di compagnia. Parecchi pomeriggi li vedevo gironzolare per San Venanzo e per tutti, il loro passaggio rappresentava un momento di allegria che riusciva a strappare un sorriso. Il tempo passava ed una sera del 2010 Saverio partì per Roma dove trascorse i tre mesi più difficili della sua vita. Egli, infatti, venne operato al cuore e gli fu impiantato un cuore artificiale. Passò del tempo e, nel periodo post-operatorio, Saverio visse in un sonno profondissimo, ma vicino a lui c’erano sempre Rita e Marsilio, i suoi genitori, che durante questo periodo di grande sofferenza non si sono mai mostrati sfiduciati ma sempre speranzosi e forti; forse anche dal fatto che l’intera nostra Comunità era con loro, sperava e pregava per loro. Una mattina Francesco venne a scuola gioioso e felice esclamando: “Si è svegliato!! Saverio si è svegliato!! Credo che fu quello per me e per tutta la classe uno dei momenti più toccanti e riflessivi mai vissuti, ma credo di poter dire anche per tutto il suo paese, San Venanzo, fu un giorno di gioia. Per questa bella notizia, infatti, eravamo tutti veramente felici. Dopo qualche mese, Saverio uscì dall’ ospedale e tornò a casa e i suoi amici, in suo onore, organiz62
zarono una mega festa. Ovviamente, anche io andai a salutarlo, ma per me, una bambina di sette anni, ricordo che non fu un’ esperienza molto facile. Dopo alcune settimane dal ritorno di Saverio, Francesco mi invitò a casa e trovai suo fratello ancora un po’ debilitato, ma comunque sereno. Ricordo che durante il tempo in cui io e Francesco giocavamo, arrivarono l’affettuosissima zia Anna ed il nonno Emilio, due figure fondamentali per Francesco durante il periodo di ricovero di Saverio all’ ospedale. Ora che Saverio non c’è più continuo a considerarlo come un esempio di vita e della sua breve esistenza molte cose conservo come lezione; su tutte lo spirito di non abbattersi e crollare per le cose inutili ma affrontare con coraggio le prove ostili, speranzosa sempre che dopo un brutto temporale si può tornare ad intravedere il bel sole….. Grazie ancora Sav, conoscerti è stato davvero bellissimo. Chiara Marchetti - Seconda media - San Venanzo (Terni) 2° Classificato IO E L’AMICIZIA Gli amici non sono semplici amici, sono TUTTO: una famiglia, un cuscino su cui sfogarsi, una gomma in grado di cancellare i difetti, sono l’SOS che risponde ad ogni chiamata. Un vero amico riesce a modificare l’altro mostrandogli il suo modo di pen63
sare e di vedere le cose, le sue opinioni e le sue passioni facendolo riflettere sulle sue qualità e i suoi difetti così da cercare di seguire i consigli dell’altro, combattere le sue debolezze e prendere grandi decisioni. Un amico si riconosce quando si ha un problema: tutti se ne vanno mentre lui viene e ti aiuta a superare le più grandi difficoltà, come un angelo silenzioso che aggiusta le tue ali quando non sai più come fare a volare. Gli amici ci fanno riflettere sui nostri errori, perché grazie al loro aiuto, alle loro parole, ai loro pensieri, ci accorgiamo di aver sopravvalutato qualcosa di importante e di aver sbagliato nel giudicare qualcuno o qualcosa e di non esserci mai accorti dell’importanza dell’altro. Gli amici ci sono, tu vai e li trovi e se non li trovi arrivano, anche quando non te ne accorgi sono sempre vicino e ti aiutano a riflettere, a pensare, a sognare. Infatti è proprio questo, secondo me, il significato profondo della parola “amicizia”: comprensione, fiducia, rispetto, profondo affetto. L’amico è il miglior confidente, è la persona di cui ci si può fidare e che non ti tradirebbe mai, ma farebbe l’impossibile per trovare il possibile. Degli amici c’è sempre grande richiesta, ma sono in pochi ad averli e io mi sento fortunatissima, perché ho accanto a me le persone migliori che potessi desiderare, tra cui Alice. E’ speciale per me e penso di non averla mai ringraziata per tutto quello che ogni giorno riesce a trasmettermi, così lo farò nel modo che mi riesce meglio…scrivendo…. 64
Deruta, 13 aprile 2015 Cara Alice, voglio macchiare il foglio con l’inchiostro del mio cuore per farti capire quanto sei importante per me. Non so proprio da dove iniziare per comunicarti quanto tu sia essenziale nella mia vita. Così partirò da quando eravamo piccolissime. Da subito riuscivi a colorare le mie giornate e quando il cielo era tempestato da imponenti e minacciosi nuvoloni noi ce ne stavamo col viso attaccato al vetro della finestra e tra mille risate impedivamo che il più terribile dei temporali rovinasse un intero pomeriggio. Ammetto che di litigi ce ne sono stati, ricordi quante volte i nostri sguardi arrabbiati si sono trasformati in fragorose risate fino a piangere? Beh, io sì e voglio proprio ringraziarti perché ci sei e ci sei sempre stata: come spalla su cui piangere, avvocato, consulente, a volte anche come psicologa, ma soprattutto come amica e per questo non so come poterti ringraziare. Sai Ali, forse questa cosa non te l’ho mai detta, io ammiro il tuo modo di fare, di parlare, di sorridere anche quando è proprio difficile, io ammiro te perché se hai qualcosa da dire non rimani lì a pensarci, ma la dici come solo una vera amica può fare e ti sono grata per quei pomeriggi a parlare e parlare dei nostri difetti, perché solo così siamo riuscite a migliorarci e di certo non mi sarebbe piaciuto che tu non avessi avuto il coraggio di parlarne con me. Di difetti ne hai anche tu, come ad esempio progettare scherzi “malvagi”, 65
in quello hai una vera dote naturale, ma diciamo che lo hai insegnato anche a me. Sai perché siamo migliori amiche? Perché fra tutte ho scelto te e tu hai scelto me? Perché siamo esattamente l’opposto, formiamo una specie di puzzle unico e perché senza di te non sarei completa. E’ questo ciò che più mi piace di te: che sei diversa, unica, perché si sa, tutti nascono originali e poi diventano copie. In fondo io con te ho imparato a sognare…Quanto tempo passato a creare dei film con la nostra fantasia e a “vederli” svolgere nei nostri occhi…Se dovessi trovare una parola per esprimere le tue qualità sarebbe “forte”, perché è questo che sei, riesci a mantenere segreto tutto ciò che ci confessiamo e sei sempre stata dalla mia parte, nel bene e nel male come io lo sono stata con te, è per questo che non vorrei nessun altro al tuo posto, perché nessuno potrebbe donarmi tutto quello che sei riuscita a donarmi tu. Oltre a grazie non so proprio cosa dirti. Parlando di difetti, non vorrei che li eliminassi, perché sono questi a renderti speciale, come ad esempio quando qualcuno ti fa arrabbiare e mi stringi la mano fino a stritolarla e solo dopo esserti sfogata pronunci quello “scusa” drammatico che ci fa sempre ridere. Dici spesso che non vorresti mai separarti da me e che a volte guardando il futuro hai paura che prendendo strade diverse la nostra amicizia verrà cancellata, ma devi sapere che è impossibile cancellare un qualcosa di indelebile. Cara Ali, o come preferisco chiamarti, Lale, sei speciale 66
e adoro tutto di te, anche quando con i tuoi strani scherzi riesci a sconvolgere mezzo mondo, ma non la nostra amicizia. Diciamo che se c’è una cosa che ti riesce bene, oltre gli scherzi, è essere un’amica: stonata, “casinara”, forse anche troppo ordinata, ma un’amica. Parlando della tua mania di mettere tutto in ordine…probabilmente è la caratteristica che mi dà più fastidio di tutte, non importa dove ti trovi o con chi, devi assolutamente far sì che tutto sia precisamente e monotonamente ordinato, infatti quando entri nella mia camera…ne hai da fare! Comunque grazie anche per questo, per tutte le volte che mi hai imposto di non saltare sul tuo letto, perché le coperte potevano formare una “minacciosa” e “odiosa” piega, grazie perché tutte le mattine a scuola sei con me, grazie perché con le tue strane idee sconvolgi i noiosi e soliti appuntamenti e riesci a far mettere d’accordo chiunque per passare un fantastico pomeriggio insieme. Immagino la tua faccia mentre leggerai queste poche righe, a volte felice, a volte simile a quella di un innocente accusato di aver commesso un delitto, dovevi proprio vedere la mia, mentre scrivevo, sto ancora ridendo! Penso di averti ringraziato abbastanza, dovevo proprio farti capire quanta fortuna io abbia avuto ad incontrarti, quanto fortunata sia stata a conoscerti e ad esser diventata tua amica. Ricorda che di nemici è pieno il mondo, ma di amici ce ne sono proprio pochi…Grazie di aver scelto me! Un universo di baci. Tua Ele. 67
Eleonora Boldrini – Seconda media – Deruta (Perugia) 3° Classificato TUTTI HANNO IL DIRITTO DI TUTTO Nel mondo ci sono bambini che non vanno a scuola e devono lavorare; insomma non sono i diritti di un bambino! In un anno c’è una giornata che si chiama GIORNATA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DEI BAMBINI,nella quale si devono ricordare di tutti e 19 diritti dei bambini e si festeggia il 20 Novembre. Ecco alcuni diritti elencati in tale convenzione: OGNI BAMBINO HA I DIRITTI ELENCATI E NON HA IMPORTANZA CHI E’, NE’ CHI SONO I SUOI GENITORI, NON HA IMPORTANZA IL COLORE DELLA PELLE, NE’ IL SESSO, NE’ LA RELIGIONE; NON HA IMPORTANZA CHE LINGUA PARLA, SE E’ DISABILE, NE’ SE E’ UN RICCO O UN POVERO. Un altro, l’articolo 7, dice che: DEVONO AVERE UN NOME E, AL MOMENTO DELLA NASCITA, IL NOME, IL NOME DEI SUOI GENITORI E LA DATA DI NASCITA, DOVREBBERO VENIRE SCRITTI. SI HA IL DIRITTO DI CONOSCERE I PROPRI GENITORI E DI VENIRE DA LORO ACCUDITO. Ce ne stanno altri ma secondo me quello piu’ importante e’ questo: NESSUNO DEVE FARGLI DEL MALE, IN NESSUN MODO. I GENITORI, PER PRIMI, DO68
VREBBERO ASSICURARSI CHE IL BAMBINO SIA PROTETTO DA VIOLENZE ED ABUSI. Dopo nel mondo esistono tanti bambini adottati e essi non conoscono i propri genitori e questa è una cosa brutta e triste, perché io non credo che a un bambino o magari anche a un ragazzo, piaccia sapere che è stato adottato e che i loro genitori non lo hanno voluto con loro perché non li accontentava. TUTTI DEVONO SAPERE CHI SONO I PROPRI GENITORI, ANCHE SE ABITANO LONTANO. QUINDI… I BAMBINI SONO LA COSA PIU’ BELLA DEL MONDO E VEDERLI CON LA PROPRIA FAMIGLIA E’ ANCORA PIU’ BELLO! LORO DEVONO ANDARE A SCUOLA, AVERE UNA FAMIGLIA CHE LI AIUTI A CRESCERE E A DIVENTARE CITTADINI DI QUESTO MONDO CHE SPERO SIA MIGLIORE DI ORA. Giulia Bernacchia – Seconda media IL SETTORE 7 Dei ragazzi, sconosciuti gli uni agli altri, furono chiamati a recarsi in un palazzo abbandonato, ma solo all’apparenza. All’interno c’era un laboratorio, con delle cabine, dieci, contenevano un liquido abbastanza strano, ricordavano solo questo poi il buio. Si risvegliarono all’interno di un ascensore, c’era una voce che ripeteva molte volte: “Lui è pericoloso, lui può scegliere chi salvare, lui non può essere 69
sconfitto, forse, sarà il prescelto a decidere”. Dopo poco si aprì come un’improvvisa luce, che andava ad aumentare, poi di colpo l’ascensore si fermò e si ritrovarono nel bel mezzo di un giardino, intorno avevano solo mura e alcuni alberi. Con loro avevano un biglietto che diceva: “Voi siete i primi, non potete uscire, sopravvivere, chi sarà il prescelto?”. Provarono a riaprire l’ascensore, ma era chiuso, poi si udì un improvviso rumore, come un tuono, un pezzo di muro si aprì come una porta scorrevole, si vide il proseguo del muro, era un labirinto. Nessuno ebbe il coraggio di attraversare il muro, la “porta” restò aperta per il resto del giorno, quando calò il sole, la porta si chiuse. Durante la notte il labirinto faceva uno strano rumore, si aprono i settori. La mattina seguente i ragazzi cercarono di conoscersi, ma non ricordavano niente della loro vita, solo il loro nome, l’età, il viso della persona che li ha chiusi nelle cabine e le ultime parole che gli hanno detto prima di rinchiuderli. Ogni mese dall’ascensore usciva una persona, solo maschi, ognuno con un biglietto accanto con su scritto il nome e l’età. Avevano costruito una civiltà all’interno del labirinto, o meglio del giardino. I velocisti erano incaricati del labirinto, prima del tramonto, venivano chiamati così perché correvano per tornare in tempo, avevano fatto una mappa per dividere il labirinto in settori, ma la tenevano nascosta, perchè non avevano ancora trovato un’uscita e non volevano farlo sapere agli altri. 70
I corridori venivano scelti in base a quanto veloce correvano e da quanto tempo erano nel labirinto, al momento erano quattro: Luck, Oliver, Drake e Josh. Ogni giorno un settore diverso si apriva. Come in ogni gruppo c’è sempre un capo, qui era Jhos. Era molto concentrato e cercava sempre di fare il bene per la squadra. Un giorno dall’ascensore uscì un ragazzo. Come tutti, aveva un biglietto con su scritto Jack 23, ma tra le mani stringeva anche tre boccette da laboratorio, contenenti uno strano liquido violaceo. Jack si mostrò sin dall’inizio molto determinato a far uscire tutti, pensarono: E’ il prescelto!. E, in effetti, così dimostrò. Un giorno Drake si ferì mentre correva con Josh alla ricerca di un’uscita e così ritornarono indietro, Josh lo portava in spalle, ma il tramonto era vicino e arrivati a poca distanza dalla porta, il muro iniziò a chiudersi, tutti rimasero a guardare il triste spettacolo, quasi tutti. Jack non voleva restare a guardare, così corse dentro le mura, un secondo prima che le porte si chiudessero, molti pensarono fosse pazzo, altri un eroe e quest’ultimi avevano ragione. Stare tra le mura del labirinto la notte era molto pericoloso, sì, ma Jack non aveva paura. Così, con Josh, andò a vedere cosa provocava quei rumori, ma furono interrotti da un robot gigante che correva al di sopra delle mura. Era la prima volta che ciò succedeva ed era strano, nessuno lo aveva mai visto, altri avevano già trascorso la notte dentro le mura, ma non sono mai tornati in71
dietro, forse a causa sua. Il robot gli stava dando la caccia, ma Jack era troppo veloce, una lotta interminabile, che finì con la vittoria di Jack, era la prima persona che uccideva un robot. All’alba Josh e Jack tornarono davanti alla porta di muro, era aperta, con tutti gli abitanti del labirinto ad aspettare. Drake era ancora molto dolorante, lo portarono subito nel suo letto, non sapevano cosa fare, ma Jack si ricordò di quelle boccette. Ne prese subito una e gliela iniettò immediatamente, con disappunto di John, era un liquido sconosciuto, ma valeva la pena provare. Le ferite si rimarginarono all’istante. Tutti furono pronti Jack anche Jhon. Dopo questa vicenda proclamarono Jack corridore, e così con Jhon e Drake girava per il labirinto, visitò tutti i settori. Il labirinto cambiava ogni notte, e stranamente il settore 7 era rimasto aperto per una settimana . Non era passato un mese, ma l’ascensore si aprì e ne uscì una ragazza, Emily, con il solito biglietto con su scritto, questa volta, “lei è l’ultima. A Jack il suo volto non sembrava nuovo, Emily si svegliò improvvisamente, disse: “Jack!”. Poi il silenzio calò. Erano passate delle ore, Jack ed Emily stavano ancora parlando, non si sa cosa si sono detti, ma qualcosa riguardante il labirinto. Jack ricorda, come tutti, il viso di chi lo ha chiuso nella cabina, Emily, lei lo ha chiuso, lei gli ha detto: “ti salverò, vi salverò, tu li salverai sei il prescelto”. La mattina seguente fecero lo stesso e così anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora, ma niente, non si apriva, 72
provarono di tutto. Un giorno Emily e Jack rimasero chiusi dentro le mura e così andarono a controllare il settore 7, la porta era aperta e continuava con un giardino, ma senza le mura, si udì come un tuono e, come fogli di carta il muro del labirinto cadde, l’ascensore si aprì di colpo, poi si richiuse e poi si aprì nuovamente. Gli abitanti del labirinto non persero tempo ed entrarono, l’ascensore scese e in poco tempo si ritrovarono nel laboratorio, era distrutto. Non si sa chi ci fosse dietro a ciò, ma Jack ed Emily non si arresero e scoprirono che dietro al labirinto c’era la “UME”: un’organizzazione che fa esperimenti sulle persone. Sono state solo delle cavie da laboratorio. Quelli che una volta erano gli abitanti del labirinto, ora erano solo dei semplici ragazzi, ma non si persero di vista, rimasero in contatto, soprattutto Jack ed Emily. Irene Biscarini – Terza media CLAVE, IL DIO Un giorno in Russia, esattamente a Mosca, un dio chiamato Clave decise di inventare una grande spada che potesse difendere la città. Clave andò a parlare con un altro dio di nome Trave che era un grande scienziato e gli disse: ”Vorrei fabbricare una grande spada”. “Se c’è una grande spada ci deve essere anche un grande uomo!” rispose lui. 73
Allora Clave pensò e disse: ”Visto che tu sei un grande scienziato perché non inventi una pozione che fa diventare giganti almeno tre uomini?” ”Ok, - ribatté Trave - ma mi devi dare almeno cinque giorni per realizzare questa pozione”. Questi uomini dovevano essere forti, snelli, veloci e molto grandi. Clave uscì dal laboratorio di Trave e andò a casa di un altro dio chiamato Venus. Venus era un grande fabbro. Mentre parlava con Venus, Clave pensò ad un altro strumento. Non più la spada, ma tre grandi archi per finire gli attacchi degli altri dei nemici. ”Venus riusciresti a costruire tre grandi archi e per ognuno dieci frecce?” disse Clave. ”Certo, ma prima vai da Elai e fatti dare tanto ferro. Clave ci andò subito e gli disse: ”Mi può dare tanto ferro?” ”Sì, tieni” rispose Elai. Preso il ferro, Clave tornò da Venus e glielo diede. ”Dammi tre giorni di tempo e la richiesta sarà esaudita”. Passati cinque giorni Clave andò da Trave e prese i tre giganti e i tre archi. Arrivati dai nemici i tre giganti sferrarono i colpi. I nemici lanciarono sette cannonate con questi colori: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e viola. I tre giganti saltarono e i cannoni colpirono i tre archi che per magia diventarono uno solo ma grande e non più nero ma con questi colori: rosso, arancione, 74
giallo, verde, blu, indaco e viola. Improvvisamente il grande arco si posò in cielo. La battaglia finì e si misero a guardare il grande arco colorato. Da quel giorno nacque l’arcobaleno e ci fu la pace. Tommaso Brizi - Prima media IL SUO NOME E’ ARCOBALENO Un giorno Zeus perse la testa per una giovane donna, bellissima. Era, gelosa dell’ennesimo amore del marito, si arrabbiò e Apollo cercò di calmarla con il suono della cetra, l’unico che la calmava. Zeus pensò che il dio stesse festeggiando per la sua nuova fidanzata e che stava suonando per chiamarlo, così entrò nella stanza e urlò: “ Il suo nome è Arcobaleno!”. Ma con sua grande sorpresa trovò Era che ascoltava senza emettere fiato. Arcobaleno, una ragazza più bella della stessa Afrodite, si era stancata di tutta quella calma e chiese a Zeus: “ Amore! Andiamo fuori, voglio farti vedere una cosa”. Zeus pensò che fosse un’ottima idea, così uscirono e la ragazza cominciò a correre sempre dritta e dalle sue gambe spuntò un’incredibile scia di sette colori brillanti. Il vento intanto si era innamorato anche lui della giovane. Così escogitò un piano per rapirla. Un giorno, mentre Arcobaleno stava correndo, il vento la tirò su, ma, essendo pesante, cadde, formando con i suoi colori un arco. Arcobaleno morì perché la sua 75
testa sbattè contro una roccia. Zeus, dopo aver scoperto l’accaduto, urlò al vento: “ Sii maledetto!”. E cominciò a piangere, formando una grande inondazione. Ma il vento, che odiava bagnarsi, per asciugarsi fece uno squarcio tra le nuvole che coprivano il sole. Mentre continuava a piovere, Zeus alzò la testa, vide in quell’arco il viso della sua bella amata; ma, quando fece terminare la pioggia, pensando che sarebbe durato di più, l’arco sparì dopo pochi minuti. Così Zeus chiamò quella fascia di colori Arcobaleno in onore della sua amata. Catalina Bulancia – Prima media VIAGGIO NELL’IMPOSSIBILE Era un giorno come tanti altri. Un viaggio come tanti altri. Il pilota dell’aereo, immerso nei suoi pensieri, venne all’improvviso riportato alla realtà da un suono di allarme che segnalava una avaria a bordo. Qualcosa al motore non andava. Senza avere neanche il tempo di riflettere, il pilota lanciò il “mayday”: l’aereo era improvvisamente finito nel mezzo di una violenta tempesta. L’aereo cominciò a perdere quota velocemente e precipitò. I passeggeri, stupiti di essere tutti sopravvissuti allo schianto, si ritrovarono in una radura circondata da rocce e strani alberi. Senza indugiare, cominciarono tutti insieme a costruire un municipio, una struttura in cui dormire e rifugiarsi. 76
Ma in quel luogo sconosciuto non erano soli. Una notte di luna piena, il villaggio venne assalito da barbari spietati e assetati di sangue: il villaggio venne raso al suolo ma gli abitanti riuscirono a salvarsi. Per difendersi dalle incursioni nemiche, pensarono allora di costruire delle mura tutto intorno a protezione del villaggio. Durante i lavori, alla ricerca di pietre per le mura, gli abitanti scoprirono una inaspettata fonte di ricchezza: dalle rocce affiorava oro in gran quantità. Cominciarono così a costruire delle miniere. Una mattina, una bimba sempre molto curiosa si allontanò dal villaggio per vedere cosa ci fosse intorno. Non molto lontano trovò una caverna. Entrò e vide una luce farsi sempre più intensa. Ma proprio quando stava per raggiungere la fonte di luce, degli esseri volanti simili a pipistrelli l’assalirono. La bimba cadde a terra svenuta. Quando si svegliò, vide davanti a sé un vecchio con una lunga barba e un abito rosso. Questi porse alla bambina una bevanda di colore verde e la invitò a bere. La bambina obbedì, bevve quella bevanda dal sapore ripugnante, e subito fu presa da un senso di grande benessere. Poi chiese al vecchio chi fosse e lui rispose: “ Sono un potente stregone e vivo qui, lontano dagli uomini malvagi, da oltre cento anni e ….”. Lo stregone si interruppe udendo un rumore provenire da lontano. Corse fuori e vide un branco di goblin assalire la gente del villaggio. Allora il mago 77
cominciò a pronunciare a bassa voce una formula e dalle sue mani uscì una palla di fuoco che scaraventò contro quei goblin. I mostri, spaventati, fuggirono lasciando nello stupore e nella paura gli abitanti del villaggio. La bambina si precipitò al villaggio e tra gente dai volti sfregiati riconobbe i suoi genitori. Scoppiò in un pianto disperato. Il mago cercò di consolarla e le svelò l’esistenza di un fluido, l’elisir nero, che poteva essere estratto da alcune piante e che era in grado di risanare le ferite. La ragazzina supplicò il mago di insegnarle ad estrarre il liquido nero ma il mago la ammonì del rischio perché altri villaggi intorno avrebbero attaccato le loro abitazioni per rubarlo. All’insistere della bambina, il mago cedette e la condusse al villaggio in cui era nato. Sorgeva nascosto tra alberi e pietre, e gli estrattori di elisir nero erano interamente circondati da mura di cristallo. Il mago si rese invisibile, si avvicinò ma poi fece cenno alla bimba di aspettarlo al sicuro: il villaggio infatti era stato occupato dai barbari, e il loro re stava organizzando per un nuovo assalto le truppe dei golem, esseri enormi e fatti di pietra, in grado di distruggere qualunque cosa con un solo pugno. Il mago, invisibile ai loro occhi, riuscì ad avvicinarsi al liquido risanatore, con una ciotola di legno ne prese una piccola quantità da portare ai genitori della bimba e tornò indietro. Il padre e la madre della bimba si risvegliarono dal sonno causato dalle profonde ferite 78
e al vedere la loro figlia si riempirono l’animo di gioia. La bimba venne accolta come un’eroina e venne proclamata regina del villaggio. Per la generosità e la bontà d’animo dimostrata e grazie all’aiuto di altri maghi chiamati in soccorso, lo stregone le insegnò quindi strategie per difendersi dalle incursioni, le donò un drago che sarebbe stato sempre al suo fianco per proteggerla, e la regina degli arcieri le svelò il segreto nell’uso delle frecce oscure. Il villaggio si espanse, divenne presto un potente impero circondato da impenetrabili mura di lava e protetto all’esterno dalle “torri di tesla” in grado di scagliare fulmini micidiali contro i nemici. Un giorno però, durante una incursione nemica più violenta delle altre, le torri di tesla generarono fulmini tanto potenti da creare un enorme campo magnetico: tutto venne risucchiato in un vortice di energia, edifici, persone, alberi, miniere. Gli abitanti, sbattuti come foglie dalla tempesta e privati di ogni energia, caddero infine svenuti. Una voce ripeteva: “mayday-mayday- posizione 60° longitudine est, brò ridestarli come da un sogno: tutti erano di nuovo seduti al loro posto in aereo, mentre la voce del pilota continua: 70° latitudine nord... mayday…mayday…” Alessandro Carboni - Seconda media
79
UN AMORE ETERNO Per Mike era il primo giorno di scuola all’Istituto di Agraria. Si avviava per il viale, verso il portone d’ingresso con i suoi amici quando si fermò all’ improvviso perché la sua attenzione fu catturata da una ragazza. Era proprio lei, quella che lui amava da sempre, che gli aveva sempre fatto battere forte il cuore e che mai avrebbe pensato di trovarla lì. Lei stava entrando per quel portone; anche lei aveva scelto quella scuola superiore. Lui sveltì il passo ma non riuscì a raggiungerla, perdendola di vista. Amy era entrata in qualche aula ma non c’era tempo per cercarla: la campanella suonò. Mike entrò nella sua classe, ancora tutto agitato per la sorpresa, quando la vide seduta lì, al primo banco. Non riusciva a crederci: vedeva il biondo dei suoi lunghi capelli e i suoi occhi azzurri come il cielo. Lei sorrise alla vista di Mike. Anche lui era proprio bello: aveva la barba tagliata e i capelli rasati. Corse a prendere il posto vicino a lei. Da quel giorno divennero inseparabili. Passavano anche i pomeriggi insieme, per studiare o per passeggiare. Lui era un batterista rock amante dei Queen e anche a lei piaceva la musica rock. Spesso, la sera, andava a sentirlo suonare a qualche concerto. L’amore di Mike cresceva sempre di più e, un giorno, si fece coraggio e decise di chiederle di fidanzar80
si. Anche lei era innamorata di lui e, anche lei, non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo. Da allora non si separarono mai più. Mattia Carloni – Terza media LEI Sei anni fa è arrivata la persona che occupa una metà del mio cuore. Da quando ero piccolina desideravo che entrasse nella mia vita e ho sempre lottato per questo. Ho chiesto, ho supplicato, ho pianto e pregato e, alla fine, è giunta la ricompensa per tutto ciò . Ma mai mi sarei immaginata una gioia così grande, un senso di completezza così profondo. Il nostro incontro è stato il giorno più bello della mia vita. Me lo ricordo come se fosse stato ieri. Quel pomeriggio, quando mi hanno dato la notizia, ero molto ansiosa e agitata per il nostro incontro. Appena arrivata in sala parto ho visto lei, tra le braccia di mia madre: piccola, indifesa, bisognosa di noi. Ebbi la grande sensazione che lei era una parte della mia famiglia, una parte di me. Mio padre me la mise tra le braccia e, in quel momento, capii che saremmo state sempre una spalla sicura una per l’altra. Tutti l’hanno accolta in modo grandioso: i nonni, i parenti e gli amici della mia famiglia. Non sono stata mai invidiosa di lei ma gelosa e pro81
tettiva, seppure, una volta, chiesi a papà se potevo buttarla dalla finestra! 6 ANNI DOPO……. Non mi sono mai pentita delle mie preghiere ma, oggi più che mai, ne sono orgogliosa e fiera. Alessia Cavalletti - Terza media GIOIA E ALLEGRIA Un giorno Zeus, padre degli dei, si arrabbiò con gli uomini, perché loro stavano sempre a litigare e lui non riusciva proprio a riposarsi. Si arrabbiò a tal punto che per farli azzittire mandò sulla terra moltissima pioggia e grandine. Tutti gli uomini avevano almeno una barchetta con la quale si salvarono. Ebbero così tanta paura di morire annegati se la barca si ribaltava all’improvviso, per via di un’onda molto alta, che non riuscivano né a parlare né a litigare. Alle divinità piaceva quel rumore di sottofondo e perciò tutti erano arrabbiati con Zeus perché dovevano fare silenzio. Pioggia e grandine durarono per circa nove mesi, fino al giorno in cui Zeus smise di far piovere. Le divinità furono tutte contente che era tornato il sole, ringraziavano Zeus e lo imploravano di fare in modo che quella disgrazia non accadesse di nuovo. La divinità più felice era Afrodite che durante i giorni di pioggia piangeva sempre. La sua bellezza si spegneva e la tristezza vinceva su di lei. Afrodite, per festeggiare il ritorno del sole che illumina la terra, si mise a danzare con un vestito di 82
tanti colori: giallo, rosso , arancione, verde, azzurro, indaco, violetto. Questi colori poi vanno a creare un arco colorato. Per questo, ogni volta, dopo la pioggia, Afrodite indossa il suo vestito colorato e si mette a danzare per formare l’arcobaleno. Da quel giorno, dopo la pioggia noiosa, c’è l’arcobaleno di Afrodite che riporta allegria a tutti gli uomini della Terra. Naomi Cerquaglia - Prima media È’ DURA Spesse volte, quando mi ritrovo solo nel mio letto, penso alla mia vita, a ciò che è stato, che è e che sarà. Mi assale una profonda tristezza perché vedo quanto è dura andare avanti. Ogni giorno si deve faticare e sudare per ottenere il minimo indispensabile e, a volte, neanche quello. Questa situazione mi rende infelice perché vedo che, nel mondo, ci sono tante ingiustizie. C’è chi ha tanto, tutto, magari senza nessuna fatica e si permette anche di giudicare chi tira avanti con tanti sacrifici. Di tutto questo, però, non ne parlo mai con nessuno. I miei genitori non sono adatti a parlare con me e, quando ci provo, non mi capiscono. Non è facile parlarne neanche con i compagni, che spesso non vivono le mie stesse situazioni. A volte mi chiudo in me stesso, proprio perché non posso dire quello che penso, e reagisco male con chi mi sta vicino perché vedo che sono diversi da me, tranquilli, senza problemi e sembra che capisco83
no tutto di me mentre non sanno proprio niente. Ma ciò che mi rende veramente triste è la paura per il futuro. Tutti dicono che, se studiamo, la nostra vita cambierà in meglio e troveremo un buon lavoro. Io non credo che sia così. Anche se studiassi, non avrei un lavoro decente senza la spinta di qualcuno. Io credo che sia ora che il mondo cambi, a partire dai grandi politici, che devono pensare anche a chi fatica e suda. Altrimenti sarà veramente dura! Pierluigi Cialfi - Terza media UNA LETTERA AL NOVECENTO 29 gennaio 2015 Caro Novecento Ti scrivo perché non riesco a capire come non ti annoi a stare sempre sulla nave. Ci hai mai pensato? In fondo è soltanto una nave costruita di ferro. Io mi annoierei! Riesci a capirmi? Io credo proprio di sì, soltanto che hai paura. Ti consiglierei di scendere dalla nave soltanto per vedere o toccare i piedi in terra e no sull’acqua. Prova a comprendere: hai visto l’acqua fin da bambino. Non hai mai pensato che è ora di aprire quella porta sempre chiusa? Tu hai un futuro là fuori….per me! Potresti avere una grande carriera visto che con il pianoforte ci sai fare. Ma poi guardati: stai da solo, non hai più nessuno, il 84
tuo passato è nullo. Invece pensa a quante persone nuove potresti incontrare e quanta aria nuova potresti respirare. In fondo non sei l’unico che deve scegliere. Tutti noi siamo così, ci blocchiamo sulle scelte….e io ti capisco bene. Infatti ora devo scegliere la scuola superiore da frequentare e non mi so proprio decidere. Potresti avere anche una famiglia…mica male! Mi è venuto in mente un paragone: tu sei come un gabbiano che vuole volare ma ha paura anche se dentro di sé non vede l’ora. La vita dentro la nave è limitata e fuori è illimitata. Pensaci su un po’. Ciao ciao…… P. S. : Caro Novecento, ora ti svelo un segreto: io ce l’ho fatta! Eh sì, io ho scelto la mia strada, mi sono iscritto al Liceo artistico. Ero incerto, dubbioso, poi ho chiesto parere alla mamma e al papà. Anche le professoresse me lo hanno consigliato. Ed io mi sono fidato delle persone che avevo intorno. Adesso anche tu per una volta ascolta il mio consiglio e non fare sempre ciò che la tua testa ti dice. Fidati di chi ti sta intorno e non avere paura: forse potresti scoprire che è bello quello che hai paura di vivere. Simone Cinque - Terza media
85
LE AVVENTURE DI CHARLOTTE E KATRINE Tanto tempo fa in Argentina, più precisamente a Buenos Aires, vivevano due ragazze con i loro genitori: Katrine e Charlotte. Katrine aveva 17 anni e Charlotte ne aveva 18. Vivevano semplicemente, come due ragazze della loro età potevano vivere; però un giorno i loro genitori partirono per una crociera lasciando le due ragazze a casa, da sole. I primi giorni passarono normalmente, poi però si trasferì nella casa accanto una famiglia formata: da una donna e dai suoi due figli Alessio il maggiore e Luna. Appena arrivati i due ragazzi corrono a bussare alla porta della casa accanto. Ad aprire la porta è Charlotte e, appena visti i due ragazzi domanda: chi siete? I ragazzi rispondono che sono i loro nuovi vicini di casa e gli domandano se vogliono andare a bere un succo nella loro nuova casa, le ragazze molto ingenuamente accettano e li seguirono. Una volta in casa, dopo aver bevuto un buonissimo succo all’arancia, Katrine chiede di andare in bagno e mentre attraversa l’infinito corridoio vede Luna sparire in mezzo ai mobili. Così si mette a correre tornando indietro fino ad arrivare alla sorella che, inventandosi una scusa si porta a casa. 86
Una volta dentro Katrine racconta tutto alla sorella; ma la sorella non ci crede, si mette il pigiama e va a letto. Alle 5:10 della mattina il telefono comincia a squillare, Charlotte si alza e va a rispondere. Al telefono è la mamma di Carlo il suo ragazzo che gli da una notizia sconvolgente: gli dice che Carlo a causa di un incidente in auto è morto. Charlotte molto dispiaciuta chiama la sorella e, dopo essersi tranquillizzate davanti ad una tazza di thè, tornano a letto. Nella tarda mattinata del giorno seguente le due ragazze raggiungono la casa di Carlo per dargli il definitivo addio, ma loro non potevano nemmeno immaginare che Carlo sarebbe rimasto con loro e anche per un bel po’ di tempo. Appena entrate in casa le due ragazze sentono che una voce le saluta, ma fanno finta di non sentirla. Dopo alcuni minuti si sentì di nuovo quella voce che le salutava, ma loro ugualmente non ci fanno caso. La terza volta non potevano non farci caso, poiché iniziarono a sospettare che quella voce non fosse frutto dell’immaginazione e che fosse vera. Allora iniziarono a porsi mille domande: “ma che cos’è?” disse Charlotte, “ma è Carlo?” dice Katrine. I pensieri sono confusi, però, questa voce continuava a salutarle e a parlargli. Dopo esser passate alcune ore Charlotte stufa incomincia a parlare con la voce e gli domanda: “chi 87
sei?”. A quel punto la voce smette di parlare e non si sente più niente. Dopo alcuni giorni, passati rinchiuse in casa con la paura, che forse possiamo descriverli i giorni peggiori della loro vita la voce ricominciò a parlare, però, con la voce appare anche un corpo di fantasma. Questa volta capiscono che è Carlo per il fatto che il fantasma gli dice che Luna, quella ragazza tanto buona che vuole solo del male per loro e gli dice anche che devono andare nel giardino di Luna e provare una gemma viola. Così le ragazze fanno: vanno nel giardino di Luna si mettono a cercare la gemma, e, una volta trovata la prendono e la portano a casa. Katrine e Charlotte non sanno cosa fare con la gemma e soprattutto non riescono a capire se avevano immaginato tutto oppure se fosse la realtà. Così aspettano nuove informazioni. Aspettano ore, ore e ore ma il fantasma non appare. Quando le due ragazze avevano proprio perso la speranza e incominciano a pensare che si fossero immaginate tutto il fantasma riappare e dà altre informazioni alle due sorelle. Gli dice di mettere la gemma nel cassetto nel mobile nella camera dei loro genitori e devono prendere quello che sarà della gemma solo la mattina dopo. Le ragazze mettono la gemma nel cassetto si mettono il pigiama e vanno a letto. 88
La mattina dopo vanno a riprendere la gemma dal cassetto ma al suo posto trovano un telecomando; e a quel punto non sanno cosa fare e pensano a mille domande e si chiedono: “lo accendiamo?” dice Charlotte “aspettiamo altre informazioni?” dice Katrine e così si fa. E dopo ore passate a camminare per il grandissimo salotto della casa, il fantasma riappare e gli dice che il gioco sta per terminare; l’ultima cosa che dovranno fare è quella di trovare Luna, metterla davanti e attivare il telecomando. Così fanno e trovano Luna, Charlotte con in mano il telecomando se la mette davanti, lo accende e come per magia Luna scompare. Tornando a casa trovano una tavola tutta apparecchiata con un bigliettino con su scritto: tutto questo è per voi ve lo siete meritate. Le ragazze pensano: sono tornati mamma e papà? A quel punto appare il fantasma che le avverte che Luna è andata in un’altra dimensione sconosciuta e che ormai il gioco è finito. Da quel giorno in poi Katrine e Charlotte ricominciarono a vivere come due ragazze di 17 e 18 anni con i loro genitori e con qualche improvvisata del fantasma Carlo. Vanessa Degli Esposti Terza media
89
LO GNOMO CON LA PENTOLA D’ORO C’era una volta… No questa storia già si conosce. No, no e no il libro che si apre per favore no. Allora la storia incomincia così. In una piccola valle del Tevere viveva una bellissima principessa di nome Venere, di cui tutti gli abitanti erano innamorati. Lei era una ragazza stupenda con dei capelli biondi, occhi azzurri che ti guardavano in modo incantevole e…insomma, non c’era nulla in cui le si poteva dire niente, quindi era intoccabile. Facevano di tutto per essere il suo ragazzo. Persino gli gnomi e i nani stavano ai suoi piedi. Un giorno incontrò Giove, che era il più carino della valle. Esso era fidanzato con Minerva e di questo Venere ne era molto gelosa così Venere architettò un piano: fargli bere una pozione che lo avrebbe fatto cadere ai suoi piedi. Non sapeva però che questa durava solo dieci minuti, così il piano non andò a buon fine. Il giorno dopo ella incontrò uno gnomo con cui decise di fidanzarsi per fare ingelosire Giove. Lui vedendola con un altro restò calmo e disse tra sé: -Tanto non devo essere geloso, ho Minerva! A un certo punto lo gnomo, dato che era magico, tirò fuori un pentolone pieno d’oro e poi disse a Venere: -Ecco questo è per te. Venere non sapeva che dire quindi lo ringraziò. Zeus vedendo cosa c’era nel pentolone mandò il dio fabbro e Apollo incontro al popolo che ancora non si era incamminato. Quel denaro era un bene per tutta la popolazione. 90
A tutto il popolo serviva il lavoro e quindi andarono a chiamare il dio fabbro e Cupido, il dio dell’amore. Per avere da loro l’oro dovevano prima imparare a lavorare il ferro e a tirare le frecce. Per prima cosa dovevano dividere il popolo a metà e una volta fatto, il popolo si mise al lavoro. Il dio fabbro era molto duro e quindi disse: -Per avere l’oro, dovete prima imparare a costruire una spada. Cupido invece piano piano gli insegnò il tiro con l’arco. Il giorno dopo il dio fabbro e Cupido, dato che videro che il popolo era molto stanco, decisero di organizzare uno spettacolo. -Vi faremo vedere una fantastica combinazione-dissero. Il dio fabbro fece una spada mentre Cupido lanciava le frecce in aria. Lo gnomo portò con sé la pentola e Venere lo seguiva. A un certo punto il ferro fece scintille, che andarono a finire sulla pentola e nacque un arco colorato, che seguì la freccia di Cupido. Gli fecero un bellissimo applauso e gli diedero un nome: Arcobaleno. Così nacque l’arcobaleno. C’è sempre uno gnomo, dopo che ha piovuto, con una pentola piena d’oro. E vissero tutti….Ahhhh, no, no e no. Altrimenti finisce sempre così la storia! Filippo Fagioli – Prima media
91
DA QUEL GIORNO CAMBIAI PER SEMPRE Era il 9 febbraio del 1909 ed io stavo per accompagnare in un viaggio d’affari colui che sarebbe diventato mio marito, Federico Ridolfi, un ricco aristocratico convinto di poter dominare il mondo con il denaro. Federico era amico di mio padre, facoltoso borghese con la stessa mentalità e il nostro sarebbe stato un matrimonio combinato come tanti altri. Eravamo entrambi di Macerata, ma non ci eravamo mai incontrati fino a quel giorno di febbraio: io uscivo poco, andavo solo alle feste che consideravo “obbligatorie”, quelle di questo o quel santo. Amavo tantissimo i libri e passavo molte ore della giornata a leggere in camera mia, inoltre adoravo recarmi, la mattina presto, al laghetto non lontano dalla mia abitazione per respirare l’aria ricca di ossigeno e ascoltare il risveglio della natura, in poche parole ero l’asociale della famiglia, ma soprattutto ero la femmina” di casa, oltre mia madre ovviamente, ed ora per me era arrivato il momento di sposarmi. Tornando a Federico, il viaggio che avrei intrapreso dopo poche settimane con lui, mi avrebbe consentito di conoscerlo meglio. Costui era un uomo di bell’aspetto e gentile, ma c’era qualcosa in lui che non mi convinceva e non sapevo cosa. Dopo averlo frequentato per qualche giorno, mi accorsi che, a volte, alternava, nell’arco di pochi mi92
nuti, un comportamento gentile e affabile nei miei confronti ad un altro freddo e irrequieto, inoltre era attratto da storie che io trovavo raccapriccianti come, ad esempio, quella sulla morte per dissanguamento di una povera donna che era stata sgozzata. Il momento della partenza arrivò e la sera stessa del nostro arrivo in albergo, dopo aver sistemato le valigie, accettai la proposta di Federico di fare una passeggiata lungo le vie della città nella quale egli avrebbe dovuto concludere un affare. Il cielo era oscurato da nuvole cupe da non lasciar intravedere la luna e le strade erano deserte, non ricordo che successe dopo. In seguito a quella visione ricordo solo l’immagine sfocata del soffitto della camera d’albergo dove alloggiavo e un forte dolore al collo che, come poi mi disse Federico, fu causato dalla mia caduta in seguito ad uno svenimento. Federico mi raccontò anche di avermi portata in albergo e di avermi fatta visitare da un medico che lo aveva tranquillizzato dicendogli che si era trattato solo di un semplice malore dovuto alla stanchezza. La spiegazione di Federico mi sembrò convincente, così mi addormentai dolorante, ma tranquilla. La mattina seguente notai alcuni cambiamenti in me: non avevo appetito e non riuscivo a sopportare la vista della luce del sole che proveniva dalla finestra della mia camera d’albergo. Mi alzai e andai in bagno dove, guardandomi allo 93
specchio notai due strani segni sul collo ai quali, però, non diedi molta importanza. Il resto della giornata lo passai in albergo insieme a Federico e la notte successiva sognai di avere altri strani segni sul collo, ma quando mi guardai nuovamente allo specchio, vidi che quei segni c’erano davvero. Avevo paura e nel frattempo sentii un brontolio di tuoni lontani che annunciavano l’arrivo di un temporale. Mi precipitai al telefono e, per sfogarmi con qualcuno, chiamai la mia amica Laura e le raccontai tutto quello che mi stava accadendo, ma lei non mi sembrò sorpresa. Ripensai ad un libro che avevo letto qualche tempo prima, quello sulle creature fantastiche: si parlava anche di vittime di esseri demoniaci assetati di sangue, avevo più o meno le stesse caratteristiche, rabbrividii. In quel momento tutto fu chiaro nella mia mente: Federico era un vampiro e mordendomi mi stava lentamente vampirizzando. Tutto ciò mi sembrò assurdo, ma era l’unica spiegazione che riuscivo a fornirmi. All’improvviso avvertii i nuovi cambiamenti in me: la temperatura corporea si abbassò di colpo, tremavo. In un secondo momento sentii un intenso dolore allo sterno: il mio cuore aveva appena cessato di battere. La gola era secca e mi ordinava di bere una cosa 94
ben precisa: sangue. In pochi istanti la mia vita cambiò completamente ed io capii chi o cosa ero diventata: un vampiro. Uscii rapidamente dalla mia camera sniffando l’odore di una donna: era Laura e accanto a lei c’era il corpo senza vita di Federico che giaceva a terra con un cuneo di legno conficcato nel cuore. Laura aveva capito tutto e aveva cercato di aiutarmi uccidendo Federico, ma io sentivo che per me era ormai troppo tardi. Per evitare che il mio istinto da vampiro potesse vincere sulla mia volontà e mi potesse portare ad ucciderla, scappai il più lontano possibile. Fu lontano da tutte le persone che amavo e dal luogo nel quale ero cresciuta che decisi di iniziare la mia nuova vita eterna, lo feci per loro, per la loro salvezza, anche se la mia scelta mi procurava un immenso dolore. Fanny Taddeo - Seconda media L’ AMICO È’ Guardando dentro di me e cercando di capire i sentimenti e le emozioni che provo ora, a tredici anni, mi sono accorto che l’amicizia è il bene più prezioso, più importante persino dell’amore. E’ un valore, una grande fortuna, una realtà che può cambiarti la vita e segnarla per sempre. L’amico è quello che si confida con te, perché ha 95
fiducia in te, crede in te, spera in te. L’amico ti aiuta quando stai male o quando hai bisogno, magari semplicemente a studiare. E’ qualcuno su cui puoi sempre contare ed è una parte della tua vita. L’amico, qualche volta, ti fa anche soffrire ma è sempre a fin di bene. È una sofferenza che aiuta a crescere e che non porta mai al male. Un vero amico è colui con cui ti senti al sicuro. L’amico è colui che condivide con te i momenti più importanti, belli o brutti che siano, ma anche la vita di tutti i giorni. Con lui non rimani solo. Io ho degli amici fantastici. Io ho questo grande sentimento. Io ho questa bellissima realtà. Filippo Galletti - Terza media NINFA ARCOBALENO Apollo, dio del Sole, stava guidando il suo carro quando vide, davanti a lui, sopra una nuvola, una ninfa bellissima che aveva dei lunghi capelli neri, occhi blu come il mare e un candido vestito bianco che la confondeva tra le nuvole. Se ne innamorò e cercò di averla per sposarla. Allora Apollo andò sul monte Olimpo a chiedere agli dei come poteva averla. Atena, dea della sapienza, gli disse: ”Devi portarla a farle vedere il mondo, si meraviglierà!” ”No, devi lasciarla dove è, dopo non si sentirebbe a 96
suo agio!” intervenne Ermes, messaggero degli dei. Così scoppiò una lite tra lui e Atena. Apollo fu ancora più confuso: tutti gli dei gli davano un consiglio e poi litigavano su quale fosse il migliore. Apollo, allora, chiese aiuto a Zeus, il padre degli dei, che gli disse: ”Quella in realtà è la dea della pioggia! E’ sempre triste e non vuole parlare con nessuno. Vai da lei e fatti spiegare il motivo.” Apollo guidò il suo carro verso il bellissimo cielo azzurro. Cercò la dea ma non la trovò. Ad un certo punto si sentì un fortissimo boato con un fulmine che colpì l’entrata dell’Oltretomba. Ade, dio del regno dei morti, uscì con il suo cane Cerbero a tre teste. Era bruttissimo, con i capelli come il carbone, scompigliati. Era molto arrabbiato. La pioggia era fortissima, neanche Zeus riusciva a fermarla. Finalmente Apollo trovò la dea e si accorse che piangeva. Quando lo faceva forte, si sentiva un boato, quando invece lo faceva piano, c’era solo la pioggia. Apollo le disse: ”Perché piangi?” ”Porto sempre tristezza e nessuno mi vuole come amica!” rispose lei. Un altro boato fortissimo si sentì all’improvviso. Apollo disse: ”Io sì, invece, e questo l’ho fatto per te, guarda!” Allora il suo carro si trasformò in una scia di colori che fecero un arco nel cielo facendo smettere la dea 97
di piangere. Tutti gli dei rimasero affascinati da quella vista bellissima, perfino Ade e il suo cane Cerbero, che non si affascinavano mai a nulla. Così Apollo sposò quella bellissima dea davanti a quell’arco colorato, con la presenza di tutti gli dei. Ade, però, si era arrabbiato molto per l’accaduto, quindi trasformò la ninfa in quella scia di colori. Così, dopo la pioggia, la ninfa arrivava con tutti i suoi colori e Apollo, che guidava il Sole, poteva vederla sempre. Così nacque l’arcobaleno, simbolo di pace. Elia Giglioni - Prima media L’ARCOBALENO L’origine dell’arcobaleno è un fatto alquanto strano e sorprendente come l’avvenimento che lo creò. Tutto ebbe inizio così. Molti anni fa, Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore venne invitata a un banchetto sull’Olimpo. Lì, le dee più belle sfoggiavano abiti magnifici fatti di fili d’oro, incastonati di pietre preziose. Afrodite, arrivata, sbirciò dalla porta senza farsi notare e osservò bene gli abiti delle dee: era alquanto gelosa, perché il suo abito non era niente in confronto a quelli delle altre. Scappò via e andò in riva al mare, si sedette e iniziò a piangere. Una sua lacrima cadde in mezzo all’acqua 98
e, come per magia, comparve sopra di lei un enorme arco di tutti i colori. Lei lo guardò sbalordita, ne prese un pezzo e lo mise sul suo vestito che divenne il più bello in assoluto. Tornò sull’Olimpo a banchettare, ma arrivò in un momento inappropriato perché trovò Atena e Artemide che litigavano per quale fosse l’abito più bello della serata. Ad un certo punto calò il silenzio e tutti si accorsero del magnifico abito di Afrodite. La lite cessò e Zeus esclamò: “Mi spiace, care ragazze, ma l’abito più bello della serata è quello di Afrodite.” Le due belle dee erano furiose e andarono a cercare l’arcobaleno per impossessarsene, ma Afrodite che aveva capito il loro stratagemma le seguì e arrivò prima di loro, prese l’arcobaleno e fece in modo che nessuno lo potesse toccare, poi per finire, lo bloccò sulla terra. Quando arrivarono Atena e Artemide, era troppo tardi, ma le due avevano ormai fatto pace. Da quel giorno i colori dell’arcobaleno divennero i colori della pace. Yasmine Hammal – Prima media ALIENI CONTRO UMANI In un pianeta, nella parte piu’ remota della galassia Masterom, sta succedendo qualcosa che rivoluzione99
rà la vita degli esseri umani. Nel pianeta di cui parlavo prima, di nome Drulon, era morto il loro sovrano Catel e prese il suo posto suo nipote Gastronium, il quale, assetato di potere, decise di conquistare l’intera galassia ed infine l’universo. Erano a buon punto; infatti per avere il completo dominio dell’intero universo mancava soltanto un pianeta: la Terra. Intanto sulla Terra, nei pressi di New York, che sarà sede di una grande guerra, in un bosco, un contadino era a caccia ma invece di trovare una preda trovo’ un predatore. L’uomo, dopo aver visto quell’essere mostruoso, scappo’ in cerca di aiuto, ma il mostro era molto piu’ veloce di lui; quindi capì che l’unico modo per sopravvivere, era ucciderlo sparandogli. Allora si fece coraggio e lo uccise. Il contadino lo portò nella sua fattoria, in cerca di un consiglio da parte di sua moglie, la quale gli disse di portarlo in città, al centro di ricerca. Arrivato a destinazione, lasciò il corpo nelle mani degli scienziati. Gli studiosi non conoscevano questo nuovo organismo, quindi decisero di dissezionarlo e videro che oltre al primo cuore ve n’era un altro. Tra quegli studiosi c’era anche Jack, un ventitreenne, appassionato dallo studio di nuovi organismi. Alla fine del lavoro Jack tornò a casa pensando continuamente a quell’essere sconosciuto. Il giorno dopo andò in una caffetteria con i suoi migliori amici, Michael e Gwen, con cui continuò a parlare di quella vicenda ed ipotizzò che quell’essere potesse non appartenere a questo mon100
do e che forse ce ne fossero altri come lui. Con i suoi amici poco dopo andò in casa del suo capo per dirgli la possibile ipotesi. Suonò il campanello ma nessuno rispondeva. Lo suonò una seconda volta ma nemmeno una risposta. I tre amici erano preoccupati che fosse successo qualcosa ma infine si sentì un rumore di passi e una sbadiglio e alla fine si tranquillizzarono; ma poco prima che il capo di Jack aprisse la porta, si sentirono delle urla, accompagnate da uno strano verso. Allora Jack, Michael e Gwen sfondarono la porta ma in casa non c’era nessuno. Trovarono però una strana sostanza verde accompagnata da gocce di sangue, che conduceva alla finestra aperta. Gli amici si insospettirono, allora andarono nella casa dell’assistente del capo, dalla quale sentirono delle urla e lo stesso verso udito nella casa del capo di Jack. Appena guardarono in basso videro del sangue passare sotto la porta. La abbatterono e videro il corpo dell’uomo squarciato ma senza testa e sul collo si vedevano i segni dei denti e capirono che la testa era stata tagliata da un morso. I tre andarono subito via in casa di Jack per parlare di ciò che era successo. Ma dopo una lunga conversazione, si sentì il rumore di una finestra che si stava aprendo e da essa uscì lo stesso essere dissezionato in laboratorio. Aveva una pelle viscida e verde con lunghi artigli. Assalì i tre amici; il mostro aveva un buco nel petto. La causa della sua morte era stata una strana arma maneggiata da un uomo. L’uomo misterioso portò 101
i tre adulti in una locanda con ascensore invisibile. Arrivati a destinazione il trio era stupefatto. L’uomo misterioso spiegò agli amici tutto per filo e per segno e questo dimostrò che l’ipotesi di Jack era esatta. Inoltre capirono che la Terra era in pericolo. Decisero quindi di aiutare questa nuova organizzazione ma per combattere avevano bisogno di armi. Perciò il consulente delle armi li portò in una stanza in cui c’erano le armi più potenti che avevano mai visto. Gli occhi di Jack si posarono su un bracciale con vari pulsanti in cui erano disegnate tutte le armi dell’organizzazione e lui scelse quella. Michael trovò un manico di spada senza la lama, ma, appena premette il pulsante, una lama laser uscì dal manico e l’uomo decise di prenderla. Gwen invece trovò un’arma laser gigante che sparava un raggio e che era inoltre molto leggera. I tre amici continuarono ad allenarsi fino al giorno tanto atteso. Dal cielo arrivò un’astronave gigante dalla quale scesero tutti i guerrieri del pianeta Drulon, per invadere il nostro pianeta. Erano milioni di guerrieri mentre gli umani erano appena la metà. Fu una battaglia cruenta, all’ultimo sangue. Prima gli umani erano in vantaggio ma gli alieni azionarono una specie di cannone laser con il quale decimarono gran parte dell’esercito umano. Dopo che Jack ne ebbe uccisi una decina, notò che essi avevano gli occhi a spirale, come se fossero stati ipnotizzati e quindi l’unico modo per porre fine alla guerra era uccidere colui che li aveva 102
ipnotizzati e cioè Gastronium. Allora spiegò ai suoi compagni, tramite auricolari, tutto ciò che aveva scoperto e dopo poco tempo individuarono l’artefice di questa guerra e Jack, attivando un pulsante del suo bracciale, volò come un razzo, raggiungendo il tetto dell’astronave su cui si trovava Gastronium. Appena lo vide Jack rabbrividì. Gastronium era diverso dai suoi soldati. Aveva le ali, lunghi artigli, denti affilati come coltelli e dalla schiena spuntavano lunghe spine. Jack si fece coraggio e avanzò verso Gastronium. Fu una battaglia cruenta, nella quale Gastronium stava per vincere ma, alla fine, con un ultimo sforzo, Jack alzò il braccio, schiacciò un pulsante e dal bracciale spuntò una piccola pistola che, pur essendo piccola, era molto potente; infatti con unico colpo riuscì ad uccidere Gastronium e questo segnò la fine della guerra. L’esercito alieno si scusò con tutti gli umani ed infine cercò di rimediare a tutti gli errori commessi liberando tutti i pianeti conquistati. Jack era felice e soddisfatto del risultato, anche se coperto di sangue alieno. Grazie alla sua azione la Terra continuerà a vivere serena e spensierata. Ilyas Lharchaoui - Seconda media L’ ARCOBALENO DELL’ OLIMPO Nell’Olimpo c’era ZEUS che guardava tutto dall’alto perché non sapeva che fare, ad un certo punto vide una fanciulla che doveva stare lì da sola a guardare 103
tutti i principi che facevano guerra per lei. La fanciulla si chiamava Rosalinda ed era intelligente, bella e aveva degli occhi celesti come il cielo, ma se doveva stare là a non fare niente i suoi occhi diventavano grigi e cupi. A Zeus non piaceva vedere le fanciulle tristi, ma non sapeva cosa fare per aiutarla. Dopo un po’ di tempo iniziò a piovere e Rosalinda doveva stare sotto la pioggia, allora Zeus mandò Ermes il messaggero a prenderla. Rosalinda appena vide Ermes gli chiese: ”Ma chi sei tu? Sei un dio mandato da Zeus? Cosa mi vuoi fare?” Ermes le disse: ”Sono Ermes e sono un dio mandato da Zeus, ti voglio portare all’Olimpo. Mi ha detto Zeus che ti annoi qui da sola e stare sotto la pioggia fa male fanciulla. Dai vieni con me!” Lei rispose: ”Sì, va bene”. Appena arrivarono all’Olimpo, Rosalinda era molto felice sia di conoscere Zeus che di non stare più sotto la pioggia. Zeus andò da lei e disse: ”Ciao fanciulla, sei felice di essere qua?” ”Sì, molto” rispose lei. A quel punto i suoi occhi erano diventati di tutti i colori splendenti e Zeus fu stupito, se ne innamorò e la chiese come sposa. Era lo scoprì dopo il matrimonio e decise di vendicarsi contro di lei. Era vide i suoi occhi di tutti i colori e decise di tra104
sformarla in un arcobaleno nel cielo dopo le tempeste e così fece. Era si nascose sotto il suo letto e la trasformò per l’eterno. Così Rosalinda divenne un arcobaleno splendente. Zeus non la dimenticherà mai perché la vede sempre dopo le piogge e si ricorderà dei bei momenti vissuti con lei. Ed è così che esiste l’arcobaleno con colori splendenti e sereni dopo una gran pioggia di lampi e di fulmini. Ramona Iacob - Prima media LA FABBRICA Ero piccola, avevo sei anni. Un giorno, per mano a mio zio, entrai dentro ad una specie di fabbrica. Mi guardavo intorno e vedevo solo persone con camici bianchi e cartelle nelle mani fare su e giù davanti a noi. Chiesi allo zio il perché mi avesse portata lì e mi rispose che c’era una sorpresa. Entrammo su un corridoio su cui si affacciavano tante stanze, da cui provenivano voci lamentose come se fossero dei pianti. Mentre procedevamo, guardavo dentro le porte e vedevo che erano camere piene di persone, distese su dei letti e coperte dalle lenzuola. La maggior parte dormiva; non so perché, forse, visto che era una fabbrica, faticavano molto per lavorare e si stavano riposando. Mi domandai perché li facevano lavora105
re così tanto: c’era del lavoro urgente da sbrigare? Ad un certo punti vidi la mamma. Perché era lì? La bella notizia era che aveva cambiato lavoro? A me piaceva quello che faceva! Era dentro una stanza anche lei, sdraiata e coperta. Entrai. Era circondata da persone che ridevano. Riconobbi la zia, la nonna e papà. Sembravano felici. Corsi incontro alla mamma per salutarla e chiederle perché anche lei era lì. Non feci in tempo a raggiungerla perché papà mi fermò e mi disse di fare piano, di non farle male. Si era fatta male per lavorare? I signori con i camici bianchi le avevano fatto del male? Tanti pensieri e domande mi passavano per la testa. Mi abbracciavano tutti, tutti mi chiedevano: -sei contenta?-. Non riuscivo più a capire niente, mi sembrava stessi sognando quando, ad un certo punto, entrò dentro a quella camera uno di quei signori con i camici bianchi. Spingeva avanti a sé una specie di carrello. Mi avvicinai, c’era un cartello attaccato. Iniziai a leggerlo: Data di nascita: 25/01/2007 - Ore: 16.45 - Peso: Kg 3.150. Papà mi prese in braccio e mi portò a vedere cosa c’era dentro. Un piccolo batuffolo avvolto da una coperta blu ed un piccolo cappellino in testa: una piccola creatura che avrebbe cambiato per sempre la mia vita. Sofia Listanti - Terza media
106
IL PESCE MIRACOLOSO Un giorno, mentre il Dio Cronos stava bevendo nelle acque di un fiume, un pesce a sette colori gli passò davanti. Lui subito fece un salto indietro e poi si riavvicinò per osservarlo meglio; era un pesce maestoso, con una grande pinna dorsale trasparente e, quando saltava, la sua pinna trasparente rifletteva la luce del sole mandando un bagliore fortissimo. Il dio Cronos, che si vantava di tutto, pensò che, se avesse portato quello splendido pesce all’altare dell’Olimpo, tutti lo avrebbero voluto. Zeus, che sapeva tutto, glielo voleva impedire perché aveva paura di perdere tutte le donne che negli anni si era guadagnato con la fatica; ma non si preoccupò molto. Infatti sapeva che per Cronos, che non era un eroe, non sarebbe stato per niente facile arrivare al monte Olimpo. Per tutti gli eroi infatti ci sono delle prove da affrontare per vedere se sono degni di entrare a far parte del regno degli dei. La prima prova era di riuscire ad entrare nel regno di Sakary attraverso la botola che era governata da Cerbero, il cane degli dei, un cane feroce e spietato, detto anche il “succhia-anime” perché riusciva sempre a trovare il punto debole di ogni eroe che osava passare e lo uccideva. Però Cronos, dio dell’inganno e dell’astuzia, sapeva come domare questa bestia; la musica del flauto di metallo, forgiato da Efesto, che si trovava dentro al vulcano di Itaca, avrebbe fatto addormentare l’animale. Quindi il dio Cronos cominciò questo lungo 107
viaggio per prendere lo strumento e arrivò fino al vulcano di Itaca. Entrato nel vulcano, trovò il flauto, che aspettava solo di essere usato da qualcuno. Per Cronos fu facilissimo appropriarsene perché sapeva già come entrare; infatti glielo aveva insegnato suo zio Vulcano. In seguito tornò al castello, dove era la botola controllata da Cerbero, vi entrò e cominciò subito a suonare per paura di essere attaccato. Notò che Cerbero iniziò subito a barcollare e alla fine cadde facendo una buca nel pavimento per colpa della sua grandezza. Cronos entrò nella botola e cadde in un lungo tubo che lo portò fino ad un cumulo di radici che lo inghiottirono quasi soffocandolo. Esse però temevano la luce. Sul soffitto della grotta c’era una piccola fessura, che però non era abbastanza grande da riuscire a seccarle; quindi, sapendo che il pesce che aveva trovato rifletteva il sole, mise la sua pinna davanti al fascio di luce e… Improvvisamente lo riflesse. Un bagliore accecante seccò tutte le radici. Cronos, scampato al pericolo incombente, ricominciò a camminare dentro alla grotta fino a quando riuscì ad uscirne attraverso una piccola porticina. Arrivato finalmente alla città di Sakary dovette affrontare l’ultima prova: combattere con Ares, dio della guerra. Questi mise Cronos in difficoltà perché era più forte ma l’eroe riuscì a scappare e ad arrivare al monte Olimpo. Qui però tra Zeus, che aveva una rabbia incontenibile, e Cronos incominciò una vera e propria guerra che fu fermata da quel povero pe108
sce, il quale, rimasto senza acqua, gridò le sue ultime parole: “ Basta ! Non ne posso più di vedere tutte queste guerre !” L’animale, prima di morire, fece il suo ultimo salto nel cielo limpido lasciando a tutti gli uomini un segno di pace e di amore a sette colori: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, blu e viola. A quello spettacolo tra i due combattenti la rabbia scomparve e ritornò un mondo di pace. Michele Lucconi - Prima media IO E L’ ADOLESCENZA C’ero una volta...io! Io, un’adolescente come tante altre. Una ragazza con le prime cotte, le prime delusioni, le prime ansie e paure...e perfino i primi brufoli! Sto crescendo e sto attraversando il momento più particolare di tutta la mia vita: l’adolescenza! E’ da qui che mi preparo ad essere chi voglio essere davvero nella vita e prendere una decisione è stato difficilissimo. Ma finalmente ce l’ho fatta, ho deciso, voglio fare carriera nel mondo dello spettacolo! Sì!Esatto!Voglio diventare una star, come quelle di Hollywood...so che può sembrare un po’ infantile, ma ho una grande passione per ogni genere artistico e ho intenzione di rimboccarmi le maniche e iniziare a realizzare il mio sogno. Beh, come ho già detto non è stato facile affatto... 109
Sono partita con l’idea di voler frequentare il liceo scientifico. Avrei studiato cose che mi sarebbero potute servire per qualunque cosa avessi scelto e di conseguenza avrei avuto più tempo per scegliere la mia strada. Ma...chi mi conosce sa che sono una tipa che non ama le cose scontate, che non fa sempre quello che fanno gli altri e cerco sempre d’essere originale. “A modo mio”...credo di potermi definire così! Dunque... e poiché lo scientifico era uno dei licei più scelti, ho preferito optare per un’altra cosa e ho puntato sull’artistico. Ero convinta quasi completamente, ma...alla fine ho cambiato idea...di nuovo...e ho deciso di provare a realizzare il mio sogno. Purtroppo però non tutti hanno appoggiato la mia decisione...sapete com’è...c’è la crisi...l’arte non porta frutto... Oppure qualcosa del genere: “Sei sprecata...potresti fare il medico...l’avvocato...” Beh il medico non mi dispiacerebbe affatto...ma non perché vado bene a scuola devo fare qualcosa che ripaghi i miei studi...o sbaglio? Oggi sono sempre più convinta della mia scelta perché so che potrò essere veramente felice. Giulia Luna o Nulla - classe 2° media
110
UNA FAMIGLIA CHE NON MUORE Quella dei Bartolini è una famiglia piuttosto numerosa: oltre a mamma e papà ci sono ben cinque figli che rendono vivace e allegra la vita di tutti i giorni. Come ogni anno, al termine della scuola, i Bartolini decidono di partire per le vacanze estive: destinazione isola d’Elba. Quella volta, dopo aver percorso metà del tragitto, un guasto al motore fa sbandare la macchina. Quando arrivano i soccorsi, per i genitori e due dei figli non c’è più niente da fare. Il maggiore, dopo essere rimasto gravemente ferito, muore in ospedale dopo pochi giorni. I due fratelli superstiti vanno a vivere dagli zii fino al compimento della maggiore età. I primi tempi sono molto duri perché i ragazzi, sconvolti, non ce la fanno a superare il trauma. Ma dopo qualche mese, con tanto amore, impegno e abnegazione gli zii, grazie anche all’aiuto degli amici dei ragazzi, riescono in questa ardua impresa, distraendoli e facendoli divertire. Nonostante l’infelicità che provano, tirano fuori tutto il loro coraggio e la loro forza per ritornare a vivere in modo gioioso e sereno, senza farsi assalire dall’incubo della tragedia che li ha colpiti. Vivono per quattro anni in questa famiglia di “angeli” e, raggiunta la maggiore età e l’indipendenza economica, decidono di tornare a vivere insieme nella loro casa: comprendono che solo facendo i conti con il proprio passato potranno affrontare serenamente il loro futuro. I ricordi non sono più un peso di rimpianti ma una gioia 111
da conservare come il più prezioso dei tesori; i loro cari non sono più assenti ma continuamente presenti e protettori nelle difficoltà di ogni giorno. E questa nuova consapevolezza ha portato i due ragazzi a guardare avanti, a vivere il presente non in funzione del passato ma in vista di un futuro tutto da costruire. È così che, con il passare del tempo, i due si sposano e formano una bellissima famiglia ciascuno, continuando a tramandare il ricordo della famiglia di origine ai figli e ai nipoti, alle nuore e ai generi. Una famiglia, dunque, che non muore ma che continua a vivere in maniera diversa nei cuori e nelle menti di chi li amerà per sempre. Matteo Magistrato – Terza media EARTH; LA NOSTRA TERRA Nell’anno 2055, la razza umana, la più sviluppata della galassia, era riuscita ad estendere i suoi domini oltre le stelle. A quel tempo, gli Umani, ebbero un periodo di grande splendore, che durò per molti secoli, ma come tutti i grandi imperi, l’impero stava per cadere… Godus, grande imperatore, abile condottiero e grande diplomatico, aveva capito che l’impero stava cadendo e decise di scrivere questa lettera, nella speranza che qualcuno riuscisse a leggerla: “Non siamo soli, nell’universo ci sono altre forme di vita, noi siamo una di quelle. 112
Secondo i droni-scienziati che inviamo nel vostro pianeta, la vostra struttura fisica e il vostro intelletto sono molto simili ai nostri. Vi scrivo per dirvi che il nostro impero sta cadendo sotto la minaccia dei Miptoni, una razza guerriera e spietata. Non riusciamo più a tener testa a questa razza e stanno per raggiungere la madrepatria. Il mio impero è ormai giunto alla fine, ma voi dovete sopravvivere, state pronti, perché presto raggiungeranno anche voi. Dentro questa capsula vi lascerò questo siero creato dai migliori scienziati del pianeta, un siero che vi darà un grande potere. Usa il siero proteggi il tuo pianeta e salva la sua gente, rivendica il mio popolo!” Dopo aver scritto queste righe, inserì la lettera e il siero dentro una capsula, inserì le coordinate che corrispondevano ad una galassia che porta il nome di “Via Lattea”, ma la capsula era stata indirizzata verso un pianeta chiamato Terra. Dopo aver digitato le coordinate corrispondenti al pianeta, Godus premette un pulsante, e subito si azionarono dei piccoli razzi che permisero alla capsula di lasciare quel pianeta ormai caduto in rovina. Dopo giorni di viaggio in mezzo al nulla, la capsula sta per raggiungere l’atmosfera terrestre, dove Connor, un ragazzo di 17 anni, intento a recarsi nella scuola della Virginia (U.S.A.), fu interrotto da uno 113
strano oggetto, proveniente dal cielo. Connor non sapeva che fosse la capsula, ma quando il misterioso oggetto toccò il terreno, provocando un piccolo cratere, Connor, spinto da grade curiosità, si diresse verso il campo in cui la capsula si era schiantata e, dopo averla esaminata, riuscì a trovare il modo per aprirla. Dopo aver aperto la capsula Connor lesse la lettera e cercò nella capsula il siero di cui parlava la lettera, si trovava in un piccolo scomparto per evitare di rovinare il contenitore. Connor esaminò il siero e dopo una riflessione decise di inserire quello strano liquido, di un colore argentato, dentro il suo corpo. Nei giorni successivi Connor scoprì che quel siero avrebbe fatto sviluppare dei poteri. Passano i mesi, intanto Connor affina sempre di più i suoi poteri e scopre altre abilità, come quella di volare. Un martedì, tutti i telegiornali mondiali erano concentrati su un unico argomento; “degli strani esseri viventi si aggirano per il pianeta!”, ecco quello che dicevano tutti i telegiornali. Era arrivato il momento di cui parlava Godus? Non lo sappiamo ma sappiamo che degli strani esseri stanno per atterrare. Nei giorni a seguire, i governi mondiali hanno mobilitato gli eserciti per difendere il proprio territorio da un ipotetico attacco. 114
Il giorno a seguire, tutti i canali furono censurati per circa 15 minuti e fu trasmessa una dichiarazione di guerra da parte degli invasori. La mattina seguente gli eserciti si stavano preparando, mentre gli avversari stavano sbarcando dalle loro navi spaziali. Connor, ora, capì cosa voleva dire Godus e si promise di rivendicare quella civiltà ormai andata in fumo. Quando l’esercito avversario fu sbarcato, la pioggia batteva sui soldati, ma quando qualcuno chiuse il rubinetto dell’acqua, partirono una raffica di proiettili e i carri corazzati cominciarono a fare fuoco. L’esercito terrestre era nettamente superiore a quello avversario per una questione d’orgoglio, ma l’esercito invasore era molto numeroso, poiché essi possedevano una tecnologia che permetteva di clonare dei combattenti. Connor decise allora che doveva andare nell’astronave madre per distruggere quella specie di arma e, con un balzo, spiccò il volo verso l’astronave. L’entrata era bloccata da un sistema di sicurezza eccellente, ma Connor avrebbe potuto fonderla con il suo sguardo, e con un pugno la buttò a terra, entrò al suo interno e fu assalito da un’orda di alieni, che fu messa al silenzio dopo una lotta contro Connor. Quando raggiunse il sistema che gestiva la macchina di clonazione, la distrusse con il suo sguardo e piombando fuori dall’astronave, lanciò un raggio che fece sparire tutte le astronavi aliene. 115
Gli invasori, ormai allo sbaraglio, furono eliminati completamente poco dopo. La Terra era libera e i Miptoni sconfitti, quella vittoria segnò un momento importante per le diverse nazioni che dopo quella guerra divennero più unite. Edoardo Mangoni – Seconda media TUTTA COLPA DI MSR SMITH La seconda guerra mondiale era ormai cessata e Martha Harris fu mandata a vivere presso lo zio in una sconosciuta cittadina inglese. Quando Martha arrivò, tutti dissero che era una delle bambine più sgradevoli che si fossero mai viste, ed era proprio vero. Aveva un visetto smunto, un corpicino esile e un’espressione alquanto scontrosa. Il colorito era giallastro e per un motivo o per l’altro era sempre stata malata. In quel paese suo padre rivestiva un importante ruolo per il governo britannico ed era sempre troppo indaffarato per prendersi cura della piccola. La madre, una donna bellissima, ma superficiale, era morta durante il parto e non aveva affatto desiderato figli. Infatti, quando nacque Martha, l’affidò alle cure di Rose, una bambina con cui trascorse i primi 14 anni della sua vita fino al giorno del suo arrivo in Inghilterra. Lo zio aveva sofferto molto nella sua vita, perché aveva perso sia la moglie che la figlia durante un incidente. Martha era contraria al trasferimento, soprattutto quando vide la governante signora Smith, 116
nonché nuova compagna dello zio. La signora Smith, una donna perfida e malvagia, mise subito le cose in chiaro, dicendo alla piccola di non creare problemi. La ragazza, spaventata, andò subito in camera sua piangendo, ma fortunatamente ad aspettarla c’era Molly, una dolce domestica che la rassicurò dicendole di non preoccuparsi. Il giorno seguente pioveva a dirotto e quando Martha guardò fuori dalla finestra la brughiera era nascosta dietro una cortina di nebbia e nuvole. Quel giorno non sarebbe potuta uscire, ma ad un tratto la pioggia cominciò a cessare e la grigia foschia fu spazzata via dal vento. Martha non aveva mai visto un cielo così azzurro e limpido, così uscì di casa e si allontanò camminando lentamente. Quel posto stava incominciando a piacerle veramente. Ad un tratto, da lontano vide un maestoso giardino e incominciò ad avvicinarsi. Era il posto più affascinante e misterioso che si potesse immaginare. Gli alberi erano rivestiti di edera e il suolo era ricoperto da meravigliose margherite. C’erano vari rumori, ma quello che la incuriosiva di più era un suono che sembrava provenisse da molto vicino. La ragazza si avvicinò piuttosto intimidita e tra le foglie vide una casetta in cui si trovava una ragazza che stava suonando il flauto. Dopo vari tentativi, riuscì ad entrare dalla finestra e vide una bellissima ragazza dal volto scarno e dagli occhi azzurri come il mare. Dopo una lunga e intensa chiacchierata, Martha scoprì che era sua cugina Emma, rinchiusa da Mrs Smith poco 117
dopo l’incidente. La ragazza era cieca e passava i giorni ad immaginare la sua vita al di fuori di quel giardino. I giorni trascorrevano e Martha, grazie a Emma, non era più la stessa. Il suo carattere meschino e presuntuoso era cambiato. Le due ragazze si incontravano ogni giorno di nascosto e tra di loro nacque una bellissima amicizia alimentata dalla passione per le storie inventate. Nonostante i momenti di tristezza di Emma, Martha riuscì a riportarla fuori dalla stanza. La ragazza, da sempre considerata non vedente, iniziò a vedere dimostrando che la sua malattia era la conseguenza dell’incidente. Martha, felice di aver ritrovato la cugina, andò subito dallo zio, facendo presente il ritrovamento. Il signor Edward non riuscì a trattenere le lacrime di gioia e si diresse subito dalla figlia creduta morta. Inoltre, mandò via la signora Smith, perché accusata di aver rinchiuso Emma nella casa. Le due ragazze crebbero insieme fino a quando Martha decise di lasciare la città e trasferirsi altrove per ricostruire una nuova vita. Francesca Massetti – Terza media NICOLA E LA SUA MAMMA C’era una volta un bambino di nome Nicola. Aveva 10 anni e viveva con la sua mamma a Torino. Un giorno Nicola chiese alla sua mamma di andare alle giostre, che erano appena arrivate in città. La madre acconsentì ma lo avrebbe portato nel fine settimana, 118
quando sarebbe stata libera dagli impegni di lavoro. Si misero d’accordo per il sabato pomeriggio e Nicola aspettava con ansia quel giorno, lo sognava di notte, lo immaginava come il più bello della sua vita. E finalmente quel giorno arrivò. Alle tre del pomeriggio partirono e Nicola, pieno di entusiasmo, prese per mano la sua mamma. La teneva strettissima perché era proprio con lei che voleva condividere anche questo momento di massima felicità! Una volta arrivati, siccome sulla giostra dove voleva andare lui gli adulti non potevano salire, la mamma lo rassicurò e gli disse: “ mi troverai qui all’ingresso appena avrai finito!”. Il bimbo giocò per quasi mezz’ora. La sua felicità era così grande che non pensava più alla sua mamma. Finito il suo turno, Nicola si recò all’ingresso, come gli aveva detto la mamma, ma lei non c’era. Un senso di profonda solitudine gli salì nello stomaco. Dove era la mamma? Forse era dovuta soltanto andare in bagno. Si mise seduto vicino all’ingresso di quel gioco dove si era tanto divertito, aspettando la mamma che, forse, pensò ancora, era andata soltanto a prendere qualcosa da bere. Nicola aspettò, e aspettò, finché non si fece buio. Non poteva aver perso la mamma. Forse lei era a casa, perché quel maledetto gioco, il più brutto della sua vita, non finiva mai. Tornò a casa, ma non suonò il campanello, forse perché sapeva già che nessuno avrebbe aperto quella porta. Prese la chiave di riserva, nascosta nel sottovaso, ed entrò. Le luci erano spente. Chiuse il 119
portone dietro di sé e si sedette in terra, appoggiato a quella porta da cui era uscito felice e rientrato solo, impaurito, confuso. Dove era la mamma? L’aveva persa? L’aveva abbandonato? Pianse, pianse disperato perché lei lo aveva lasciato. Perché lo aveva fatto? In che cosa lui aveva sbagliato? Chiamò i nonni e iniziarono le ricerche. I nonni, persone buone e amorevoli che cercavano di incoraggiarlo, non riuscivano però a colmare quel vuoto incommensurabile. Dopo due giorni ritrovarono il corpo della sua mamma, maltrattato e gettato in mezzo ad un bosco. Perché l’aveva lasciata per giocare? Era colpa sua se lei era morta. Era colpa sua se lei se ne era andata. Non avrebbe dovuto pensare a se stesso ma a lei, a proteggerla sempre e dovunque. Ma non l’aveva fatto. Forse lui non era il bravo ragazzo che credeva di essere: era un mostro. È così che la sua vita cambiò: non era più il giovane educato di prima ma altezzoso e irrispettoso; non era più bravo a scuola ma svogliato e scontroso; non era più socievole con i compagni ma un bullo che rubava persino le merende. Ora non pregava più e ogni giorno sfogava il suo senso di colpa e la sua ira con il mondo. Ma lui sapeva di non essere ciò che era diventato. Lui sapeva che la sua natura era quella di amare, come quando c’era la sua mamma. Ma come poter cambiare le cose? Come tornare indietro? 120
Un giorno, mentre passava davanti ad una chiesa, gli vennero in mente alcune parole di sua madre. Lei diceva che ogni persona è legata a Dio con un filo. Quando sbagliamo il filo si spezza ma se ci vogliamo far perdonare, Dio rilega questo filo, che diventerà più corto ma questo vuol dire che il legame con Dio sarà più forte, e di conseguenza sarà più forte anche con le persone amate che sono con Dio. Nicola capisce così che nulla lo dividerà mai dalla sua mamma se non la sua volontà di farlo. Per questo motivo decide di tornare ad essere quello di prima perché solo così la sua mamma lo riconoscerà e continuerà ad amarlo per l’eternità. Costanza Mazzocchini – Terza media I FOLLETTI DELL’ARCOBALENO Molto tempo fa esistevano sette folletti di sette diversi colori. Questi folletti erano molto vivaci. Vivevano in Grecia in una pianura molto vasta, talmente vasta che non si riusciva a vedere cosa c’era dall’altro lato. Su questa pianura molto grande vivevano delle tribù tanto pacifiche che si univano solo in caso di guerra. Queste tribù erano costituite dal duca, dai guerrieri, dalle donne e da molti animali di allenamento che sacrificavano in onore dei loro dei. Vicino a questa pianura c’era un mare, chiamato Mar Mediterraneo dove viveva uno dei loro dei, Poseidone. Questi folletti erano degli eroi, perché avevano sal121
vato i greci dalla guerra, ora vi spiego come. “Un giorno una popolazione nomade di guerrieri sanguinolenti si stanziò dall’altro lato della pianura ma non si erano accorti che lì vicino viveva un popolo pacifico. Un giorno una famiglia della cattiva tribù, formata da due figli molto vivaci, un padre, una madre, fecero una passeggiata per vedere tutta la pianura. I due figli giocavano e scherzavano, correvano e ridevano fino a quando si fermarono sbalorditi perché videro l’altra popolazione. I loro genitori corsero a vedere cosa era successo e spaventati tornarono indietro per avvertire il loro popolo. Allora tutti i guerrieri si armarono per fare un’imboscata all’altro popolo, per impadronirsi di tutta la pianura. Essi, astuti, fecero il giro passando per il bosco e quando si trovarono la popolazione davanti l’attaccarono ed il Dio Poseidone si accorse di tutto e per impedire la guerra mandò un’acquazzone che durò circa sei mesi, ma non servì a nulla. A quel punto Poseidone chiamò i folletti e disse loro: “Io farò finire l’acquazzone e voi, visto che siete colorati, farete nascere un arco colorato, per far tornare pace e felicità tra i due popoli.” Il Dio Poseidone , allora, fece cessare la pioggia ed i folletti, volando da una parte all’altra della pianura, formarono un arco di sette colori: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Vedendo quello splendore, i due popoli cessarono la guerra. Così si è formato l’arcobaleno. Alessandra Montini –2° media 122
LA TRISTEZZA E’ UN DIRITTO Tutti hanno diritto di essere tristi. Per un qualsiasi motivo. Per una partita andata male, per una nota presa a scuola, per milioni di motivi, compreso l’aver litigato con un amico e l’essere lasciato da parte, come se non esistesse per NESSUNO. Le persone tristi vengono considerate “noiose”. Il fatto e’ che non sanno divertirsi, perché passano molto tempo da sole e si divertono leggendo, scrivendo o facendo tante altre cose. Molti, se vedono un muso lungo, cercano di tirare su il morale di questi individui e violano una specie di DIRITTO. Ognuno è libero di essere triste o contento e, se vuole sentirsi diversamente, deve essere LUI/LEI a chiedere aiuto. Sembra strano ma, secondo il mio punto di vista, è così. Se aspettate che qualcuno si accorga della tristezza di un altro… Beh il tempo sarebbe lungo; perciò è meglio dirlo. Non è bello confessare il proprio malumore a qualcuno ma aiuta, perché si ha la coscienza libera da un peso anche insostenibile. Certo, insostenibile è un parolone, ma purtroppo è così. A dir la verità, lo è anche per me, ma non divaghiamo. La persona triste impara a chiudersi in se stessa, lasciando fuori gli altri. Visto che la persona è stata lasciata fuori, l’individuo lascia fuori tutti gli altri. Così può credere di far del male agli altri ma, in realtà, si rende solo ridicolo, diventando aggressivo e non facendosi aiutare da nessuno (QUESTI COMPORTAMENTI PRECEDENTEMENTE DESCRITTI SI PRESEN123
TANO SOLO NELLE PERSONE CHE VENGONO LASCIATE FUORI O CHE LITIGANO CON UN AMICO/AMICA CUI ERANO AFFEZIONATI; PERCIO’ SI ASSOCIA ANCHE IL SENTIMENTO DELLA RABBIA). Comunque il triste perde fiducia sia negli altri che in se stesso, cosa molto svantaggiosa. L’autostima va a farsi “benedire in chiesa”, per non tornare mai più. Perciò il triste si trova: PIU’ TRISTE, SOLO, SENZA AMICI, SENZA FIDUCIA IN SE STESSO. Ed è quando si sente così che le cose precipitano. L’individuo inizia a fregarsene di tutto, della scuola, dello sport, etc… A lui non importa più vincere o perdere, prendere un bel voto oppure no, l’importante per lui è vivere. QUINDI… LA TRISTEZZA E’ UN DIRITTO. Angela Nulli – Seconda media UN AMORE LUNGO 14 ORE Colombia, terra del caffè di sole e vacanze… Terra ricca e maledetta. Ed è qui che ha inizio la nostra storia, di una mamma e tre sorelle. Che tristezza, sole e senza una mamma nè un papà. Senza nessuno. Un giorno umido la loro vita cambiò, la polizia adolescenziale le trae via dalla loro casa materna fatta di violenze e soprusi e portate in un istituto che si prese cura di loro. Così ha inizio il loro calvario. Furono portate in una casa sostituta, dove c’erano in teoria un papà e una mamma surrogata, una famiglia so124
stituta, come usasi chiamare in Colombia! A prendersi cura di loro c’era una signora molto anziana. Ma a tutte e tre le bambine mancava qualcosa: una mamma. Lontano lontano, dall’altra parte dell’oceano, c’era una donna. Lei aveva molte amiche, ma le mancava qualcosa: dei figli. Quella donna ero io. La mia caparbietà e testardaggine insieme ad una mano potente, il Signore, mi fecero intraprendere la più bella avventura della nostra vita. Era gennaio quando feci trovare a mio marito un plico con un elenco per l’ adozione. Un percorso lunghissimo a detta di qualcuno, ma per noi fu rapido con solo tre fermate: assistenti sociali, psicologa e tribunale dei minori. In Italia, figlie mie, l’adozione è materia per ricchi e non per operai, ma noi avevamo l’ alleato giusto. Vostro padre mi diede carta bianca, sono stata io a fare il giro, io chiamavo: tribunale, procura e prefettura. Il solito giro. Ero conosciuta nell’ ambiente giudiziario a tal punto che alcune pratiche prendevano una velocità tremenda. A idoneità ottenuta ci recammo all’Ente preposto per l’adozione internazionale. Era il 31 ottobre ero al lavoro, non lo dimenticherò mai, erano le 21, uno squillo: “PRONTO” dall’ altro capo la psicologa dell’Ente: “ Auguri sei mamma; ci vediamo il 3 novembre nel mio studio”. Nel suo studio ci aspettavano Assistenti sociali e psicologa, con molte foto, quelle delle mie tre figlie, voi. 125
Dopo nove mesi, ricevetti un altra telefonata dalle stesse persone. Si parte! Nel giro di poche settimane, riempii tre valigie di giocattoli, libri, cibo e vestiti, tutti e solo per voi, e salii sull’ aereo per affrontare il lungo viaggio fino in Colombia. Che viaggio interminabile! 14 ore di volo, non sopportavo nulla nemmeno le hostess che ci riempivano di manzana (succo di mele). Atterrati, faceva freddo a Bogotà, avevamo lasciato un’ Italia nella morsa del caldo afoso. C’erano anche molte altre famiglie in attesa di conoscere i loro bambini. Ero così emozionata e nervosa. Non vedevo l’ora di stringervi fra le mie braccia. Il giorno dopo un altro aereo e poi finalmente una casa in affitto e dopo poche ore, la psicologa dell’ istituto del Bienestar Familiar vi portò nella nostra casa. Ero così felice che scoppiai a piangere appena vi vidi e subito vi presi in braccio... e anche voi piangeste. Era da un’intera vita, che vi aspettavo. Vi portai nella vostra cameretta e vi feci vedere i vostri nuovi vestiti e le vostre bambole nuove. Oh, come eravate silenziose! Con quelle guance rosate, somigliavate a delle bambole. E quando vi guardai bene negli occhi, seppi immediatamente che eravate voi le mie bambine. Come avevano potuto accoppiarci con tale perfezione a un mondo di distanza? Le autorità Colombiane avevano forse aperto una finestra per scrutarmi nell’ anima? Quella prima notte v’infilai fra bianche lenzuola profumate, vi misi i pigiamini portati da me 126
dall’ Italia. Vi rimboccai le coperte nuove di zecca, e vi baciai mille volte. Ero innamorata, pazza di voi. Ogni volta che eravate sveglie, giocavamo insieme, scattando una foto dopo l’altra. Quando dormivate, vi fissavo incantata. Mi ricordo benissimo che in Colombia vi insegnai l’alfabeto italiano così da avvantaggiarvi per quando sareste dovute andare nella scuola italiana. Durante il lungo volo verso casa, siete rimaste sedute tranquille e sorridenti. Conquistaste tutto il personale dell’aereo e dormiste come degli angeli mentre volavamo fra le nuvole. Era la fine di un viaggio incredibile, e l’inizio di un altro. Quando finalmente atterrammo, i vostri nuovi nonni, zie, zii, cugini e amici vi aspettavano per sommergervi di abbracci e di baci. Tutti volevano guardarvi. Il vostro cuginetto più piccolo senza pensarci due volte cominciò subito a giocare con voi. Come avevamo fatto presto, a diventare unite, voi e io! La vostra stanza traboccava di giocattoli e animali di pezza, e c’erano anche tre letti nuovi. Vi guardammo esaminare attentamente ogni cosa. E alla fine sorrideste come per dire: «Siamo a casa». Arrivarono fiori, biglietti di auguri e regali. Tantissime persone vennero a farvi visita. Ma quando tutti se ne andarono e quel primo giorno scivolò nella notte, voi vi siete messe al letto, e mi ricordo, non riuscivate a dormire. Vi abbracciai strette, vi sfiorai con le labbra e piansi. Le lacrime erano per la vostra mamma colombiana che 127
non aveva potuto tenervi con sé. E speravo che, in qualche modo, sentisse che eravate al sicuro e felici. Ora siete delle donne, e diventerete madri, e solo allora potrete capire che significa essere mamma, mamma di pancia, ma capirete poi come è speciale essere la mamma del cuore, che vi ha asciugato le lacrime, viste sorridere e crescere, avere le crisi adolescenziali e rialzarvi, essere tristi per un amore perso e felici per un amico ritrovato, vi ho accompagnato negli studi imponendoveli e vedendovi realizzare i vostri sogni, vi amo come mie perchè siete mie, e non smetterò mai di ringraziare la donna che mi ha fatto questo regalo. VI AMO FIGLIE MIE! Luisa Palomba – Seconda media I FIORI DEGLI DEI Un bel giorno di primavera Zeus stava finendo l’arco del suo tempio, quando pensò di abbellirlo un po’. Andò a fare un giro per vedere con che cosa lo poteva abbellire. Si fermava ogni volta che vedeva degli addobbi, ma non gli piacevano, a lui piacevano solo i colori che lo mettevano di buon umore. Ci pensò tanto tempo, ad un tratto gli venne un’idea. Andò a chiamare Dafne, Era, Ulisse, Minerva, Persefone e Orione e chiese loro: “Qual è il vostro colore preferito?” Dafne gli disse: “Il mio colore preferito è il blu perché si intona con i miei occhi color oceano.” Era gli disse. “Il colore che adoro è il viola 128
perché è il colore dei fiori che adoro di più, le viole.” “Quello che mi piace di più è l’ arancione perché è il colore del sole al suo sorgere” gli disse Ulisse. Minerva: “Il mio è il celeste come il cielo e il mare.” “ Il più bello per me è il verde.” aggiunse Persefone. Orione gli disse molto convinto: ”Il giallo!” “Grazie, ora potete andare” gli disse Zeus e poi pensò dove trovare quei colori. Tutto ad un tratto Zeus corse a prendere fiori di quei colori, ma anche rossi, perché era il suo colore preferito. Poi prese dei fili, uno più grande dell’altro. Sul filo più grande ci mise i fiori blu, su uno più piccolo quelli viola e così via. Poi li prese e li mise appesi sull’arco, dicendo: “Lo chiamerò arcobaleno”. Metteva di buon umore tutta la gente che era lì. Pochi giorni dopo ci fu un temporale e appena smise di piovere uscì il sole. Tutti si recarono al tempio e videro in cielo un bellissimo arco colorato. Allora quei colori vennero usati per rappresentare non solo l’arcobaleno , ma anche la pace. Maria Chiara Pezzanera – Prima media IL PAPPAGALLO DI LUCA Zeus un giorno, dall’alto dell’Olimpo, vedeva che dopo ogni pioggia gli uomini erano sempre più tristi perché in quel periodo, in Grecia, pioveva sempre e dopo ogni pioggia se ne ripeteva un’altra. Allora, Zeus convocò tutti gli dei sull’Olimpo per 129
discutere della situazione sulla Terra. Dopo averne parlato Ares ebbe un’idea: -E se scatenassimo una grande guerra mettendo contro due capi di due popoli e li facessimo combattere? I popoli si risveglierebbero perché dovrebbero combattere per difendersi!Zeus fu d’accordo con lui, ma fece male perché il giorno dopo, sulla terra due capi di due popoli scatenarono una grandissima e sanguinosa guerra tra di loro, nella quale ci furono una moltitudine di morti e durò molti anni. Zeus, vedendo l’accaduto riconvocò gli dei sull’Olimpo e, questa volta, Apollo propose di mandare un pappagallo sulla Terra e Zeus, confuso dalla sua idea, si fidò. Appena arrivato sulla Terra, dopo il lungo viaggio, il pappagallo era molto stanco e trovò un uomo gentile di nome Luca che lo accudì fino al giorno fatale in cui mentre sorvolava il Mar Egeo perse quota fino ad affogare. Luca lo pianse a lungo quando lo vide cadere in acqua, ma dopo un giorno piovoso, alzò gli occhi al cielo e vide un arco colorato come il suo pappagallo; per Luca era davvero lui. Così dopo ogni pioggia gli uomini sono felici di vedere in cielo un arco colorato. Federico Pierdomenico - Prima media
130
LA CORSA ALLA GLORIA In un piccolo villaggio sperduto in Brasile abitava un ragazzo speciale, che ha una storia speciale, piena di difficoltà e contraddizioni ma soprattutto è caratterizzata dalla povertà che la sua famiglia doveva patire ogni giorno. Francisco era figlio di Santiago e Maria ed aveva ben sei fratelli: Carlos, Joselito, Julio, Santiago jr, Sergio e Jose . Lui era il più piccolo dei suoi fratelli ma fin da piccolo aveva un talento naturale nel giocare a calcio. Se ne accorsero ben presto i suoi fratelli ma anche suo padre che aveva avuto un passato da calciatore dilettante. Francisco era un ragazzino minuto ma era molto agile e scattante; era di carnagione chiara e aveva una montagna di capelli ricci e castani. Il ragazzo, crescendo, mostrava sempre più talento ma la sua famiglia non aveva soldi per iscriverlo ad una scuola di calcio perché i due genitori portavano a casa un salario molto basso, nonostante facessero un lavoro molto faticoso, in una piantagione di cacao nella foresta. I genitori, poi, dovevano mantenere anche gli altri sei fratelli. Allora Francisco decise di guadagnarsi i soldi che gli servivano per iscriversi, lavorando anch’esso nella piantagione. Dopo mesi di duro lavoro Francisco raccolse i soldi per iscriversi. Già al primo allenamento sbalordì il proprio allenatore, che lo faceva giocare sempre. Francisco era la colonna portante della squadra che ben presto gli sarebbe stata stretta. Lui era molto forte e attirò ben presto le attenzioni 131
di alcuni osservatori di importanti squadre brasiliane ed europee. Dopo una partita in cui Francisco aveva fatto ben otto goal , a casa sua arrivò niente di meno che un osservatore de Real Madrid e affermò che Francisco aveva tutte le possibilità per sfondare nel calcio. Francisco, appena apprese la notizia, si elettrizzò perché era sempre stato il suo sogno giocare nel Madrid, dove militava il suo idolo Cristiano Ronaldo. L’osservatore offrì un contratto a Francisco e alla sua famiglia, che lo avrebbe portato a vivere a Madrid. La famiglia accettò e, giusto il tempo di fare i bagagli, Francisco lasciò il Brasile alla volta della Spagna. A soli quindici anni Francisco era stato catapultato in una realtà diversa dalla sua. Scese dall’ aereo che non aveva un soldo, non conosceva la lingua e non aveva nemmeno le scarpe per giocare. Ma appena si presentò al centro di allenamento tutti capirono che avevano per le mani un fenomeno del calcio pronto ad esplodere. Per la sua abilità non giocava con i suoi coetanei ma con diciassettenni e diciottenni ma anche qui la sua bravura era troppa e quindi fu aggregato alla prima squadra. Appena appresa la notizia saltò dalla gioia e, naturalmente, avvisò la sua famiglia che accolse la notizia con enorme felicità. Il giorno del debutto in prima squadra indossò la maglia che aveva sognato fin da piccolo e si trovò fianco a fianco con il suo idolo Ronaldo: tutto ciò che aveva sognato, guardando la T.V. o le fotografie, ora si stava avverando. Ronaldo stesso gli 132
disse che aveva delle innate qualità e che un giorno sicuramente sarebbe diventato più forte di lui. La Domenica seguente esaudì il suo sogno che aveva fin da quando era in fasce: giocare al Bernabeu, lo stadio del Real Madrid. Al settantesimo minuto Ronaldo si fece male e, per sostituirlo, fu scelto proprio Francisco. Appena lo speaker annunciò il suo nome e sentì il rumore dei tifosi, Francisco ripensò alla sua vita: in un attimo gli passarono davanti le sofferenze, le umiliazioni, i sogni, gli sforzi della sua vita. Sorrise ed entrò in campo. Da quella domenica Francisco continuò a giocare con il Real fino a diventarne la leggenda che è oggi. Mattia Ralli - Terza media AMICIZIA L’amicizia è qualcosa di veramente importante nella vita di ogni uomo, per non dire che è fondamentale. Io non potrei pensare di vivere solo, di non condividere le mie esperienze e le mie emozioni con nessuno. Il rapporto che si instaura con un amico è diverso da quello che si ha con un familiare, per quanto l’amore possa essere lo stesso, o forse di più. Con l’amico puoi confidare tutto di te, anche quegli aspetti più segreti, nascosti, che non diresti neanche a te stesso. Un familiare non ti capirebbe, perché ha delle aspettative, delle pretese che un vero amico 133
non ha ma che ti accetta per quello che sei. Io ho veramente tanti amici, fra compagni di classe e compagni di calcio. Non posso lamentarmi. Io mi fido di loro soprattutto perché, alcuni, li conosco da più di dieci anni. Passo gran parte della giornata con qualcuno di loro: la mattina a scuola, il pomeriggio agli allenamenti e, a volte, anche dopo i compiti. Se mi si chiedeste quando io reputo una persona come un amico, io risponderei che l’amico è colui che si sacrifica per te, non avendo legami di parentela. Un episodio di amicizia è, ad esempio, quello di quest’estate, di un giorno in piscina. Un sabato pomeriggio andai con alcuni miei compagni alla piscina del mio paese ma non potevo fare il bagno perché il giorno prima mi ero fatto male ad una gamba. Loro rimasero con me, senza buttarsi in acqua e senza lasciarmi mai solo. Questo per me significò molto ed ho capito che non erano soltanto compagni ma amici. Io spero di non perdere mai i miei amici perché sono la cosa più importante al mondo e darei tutto per tutti loro. L’amicizia è sacrificio e lotta e in questo non mi sento privato di qualcosa ma riempito di affetto. L’amicizia è dunque un dare per ricevere. Nonostante tutto, anche io ho aiutato i miei amici. Fra pochi giorni aiuterò alcuni a studiare francese; questa cosa è successa anche l’anno passato quando ho aiutato due miei compagni a studiare per l’ interrogazione di storia. Sono piccole cose, sono solo 134
gocce in un oceano di immense azioni, ma per me valgono molto. Amedeo Rellini - Terza media NELLA VITA…BASTA DISTRARSI UN ATTIMO Com’era bella la mia vita prima di tutto questo, mi è bastato “distrarmi un attimo” per poi ritrovarmi così, il mio nome è Margherita ed ho 38 anni. Quando ero piccola vivevo con i miei genitori a Roma, mio padre era un pilota di aerei, era stato proprio lui a trasmettermi la passione per i viaggi e l’aereo, mentre mia madre possedeva una gioielleria. A quel tempo eravamo una delle famiglie più ricche di Roma, viaggiavamo molto spesso e avevo la possibilità di partecipare alle feste più prestigiose, di vestire all’ultima moda, …… Quando crebbi, una volta terminati gli studi, iniziai a lavorare come hostess nella compagnia aerea dove lavorava mio padre prima di morire. A causa del lavoro ero sempre in viaggio, mai fissa in un luogo, senza una casa, avevo quella libertà che avevo sempre cercato, ma che una volta trovata non desideravo più, perché crescendo mi sarebbe piaciuto trovare l’amore e fare una famiglia, avere una casa tutta mia, con dei bambini, ma il mio lavoro me lo impediva. Un giorno mentre ero in viaggio conobbi un ragazzo, si chiamava Andrea, ci conoscemmo e iniziammo a frequentarci, ci vedevamo spesso ed io mi ero com135
pletamente innamorata di lui, di questo ragazzo elegante e pieno di attenzioni. Poco tempo dopo ci fidanzammo ed io dopo tante insistenze, ritenendo di aver trovato la persona giusta, decisi di accettare la sua proposta di andare a vivere insieme. Così mi licenziai e ci trasferimmo a Roma nella villa che i miei mi avevano lasciato in eredità. All’inizio sembrava andare tutto bene, poi iniziai ad accorgermi che ogni sera lui tornava sempre più tardi e la maggior parte delle volte era ubriaco. Così una sera decisi di aspettarlo e una volta rientrato lo affrontai, gli chiesi come mai tornava sempre così tardi, dove passava tutte queste serate e che dal mio conto in banca i soldi diminuivano. Lui mi rispose aggredendomi, dicendomi che non mi doveva interessare dove passava le serate, che non erano fatti miei e che quei soldi gli servivano per qualcosa di utile, mi urlava contro, io ero rimasta lì, immobile con le lacrime agli occhi. Afferrò la giacca e uscì di casa. Lasciai perdere, tornai in camera, mi distesi sul letto e rimasi lì, a riflettere su tutto quello che era successo e come avrei potuto gestire la situazione. Non ci parlavamo più, a mala pena ci rivolgevamo la parola, mi ero stancata di questa storia così un giorno lo seguii e notai che era andato in una bisca, rimasi sbalordita davanti a ciò che i miei occhi stavano guardando, non era più quello di una volta, io mi ero innamorata di quel che era, ovvero un ragazzo 136
dolce, gentile, non di questa sottospecie di animale circondato da bicchieri di wisky, donne mezze nude a buttare via quei soldi che un tempo i miei genitori avevano dovuto faticare per guadagnarli. Tornai a casa, lo aspettai fino a tardi, una volta entrato iniziai a gridargli contro che lo avevo visto, che se ne sarebbe dovuto andare via il prima possibile, che non era più lo stesso e che mi faceva schifo vedere una persona “toccare il fondo” in questo modo come aveva fatto lui, ma non mi fece finire che si avvampò contro di me afferrandomi i polsi così forte da lasciarmi dei segni ed iniziò a dirmi che dovevo iniziare ad aprire gli occhi, ad accorgermi che non esiste una storia come quelle nelle favole come quella che io invece avevo pensato di aver trovato, mi disse che di me non gli era mai interessato niente, mi aveva solamente adulato per prendersi i miei soldi e sistemare tutti i suoi debiti di gioco. Poi un giorno mi svegliai, non so dove fosse fuggito sapevo solo che lui non c’era più, come il mio patrimonio. In quel momento, quando riflettei sulla sua fuga, mi sentivo straziata e delusa da me stessa, come se qualcosa mi avesse travolto e credo di sapere di cosa si trattasse….ero stata travolta dal “carro della vita”, succede quando credi di essere riuscita a realizzarti e poi, invece, eccolo che arriva e con la sua potenza ti ributta giù. Fui costretta a vendere la villa e con i pochi soldi che ricavavo lavorando come cameriera in un piccolo bar della periferia di Roma riuscivo, a malapena, 137
a pagare l’affitto di un monolocale, ma le spese e i debiti aumentavano e poco tempo dopo fui cacciata dal bar. Non avevo più nessuno, avevo tentato di tornare da mia madre e purtroppo mi giunse la terribile notizia della sua morte dovuta ormai alla sua età. Ripensai alla gioielleria e decisi di informarmi di sapere quale fosse stata la sua fine, era stata venduta e l’avevano trasformata in uno di quei piccoli negozi di souvenirs di tutti i tipi. Così in poco tempo persi tutto e mi ritrovai per strada a chiedere l’elemosina cercando di ricavare quattro spiccioli per permettermi almeno di comprare del cibo. Ed io, ogni giorno, ripenso al grande errore da me commesso, ma ormai non posso più fare niente, sono adulta e credo che se non accada un miracolo questo sarà il futuro che mi aspetta, ma in fondo me lo merito, ho sbagliato ed ora ne pago le conseguenze. Ho desiderato tanto la libertà ed eccola, è arrivata, ma nel modo e nel momento sbagliato, nella vita basta distrarsi un attimo. Ludovica Trovarelli – Terza media UNO STRANO PONTE In un tempo assai lontano, nell’Isola di Nettuno, “Sorgano il Magnifico”, comandante dei difensori dell’isola disse il fatidico giuramento: -Io, figlio di 138
Nettuno, vostro comandante, re di questa isola, giuro di uccidere Ares per l’assassinio della mia prole!Dopo giorni di navigazione lo trovò con duecento nobili guerrieri di Sparta. La sua collera esplose e Ares fuggì. Sorgano chiamò in aiuto la giovane dea che non fu presa in considerazione, anzi fu catturata per aver contraddetto il re. Zeus, ormai imbestialito chiese al dio dei colori Lititin di fabbricare un ponte dai sette colori: rosso, giallo, arancione, blu, viola, verde e indaco che conducesse al Monte Olimpo. Il dio obbedì e costruì un grande ponte che dalla forma, ricordava un dio. Le divinità maggiori furono convocate sul Monte Olimpo: Zeus inviò Ermes per salvare Atena e, grazie al magnifico ponte dei sette colori, che si addiceva proprio alla maestosità di un dio, riuscirono a tornare sull’Olimpo. Il ponte al passaggio degli dei svanì per volere dello stesso loro Re. Gli dei trovarono il nome lungo e complicato e quindi lo cambiarono in Arcobaleno visto la sua forma. Ecco come è nato l’Arcobaleno! Quindi quando lo vedete in cielo sappiate che sopra i suoi colori vi sono gli dei che lo percorrono in lungo e in largo. Leonardo Ursini - Prima media
139
NON VOGLIO ANDARE VIA Quando penso alla mia casa, ai miei affetti, alla mia serenità, subito mi compare davanti agli occhi quella piccola abitazione, calda e accogliente, in cui vivo da quando avevo sei anni. La Romania è lontana, non solo come posizione geografica ma come ricordi e attaccamento. Eppure ogni tanto torna, come un nuvolone nero in un cielo sereno, la prospettiva di tornare a vivere lì e di lasciare la mia casa, la mia vita. Tutto dipende dal lavoro di mio padre. Ogni volta che questo è a rischio, si parla di tornare là, in quel luogo così lontano da me. Ma io non voglio lasciare la mia Italia, che è l’unica vera casa che ho. Sono sempre vissuto qui: qui ho provato i sentimenti più belli, qui ho trovato gli amici, che mi vogliono bene, qui ho trovato la felicità con una ragazza con cui sogno di avere un futuro insieme. Non voglio andare via perché perderei tutto, non solo quello che ho ma anche ciò che potrei avere. Perderei la cosa più importante: la speranza in un futuro migliore. Ho molta paura però che, un giorno, tutto questo possa veramente succedere; ho paura che quel nuvolone scuro, che copre le mie certezze e i miei sogni, non se ne vada via con il vento ma butti giù tutta la sua cattiveria e prego, prego, affinché qualcuno, da lassù, mi guardi e mi protegga. Bilibou Vlad - Terza media 140
POESIE SCUOLA SECONDARIA DI 2° GRADO “La poesia è cogliere il pensiero nell’attimo, immortalarlo nel libro per poi riviverlo nel tempo” Helmut Newton
Parco vulcanologico con bastioni di venanzite 141
FALENA Il ricordo di quando la mia vita ha incontrato la tua è vivido in me come le stelle nelle notti d’inverno. Cieli impregnati di buio grondanti gelo che brucia la pelle ed incubi che seviziano la fantasia in me. Rinchiusa nel tuo bozzolo splendido esemplare di crisalide acerba. Corpo teatro di guerra torturato, dilaniato. Come una falena ballavi in quella crepitante sera d’estate. Uno sfiorarsi di sguardi, un sussurrarsi di segreti celati un’alchimia di due cervi innamorati. Le ferite del cuore, le mie, ricucite dalle premure dell’amore, il tuo. Un guerriero della notte caduto vittima delle tue grazie, ninfa rilucente di flebile luce. Gioiello di rara bellezza, i tuoi occhi, lucerne nel mare in cui son naufragato. Mi nutro dei respiri tuoi, nettare ed ambrosia ai sensi miei. 142
La tua carne ha il sapore di chi ha combattuto con la vita, ed ha vinto. Il prezzo, la spensieratezza della gioventù. Il bottino, l’aver visitato gli antri dell’Ade e le armonie dei campi Elisi. Unguento miracoloso le mie carezze, sui segni bianchi delle tue cicatrici. Cicatrici che son come rime scritte sul libro del tuo corpo, nelle cui pagine m’immergo nelle cui pagine mi perdo. Il buio è finito e torna una brezza. Ora le tenaglie del dolore hanno rilasciato te, perla d’inestimabile bellezza. Gabriele Naticchioni – 5° Liceo Scientifico – Marsciano (Perugia) 1° Classificato LA MIA OPERA DI TEATRO Mi hanno sempre detto che la vita è un mistero… Io dico che è un’opera di teatro. Un’opera colorata di rosso per l’amore, di verde per la speranza, di giallo per la voglia di andare avanti, 143
di bianco per l’innocenza… E poi,di nero… per la fine. Ma per me quella tua fine, segnò il mio inizio… Quell’inizio fece di te il mio custode… Quell’angelo volato via ingiustamente, portando con sé metà del mio cuore e delle mie ali… Ora guardo il cielo, e noto che le mie ali stanno riprendendo vita, anche se fragili. Ma ciò non mi scoraggia, ma mi fa sentire più forte. E so che tu “angelo mio” non mi hai abbandonata, ma mi hai fatto trovare il coraggio di spiccare il volo, perché so che quel vento che mi sussurra all’orecchio, è la tua voce che mi dà forza… Anna Carmela Lista – 1° Liceo Pedagogico – Montalbano Jonico (Matera) 2° Classificato
144
A SAVERIO Bellezza e incanto Sopra un dolore che tace E splende in fondo agli occhi, Il sorriso del sole Che illumina di gioia Lo spazio della vita Tra le parole : “Ce l’ho fatta!” Di un angelo comune Forse un po’ speciale Sceso sulla terra E la magia del cuore Che ti dà un motivo, La mattina, per alzarti E ti tiene per mano Fino alla fine della tua esistenza. Veronica Antonini - 1° Liceo Linguistico – Gualdo Cattaneo (Perugia) 3° Classificato FALENA Sei gracile, fatta d’amianto e cemento secco. Pallida come la grandine ma col cuore di lava. Chissà come fai a non scioglierti mai. Sei bella: la falena che si ostina a competere con la farfalla. Perdi sempre ma sei furba. Rimani indietro perché davanti sai che ci sono l’oblio, l’apatia, 145
il nero, la morte. Non ti piacciono. Voli di notte ma cerchi la luce. Un calore che non riesci a trovare. Vorresti sentire, c’è solo silenzio. Vorresti gridare, non possiedi una voce. Vorresti carezzarlo, la sua carne è impalpabile come le tue ali. Ti spingi verso l’alto ma la pressione ti schiaccia. Questa è fisica, piccola mia. Come credi di poterla vincere? Ami l’inverno ma dal freddo sei sempre costretta a scappare. Una falena nata d’agosto che sa di salsedine. Odi il silenzio ma il caos proprio non lo sopporti. Ti sto seguendo senza permettere che tu te ne accorga. Dove mi porti? La notte cede lentamente il posto all’alba. La luce ancor stanca del sole illumina le tue ali ormai consunte. Crolli sul fiore più bello ma nessuno si accorgerà mai di te. Gloria Bellaveglia - 2° Istituto Agrario
146
LA FACCENDA Lo vidi un giorno, all’improvviso, un po’ sporco e malandato ma pensai, di primo acchitto, che qualcosa ci legava. Con tanta voga io lo presi Col pensiero d’aiutarlo Ma, di certo, non credevo Che di tanto necessitava. Tra rimproveri e battibecchi Il mio nonno m’aiutò Per vedere finalmente La faccenda sistemata. E’ così che, per fortuna, lui sano ritornò e con gioia posso dire che un buon apetto anch’io ce l’ho. Matteo Cavalletti - 1° Istituto Tecnico Meccatronico UN AMICO Ho un amico, un amico in te Che non delude e pensa a me. Ricordo amore e gioia, sai perché? 147
Ero sola, ma c’eri te. Mi capivi e mi aiutavi E non solo ci riuscivi, mi rallegravi. Sono stata bene al tuo fianco, sono cresciuta e ti ringrazio tanto. Ma ora è diverso, sai perché? La vita è ingiusta, ci sono io ma non te. Laura Falini – 3° Liceo Scientifico IL SORRISO Il Sorriso. Il Sorriso spazzato via in una calda estate di giugno Proprio quando i fiori si riaccendono dei loro colori. Il Sorriso ingenuo, timido ma unico Che faceva rinascere il tutto. Il Sorriso che portavi con te ovunque Nonostante le difficoltà cercavano di Strappartelo via. Il Sorriso impresso nel tuo viso Anche quando la vita cercava di opporsi a te. Il dolore, il vuoto e il male sconfitti da una sola medicina. Il Sorriso. Federica Federici - 4° Liceo Linguistico
148
NELLO STELLATO CIELO UNA LUCE BRILLA Nello stellato cielo una luce brilla Canta al cuor l’eco della sua voce Una stilla di pianto nel ricordo S’incrina l’oblio Diventa vivo il dolore dell’attimo cocente La mente s’illumina La fede scalda il cuore Uno sprazzo di luce abbagliante Volar vedo il ragazzo raggiante Negli spazi celestiali Accecante per lo splendor delle sue ali. Federica Federici – 4° Liceo Linguistico A SAVERIO Il tuo cuore artificiale era più grande di uno reale hai riempito il mondo di gioia con il sorriso ed ora abiti in paradiso. Il tuo ricordo è vivo nei tuoi cari, ricordano i tuoi occhi pieni di vita, come fari. I tuoi amici sono guidati dalla tua stella senza di te la vita non sarebbe stata altrettanto bella. Ciao Saverio Giulia Latini – 4° Liceo Linguistico
149
SIAMO FATTI DI Anche se non vogliamo ricordarlo, siamo fatti di “Non lo so…”, siamo fatti di “Ho da fare, non ora…”, siamo fatti di “Voglio stare da solo!”. Pur non volendo, la nostra mente sollecita, ancora e ancora questi pensieri, rimembrandoli in ogni momento, perseguitandoci e riducendoci allo stremo. Solo quando saremo rimasti soli con il nostro egoismo, sapremo apprezzare ciò che non avevamo sotto gli occhi, e per cui non abbiamo lottato Giulia Mancinelli – 4° Liceo linguistico SOLAMENTE CIO’ CHE SEI Un ragazzo. Solamente ciò che sei può realmente colpire. Senza bisogno di maschere o camuffamenti. Tu sei ciò che sei, solo tu puoi decidere cosa diventare. Vai per la tua strada. Osa. Rischia. Distinguiti. 150
Innamorati. Non devi voltarti mai indietro. Qualora lo facessi sarebbe rischioso. Potresti ricadere nei tuoi errori. Sei un ragazzo, hai un grande dono. Vai avanti. Deborah Romualdi - 4 Liceo linguistico LA CHIAVE D’ORO “Il tuo sapore rimarrà sulle mie labbra screpolate finché ti vedrò nei miei sogni” queste parole ora povere erano le nostre chiavi d’oro per il cuor piangente adesso son soltanto nomadi granelli di polvere. Simone Sbarra – 1° Istituto Agrario L’ ANIMA REGALATA Tu che illumini l’anima mia con occhi stellati costellazioni su capelli desiderati regalandomi magnifici sogni ladruncole labbra di baci un cuore d’amore e dolcezza. 151
Simone Sbarra – 1° Istituto Agrario DROGA Continuo a voler dimenticare la nostra canzone ma nella testa riaffiora l’immenso desiderio di drogarmi del tuo odore come dopo una lunghissima maratona il bisogno di bere il tuo amore Simone Sbarra – 1° Istituto Agrario LA LUCE E’ VELOCITA’ E TEMPO La luce è velocità e tempo, che nello spazio infinito delle anime dell’uomo illumina gli astri del cielo, è, in ogni momento che quando si vuole lo si sfiora, per osservar lontano il soggetto che è luce e solo con questa perviene a sé, per divenir tetto e cosa dell’anima del mondo. Federico Settimi - 3° Liceo pedagogico 152
L’UNIVERSO SPERANZA La foglia ascoltando il candido vento della calda estate coglie l’anima del mondo, che caldo e profondo accorge le proprie anime innocenti. Il batter d’ali di un’aquila reale, che prima di morire, salutando va gli immensi mari; un bambino nasce e segue l’odore del latteo seno della madre, che gli perviene….. è l’universo che, nel suo insieme va al di là del mondo perverso, è l’uomo che sogna, che spera e diviene. Federico Settimi - 3° Liceo pedagogico IL SE’ MERITATO Amo, scrivo, leggo e rido, la cultura mi evolve… Corro, mi illumino, il senso è pio, l’anima risponde… Coraggio, è la volontà dell’uomo di spingersi verso l’ignoto e di saper uscir dalle pene del mar ancor più noto, come valle dei pensieri. Restii resti di cadaveri, s’annicchiano ai miei piedi, ma attraverso forza di volontà, riesci e vedi, 153
quel fior di loto immerso nella valle, nella boschiva luce sgargiante del mattin di primavera, accanto, mimose bianche e gialle che cambiano color con l’arrivar della sera. E’ notte, la bestia si sveglia, non vi è pipistrello che abbia pazienza, uno scappa, come tutti i gufi, il soldato veglia il fuoco, si sentono urli! Mai in nessun luogo vi era stata una terribile strage, ma il soldato s’alzò e con il suo fucile riuscì a portar la pace. Vidi lucciole allor volar nel cielo vago, che nel buio sparivano pian piano, quando ormai il sol saliva meritato, poiché dalla vasta notte sorse riposato. Federico Settimi – 3° Liceo pedagogico
154
RACCONTI SCUOLA SECONDARIA DI 2° GRADO “Il racconto ha un fascino particolare sull’ animo umano perché ci comunica momenti di vita vissuti, storie vere o fantastiche, facendoci emozionare e riflettere. Italo Calvino
155
LA BATTAGLIA Giorno 11 novembre Ho perso il conto delle settimane che ho passato in ospedale. È così triste. L’ospedale ha le pareti bianche e spoglie, come le persone che si trovano qui sono spoglie della loro gioia. Tutti i giorni gli infermieri corrono di qua e di là. Ci sono persone che si lamentano per dolori vari e bambini che hanno perso la voglia di giocare e ridere come ogni bambino dovrebbe fare. Spesso mi capita di vedere malati che esalano il loro ultimo respiro e io mi chiedo tra quanto succederà a me, come sarà e cosa proverò. La cosa che mi segnò di più fu vedere una mamma con in braccio il corpicino esile ed immobile di suo figlio. Era disperata e lo stringeva a sé. Le lacrime di quella povera donna bagnavano la testolina del piccolo e lei lo guardava come se da un momento all’altro si potesse svegliare. Come può una creatura appena nata morire così senza neanche crescere, provare emozioni e vivere anche solamente per poco? Giorno 16 novembre Ancora non so se sono malata oppure no, ma i medici mi fanno un esame dopo l’altro. Quando chiedo certezze, mi dicono che ancora non sono riusciti a capire cosa ho e cercano pretesti per cambiare discorso. L’angoscia e la paura sono tangibili. Molti dei miei amici vengono a trovarmi e provano a rassicurarmi dicendo che tutto andrà bene. Il mio aspetto esteriore è immutato ma sento che c’è qualcosa che 156
non va dentro di me. Non mi sento più me stessa. Qualche volta ho dei dolori allucinanti al petto che mi fanno respirare a fatica. Giorno 26 novembre Questa mattina sono svenuta e sono rimasta incosciente per quasi tre ore. Vorrei capire una volta per tutte il perché del mio stato. Vorrei che questo non fosse mai successo e che quella maledetta mattina non mi fossi sentita male. Odio sentirmi debole e soprattutto essere impotente. Mi fa stare male vedere le persone intorno a me affrante e sapere che sono io la causa di tutta la sofferenza mi rende furiosa con me stessa. Giorno 10 dicembre Ieri sera è venuto a trovarmi il mio editore con un regalo. Quando l’ho aperto sono saltata dal letto e ho cominciato ad urlare dalla felicità. Stavo tenendo in mano il libro che io ho scritto. Il libro che con l’aiuto delle mie dita e del mio cuore è stato trapuntato su carta. Sono stata informata anche del fatto che tutti i miei amici sono accorsi a comprarlo. Non ci potevo credere! Il mio sogno si è trasformato in realtà. Non ci sono parole adatte per esprimere la mia allegria. Dentro di me ci sono ancora una miriade di emozioni. Era da tanto che aspettavo questa cosa, ma non per essere famosa. Io desideravo vedere il mio nome sulla copertina solo per poter dire che è frutto del mio lavoro. Volevo condividerlo con le persone per stringere un legame emotivo e far capire loro che 157
ci sono anche altre cose oltre agli effetti materiali e all’ignoranza. Qualcosa di più bello, di più vero. Ora posso farlo. Giorno 17 dicembre Sono esausta! Odio stare qui senza che nessuno mi dia delle spiegazioni. Tutte le volte che mia madre entra nella camera la vedo invecchiata. Non per l’età ma per causa mia. Questa situazione è ardua. La vita non mi può scivolare così tra le dita, mentre la sto a guardare senza che sia come voglio io. Bramo viverla appieno e sperimentare più cose possibili ma non mi fanno uscire. Mi tengono chiusa in ospedale. Giorno 25 dicembre ‘’Ho paura.’’ ‘’Di che cosa hai paura?’’ mi chiede il mio migliore amico. ‘’Della morte.’’ gli rispondo tremante. ‘’Hai detto una cosa saggia. Molte persone temono cose sciocche e persino io. Tu invece no, hai paura della paura stessa.’’ Mi guardo intorno e vedo le quattro pareti bianche tra le quali ho passato queste settimane. Sono terrorizzata dall’idea che quel bianco diventi qualcosa di più concreto. Il quadro a destra del mio letto raffigura una ragazzina sorridente con i capelli biondi che svolazzano, probabilmente a causa del vento. Lui mi avvolge con le sue braccia e mi stringe a sé. ‘’Sono molto spaventata.’’ ‘’Andrà tutto bene. Vedrai che dopo quest’ultimi 158
esami capiranno che non c’è niente di grave e ti rimanderanno a casa.’’ Cerca di rassicurarmi. Scioglie il suo abbraccio e resta a fissarmi negli occhi. I suoi sono verde scuro. Ogni volta che li guardo il mio cuore sorride per la felicità di averlo accanto a me. Si sente uno scatto e guardo verso la porta. La maniglia si sta piegando. Entra uno psicologo seguito dall’ultimo dottore che mi ha fatto gli esami. Finora mi hanno visitata sei medici e spero che questo sia l’ultimo. Voglio andare a casa e non ritornare più qui. Mi sono stancata di restare. Il dottore fa cenno al mio amico di uscire e lui obbedisce. Si siede vicino a me. Cerca di parlare ma le parole gli rimangono in gola. ‘’ Mi dica che cosa ho. Senza giri di parole.’’ ‘’Non possiamo più fare niente.’’ Sento che la mia faccia diventa rossa e gli occhi mi si riempono di lacrime. Sto tremando. ‘’Me lo dica!’’ dico con voce smorzata. ‘’Sono sicuro che lei lo sappia già, signorina’’ ‘’Sì, ma voglio sentirlo da lei. Ho bisogno di realizzare che tutto questo è vero. Magari sentirlo dire da lei mi farà provare meno paura.’’ Sento le lacrime aprirsi la strada tra le palpebre e cominciano a scorrere giù per le guance. Sono calde e salate. Il dottore si alza, mi dà un bacio sulla fronte ed esce seguito dallo psicologo. Almeno lui è uno dei pochi che ha capito che non ho bisogno di 159
compassione e neanche di psicologi. Devo accettarlo da sola e capire come affrontare il tempo che mi è rimasto. Sono stata presa a schiaffi dalla vita. Vorrei poterla prendere io a schiaffi. Non ci si può beffare delle persone in questo modo. Ho la vista offuscata e la testa in fiamme. Mi appoggio sul morbido cuscino e mi addormento. Giorno 2 gennaio Amaro. Sento solo un sapore amaro. L’amaro della consapevolezza che sono inerme. Questa notizia mi è arrivata addosso come un macigno e mi sta schiacciando sempre di più. Guardare i miei genitori è straziante. Ho sperato fino all’ultimo che i dottori si sbagliassero ma così non è stato. Giorno 7 gennaio Anche se la vita mi ha steso al tappeto con questo duro colpo, faccio di tutto per rialzarmi. Combatto. Cerco di non smarrire la forza. Ho l’intenzione di uscirne vincitrice e non perdente, affinché gli altri possano capire che la malattia può essere sconfitta. Voglio far ricredere i dottori riguardo alla loro diagnosi e anche togliere la maschera di compassione e di tormento di chi entra nella mia camera. Non do peso alla stanchezza e neanche alla rabbia che mi ribolle dentro per l’ingiustizia che mi è toccata. Giorno 15 gennaio È stata una lunga nottata. Non sono riuscita a dormire a causa dei dolori continui che mi assaliscono come belve e mi consumano fino all’ultimo. L’unica 160
cosa che mi aiuta sta sul comodino alla destra del mio letto. È un quaderno blu, il mio colore preferito. Mi imprime sicurezza e speranza insieme alla scrittura. Non faccio altro che scrivere, mi aiuta a non smarrirmi. Apro la pagina dove c’era come segno la matita, anch’essa blu. Sul foglio increspato a causa delle lacrime riesco a stento a leggere la poesia che ho scritto il giorno di Natale: VORREI CHE FOSSE DIVERSO Sulla faccia molti gli schiaffi, di tutte quelle volte che la sorte ha riso sotto i baffi, negli occhi la certezza, che non ci sarà una carezza. Sul corpo troppe le ferite, che mai sono guarite, e il cuore è senza indignazione, perché sa che è l’ultima razione, di questa vita vissuta con rassegnazione. Giorno 19 gennaio Mi affaccio alla finestra della mia stanza. Lì vicino all’ospedale c’è un parco. Molti bambini ci vengono a giocare ed è la prima volta che ho avuto il coraggio di guardarli. Fa troppo male. Loro giocano e ridono spensierati mentre io sono tormentata dai ricordi della mia infanzia e dal pensiero che non potrò mai avere figli. Avevo dei sogni, laurearmi, pubblicare altri libri, aiutare le persone e gli animali. Ambivo ad essere diversa dalle persone che abitano questo pianeta, il novantanove per cento è pieno di cattive161
ria, egoismo, invidia, superbia e avarizia. Io aspiravo a distinguermi, lasciare un segno e il ricordo di una donna che ha fatto qualcosa di concreto per cambiare il mondo. Giorno 24 gennaio Mi guardo allo specchio. Sono cambiata moltissimo. Gli occhi sono infossati , i capelli hanno perso la lucentezza e si vedono sporgere le ossa ovunque. Se uscissi fuori, il vento sicuramente mi farebbe volare via. Sento una stretta al cuore. È difficile da credere ma non mi arrenderò così facilmente. Combatto e combatterò. Giorno 30 gennaio. Mi documento sulla morte, su come ci si sente quando arriva il momento. Ho letto alcune testimonianze da parte di varie persone che erano ad un passo da non ritornare più. Una cosa mi è rimasta impressa nella mente, un ragazzo ha ultimato il suo racconto con una frase che personalmente ho adottato come mio motto: ‘’Non oggi!’’ Mi dico: ‘’Un qualsiasi altro giorno ma non oggi.’’ Dimostrerò che non sono così facile da ingannare e che la morte faticherà a strapparmi da qui. Giorno 7 febbraio La mia mente combatte ma il corpo non vuole collaborare. Sostiene una battaglia all’interno, contro il male che si sta espandendo e, visto lo stato in cui mi ritrovo, sta perdendo. Non ho appetito e le gambe sono deboli e intorpidite, con fatica sostengono 162
il mio misero peso. Forse non sono così invincibile come credevo. Mi sono illusa da sola. Noi giovani ci illudiamo di poter fare qualunque cosa ma quello che non sappiamo è che gli ostacoli sono tanti. Finora ne ho affrontati molti e questo è il più grande. Il castello di sogni che all’inizio sembrava essere costruito di roccia forte ora si sta sgretolando e gli sforzi che faccio per non farlo crollare non bastano. È come i lego, tu costruisci, costruisci, e poi cadono, come i castelli di sabbia che alla fine vengono portati via dall’acqua, come quando stai sognando e proprio sul più bello vieni svegliato. Mia madre e il mio migliore amico stanno giorno e notte accanto a me e gli altri miei amici vengono a trovarmi di tanto in tanto. I medici dicono che troppi possono peggiorare la condizione. Tanto oramai la situazione è sfuggita di mano. Ho perso le redini e questa vita sta galoppando come dei cavalli dissennati. Mi sta dirigendo verso l’ignoto. Giorno 10 febbraio Mi hanno sempre detto che siamo gli artefici del nostro destino e che solo noi abbiamo le facoltà per plasmarlo come più ci sembra giusto. Mi hanno insegnato che raccogliamo ciò che seminiamo. Cosa ho mai fatto io per meritarmi questo usurato raccolto? Giorno 15 febbraio Sono entrata in coma. Pian piano sto cedendo e la paura mi attanaglia sempre di più. Le macchine alle quali sono collegata prolungano solo la mia soffe163
renza. Vorrei dire a mia madre quanto bene provo nei suoi confronti, che è la persona più bella del mondo e che non trovo parole per esprimere la mia gratitudine. Per ultimo le vorrei dire di staccare i fili perché sono inutili. Forse il qualsiasi giorno è alle porte e non posso più scappare. Sono in bilico tra la vita e la morte. Giorno 20 febbraio Ho conosciuto il dolore, il mio, delle persone che mi circondano, di tutto il mondo... Penso sempre a come gli altri reagiscono davanti al tormento e mi domando spesso a come sto reagendo io. Non riesco a capire e non sono in grado di decifrarlo. È molto strano ma credo che ormai io e il dolore siamo diventati amici, anzi qualcosa di più, siamo diventati una cosa sola. Sembra che non ho via d’uscita e purtroppo devo ammettere che è riuscito ad impadronirsi di me. Giorno 22 febbraio Non so cosa sta succedendo. C’è stato un beep e poi tutto nero. Ora mi ritrovo davanti al mio letto ma sono in piedi. Capisco di aver perso mentre guardo il mio corpo inerte. Tutto si è spezzato in pochissimi secondi. Mi metto le mani tra i capelli e urlo disperata. ‘’Mamma ti prego aiutami! Ho paura!’’ La morte non ha colore ma è gelida. Mi serra con le sue grinfie e cerca di trascinarmi via. Mia madre piange e tendo le mani verso di lei. 164
‘’Mamma, non voglio andarmene. Ti supplico non lasciarmi andare, tienimi stretta in uno dei tuoi caldi abbracci e manda via questo freddo.’’ Lei, come se mi avesse sentito, lo fa. Mi scuote e tra le lacrime e i singhiozzi mi dice che mi devo svegliare, che devo continuare a scrivere, che devo vivere... Cerco di spezzare le catene e di svegliarmi per lei. ‘’Non ci riesco . Ci ho provato ma non mi lascia andare.’’ Ora mia madre mi sistema la testa sul cuscino e mi accarezza il viso. Comincia a cantarmi la mia ninna nanna preferita. Le catene si sciolgono e anche il freddo si allontana. Una luce mi appare davanti. Mi avvicino a lei e prendo le sue mani ruvide, quelle di una donna che ha dovuto resistere a una dura vita, e le stringo forte. ‘’Ti scongiuro, perdonami.’’ le sussurro. Cammino verso la luce e il calore mi avvolge. ‘’ Volevo che fosse stato diverso.’’ Vlad Roxana Mariana – 2° Liceo linguistico - Montecastello di Vibio (Perugia) – 1° Classificato) CIO’ CHE RESTA DOPO UN SOGNO Ad Annabelle piacevano i suoi capelli rossi ma forse li avrebbe preferiti ancora più lunghi. Ad Annabelle affascinavano tantissimo le persone. Era irrimediabilmente innamorata di loro. Le osservava sfilare sui grigi marciapiedi di Dubli165
no, la sua città natale, da dietro il finestrino della metropolitana che ogni mattina s’impegnava ad accompagnarla a scuola. Se c’era una cosa che Annabelle aveva intuito su di loro a forza di studiarle da lontano, era che la gran parte veniva spesso manovrata dalla paura. Non era affatto vero che ci pensava l’amore a giostrare ogni cosa, pensava, quello era solo un banale cliché. Semplicemente correvano a lavorare perché non potevano permettersi di fare altrimenti e allora si ritrovavano costretti a trascinarsi dietro quell’ammasso di carne e d’ossa tenuto in piedi solo da un sistema intrecciato di organi che non aveva ancora smesso di funzionare. Ad Annabelle sarebbe piaciuto poter parlare con ognuno di loro, scoprire quanta vita nascondessero tra costola e costola e aiutarli a risolvere almeno uno dei tanti problemi che non li faceva dormire troppo bene. Quando da piccola le veniva chiesto che lavoro le sarebbe piaciuto fare da grande lei rispondeva già con le idee chiare: “Voglio salvare le persone” biascicando con lo sguardo basso e le gote rosse, consapevole del fatto che la sua era una risposta inaspettata e insolita. Era la voce di una diversa che parlava e ciò la metteva in profondo disagio. “Strana” era l’aggettivo che le avevano affibbiato i suoi compagni di classe a sei anni, per la prima volta. Ne aveva dieci quando erano già in molti ad etichet166
tarla aspramente perché, in fondo, Annabelle strana lo era sul serio. A partire dal verde dei suoi occhi struggentemente brillante, proseguendo con il fatto che, per quanto le piacessero di già le persone, la piccola preferiva comunque tenerle lontane da sé e scrivere di loro, piuttosto che parlarci. Ed era proprio quello che faceva durante un’ora di sostituzione in classe, nei venti minuti di ricreazione e perfino durante il pomeriggio al posto di qualsiasi altra attività ricreativa. Gli altri che coloravano, urlavano, soffiavano nelle cerbottane, ridevano così tanto e così forte che quasi quasi le facevano venir voglia di posare la penna con la quale stava scrivendo per diventare come loro. Ma nessuna risata era mai riuscita a farle credere che davvero avrebbe fatto meglio a smettere di scrivere solo per poterne sentire ancora il suono. Ed esserne la causa, magari. A dieci anni, Annabelle scoppiava inevitabilmente a piangere davanti a tutti, lasciando la facoltà di vederla crollare anche a coloro che invece di prendersi cura di cose piccole e fragili come lei, si divertivano a sminuirle ancora di più. A dodici anni, gli occhi smeraldini della rossa, diventavano lucidi quel che bastava per mostrare a chi amava farle del male che in fondo era ancora debole. Ma stava cambiando, stava crescendo. Ci stava provando. Imparava a conoscere e a capire le persone perché 167
tutto sommato continuavano ad incuriosirla. Stava scoprendo quali fossero i loro punti deboli, le loro paure più intime e da cosa fossero dettate. Annabelle trovò ogni risposta negli insulti che le lanciavano, nel modo in cui si ostinavano a lasciarla da parte. A quattordici anni, la ragazza si vide bella per la prima volta. Coi capelli sciolti lungo le spalle che incorniciavano le linee dei suoi fianchi esili. Gli occhi brillavano ancora e dentro avevano cose belle come quelle che scriveva. Annabelle aveva sorriso davanti ai suoi quarantacinque chili di peso, apprezzando non tanto i lineamenti del viso o le curve del corpo quanto i lividi che aveva dentro e solo lei riusciva a scorgere. A quindici anni, Annabelle, dormiva poco e dormiva male. Un equilibrio proprio non riusciva a trovarlo, non dopo aver deciso di relegare la scrittura alla notte per avere la “libertà” di omologarsi di giorno. I primi ragazzi che le si facevano avanti, anche quelli carini, tendeva a respingerli tutti. Non le andava che dai suoi modi di fare, così scostanti, potessero dipendere i sentimenti di qualcun altro. Iniziò ad avere paura di quello che scriveva, dell’affetto incondizionato che provava nei confronti di personaggi fatti di carta e inchiostro che le impediva inevitabilmente d’innamorarsi davvero. Desiderò di poter sostituire il suo sangue macchiato di china con uno più rosso, magari incontaminato da qualsiasi passione che poi sarebbe potuta trasformarsi in 168
un’ossessione come la sua. Bruciò ogni scritto piangendo e sperando che con le lacrime sarebbe riuscita ad espellerne anche ogni ricordo. Annabelle comprese, per la prima volta, che il lieto fine non sarebbe riuscita a trovarlo nemmeno nelle sue storie. Le urla dei suoi genitori in salotto non riusciva più a sopportarle. S’era infilata il giacchetto sopra la tuta e gli auricolari nelle orecchie, così che la musica le trasmettesse il coraggio necessario per poter guardare dritto anche se gli altri avrebbero comunque continuato a guardarla storto. Aveva richiuso piano il portone d’ingresso alle sue spalle con la consapevolezza che, pure se avesse deciso di sbatterlo forte, i suoi non l’avrebbero sentita comunque. Camminava per le vie periferiche di Dublino con l’intento di perdersi perché, magari, se ci fosse riuscita qualcuno si sarebbe accorto della sua assenza e forse sarebbe corso a cercarla. Quel tardo pomeriggio di primavera però, la rossa non perse la strada di casa. Piuttosto ne trovò un’altra. Un bosco di betulle alte, forti, che respiravano piano e sembravano essere cresciute così tanto solo per poterla aiutare a sorreggere il peso di tutto quel dolore. Scaricando le sue paure nel soffice terreno, Annabelle si guardò intorno più attentamente e si accorse che, in mezzo a tanta armonia, qualcosa non andava. Stonava. La ragazza assottigliò lo sguardo e notò, tra le tante 169
piante, un busto spesso e basso, giovane nel complesso ma che non aveva fatto in tempo a crescere che già s’era seccato. La rossa ne carezzò la corteccia grigia e liscia con movimenti gentili e rispettosi. Chiuse gli occhi e provò a concentrarsi sullo scorrere di una linfa ormai evaporata da chissà quanto tempo. La mano che prima si beava di quel contatto, all’improvviso perse equilibrio e affondò nel legno. Annabelle sobbalzò, imponendosi di non aprire gli occhi in una competizione con se stessa. Quando le sue mani si mossero andando incontro a un qualcosa che sembrava della stessa fattezza della carta, sgranò gli occhi incredula domandandosi se fosse possibile. Realizzando che quelle che ora stava rigirando tra le mani erano davvero pagine di quaderno, la ragazza si chiese chi potesse essere stato a scavare un buco nell’albero con lo scopo di nasconderci dentro cose preziose come quelle. Annabelle si sedette con le spalle contro il tronco e sparse davanti a sé i numerosi fogli. Li contò più volte scoprendo che in tutto erano quasi otto decine di citazioni, poesie, sfoghi e disegni. Nessuno tra i tanti artisti che la rossa aveva studiato, era mai riuscito a concretizzare così bene un’emozione su carta. Né con la penna e nemmeno a colori. E lesse ogni parola fino alla tarda sera, finché il sole non fu tramontato e un rumore sempre più vicino di passi non la fece sobbalzare violentemente sul posto. Annabelle raccolse il più in fretta possibile ogni fo170
glio per poi correre a nascondersi dietro l’albero più vicino. Buio e nebbia erano ormai corposi e lei non aveva nemmeno un cellulare con sé. Una torcia illuminò da non molto lontano i piedi che non era riuscita a nascondere bene e una voce bassa e maschile si disperse tra il fitto fogliame delle betulle. “Guarda che ti ho vista”, diceva. La luce prodotta dall’apparecchio era abbastanza potente da illuminare entrambi e la rossa uscì allo scoperto con le mani che si torturavano tra di loro più per il dispiacere che per l’imbarazzo. Il ragazzo, mosso da un improvviso moto di tenerezza, la perdonò senza il bisogno che lei gli chiedesse nemmeno scusa. “Io… mi dispiace, davvero. Vado via subito” e Annabelle stava per andarsene sul serio ma lui scosse la testa quasi divertito e sorrise, lasciandola perplessa e stupita perché lei, al suo posto, si sarebbe arrabbiata e anche tanto. “Che ne pensi?” le domandò di slancio, sinceramente curioso del suo parere. La rossa sorrise di rimando e non pensò all’ora, perché aveva davvero tanto da dirgli e altrettante cose voleva lasciarsi spiegare da lui. Si mise seduta con le spalle contro il tronco e lui la imitò subito dopo e, anche se forse legate da un filo invisibile erano sempre state, le loro mani si sfiorano in quel momento per la prima volta. Era stato così: naturale come lo possono essere un sospiro di sollievo o il suono di una risata. Inizial171
mente Annabelle ed Harry (così le aveva detto di chiamarsi il ragazzo) continuarono a vedersi sempre lì dove si erano incontrati, stessa ora e quasi ogni giorno. Poi il loro rapporto aveva affondato così tanto le radici da farli stare bene praticamente ovunque: per i viali brulicanti di Dublino e per quelli sterrati delle sue periferie. Di giorno al termine delle lezioni e di notte quando stare tra le coperte era troppo soffocante e da sola non riusciva a stare. Annabelle non sentiva quasi più il bisogno di scrivere, il che era assurdo. Sorrideva tanto anche tra i banchi di scuola e le persone se n’erano accorte; la rossa stava così bene con se stessa che anche gli altri provavano piacere nello stare con lei. E tutto questo grazie a un ragazzo incontrato così, mentre aveva un piede nella fossa e l’altro che cercava disperatamente di non fare la stessa fine. E se ripensandoci adesso decidiamo di tralasciare dai ricordi le mani che stringevano forte il maglione dell’altro in un abbraccio, la pelle d’oca di entrambi quando erano tanto vicini da non percepire il freddo, le risate che sembravano fatte per nascere e morire insieme e lasciando anche quel filo sottile come la seta e duro come l’acciaio che potevi tirarlo forte quanto ti pareva ma non si spezzava mai Annabelle ed Harry, grazie alla loro amicizia, erano comunque finalmente riusciti a scoprire che la felicità non è solo un’ illusione. 172
E la rossa adesso era amica di molti ed era così soddisfatta della sua vita che non riusciva più a lamentarsi di nessuno. Con Harry aveva così poco tempo per litigare che spesso, quando nasceva un problema, entrambi si limitavano a sdrammatizzare e quello appassiva all’istante. Erano davvero troppi gl’impegni di due sognatori come loro per poter riuscire a lasciare spazio anche alle liti. Le fughe di notte, le calde giornate trascorse tra assi di legno, chiodi e martelli e poi ancora vernici e pennelli a costruire un piccolo rifugio sull’albero che però era abbastanza grande da riuscire a contenere tutti i loro segreti senza scoppiare; le corse tra i fiori, quelli che Annabelle amava raccogliere, gli stessi che Harry le aveva posto tra i capelli quando era riuscito per la prima volta a farle una treccia. I brividi provocati dalle lunghe dita di lui che s’insinuavano tra i boccoli scomposti, correvano lungo la sua schiena più veloci di quando la rossa scappava per le verdi praterie d’Irlanda, da un Harry che in poche falcate riusciva sempre a raggiungerla. E il ragazzo la riacciuffava sempre davvero, non falliva mai. Nemmeno quando Annabelle si torturava pensando di doversi allontanare da lui per la paura che meritasse di meglio. Quando succedeva, Harry se ne accorgeva sin da subito. Tirava forte il filo che li teneva così legati e la rossa tornava con il respiro affannato e le distanze che si accorciavano ancora più di prima. 173
Annabelle aveva diciannove anni quando i suoi capelli erano ormai lunghi fino al bacino e l’inchiostro delle penne giaceva completamente secco nel cassetto della vecchia scrivania. Era diventata grande e forte senza nemmeno rendersene conto e adesso non piangeva più da chissà quanto tempo. Uscì di casa stringendosi nel maglione largo e caldo che Harry le aveva prestato, soffocando nella soffice lana un sorriso. Rigirò tra le mani il telefono e rilesse più volte il messaggio in cui lui le scriveva che se per mezzanotte si fosse trovata lì dove esattamente tre anni prima si erano conosciuti, avrebbero festeggiato insieme i loro mille novantatré giorni di amicizia. Non si stupì più di tanto quando, a mezzanotte e dieci, Annabelle arrivò a destinazione ma non scorse i capelli scomposti di Harry. Arrivava spesso in ritardo e ormai ci aveva fatto l’abitudine. Lo aspettò seduta con la schiena contro il gelido tronco e sentì freddo, tanto, ma non lo diede a vedere nemmeno a se stessa. Arrivarono le due del mattino ma nessuna chiamata di Harry sul suo cellulare di che, al contrario, aveva riempito di messaggi senza ottenere alcuna risposta. Corse fino a casa di lui tanto velocemente che quando arrivò, i muscoli delle sue gambe bruciavano tanto forte da farla tremare. Bussò e urlò il suo nome, ma nessuno venne ad aprirle la porta. Perse lucidità e 174
si diresse verso la moto di lui parcheggiata davanti al garage. Armeggiò con i fili proprio come le aveva insegnato, imprecò perché le mani le tremavano e per questo non riuscì a farlo partire subito. Poi il motore sbuffò e lei montò in sella, accelerò quanto più il veicolo glielo permise e imboccò la strada principale. Il religioso silenzio in cui si rifugiava Dublino alle quattro di notte, venne squarciato in ogni via della città dal rombo del veicolo, lo stesso che riaccompagnò Annabelle al punto di partenza. Parcheggiò la moto e non le importò di ogni muscolo del corpo che gridava pietà. La rossa corse di nuovo al piccolo albero perché aveva bisogno di qualcosa che le ricordasse che non era poi l’unica a stare così male. Chiuse gli occhi e cercò disperatamente conforto nel contatto con la corteccia liscia e impregnata di ricordi. La mano affondò nel legno come esattamente tre anni fa e il cuore sembrò sprofondare ancora più in basso quando le piccole dita affusolate sfiorarono un pezzo di carta lungo e sgualcito, avvolto intorno a un qualcosa di freddo e metallico. Una penna. Annabelle sgranò gli occhi sorpresa perché Harry, in quel buco, non nascondeva più niente da quando ogni suo scritto e disegno aveva preferito regalarlo direttamente a lei. Stese il foglietto tra le mani e, mentre leggeva la calligrafia indecisa di lui, si sentì come se il suo petto si fosse irrimediabilmente squarciato. “Scusami se non torno”, c’era scritto. 175
Cadde a terra e pianse come una bambina, fregandosene di soffocare i singhiozzi tra le mani, incurante del fatto che se il bosco si fosse svegliato, avrebbe di certo sofferto nel vederla in quel modo. Pregò Dio affinché l’acidità delle sue lacrime riuscisse a corrodere quel maledetto filo che nonostante tutto continuava a legarli fino a spezzarlo, pur consapevole che niente sarebbe mai stato in grado di farlo. Pianse finché la mano non corse a cercare la penna tra gli steli d’erba e ogni cosa tornò al suo posto. Fu l’inchiostro quella sera a dettare le parole, la penna a decidere di macchiare la pelle liscia del polso di lei con due versi che, non più tardi del giorno dopo, Annabelle sarebbe corsa a farsi tatuare senza alcun ripensamento. E per la prima volta fu la penna a decidere il meglio per entrambe, mossa da un amore che nonostante la mancanza di luce e d’ossigeno era riuscito comunque a sopravvivere, cibandosi degli innumerevoli sogni di cui lei ed Annabelle erano fatte carne. “Altro che amici, altro che amore. Torniamo felici, immuni al dolore”. Gloria Bellaveglia – 2° Istituto Agrario – Mugnano (Perugia) - 2° Classificato BUIO E LUCE Dopo aver lanciato il piccone e il casco da minatore accanto alla porta della mia angusta stanza, sentii il 176
classico odore che da ormai diversi anni invadeva la cucina nell’ora dei pasti: zuppa di cavolo bollito. È da troppi anni ormai che mangio solo questo brodino insapore, potrei descrivervi il gusto a parole ma vi danneggerei solamente il palato. Per chi si fosse perso, durante questi decenni, qualche avvenimento, ora siamo nel 2961, non esiste più il mondo narrato dai vecchi libri a noi rimasti, ora la Terra è divisa in due parti: nella Luce vivono tutti gli uomini di alti ceti sociali ovvero magnati, intellettuali, politici, uomini d’affare, nobili o sempliciotti con un ricco patrimonio; nel Buio viviamo noi, pover’uomini costretti da secoli a vivere in grottesche e fatiscenti gallerie costruite sotto la Terra. In queste gallerie sono state costruite intere città e ci abitano anziani, donne, uomini e bambini che purtroppo non vedranno mai il mito della “luce del Sole”. Dalle mie parti si narra che questa sostanza ti riscaldi più di un abbraccio, che ti fa venire la pelle d’oca e che, a contatto con il viso, ti illumini gli occhi da renderteli più belli dei diamanti. Io conosco bene i diamanti, sono un minatore dall’età di 10 anni. Qua non esiste la scuola, nessuno ha il lusso di conoscere e di avere insegnanti. Qua i ragazzi vanno a lavorare invece che nelle aule scolastiche. Nessuno scrive più poesie o libri. La povertà, le malattie e la fame fanno parte della nostra realtà da molto tempo. “Alaric, tesoro è pronta la cena, chiama tua sorella” disse mia madre dall’altra stanza. Ero sfinito dopo una lunga giornata 177
in miniera, così mangiai velocemente e me ne andai a dormire nel freddo della mia camera. La sveglia suonò alle sei, cercai di trovare un po’ di energia per tirarmi su e per aprire la finestra che non dava su uno di quei paesaggi tanto descritti nei vecchi libri, ma semplicemente apriva uno spiraglio di aria fredda da dove si vedeva solo l’entrata della miniera e le piccole casupole della mia città. Mentre uscivo dalla porta sentii il mio amico Erin chiamarmi dall’altra parte della strada: “Alaric! Alaric fermati devo assolutamente raccontarti una cosa!” mi urlò mentre correva verso di me. “Calmati, dimmi cosa c’è; sto per andare al lavoro e non vorrei far tardi…” gli dissi con aria frettolosa. “Dimenticati della miniera” esclamò “devo dirti una cosa che ci cambierà la vita”, mi sussurrò poi, come se volesse proteggere la sua scoperta. Lo guardai con aria incuriosita e anche un po’ diffidente. ” Alaric, ieri sera, mentre tornavo dalla miniera, sono passato per una scorciatoia nella parte vecchia della città e mentre ero lì, indaffarato tra i miei pensieri, l’ho visto.” “Visto cosa?” gli domandai curioso. “Ti ricordi di quella galleria crollata tempo fa a causa di un terremoto? Ieri sera sono andato a curiosare tra le macerie e ho trovato un piccolo passaggio tra due macigni di pietra, e secondo me, quel tunnel porta…” si girò per controllare che nessuno lo stesse ascoltando :” porta alla Luce”, rimasi per qualche secondo perso nelle 178
sue parole, poi esclamai con un tono di voce rassegnato ” Stai scherzando spero?”. “No! Vieni con me e te lo dimostrerò.” Mi prese la mano e mi trascinò via senza darmi il tempo per rispondere. Arrivammo davanti a questi tumoli di macerie. “Seguimi e fai attenzione, ti porto attraverso questo passaggio” disse. Mentre seguivo Erin, provavo una strana sensazione, come se tutto ciò non fosse reale. Davvero avrei raggiunto la Luce? Cosa avrei fatto una volta lì? E se magari questo tunnel porta ad una strada senza uscita? Mi feci una serie di queste domande senza darmi risposta e con il cuore che accelerava ad ogni punto interrogativo. Una volta passati oltre lo stretto spazio tra due massi di roccia, la vista mi si illuminò. E la vidi, non ricordo l’attimo preciso, né le mie emozioni in quel momento, so solo che vidi per la prima volta la Luce ed era bellissima. Mi girai verso Erin che era come me estasiato ed gli urlai “Eccola! Erin la Luce! Corri forza, andiamo prima che qualcuno ci veda.” E corremmo veloci senza fatica in una corsa di speranza e leggerezza. Usciti dalla galleria ci trovammo in mezzo ad un bosco, con alti alberi verdi che si muovevano mossi da un venticello. Il calore dei raggi solari mi irradiò il corpo ed il viso e i miei occhi diventarono più belli dei diamanti. Sentii il profumo dei fiori e dell’erba accarezzata dalla brezza mattutina. “Alaric è meraviglioso! Guarda il cielo azzurro e le nuvole bianche, il sole, i suoi raggi che 179
illuminano i rami degli alberi! Allora è di questo che parlano i libri!” “Eric senti queste voci?” gli chiesi. “Si certo, Perche?” “Credo che ci sia una città da quella parte: andiamo!” dissi ingenuamente. Ancora meravigliati ci incamminammo verso il rumore delle voci. Dopo qualche minuto ci ritrovammo vicino ad un parco dove delle persone dai vestiti puliti e sgargianti sedevano sull’erba e facevano colazione. Così anche noi ci sdraiammo senza dare troppo nell’occhio. Appoggiai la testa sull’erba soffice e profumata e mi incantai nel guardare il cielo azzurro. Io ed Erin però venimmo disturbati da una palla lanciata proprio sulle nostre teste. “Ahi!” esclamai. “Oh scusatemi, ma io ed i miei amici stavamo giocando a palla”, disse una voce femminile. Mi girai e vidi un’incantevole ragazza dalla pelle abbronzata color cioccolato. “No non ti preoccupare”, le dissi. E dopo un sorriso se ne tornò dal suo gruppetto di amici a qualche metro da noi. Stavo pensando al suo volto e alla sua carnagione, quando un poliziotto ci vide ed esclamò con voce infuriata “Cosa?! Che diavolo ci fate voi qua!”, per poi continuare “forza, voi due venite come me…disgustosi!”. E senza darci il tempo di alzarci per scappare ci prese per il collo della maglietta e ci condusse in auto fino ad un grande palazzo d’epoca. Arrivati dentro rimasi meravigliato ancora una volta: bellissimi dipinti decoravano le pareti e uno sgargiante tappeto rosso era steso sul pavimento in 180
marmo bianco. Il poliziotto ci condusse dentro un ufficio dalle ampie finestre. “Mi scusi vostro onore, ho trovato questi due nel prato, vengono sicuramente da..” e indicò con la mano il pavimento. Il signore con un lungo abito nero lo guardò infastidito e gli rispose “Ma sei sicuro? Come hanno fatto a venir.. va bene, lasciami solo con i ragazzi.” E il poliziotto se ne andò.”Bene, ragazzi, come vi chiamate?”, ci chiese. “Alaric”. “Erin”. “E venite da..” lasciando la frase in sospeso. “Veniamo dal Buio, signore.” “Come avete fatto a venire fin qua?”, ci chiese stupito. “Da un tunnel” , disse Erin sincero. “Bè, ragazzi, mi dispiace ma dovrò rimandarvi a casa e far distruggere quel tunnel” “Cosa?!” Esclamammo entrambi dispiaciuti e tristi. In quel momento però la porta dell’ufficio si aprì ed entrò la ragazza dalla pelle color cioccolato esclamando “Ciao papà!”. Bloccandosi alla nostra vista “Ciao anche a voi, che buffa coincidenza rivedervi qua!” “Li conosci Kristiane?”, le domandò il signore. “Si, li ho incontrati prima al parco, ma che ci fanno qua?” chiese incuriosita. “Tuo padre vuole mandarci a casa, nel Buio!” le dissi stizzito. Kristiane fece una faccia strana e guardando suo padre disse “Nel buio?” A questo punto il signore si alzò in piedi ed esclamò: “Si vedi Kristiane, esiste nel sotto suolo un altro mondo, proprio sotto la nostra città ce n’è un’altra dove abitano persone come noi.” 181
“Come voi?! Noi non siamo come voi! Siamo costretti a morire di fame, i nostri bambini invece di giocare a palla vanno in miniera, le malattie ci uccidono senza i medicinali che voi avete e noi no. Noi non siamo come voi.” gli urlò Erin con tutta la rabbia che aveva in corpo. Il signore impallidì a quelle parole, e con una faccia stranita disse: “Voi che cosa? State scherzando ragazzi non è cosi?” ci chiese in tono molto serio. “No, è peggio di cosi.” risposi secco io. “ma io ho sempre ricevuto informazioni sbagliate, allora! E’ inaccettabile! Ogni mese mi preoccupo di mandare il capo della polizia a controllare che tutto vada bene laggiù e lui mi ripete ogni volta che voi state bene, che vi manca solo la luce del sole, ma non mi ha parlato di malattie e di miniere o addirittura di morte! Me la pagherà quel bugiardo!” disse infuriato, per poi aggiungere: “Katrine, vai a chiamare il comandante Jeff, per favore”. “Signore, veramente lei non sapeva delle nostre condizioni?” chiese Erin. “Vi giuro di no! Da quando sono il sindaco di questa città, mi sono sempre preoccupato delle vostre condizioni e, anche se ci è proibito andare giù nel Buio, ho contravvenuto a questa regola, incaricando il signor Jeff di andare a controllare e di riferirmi tutto. Evidentemente mi ha mentito”. Katrine rientrò con il poliziotto che ci aveva trascinato fuori dal parco, non ebbe neanche il tempo di 182
capire che il signore dalla tunica nera gli urlò: “Tu, infame, per tutti questi anni mi hai sempre raccontato fandonie sul mondo del Buio! Tu sei come tutti gli altri, giudichi sempre chi non ha denaro. Invece nella vita contano altre cose, ad esempio l’onestà!E io che ti credevo diverso…” Il poliziotto rispose: “Vostro onore, cosa avrei dovuto dirle? Che morivamo di fame? Così poi sarebbero venuti nel nostro mondo a rovinarlo!” Il signore perse la pazienza e, tirando un pugno sul tavolo, disse: “Rovinare? Siete voi persone losche, che non volete far riunire i due mondi solamente perché loro hanno meno denaro di noi. Stiamo ritornando indietro di mille anni, a quando si discriminavano le persone di colore o di etnia e religione differente! La società deve evolversi e non tornare indietro! Ho deciso: voglio dare il permesso alle persone del Buio di abitare con noi, di vivere con noi, le farò passare per il tunnel e tutti vivranno insieme!” Io ed Erin, che fino ad allora eravamo rimasti incantati nel sentire quelle parole, esplodemmo dalla felicità. “Davvero lei farebbe questo?” chiese Erin. “Ma certo! Sono il sindaco di questa città ed è in mio potere poter cambiare le sue leggi. Iniziando a piccoli passi, anche le altre città cambieranno la legge e fra pochi anni tutto sarà come prima, come nei bei racconti dei vecchi libri!” Così il giudice cambiò la legge e i cittadini nella mia città assaporarono il sole, i ragazzi poterono final183
mente andare a scuola e non in miniera. Tutti vivevano rispettandosi l’uno con l’altro, anche se appartenevano a mondi diversi. Il poliziotto lasciò la città e io ed Erin iniziammo ad avere un’irrefrenabile voglia di vivere in questo nuovo mondo, sempre uniti nella nostra grande amicizia, ma con la differenza che ora i nostri occhi erano davvero più belli dei diamanti. Alice Quintili – 1° Liceo linguistico – Passignano sul Trasimeno (Perugia) - 3° Classificato DA CIRCA 3 MESI Mi chiamo Angelica. Sono nata 17 anni fa, ma vivo da circa tre mesi. Non so di preciso quando sia stato il gran giorno perché, appena nata, la prima cosa che pensai è stata: “Copritemi! Stavo tanto bene là dentro a sguazzare in quel sacchetto! E poi tu, con questo camice bianco sei proprio antiestetico!” Non vado mica a chiedere la data! Dopo qualche giorno, però, pensai che fosse mio diritto sapere almeno il giorno e il mese, giusto per ricordarmi in seguito quando festeggiare questa ricorrenza. In realtà, fino a qualche mese fa, non ho mai saputo quando fossi nata e nemmeno mi interessava, perché non c’era un tubo da festeggiare. Non sarei mai voluta nascere. Non vi rendete conto che schifo quei “compleanni” che organizzavano i miei, tutti uguali! Venivano i nonni, la zia di Tarquinia che fino a qualche anno fa portava il figlio (l’unico motivo per cui non piange184
vo durante questo patetico rito); tutti e tre gli zii da parte della mamma e chiaramente nessuno che non facesse parte della famiglia. Si vergognavano di me! Il compleanno era fastidiosamente noioso e il tutto era condito di sorrisetti quando si incrociavano gli sguardi e di regalini dannatamente uguali a quelli degli anni precedenti. Non c’era neanche da dire e, se ci fosse stato, non avrei potuto. Stando agli altri non sono mai riuscita ad emettere suoni ma, secondo me, non è vero. Anzi, è sicuramente errato: io faccio rumore più di chiunque altro. Di sicuro nessuno ha sentito mai la mia voce perché altrimenti sarei già tra le migliori cantanti d’Europa, anche se in fondo non mi piace tantissimo cantare, ma di questi tempi, se uno ha talento, lo deve sfruttare. La cosa che mi dispiace di più è proprio che nessuno abbia mai sentito la mia voce. Da quello che ho capito pensano che sia muta. Ormai mi sto convincendo anch’io e non vi dico che incubo fosse la mia vita fino a circa tre mesi fa. L’unica cosa quasi bella era la scuola. Ci sono un sacco di ragazzi fighi, le insegnanti da prendere in giro e posso cantare a squarciagola quando mi pare e insultare chi voglio, tanto non mi capiscono. Però a volte è scocciante. Vorrei essere rimproverata anch’io qualche volta! Ci sono alcuni miei compagni, Samy per esempio, che non parla quasi mai. Lui si limita a commentare ogni tanto le cose che gli sembrano più interessanti, eppure la professoressa lo riprende sempre: appena 185
muove un muscolo dalle parti della bocca viene subito ammonito e io invece urlo da morire, ma proprio non mi caga quella! Ah, il bello è poi che fa finta di niente la prof che sta accanto a me e che mi dice praticamente le stesse cose che dice quell’altra da dietro la cattedra, e per questo non capisco che ci sta a fare. Alle elementari mi insegnarono a “parlare” con dei gesti o scemenze varie e anche questa volta non capisco perché, dato che posso parlare. Ma perché piuttosto non far fare una bella lezione di ascolto e comprensione agli altri!? Io glielo dico sempre che non sentirsi mentre si parla è normale, ma non sentire gli altri parlare è grave. La mia vita quindi non mi piaceva perché nessuno mi ascoltava, e tanto meno mi capiva, finché un anno fa mi spostarono in classe di Gugo. Lui, poverino, è muto veramente ma, sembrava strano anche a me, era l’unico che mi capiva. Lui nemmeno apriva bocca, non ci provava nemmeno. Certo che dev’essere brutto essere muti, ma almeno sei sicuro che nessuno ti capirà mai. Invece io discorro, ma il risultato è lo stesso suo. Mi diceva che ero l’unica persona che l’ascoltava e io gli dicevo la medesima cosa. Parlavo tutta l’ora di tutte le lezioni e poi lui era simpaticissimo. Ridevo a crepapelle e la povera prof. credeva sempre che fosse o Nico o Andri a ridere e gli metteva le note rosse, scrivendo che chiacchieravano continuamente, che disturbavano la lezione e assurdità del genere: il bel186
lo era vedere la faccia che facevano perché non capivano la vera causa di quella punizione. La classe si rivoltava per cercare giustizia che però veniva puntualmente soffocata dal potere che in realtà esercitava la professoressa e, nonostante fossero chiari i motivi per non sanzionarli con la durezza di un martello e la testardaggine di due martelli, insieme procedeva nell’inventare un testo da copia-incollare per tutti i colpevoli. Un po’ mi dispiaceva: provavo a scusarmi, ma non mi capivano e dopo mi stufavo e me ne fregavo, perché comunque ogni tanto parlavano tra di loro. Quanto avrei dato perché qualcun altro mi avesse capito! Tre mesi fa, durante una pallosissima lezione di mate, Gugo rise. Rise fragorosamente per almeno tre secondi finché si accorse di averlo fatto a voce estremamente alta. Non mi scorderò mai la sua faccia: tese tutta la pelle del viso, sbarrò gli occhi increduli e il silenzio avvolse magicamente la classe. All’inizio fece qualche gemito scomposto, ma poi la prima parola che disse fu “angelica”. Nessuno lo capì perché lo disse malissimo: doveva ancora addomesticare le sue corde vocali. Mi sono innamorata di lui, di Gugo, il mio migliore amico che capivo solo io e che ora invece sta imparando a farsi intendere dagli altri. Qualche giorno fa confessò che non era tutto questo parlare con gli altri, perché molto spesso, nonostante gli rispondessero, erano pochissimi a capirlo veramente: si sentiva muto come prima. 187
Continua a ringraziarmi per il tempo che gli dedico, il tempo che lo ascolto. Ognuno dovrebbe avere l’occasione di essere capito, ascoltato o compreso, è bellissimo! Io ringrazio invece chi mi ha dato questo tipo di voce, questa vita e una persona perfetta che mi ascolta. Per il mio orecchio preferito Gugo P.S. inventerò una canzone per lui anche se non mi piace cantare e anche se la capirà solo lui. Samy Amadiaze – 1° Liceo linguistico LA GIUSTA RICETTA PER UN BUON AMORE E UNA BUONA AMICIZIA Amore: dedizione appassionata ed esclusiva, istintiva ed intuitiva tra le persone, volta ad assicurare reciproca felicità. Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia. Amicizia: vivo o scambievole affetto tra due o più persone, inspirato in genere da affinità di sentimenti e da reciproca stima. A volte capita di domandarmi il vero significato di queste parole, e credo che siano i due sentimenti più belli che una persona possa provare, ma allo stesso tempo anche quelli che possono portare più sofferenze una volta giunti al termine. Chi è un amico? E’ proprio vero che i veri amici si contano sulle dita di una mano. Un amico è quello 188
che ti ascolta sempre, che sa ogni minima cosa di te, che conosce i tuoi desideri e le tue paure più profonde, che sa dirti la parola giusta al momento giusto, che sa come prenderti. Un amico è colui che puoi chiamare nel cuore della notte ma sai che ti risponderà sempre. Un amico è un tuo complice nel bene e nel male, e che nonostante il mondo ti crolli addosso sarà sempre lì a fianco a te e non ti deluderà mai. Un amico è la parte mancante della mela, quella persona che nonostante i mille litigi c’è e ti sbatte la verità in faccia, che ti provochi gioia ma anche dolore. Un amico non ti giudica, anche dopo i tuoi mille sbagli, e ti aiuta a risolverli. Un vero amico è qualcuno con cui puoi condividere anche il più piccolo segreto perché sai che non ti tradirà mai. Anche se tutto va male c’è lui lì e niente potrebbe andar meglio. Un amico è una sorta di compagno della vita, come in amore. Non è vero che in amore vince chi fugge, perché vince chi resta e accetta il tuo io più nascosto e turbato; gli amici sono quelli che ti aiutano a rialzarti, quando gli altri non sapevano nemmeno che eri caduto. E non è forse questo il ruolo di un amante? Per me sì, ed è per questo che credo che secondo me non c’è poi così tanta differenza tra l’amore e l’amicizia. In tutti i casi parliamo di un patto di fiducia, in cui ci si assicura felicità reciproca, proprio come dice la definizione sul vocabolario. Il miglior genere d’amico è quello con cui ti siedi sotto un portico senza dire una parola, e a poco a poco senti come se avessi fatto la 189
più bella conversazione del mondo. Un amico è colui che conosce la melodia del nostro cuore e la canta quando ci siamo dimenticati le parole. Un vero amico lo riconosci subito, ti fa scoppiare a ridere anche quando non vuoi, e se ti domanda come stai dissolve ogni tuo minimo pensiero triste; ci accetta per come siamo e ci aiuta a essere quello che dovremmo. L’amicizia, come l’amore, è una sola anima che abita in due corpi, un cuore che batte in due anime. Per creare un amore o un’amicizia non occorre una ricetta complessa: un pizzico di fedeltà, una spolverata di comprensione, 200 grammi di fiducia, 100 grammi di perdono, tanti cucchiaini di divertimento e di risate, di complicità, tanti litri d’amore e tanta tantissima disponibilità. Nella mia vita ho avuto tanti conoscenti, e ci sono tante persone a cui ho voluto bene e a cui continuo a volerne; sono veramente poche però le persone che sono rimaste a fianco a me sempre, quando cadevo a pezzi. So riconoscere chi vuole davvero il mio bene o chi interpreta solamente il ruolo dell’amico, ed è per questo che nel mio percorso ho perso anche persone che reputavo vicine a me ma che alla fine si sono rivelate il peggio. Chi vuole restare è ancora vicino a me e non se n’è mai andato e, consideratemi sciocca, ma so che non se ne andranno mai. Deborah Casini – 4° Liceo linguistico
190
LA VERA AMICIZIA Giovanni era un ragazzo di 11 anni, alto, capelli scuri, occhi chiari e un atteggiamento, per così dire, non molto tranquillo. A scuola era sempre nei casini, con gli insegnanti, con i compagni ed addirittura con i genitori dei compagni! Non aveva molti amici e, la maggior parte delle volte, era emarginato dagli altri perché appunto dava fastidio, ma questo era il suo carattere. Nessun ragazzo o ragazza aveva mai provato ad avvicinarsi a lui. Non aveva molti punti di riferimento postivi, dato che neanche i genitori erano molto presenti a causa del lavoro. Un giorno, mentre stava entrando a scuola, vide un gruppetto di ragazzi di 3 o 4 anni più grandi di lui. Giovanni cosa fa? Sentendosi abbastanza forte e pronto, decise di andare da loro, pensando di trovare dei veri amici. Quando arrivò sentì subito una forte puzza: era quella del fumo delle sigarette. Per essere un membro del gruppo a tutti gli effetti, gli dissero: “Su, prova anche tu”: Inizialmente il ragazzo, incerto, ci pensò su un attimo, ma la voglia di avere degli amici lo stava divorando, così decise di provare. Dopo quel giorno, Giovanni rimase sempre con loro, dalla mattina alla sera e si divertiva un sacco –diceva- perché stava bene con loro, insomma si sentiva più grande. Trascorsero alcuni anni e dal fumo si passò a cose assai più pesanti, come la droga. A Giovanni, ormai anche abbastanza cresciutello, non importava più di 191
niente, lui stava bene con i suoi “cari amici”. Diceva sempre : “I miei migliori amici mi hanno insegnato come divertirmi davvero!” Ma non sapeva in che tipo di gente si era imbattuto e non si rendeva conto che lo avevano rovinato. Ma appena diventati maggiorenni, quando intanto Giovanni ne aveva ancora 15, un bel giorno, i ragazzacci, prima di andar via, dissero al giovane: “Ti nominiamo come capo della banda, tutta la nostra roba la lasciamo gestire a te. Devi essere onorato di questo incarico!” Ovviamente tutto contento Giovanni rispose: “Certo!” Ma loro sapevano che poche ore dopo sarebbe passata la polizia per un controllo e non avrebbero beccato loro con la droga, ma il povero Giovanni. Quindi, dopo quell’esperienza, Giovanni capì che i veri amici non fanno certe cose, ma proprio il contrario, ti appoggiano, ti danno una mano, ma soprattutto non ti ingannerebbero mai. Nicolò Gamboni – 1° Liceo linguistico LA FORZA DELL’AMORE SUPERA OGNI OSTACOLO In un giorno come tanti, Alessio si stava dirigendo con il suo gruppetto di compagni a scuola. Arrivati nel cortile, il loro sguardo cadde su una strana ragazza che non avevano mai visto, e che se ne stava isolata dagli altri in un angolino. Era una ragazza molto carina e ordinata, ma a rovinare quel suo grazioso 192
aspetto era un misero zainetto che portava sulle spalle e qualche libro rovinato fra le braccia. Fu proprio questo ad attirare l’attenzione di tutti e lei, quando si accorse dello sguardo curioso e insistente, abbassò la testa e arrossì. Suonò la campanella e tutti si precipitarono in classe. Mentre i ragazzi chiacchieravano tra loro rumorosamente, arrivò il professore, seguito dalla ragazza nuova. Alessio la riconobbe. Il professore la presentò alla classe: “Ragazzi, Marianna Esposito è una nuova studentessa che si è appena trasferita a Bergamo da Napoli. Vi raccomando di accoglierla bene tra di voi!”. Mentre diceva queste parole, si sentì una voce che disse: ”Non vogliamo terroni in questa classe!”. Con la testa china, Marianna andò a sedersi accanto a Laura, che si allontanò come se fosse uno scarafaggio. Suonò l’intervallo, e per tutto il tempo i compagni di classe insultarono la ragazza solamente perché veniva dal sud. Questa cosa andò avanti per molto tempo. In un primo momento Alessio si divertiva a insultarla ma poi cominciò a stancarsi di questa situazione. Dopo aver riflettuto a lungo, Alessio decise che avrebbe difeso la ragazza. Un giorno, entrando in classe, vide i suoi amici prendere in giro Marianna e lei che piangeva. Alessio si mise tra Marianna e i suoi compagni e prese le sue difese: “Ascoltate ragazzi, dovete lasciare in pace questa povera ragazza! Capisco che nei primi giorni è piut193
tosto dura, ma questa storia va avanti da molto tempo! Non è giusto insultare nel più crudele dei modi una ragazza solo perché è del Sud! Quindi lasciatela in pace o altrimenti dovrete vedervela con me!” Da quel giorno nessuno osò più infastidire Marianna, e tra lei ed Alessio iniziò a nascere una bella amicizia. Uscivano insieme, condividevano gioie e dolori, si aiutavano reciprocamente tanto che Alessio si allontanò dal suo vecchio gruppo di amici. Un pomeriggio decisero di uscire insieme e si diedero appuntamento al parco per le 17 in punto. Marianna si presentò puntuale al parco, si sedette su una panchina e aspettò Alessio a lungo, ma lui non si fece vivo. Sconsolata, prese la strada di casa, pensando che l’amico avesse avuto un imprevisto. Ma il giorno dopo Alessio non c’era a scuola. Preoccupata, Marianna, all’uscita della scuola, si diresse verso la casa di Alessio e suonò più volte il campanello, ma nessuno aprì. Un vicino che tornava a casa dal lavoro disse: “Non vale la pena che suoni il campanello, perché la famiglia Rossi da ieri sera non è in casa. Infatti, nel tardo pomeriggio è arrivata un’ambulanza che ha portato via il ragazzo. Si stava lavando, probabilmente doveva uscire, si è sentito male ed è caduto per terra”. A Marianna sembrò che le crollasse il mondo addosso. Di corsa arrivò all’ospedale che stava nelle vicinanze. Chiese all’infermiera nello sportello 194
dell’accettazione in quale stanza fosse Rossi Alessio. L’infermiera rispose che stava nella stanza numero 5, al secondo piano. Quando arrivò davanti alla stanza, cercò di entrare, ma il caposala la fermò e disse che in quel momento non poteva entrare nessuno, neanche i genitori. Si sedette alla sedia e cominciò a piangere. Sentì il primario che diceva ai genitori di Alessio: “Si tratta di un tumore benigno…Dobbiamo tenerlo sotto osservazione…Potrebbe migliorare o peggiorare ulteriormente…Mi dispiace…!” I genitori di Alessio scoppiarono in lacrime e Marianna, disperata, passò tutta la notte su quella sedia piangendo e pregando. I genitori di Alessio la videro e l’apprezzarono molto. Si avvicinarono e le offrirono qualche pizzetta, ma Marianna rifiutò ringraziando, dicendo che stava troppo male per mangiare. Il primario si avvicinò e disse che Alessio era migliorato rispetto al giorno prima. Lacrime di gioia bagnarono il viso di Marianna e dei genitori del ragazzo. Ma la loro felicità non durò a lungo. Infatti, nel pomeriggio le condizioni del ragazzo si aggravarono di nuovo e Alessio cadde in coma profondo. Le cose andarono in questo modo per cinque mesi, e ormai tutti avevano perso la speranza di rivedere Alessio vivo. Tutti tranne Marianna. Gli stava accanto tutti i giorni, seduta su una sedia, pregando Dio affinché si svegliasse. Un giorno la ra195
gazza prese la mano di Alessio e cominciò a parlargli: “Alessio, amore mio, so che sei forte…so che puoi superare questa nuova prova…io ti starò vicino fino alla fine…so che puoi farcela…ti aiuterò proprio come mi hai aiutato tu tempo fa…per favore amore non mollare…io so che ce la farai…io credo in te! Ti prego svegliati amore mio…non arrenderti…fallo per me…fammi rivivere tutti i bellissimi momenti vissuti insieme…ti prego svegliati! Io senza di te non posso vivere…!!” Proprio mentre diceva queste parole, Alessio aprì gli occhi e le parlò: “Allora anche tu mi ami? Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta anche per te, amore mio! Abbiamo vinto questa battaglia insieme!” Si era svegliato! Dio aveva ascoltato le preghiere di Marianna e ne aveva avuto compassione! I genitori di Alessio si avvicinarono al ragazzo e videro che era sveglio! Piangendo di gioia chiamarono i medici, che rimasero stupiti a tale miracolo e fecero subito delle analisi ad Alessio. Dopo qualche giorno, stupefatti, i medici annunciarono che il tumore era scomparso e che Alessio era completamente guarito. Per sicurezza lo tennero sotto controllo per un altro mesetto. Marianna gli stette sempre vicino e il loro amore diventò ancora più profondo. Arrivò il giorno che dimisero Alessio. Mentre tornavano a casa, Alessio decise che sarebbe andato a 196
Napoli per trascorrere l’estate insieme a Marianna. Partirono all’inizio di luglio. Alessio era molto impaziente di conoscere la famiglia di Marianna, i suoi amici, ma soprattutto era curioso di visitare il posto in cui Marianna era cresciuta e di cui lei parlava con nostalgia. Arrivati a Napoli, ad aspettarlo trovarono tutta la famiglia di Marianna, che accolse molto bene Alessio, il quale ne rimase molto colpito. Le zie di Marianna avevano organizzato una festa per il loro ritorno. Alla festa Marianna sperava di vedere anche i suoi vecchi amici, ma vide soltanto i suoi parenti, e se ne rattristò molto, perché pensava che si fossero dimenticati di lei. Mentre era assorta in questi pensieri, la madre le ricordò che doveva ancora presentare Alessio. Subito la ragazza prese per mano Alessio, lo condusse al centro della stanza e incominciò a parlare: “Sono felice di essere ritornata a Napoli! Vi ringrazio per aver organizzato questa festa meravigliosa per noi! Come avete potuto notare a questa festa c’è un ragazzo che non avete mai visto. Io direi che è un ragazzo molto speciale; colui che mi ha aiutata quando ne avevo bisogno…L’unica persona che mi capisce a questo mondo…si chiama Alessio ed è l’amore della mia vita!” Tutti applaudirono entusiasti. Marianna era molto contenta che la sua famiglia avesse accettato Alessio, ma era ancora triste a causa degli amici. Al ter197
mine dell’applauso, Marianna si sentì chiamare; era proprio Francesca, la sua migliore amica! E non era sola! Insieme a lei c’erano tutti i suoi vecchi amici che non si erano dimenticati di lei. Marianna e Francesca si corsero incontro e si abbracciarono forte, piangendo di gioia. Dopo aver salutato tutti, Marianna presentò Alessio a tutto il gruppo. I ragazzi fecero subito amicizia con Alessio e Marianna ne fu molto contenta. Alla festa i ragazzi si divertirono molto insieme, e si separarono a tarda notte per andare a dormire, promettendosi che si sarebbero rivisti l’indomani. Il gruppo di amici passò intere giornate al mare: i ragazzi giocando a pallone sulla spiaggia e le ragazze sdraiate al sole, raccontandosi tutto ciò che era successo nei mesi in cui non si erano viste. L’ultimo giorno di vacanza lo passarono con gli amici al mare, divertendosi più del solito. Però giunse il momento di salutarsi. Erano tutti molto tristi, ma Alessio disse che avrebbe fatto di tutto per tornare al più presto. Detto questo, Alessio e Marianna si avviarono verso casa. Marianna chiese ad Alessio: “Ti è piaciuta la tua vacanza a Napoli?” Alessio ci pensò un attimo e poi rispose: “E’ stata la più bella vacanza della mia vita!” Si guardarono un attimo e sorrisero. Mentre passeggiavano abbracciati lungo la spiaggia, Alessio disse: 198
“Guarda, il sole sta tramontando!” Marianna rispose: “Questo è il più bel tramonto della mia vita, perché tu stai bene e sei qui accanto a me, amore mio!” Alessio le prese la testa tra le mani, la guardò dritto negli occhi e le disse: “Tu sei il mio tramonto!” Si guardarono a lungo negli occhi e poi si baciarono, davanti all’incantevole tramonto, immersi nel loro amore! Gaia Lauria - 1° Liceo pedagogico LA SOLITUDINE AI TEMPI DI FACEBOOK: BRACCIALETTI ROSSI Il successo di una serie televisiva, che vede la programmazione di una terza stagione, è emblematica del disagio giovanile e adolescenziale del nostro tempo. La serie in questione è Braccialetti Rossi, liberamente tratta dal libro dello spagnolo Albert Espinosa ed il grande successo, ottenuto presso il pubblico giovanile, merita una attenta riflessione. La storia, incentrata sul forte spirito di solidarietà e amicizia che lega dei ragazzi “rinchiusi” in un ospedale, fa riflettere ancor più se si pensa quanto questa realtà quotidiana è lontana, in un certo senso e grazie a Dio, da quella vissuta dalla maggior parte del pubblico adolescente. Cosa c’è allora dietro a questo grande successo? Probabilmente, adolescenti di oggi di forti legami affettivi interpersonali e di vera amicizia che il mondo di internet impedisce loro di 199
avere. Infatti, se da una parte la tecnologia odierna permette una espansione dei rapporti sociali con l’aiuto dei vari sistemi di comunicazione, Facebook è il più noto, dall’altra l’espansione stessa rivela anche la superficialità di tali rapporti: tutti conoscono tutti,l’amico dell’amico diviene tuo amico anche se lo conosci solo virtualmente, un tuo evento personale diviene l’evento di tutti, in una globalizzazione della comunicazione che in qualche modo supera e cancella il concetto di amicizia come legame interiormente sentito. Nonostante la possibilità di comunicare sempre e comunque, in tempo reale, di tutto e a tutti, si percepisce una sorta di vuoto sostanziale che amplia quello che già l’adolescente, nel suo processo di crescita, sente nell’ambito dei reali rapporti interpersonali. Così come la bulimia ossessiva nei confronti del cibo rivela un vuoto interiore che nessun “panino” riesce a colmare, così la bulimia ossessiva della comunicazione “internettizzata”, usata dai giovani, rivela un vuoto di rapporti che nessuna chat riesce a colmare. Il poter comunicare in tempo reale con “1000” amici su Facebook non soddisfa quel personale bisogno che ha l’essere umano di legami sociali stretti, necessità particolare del periodo dell’adolescenza quando si fa più forte il sentimento di autonomia rispetto a quello che ci ha insegnato la propria famiglia. E, nella ricerca di una propria autonomia, è comunque necessario appoggiarsi all’altro, l’amico, con cui condividere un percorso. 200
Ma l’unicità del rapporto con l’amico, o gli amici “intimi”, non esiste più, inglobato da tutta serie di rapporti mediati dalla tecnologia che rivelano tutta la loro inconsistenza e fragilità: fra “1000” amici ci si sente comunque soli. Da qui il successo di una serie televisiva che propone il concetto di amicizia, il sentimento della solidarietà e dell’affetto più profondo, nell’intimità di un piccolo gruppo. E nell’intimità di un gruppo ristretto anche i valori comuni vengono ribaltati: la bellezza esteriore non ha importanza, quello che conta è ancora esserci per aver vinto la malattia, o restare vivo nel ricordo che gli altri hanno di noi. Due, dunque, gli aspetti sostanziali che hanno decretato il successo di questa serie televisiva presso i giovani: la necessità di legami forti e personali non mediati e, ancora più importante, l’aspirazione interiore ai veri valori, tutto ciò come dimostrazione che i giovani di oggi, anche se fragili, sono ancora sensibili ai veri sentimenti e dunque meno “peggiori” di quello che comunemente si tende a pensare… Maria Vittoria Mariani – 4° Liceo Linguistico AVERE “TANTI AMICI” E POI NON AVERE NESSUNO CON CUI USCIRE! L’amicizia è un legame fondamentale tra due o più persone fondato sul rispetto reciproco, sulla fiducia e sulla stima. Essa è fondamentale nei rapporti umani infatti è fondamentalmente in tutti i periodi della 201
propria vita, per esempio quando si è piccoli si cerca qualcuno con cui giocare per non farlo da soli, crescendo si cerca e si spera di trovare una persona con la quale confidarsi, esprimersi senza vergogna ed essere semplicemente se stesso. Man mano che si cresce e di conseguenza si matura, si comincia ad avere la necessità di una persona con la quale condividere sentimenti, aspirazioni, progetti e segreti, che sarebbe impossibile esternare agli altri perché non capirebbero o semplicemente non interessati. Costruire un’amicizia e mantenerla è molto difficile ed è una prova delle nostre capacità sociali e tutto ciò ci permette di uscire dal nostro egoismo e imparare a immedesimarsi nell’altro. Un amico è qualcosa di concreto, di reale, un qualcuno che c’é sempre per te sia nei momenti di difficoltà sia nei momenti di soddisfazione, che sia pronto a tirarti su di morale, a gioire con te e in certi casi anche a rimproverarti per spronarti a dare il meglio di te o per condurti su una “buona strada”. Spesso si definisce amico una persona con cui si parla di banalità che si è appena incontrata; secondo me l’amico è ben diverso dal conoscente o dall’amico “fittizio” perché l’amico non nota come sei vestito, se hai la borsa griffata o quanto va veloce il motorino, l’amico teoricamente, se lo è veramente, e se l’amicizia che si instaura è vera, sincera, non dà importanza a questi dettagli futili, anzi proprio non li considera e decide di legarsi a te perché vede in te un buon amico, una persona 202
alla quale poter volere bene e fidarsi. Oggi il mondo gira controllato dalla tecnologia e noi siamo schiavi di questa potenza, non ci accorgiamo di quanto gli smartphones, i computers, internet ci hanno allontanato dalla vita reale e dalle situazioni che prima erano quotidiane; sui social network è semplice ed immediato crearsi un amico, basta cercarlo tra i mille profili esistenti, mandargli la richiesta di amicizia ed improvvisamente si ha un altro “amico” che poi, riflettendoci bene, secondo me è riduttivo e quasi ridicolo definire questo rapporto virtuale con il termine amicizia; l’amicizia vera è ben diversa in quanto si basa su fatti reali, su situazioni vissute insieme e su difficoltà affrontate insieme. Secondo me è inutile dire di avere mille amici sui social networks e poi non avere nessun amico con cui uscire il pomeriggio, il sabato sera, andare a mangiare un gelato o semplicemente scambiare quattro sane chiacchierate seduti sulla panchina di un parco; è sbagliato definire amico tutte quelle persone che compongono la lista degli amici o dei contatti; è stupido considerare amico qualcuno e poi incontrarlo e non riconoscerlo perché si è vista solo la foto profilo o la foto whatsapp. Mi piace considerare amico qualcuno che per te rappresenta un fratello, una parte integrante della tua vita, che senza di lui brancoleresti nel buio, che sai sempre di poter contare su di lui. Quando si dice che “se trovi un amico trovi un tesoro” è proprio vero, preferisco sinceramente avere pochi amici, addirittu203
ra che si possono contare sulle dita della mano, piuttosto che pensare di avere un numero spropositato di amici e trovarsi da solo, con la testa tra le mani senza avere nessuno con cui parlare o sfogarsi. Mi piace quell’amico che dopo avergli inviato un messaggio sul telefono dove gli dici di essere triste, piomba a casa tua di sorpresa per dimostrarti che non sei solo e che qualsiasi ostacolo si presenti lui sarà lì con te, facendo un respiro profondo e prendendoti per mano ti accompagna e ti guida. Mi piace l’amico che non molla mai, che stringe i denti per lui e per te e che anche se non ha la forza di un leone e si sente piccolo e indifeso, decide comunque di proseguire e di affrontare gli ostacoli insieme. Mi piace quell’amico che diventa parte integrante, fondamentale di te, che apprezza qualsiasi tuo difetto, che rimprovera i tuoi sbagli e che non si prende gioco di te quando viene a conoscenza delle tue ossessioni e delle tue fobie più strane. Secondo me, amico è sinonimo di fratello. Lucia Maurizi – 4° Liceo Linguistico IO SONO CON TE Luca è un ragazzo di 16 anni, frequenta il terzo anno del liceo classico. E’ un bel ragazzo a detta di molte: capelli castani chiari e occhi azzurri come il cielo. Un giorno in classe di Luca arriva una nuova ragazza. Tutti sono impazienti di conoscerla. Quando arriva tutti le vanno incontro per presentarsi: tutti tranne 204
Luca. Subito Sara pensa che sia uno di quei ragazzi pieni di sé che snobbano chiunque ma poi, quando lui le rivolge un sorriso timido, lei capisce che forse si è sbagliata e che, se lui non è andato con tutti gli altri a salutarla, un motivo c’é. Proprio per questo, molto incuriosita dal comportamento del ragazzo, decide che vuole assolutamente conoscerlo meglio. Le lezioni iniziano e Sara prende posto vicino a Luca, al primo banco, anche perché è l’unico posto libero rimasto. Durante le ore Sara parla più volte con il ragazzo che le siede a fianco e scopre che è molto gentile, educato e disponibile. Ma quando lei gli chiede di farle fare il giro della scuola, lui si incupisce e risponde con un secco “no” che la lascia un po’ stupita e anche risentita nei confronti di quel ragazzo che le era sembrato molto dolce e disponibile. Quando arriva l’intervallo, Sara viene “rapita” da alcune sue nuove compagne che le fanno da “cicerone” in giro per la scuola. Ad un certo punto si fermano con lei nel corridoio principale e le ragazze iniziano a parlare di una festa svolta la sera prima, mentre Sara viene distratta da una scena che avviene poco lontano da loro e alla quale nessuno sembra fare caso: dei ragazzi stanno spingendo un altro ragazzo, visibilmente più piccolo e minuto di loro, all’interno del bagno dei maschi. Sara pensa che stiano scherzando, quindi decide di lasciar perdere. Le lezioni riprendono e, quando torna a sedersi accanto al suo compagno, nota che quest’ultimo ha gli 205
occhi arrossati e un labbro spaccato ma lei, ancora offesa per il brusco “no” di prima, decide di ignorarlo. All’uscita di scuola, mentre Sara si incammina verso la fermata del bus, viene richiamata da Luca il quale, con la voce tremante e gli occhi lucidi dalle lacrime che minacciano di uscire, le chiede di scusarlo le chiede se, per farsi perdonare, nel pomeriggio vuol andare con lui a bere una cioccolata calda. Sara, un po’ frastornata dalla scena che le si presenta davanti, accetta senza riflettere e gli chiede per quale motivo stia per piangere, ma lui molto dolcemente le risponde che non c’è un motivo particolare: è solo dispiaciuto di essere stato scontroso con lei. Nel pomeriggio Luca e Sara si incontrano nel bar e parlano molto, scoprendo di avere molte cose in comune come ad esempio la passione per la musica. Anche nei giorni seguenti i ragazzi continuano a vedersi, a volte per studiare, altre volte per uscire: così facendo si conoscono sempre meglio e diventano buoni amici. Una sera, prima di rientrare, dopo che l’ha riaccompagnata fino a casa, Sara prova a baciare Luca il quale però si tira indietro. La ragazza, delusa dalla reazione di lui, scoppia in lacrime. Il giovane, mortificato e molto in imbarazzo, le spiega che lui non prova interesse verso le ragazze, bensì verso i ragazzi, e si scusa di non averglielo detto prima, ma confessa di non averlo fatto poiché spaventato dall’idea 206
che anche lei, una volta saputo, lo avrebbe abbandonato. Sara, ora commossa dalla dolcezza e dalla fragilità del ragazzo anch’egli in lacrime, lo abbraccia di slancio, stringendolo forte a sé e rassicurandolo. Gli dice che le dispiace che lui abbia potuto pensare che lei lo avrebbe abbandonato per un motivo così sciocco. Durante l’abbraccio avviene però qualcosa che suscita in Sara un grande dubbio: “Perché quando ha aumentato la presa dell’abbraccio e ha messo le mani sui suoi fianchi, lui ha emesso un gemito e ha contratto il viso in una smorfia di dolore?” Questo dubbio la tormenta tutta la sera e, insieme al dubbio, c’è anche la scena che vede tutti i giorni a ricreazione del ragazzo di spalle che tutti i giorni viene spinto dentro il bagno della scuola. All’improvviso, mentre pensa a tutto ciò, le vengono in mente gli occhi rossi di Luca dopo ogni ricreazione e le labbra quasi sempre spaccate. Un’ atroce conclusione le giunge alla mente. Le lacrime le appannano la vista. “Non può essere” –continua a ripetersi- “Non può essere. Lui me lo avrebbe detto” –continua cercando di convincersi. Decide quindi che l’indomani, di nascosto, avrebbe seguito quei ragazzi all’interno del bagno, per vedere cosa sarebbe successo. La mattina dopo Sara è impaziente ed è distratta continuamente durante le lezioni. Finalmente arriva la ricreazione e di nascosto sgattaiola all’interno del bagno, nascondendosi in una delle cabine. Improvvisamente sente delle risa e delle voci che pronun207
ciano aggettivi squallidi nei confronti di qualcuno che ora sta singhiozzando. Entrano in una cabina, forse quella accanto alla sua. Sente un urlo soffocato e una preghiera di smetterla di picchiare. Poi un altro urlo soffocato e delle risa…dei passi…dei singhiozzi che si mescolano ora a quelli di Sara. Cautamente la ragazza esce dalla cabina in cui si è nascosta e va a bussare alla porta dalla quale provengono i singhiozzi mal celati. Quando sente la voce risponderle che è occupato, si sente morire. La voce è quella di Luca. Decide di aprire la porta e lo scopre rannicchiato in un angolo, con le lacrime che gli solcano le guance e che scendendo si mescolano con il sangue che gli esce dal labbro spaccato. A questa vista la ragazza crolla inginocchiata accanto a lui, ma la reazione del ragazzo la lascia completamente basita. Infatti quando prova ad avvicinarglisi, lui con il terrore negli occhi si ritrae e le dice con asprezza di andarsene, perché crede che lei sia diventata sua amica solo per pena e che non vuole più né vederla né sentirla. La ragazza scioccata e frastornata dalla scoperta da lei fatta, scappa correndo in classe. Ormai la ricreazione è finita da un po’ e quando la professoressa entra in classe, vedendola in quello stato, decide di chiudere un occhio, e lo stesso fa con Luca, ma è molto determinata a scoprire cosa sia successo ai due ragazzi durante la ricreazione. Al termine delle lezioni l’insegnante indaga e Sara le mente dicendole che non è nulla, che è solo preoccupata di non 208
riuscire a mettersi in pari e di perdere l’anno. E’ una settimana che Luca non viene a scuola. Sara, preoccupata, decide di andare a casa sua per avere notizie. La madre la accoglie gentilmente e la conduce alla camera del figlio che, quando si trova di fronte la ragazza, scoppia in lacrime e lo stesso fa lei, attirandolo a sé in un abbraccio fatto di lacrime, tristezza, ma anche di tanto amore. Mentre si abbracciano, il ragazzo sussurra delle scuse un po’ biascicate per via dei singhiozzi e la ragazza gli promette che quell’incubo presto finirà e che non lo abbandonerà per nulla al mondo. Poiché è sua amica, non permetterà a nessuno di fargli versare altre lacrime. L’indomani Sara va dalla preside e racconta tutto ciò che quei ragazzi avevano fatto al suo amico, ottenendo che essi vengano sospesi dalla scuola. Da quel giorno Luca e Sara sono inseparabili. E come non c’è Tom senza Jerry o Titti senza Silvestro, non c’è Luca senza Sara! “Chi trova un amico trova un tesoro”. Sara Morgan – 1° Liceo Linguistico L’AMICIZIA OLTRE LA VITA E LA MORTE Conoscete l’amore per la vita? Quello che va oltre tutto il resto? Jessie lo perse. Jessie, una ragazza di 14 anni, occhi azzurri, lunghi capelli biondi, che sembrano fili d’oro. Lineamenti delicati, alta, magra, una perfetta ballerina di danza 209
classica. Jessie era felice prima che la sua migliore amica perdesse la vita : un’auto le ha dato un passaggio, uno di quelli non richiesti, uno di quei viaggi di sola andata e non ritorno. Quel pomeriggio di maggio accadde tutto sotto gli occhi di Jessie, che rimasero impietriti come quelli di una statua di marmo appena scolpita che fissa un solo punto all’infinito. Anika aveva sedici anni, Jessie reputava quell’amicizia più di un’amicizia, per Jessie Anika era una sorella maggiore per la quale aveva una stima immensa, era il suo punto di riferimento, e ora che lo aveva perso, continuava a cercarlo. La famiglia le stava accanto, ma passano ore, giorni, settimane, mesi e Jessie si sente parte di un incubo che, però, le sembra troppo reale. Quest’incubo che la sta portando ad essere come una di quelle macchinine telecomandate, per bambini, con le batterie quasi scariche. La famiglia le sta accanto e la vede, giorno per giorno, sempre più esile, scarnita, indifesa, come mai lo era stata prima di quell’incidente. Jessie sta diventando menefreghista nei confronti della vita, nei confronti DEL DONO PIU’ PREZIOSO E BELLO CHE SI POSSA DESIDERARE. Jessie ogni giorno si sveglia, ma è come non si svegliasse mai, si veste, mette quei jeans ormai cadenti, si fa accompagnare a scuola dai genitori, per evitare 210
di confondersi, tra i pendolari e i coetanei, negli autobus. A scuola è come se non ci fosse, taciturna, non rivolge parola a nessuno e gradisce che gli altri fanno altrettanto con lei. A ricreazione, quel momento di svago diventa un rintanarsi ancora più in se stessa; se ne sta in aula, seduta, con la testa e le braccia appoggiate sul banco. Sono le 13:00, Jessie prepara la borsa, esce da scuola e c’è il padre che l’aspetta e che, guardandola, cambia espressione: occhi lucidi per compassione, rabbia e impotenza fuse in una sola rara emozione. Jessie è ormai come insensibile al mondo…Ma quel giorno qualcosa cambiò. Jessie preferì andare al parco vicino casa sua piuttosto che andare a lezione di danza, nonostante la sua passione immensa per quest’ultima. Qualcosa la spinse ad andare lì, dove mucchi di bambini giocavano a nascondino, altri giocavano con la palla, altri si divertivano nelle casette di legno e altri ancora sulle altalene e sugli scivoli, ma l’attenzione di Jessie fu rapita da una bambina, una bambina con uno sguardo conosciuto e occhi profondi, come se stabilissero un traguardo al suo sguardo perso. Questa bambina pedalava e pedalava su d’una pista azzurra, fin quando pedalò spingendosi al di fuori del parco e, voltandosi, con un gesto della mano destra, invitò Jessie a seguirla. Jessie vedeva un qualcosa di familiare in quella pic211
cola, sentiva un legame profondissimo che non le era estraneo, come se ci fosse un filo trasparente ad unirla a lei, per questo la seguì senza pensarci due volte. Arrivò alle sponde di un fiumiciattolo e la bambina sparì, lasciando lì, vicino al fiume, la sua bici bianca. Quella bici, identica a quella che prendevano lei e Anika durante le belle giornate d’estate, e lei che, pedalando per due, si sentiva una ragazza forte e responsabile. Jessie si stava stendendo sulle sponde fiorite, quando udì una voce soffusa e lontana: “Ricordi il nostro pedalare? Lo vedi questo fiume che scorre? Lo senti il vento che soffia? E ricordi quell’auto che sfrecciava quel giorno? Ecco, amica mia, devi essere forte, guardare avanti, come se pedalassi ancora su quella bici con me, come l’acqua che scorre senza mai fermarsi, come il vento che soffia, solo così riuscirai a rendermi felice. Ti prego Jessie NON PENSARE CHE UNA MIA NON PRESENZA E’ UNA MIA ASSENZA, so che avrò stima di te”. Jessie rimase, come l’anno precedente, impietrita e con gli occhi fissi nell’infinito, ma quel giorno aveva ritrovato le istruzioni d’uso della vita, aveva sostituito le batterie a quella macchinina quasi scarica; Anika le aveva dato la soluzione per renderla felice e per ritrovare la sua felicità: AVERE LE FORZE PER ANDARE AVANTI, QUALUNQUE COSA ACCADA. 212
Jessie dopo un attimo si svegliò da quell’incubo e tornò a sorridere, scherzare, a recuperare gli amici e farsene dei nuovi. Ma Anika rimase la sua migliore amica, quella che le stava accanto e che avrebbe continuato a starle accanto. Jessie oggi vive per due come quei giorni d’estate pedalava per due. LE VERE E PROFONDE AMICIZIE VANNO OLTRE TUTTO, OLTRE LA VITA E OLTRE LA MORTE. Maria Teresa Nugnes – 1° Liceo Linguistico FOTOGRAFIA D’ESTATE I piedi nudi coperti dalla sabbia, seduto su un tronco d’albero vecchio come questa spiaggia, ma ancora resistente come una giovane quercia. Un vento caldo mi accarezza il viso e muove i capelli con dolcezza, di fronte a me lo spettacolo di un tramonto all’orizzonte, dove il mare sembra sfociare nel nulla e le onde che produce riflettono la luce rossa su tutta la natura circostante, creando in questo modo l’atmosfera di una cartolina, una di quelle che si conservano preziosamente in uno di quei posti della casa in cui si passa spesso, così da poterla ammirare tutte le volte che ci si imbatte in essa, così da poter mantenere vivo e fresco il ricordo di quella scena tanto suggestiva ed emozionante. Vicino a me Christian si lascia andare ad una fantastica improvvisazione con la sua chitarra acustica; ho sempre invidiato il suo enorme talento con quello strumento in mano. Mat213
teo e Lucrezia, Giulio e Anna e Roberto sono sempre i soliti, a far confusione, in lontananza a giocare con la palla, ma in fondo è proprio questo che mi piace di loro. Fisso ininterrottamente il tramonto, il mare e la sabbia, così che possa imprimere nella mia mente ogni più piccolo particolare e il mio cuore possa raccontarlo con le stesse emozioni tra molti anni, magari ad un foglio bianco che aspetta di accogliere tra le sue fibre l’inchiostro nero di una penna a sfera. Mi accorgo dell’arrivo di Nicole solo quando mi abbraccia dopo essersi seduta accanto a me e appoggia con la sua consueta dolcezza le sue labbra delicate sulla mia guancia per lasciare un’emozione che provoca un brivido che percorre la schiena coperta dalla maglietta che danza col vento; rispondo avvolgendola con il mio braccio e stringendola forte a me, in modo da farla sentire protetta: è incredibile come i dialoghi più belli siano sempre quelli silenziosi, fatti di sguardi e gesti semplici. E’ la nostra giovinezza, il germoglio della nostra vita, la viviamo giorno per giorno amandola, con la consapevolezza che è il regalo più grande di tutti, niente e nessuno se ne dovrebbe impossessare, tutti abbiamo il diritto di viverla al meglio e tenerla stretta, decorandola con azioni che rimarranno impresse per sempre in noi e in quei posti da cartolina. La musica è il motore di tutto questo, compagna e narratrice dei nostri stati d’animo, perché la vita è 214
questo: la successione di note che vanno a formare una composizione orchestrale, noi ne siamo il direttore, finché abbiamo la forza e la volontà di muovere la bacchetta per guidare gli strumenti e i musicisti che ci stanno intorno, diamo tutti noi stessi per un grande applauso al finale dell’opera. Andrea Rossi – 4° Liceo linguistico IL CORAGGIO DI ANDARE AVANTI “La vita è un viaggio che intraprendiamo dal giorno in cui siamo venuti al mondo, e come per tutti i viaggi, non sappiamo mai come andrà, se accadrà qualcosa, o se, non accadrà un bel niente. Spetta a noi afferrarla e viverla così com’è, non c’è vita più bella di una vita piena di alti e di bassi.” Era una mattina d’inverno, e come tutte le mattine, Maya non aveva proprio voglia di alzarsi, forse, come tutti i giorni, anche quel giorno non aveva voglia di vivere. Era così da quando le era morta la madre in un incidente d’auto. L’aveva vista morire Maya, la sua mamma, perché nel momento dell’incidente, era in macchina con lei. Era ancora una bambina quando fecero quell’incidente mortale. Aveva bisogno di imparare ancora tanto dalla vita, di camminare ancora tenendo la mano della sua mamma, aveva bisogno di fare la bambina, di sognare e di essere felice. Da quell’impatto che risultò mortale per la mamma, 215
la piccola, ne uscì salva, e la gente, che era venuta a conoscenza della modalità di quell’incidente, ancora si chiedeva come avesse fatto quella bimba a salvarsi, senza riportare danni. -Un miracolo!- Molti affermavano -Quella bambina è stata molto fortunata…Altri sussurravano, ma nessuno di loro, si accorse delle conseguenze che quella terribile esperienza ebbe sulla piccola Maya. Dopo la morte della madre, era rimasta a vivere con suo padre, che le voleva molto bene. Matteo (così si chiamava suo papà), aveva conosciuto Elisa (la mamma) all’età di sedici anni, ed era rimasto colpito dal suo carattere ribelle, sveglio, buono e speciale. Elisa lo amava, entrambi si amavano, erano pazzi l’uno per l’altra, così, dopo un po’ di tempo si erano sposati ed era nata Maya. Da quel maledetto 21 dicembre, data dell’incidente, la vita era cambiata sia per Matteo che per Maya. Matteo non aveva la forza per continuare a vivere, l’unico stimolo che lo faceva andare avanti e a farsi coraggio, era sua figlia. Ma lui, non era l’unico a stare male, Maya non gli aveva mai confessato di sentirsi morta dentro, non aveva più la voglia di ridere, nè di scherzare. Vedendo la sofferenza di suo padre, temeva di poter perdere anche lui, così, comprendendo che l’unica salvezza sarebbe potuta essere lei, decise di portare in salvo la sua vita e quella del suo papà. Era diventata l’àncora che tratteneva Matteo sulla terra, ma dentro era morta da quel maledetto gior216
no. A scuola gli amici e le maestre la credevano una bambina serena, solare, pronta, studiava sempre e ascoltava tutti e dispensava consigli alle amiche. Adesso aveva quindici anni, e nessuno si rendeva conto del dolore che questa ragazza portava dentro di sè. Nessuno si accorgeva del suo fardello, nessuno riusciva raggiungerla, si fermavano tutti all’apparenza. Neppure la sua migliore amica Alina riusciva a leggere nei suoi occhi la macabra tristezza che ormai aveva caratterizzato la vita di Maya, da dieci lunghi e difficili anni. Maya era una ragazza bellissima, aveva i capelli mossi, tenuti selvaggiamente, di colore biondo scuro, e gli occhi verdi, ma ciò che colpiva più di lei era il suo sguardo, quello sguardo che una volta incrociato non si riusciva più a dimenticare. Forse, era lo specchio della sua anima sofferente. Era corteggiata da molti ragazzi, ma lei, non se ne curava, quasi come se gli amori e le amicizie fossero cose futili. Lei non aveva più nessun interesse, fingeva di vivere felicemente da dieci lunghi anni, invece era solo una maschera vagante, in un mondo troppo superficiale per lei. Suo padre non le aveva mai fatto mancare niente, aveva un buon lavoro e le permetteva di vivere in modo agiato, anticipando ogni suo desiderio. Le aveva comprato il cellulare più costoso in commercio, le aveva comprato un motorino, le dava soldi per comprarsi i vestiti che si addicevano alla sua età. Lui 217
soffriva quasi quanto lei, ma aveva deciso, grazie a sua figlia di non mollare, pensava di colmare la mancanza della moglie, facendo continuamente regali a sua figlia, regali che lei, però reputava superflui perché potevano servire a distrarla un attimo, ma sapeva che non avrebbe mai dimenticato quel terribile incidente. Come ogni mattina andava a scuola col suo motorino insieme a Betta e Alina, e una volta arrivate, parcheggiavano di routine i loro mezzi fuori del cortile della scuola, passando, in mezzo ai gruppi di ragazzi che le notavano, sorridevano e sussurravano. Betta e Alina insistevano nel consigliarle che doveva iniziare a dare un’occhiata a tutta la sfilza di ragazzi che le andavano dietro, ma nel contempo avevano capito di aver perso le speranze, proprio come le aveva perse lei nei confronti della vita. Ogni mattina che apriva gli occhi, Maya desiderava non averli mai aperti, ma poi guardava fuori dalla finestra e vedeva il sole, e giurava a se stessa che anche quel giorno non avrebbe mollato. Tutti i giorni si vestiva alla moda, era perfetta agli occhi di tutti, era aperta verso chiunque, ma non permetteva a nessuno di entrare a far parte della sua vita, forse perché non voleva affezionarsi tanto alle persone, perché temeva che se le avesse perse, non ce l’avrebbe più fatta. Era così da dieci anni, ed aveva ormai perso la speranza che qualcuno o qualcosa potesse venirla a salvare, sperava solo che un angelo venisse a prenderla, 218
e la portasse via da quel mondo fatto di apparenza che non la ascoltava, che non la meritava. Una mattina, Maya si alzò di scatto, guardò il suo telefono che teneva sempre sul comodino e lesse l’orario, erano le 7:10. - Cavolo, è tardissimo!- esclamò scendendo giù per le scale ed entrando velocemente nel bagno. Si preparò velocemente, era sola in casa e doveva prepararsi anche la colazione, ma siccome non c’era tempo, decise di lasciar perdere e comprare uno snack per strada. Un attimo dopo suonarono al citofono Betta e Alina, che le gridarono:- Maya! Vuoi sbrigarti?! Siamo in ritardo e tu ancora non hai preso il motorino! Sbrigati, oggi è un giorno speciale! Lei, allacciandosi il casco e correndo verso il motorino, rispose:-Uh! Scusate ragazze, il fatto è che non so perché mi sono svegliata così tardi, sono una mattiniera, io!- Betta urlò:- Ma che mattiniera! Se tutti i giorni per svegliarti ci vogliono i cannoni! Ai messaggi che ti inviamo io e Betta rispondi sempre tardi dicendo che ti sei appena svegliata!-. -Eh sì, ehm, hai ragione…- Risponde Maya. Avrebbe voluto dirle che non se ne importava niente dei loro stupidi messaggi, che quando una persona soffriva quello era l’ultimo problema a cui pensare, ma stette zitta e sorrise con fare desolato. Arrivarono a scuola e parcheggiarono i motorini, e dopo cinque minuti di strano silenzio Alina, che quel giorno era molto eccitata, affermò: -Oggi è un giorno 219
speciale… Mi incontrerò con Daniele alle 11:00!.Maya sorrise e disse:- Sono felice per te, spero che vada bene.- Alina annuì:- Lo spero anch’io…- Entrarono in classe e Maya si sedette come al solito vicino a Giorgio, un suo compagno di classe bravo come lei, e così passarono le prime due ore della giornata. Ad un certo punto entrò in classe un ragazzo nuovo, capelli biondi, occhi azzurri, alto, magro e dall’aria simpatica. Il professore di chimica lo presentò alla classe e disse che si era appena trasferito in città e sarebbe stato da quel giorno il nuovo compagno di classe. Maya lo notò subito, fu come abbagliata da un qualcosa che non aveva mai visto e lei se n’era resa conto. I loro sguardi si incrociarono per un attimo, poi lei distolse lo sguardo e prese a guardare fuori dalla finestra, immersa nei suoi pensieri malinconici. Betta la chiamò:- Pss… Pss! Quel ragazzo non ti ha staccato lo sguardo di dosso, è carino, dovresti parlargli…- Maya la guardò scocciata:-No! Non mi interessa.-Si accorgeva di essere osservata, ma si promise che non gli avrebbe parlato. Suonò la campana della ricreazione e tutti i compagni uscirono fuori dalla classe, lei rimase dentro, sola, Maya, come sempre, ed il ragazzo nuovo, nonostante fosse stato invitato ad uscire, preferì sedersi a fianco alla ragazza. -Ciao!- Disse lui. Maya lo guardò e abbassò la testa, non sapeva neanche lei a cosa pensasse, ma volle 220
ignorarlo e così fece. -Mi chiamo Gabriele, e tu?Continuò lui. Lei alzò nuovamente gli occhi e si arrese, rispondendo a malapena: -Io sono Maya, vattene. -Sei bella… -Ti ho detto di andartene.-E anche forte!…-Cosa?!- Il tuo sguardo non mi piace, colpisce tutti, ma a me, personalmente fa paura. -Anche a me fa paura.- Disse Maya sospirando. -Allora, cosa nascondi? -In che senso? Io non nascondo nulla.-Il tuo sguardo è così perchè nasconde qualcosa, di molto triste. L’ho capito sin dal primo momento in cui ti ho vista. Maya prese a guardarlo fisso negli occhi, cercando informazioni, cercando di capire perché quel ragazzo fosse così interessato a lei. -Cosa guardi?- Chiese lui con aria perplessa. -Niente, è solo… che… insomma… nessuno si è mai interessato di come stessi veramente.-Impossibile, davvero nessuno prima d’ora si è mai accorto del disastro che hai dentro?-Nessuno. Almeno, dieci anni fa avevo la mamma, a cui importava davvero il mio stato d’animo-. -Ecco… E’ questo il tuo problema, a te manca tua madre.-Come fai a dirlo?- Risponde nervosa. -Lo so e basta, comunque… Dov’è la tua mamma?-E’ morta in un incidente stradale, io ero con lei in macchina…-Sono mortificato. Mi dispiace tantissimo…Gli occhi di lei si fecero lucidi e lui la abbracciò, 221
come un papà, come un amico, come qualcuno che le volesse bene da sempre. -Non capisco, sei strano, sei diverso dagli altri. Sei riuscito a farmi piangere ed io non ho mai pianto davanti a nessuno, ho paura di te.- Singhiozzò Maya. -Di me non devi avere paura, appena ti ho vista ho notato qualcosa che le altre non avevano.-Sarà la tristezza, questo è quello che le altre non hanno.- Si asciugò le lacrime. -Si, ed anche la bellezza, la semplicità, la forza, l’intelligenza… Insomma, sai cosa sembri?-Un foglio di giornale accartocciato!- Poco divertente. Mi sembri una dea.- Una dea?! Ma che stai dicendo?- Suonò la campana di fine ricreazione e Gabriele dovette tornare al suo posto:- Ora vado… Ah comunque ho quindici anni e ti lascio un foglietto col mio numero di telefono. All’uscita aspettami, ti voglio portare a fare un giro.- Io non vado in giro con nessuno, non ne ho voglia.-Vedremo, Maya.- Se ne andò lasciandola con il fiato sospeso e il cuore che batteva a mille, ma cos’era successo? Era come se fosse arrivato per farle dimenticare tutto il dolore che provava da un’immensità di tempo. Alla fine, suonò l’ultima campanella, dovevano uscire, e Maya sgattaiolò dalla classe prima di Betta e Alina per evitare che le chiedessero spiegazioni. Prese il motorino, lesse il numero di Gabriele e mise il casco velocemente per tornare a casa. Non voleva incontrarlo, anche se c’era una par222
te del suo cuore che diceva di aspettarlo. Non fece in tempo a salire che subito si sentì afferrata per i fianchi. Si voltò e vide Gabriele, alto e bello, che ancora le teneva le braccia lungo i fianchi. -Ancora tu?! Che vuoi?! Non ti è bastata la chiacchierata di oggi per capire che sono un disastro?!Piagnucolò Maya. -Ti devo far vedere una cosa… Vieni con me?- -No, ti conosco da poco tempo, come faccio a fidarmi?- -Va bene, allora, se non vieni con le tue gambe ti ci porto io, in braccio o sulle spalle, come vuoi?- -Scherzi?! Sono pesante, ti stancheresti.- -Allora sali sul mio motorino, al ritorno ti riaccompagno qui.- -Ma no! Non voglio!- -Vieni, non perdiamo tempo, tieniti stretta.I due partirono e in dieci minuti arrivarono sulla strada che portava al mare. Parcheggiarono il motorino vicino ad un ponte e lui le prese la mano: -Adesso però ti devo coprire gli occhi.- -Perché? Non voglio!Lui glieli coprì lo stesso e malgrado i calci e i morsi che lei tirava non mollò la presa. Dopo un centinaio di metri di camminata la lasciò libera. -Wow, è bellissimo! Non ho mai visto uno spettacolo simile.- Disse Maya, e nello stesso momento le spuntò un sorriso, di quelli veri, di quelli sinceri, di quelli che rispecchiano a pieno il tuo stato d’animo. Erano sulla spiaggia e vedevano il mare in tutto il suo splendore. -Mi ero promesso che sarei riuscito a renderti felice, 223
almeno per qualche istante. Ha funzionato?-Sai, sei speciale, non ho mai detto a nessuno questa frase.-Sai, ti amo, mi hai folgorato appena ho gettato lo sguardo su di te, appena i nostri occhi si sono incrociati ho capito di amarti, non ho mai amato nessuno così intensamente.-Ma… Com’è possibile? E’ solo mezza giornata che ci conosciamo ed è successo tutto questo?-Senti, Maya, io non ho scelto te. Il mio cuore ti ha scelta, e al cuor non si comanda. Mi prenderò cura di te, perché è così che voglio, sei una ragazza che ha sofferto troppo. Ma adesso ci sono io qui con te. Basta piangere di nascosto, se tu vorrai, io ti asciugherò ogni lacrima, ti bacerò ogni sorriso che ti farò spuntare, e amerò ogni tuo singolo difetto, per sempre.- -Per sempre?- -Per sempre.-E’ successo tutto così velocemente, il mio cuore prima era fermo e adesso non so proprio cosa sia successo. Sembra che ora tutto abbia un senso. Solo ieri, avrei preferito di volermi uccidere, ed eccomi adesso, di fronte ad un ragazzo che conosco da poco, che mi sta chiedendo di affidare la mia vita alla sua e che è stato l’unico che è riuscito a farmi sorridere. -Maya, sappi una cosa, non potrai mai dimenticare, ma potrai continuare a vivere.-Grazie, grazie a te, oggi ho ripreso in mano la mia vita.I ragazzi si girarono e si resero conto che alle loro 224
spalle, c’era uno splendido tramonto. Poi lui le disse:- Ti sposerò su questa spiaggia, è qui che il mio cuore ha visto i più bei occhi piangere, le più belle labbra parlare, ed è qui, appunto, che ho portato la persona più forte del mondo, che amo veramente e che amerò per sempre. -Maya iniziò a piangere abbracciandolo, poi gli sussurrò nell’orecchio con la sua voce soave:- Io non mi arrendo, ascolto le tue parole, so che non posso dimenticare, ma posso continuare a vivere, magari, insieme a te.Gabriele, che era tra le braccia di Maya, la prese in braccio e la strinse forte, si guardarono negli occhi e si baciarono. Poi lui si inginocchiò per terra e le disse:- Vuoi continuare la tua vita con me al tuo fianco?- -Certo, Gabriele.- Sorrise. -Allora continuiamo, io mi prenderò cura di te e ti ricorderò, ogni singolo giorno, che la vita è una sola. Ti ricorderò di vivere col sorriso e quando starai male sarò li, ad abbracciarti come oggi e a non lasciarti mai.Adesso i due ragazzi, che non sono più ragazzi, si amano come il primo giorno, vivono insieme e sono una famiglia. La vita che Maya voleva gettare, adesso è la vita più bella del mondo, perché, molte volte, l’unica cosa che serve è il coraggio di continuare a vivere e ad amare. Tra arrendersi ed andare avanti, scegliete sempre di andare avanti. La vita è bella, proprio perché non è mai prevedibile. Martina Taddei – 1° Liceo pedagogico 225
UNA VITA SPRECATA Fissava la superficie dell’acqua sperando di vederla incresparsi in onde concentriche intorno al filo di nylon della lenza. All’estremità, un amo di ferro nascosto da un verme, a scandagliare il fiume mezzo metro più in basso, in attesa di un pesce abbastanza affamato e scioccato da lasciarsi abbindolare. Aveva la pazienza del pescatore consumato, anche se era ancora un ragazzo. Seduto sul pontile di legno, lungo la riva, si godeva il sole tiepido del mattino mentre lasciava che il moto lento della corrente, vicino alla foce, trascinasse l’esca. Poi, quando questa si allontanava troppo mandando in tensione il filo, sollevava la canna di bambù e la spostava di nuovo a monte, riprendendo con pazienza infinita la sua subdola sfida alle trote, ai persici, ai lucci, che avrebbe vinto solo quando la cassetta da portare al mercato fosse stata piena. “Ma in questo modo farai la fame!” Non aveva idea da quanto tempo quell’uomo fosse lì a guardarlo, appoggiato alla fiancata di una macchina di lusso, luccicante di cromature, che non aveva neanche sentito arrivare, tanto era preso dalla pesca e dai suoi pensieri. “Scusami, spero di non averti fatto scappare i pesci, ma tanto ne avresti presi pochi comunque, con quella cannetta! Suvvia, sei giovane, pieno di vita e ora che è finita la guerra puoi conquistare il mondo. Ti 226
piace pescare? Bene. Potresti controllare il commercio nazionale e oltre, del pesce! Credimi, dirigo una grande azienda e so cosa dico”. Ben vestito, con un sorriso che lasciava intravedere molti più denti di quanti un comune mortale si potesse permettere, parlava speditamente dell’acquisto di pescherecci e camion per il trasporto, della costruzione di magazzini, dell’allestimento di celle frigorifere, snocciolava numeri, statistiche, percentuali, quote di ammortamento, ipotizzava ricavi, evocava sogni. “Potrai guadagnare così tanto da cancellare tutti i tuoi problemi, da poterti permettere il massimo di quello che può offrire la vita: fare tutto quello che ti piace davvero!” Il ragazzo ne era affascinato. Saranno stati i denti, la macchina, la voce suadente. O sarà stata la sua giovanile ambizione, la voglia di riscattarsi, di essere rispettato, ammirato. Sta di fatto che decise di seguire quei consigli. Si indebitò all’inverosimile, gettando sul lastrico anche la sua famiglia che costrinse a sacrifici sconosciuti da generazioni, abituata com’era ad una vita semplice, fatta di lavoro senza ambizioni. Acquistò una barca, poi un’altra e altre ancora, e reti, e mezzi di trasporto. Lavorando senza tregua, gli affari iniziarono a decollare, finché fu costretto a smettere di pescare per occuparsi dell’amministrazione della sua azienda, che cresceva sempre più, assumendo operai, autisti, impiegati interpreti per i 227
rapporti con l’estero. Passarono gli anni e poi i decenni, trascorsi ininterrottamente alla sua scrivania, a telefonare, a studiare grafici, analisi di mercato, forme di investimento, a firmare contratti, a presiedere consigli di amministrazione. Ormai dirigeva una flotta di pescherecci, gestiva allevamenti di pesci, molluschi e crostacei sia d’acqua salata che dolce, produceva, trasformava, commerciava all’ingrosso e al dettaglio prodotti ittici freschi e surgelati, che distribuiva in mezzo continente. Le responsabilità crescenti lo assorbivano completamente, non lasciandogli neanche scampoli di tempo per sé, per costruirsi una famiglia, per trattenere le poche amicizie di gioventù, inesorabilmente perse per strada. Era rimasto solo. Dopo quarant’anni di questa vita, lo stress gli aveva procurato un infarto costringendolo a subire una delicata operazione di cuore. Avrebbe dovuto smettere, o quantomeno darsi una calmata. E avrebbe potuto farlo. Il denaro non gli mancava, ma fermarsi non era più possibile. Ormai non possedeva più un’attività. Era l’attività a possedere lui. Dieci anni più tardi conobbe anche l’infamia del carcere, per operazioni finanziarie spregiudicate che i suoi commercialisti gli avevano suggerito per guadagnare di più. Sia lui che, soprattutto, loro che però in galera non c’erano andati, a differenza sua. 228
Ormai aveva scavalcato la soglia del terzo millennio. Era vecchio, ma non abbastanza da non ricordarsi il motivo per cui, sessant’anni prima, aveva iniziato questa avventura. Avere successo e tanti soldi da poter fare ciò che gli piaceva, che desiderava sopra ogni cosa, ma per cui finora non aveva avuto tempo. Così, quando i funzionari di una banca di affari asiatica contattarono i suoi avvocati per proporre l’acquisizione della sua azienda, diventata una holding internazionale quotata in borsa, colse l’occasione al volo. Due mesi più tardi era libero, oltre che scandalosamente ricco. Cosa, quest’ultima, che di per sé lo avrebbe lasciato del tutto indifferente, ma che dimostrava che la promessa di quell’uomo sorridente incontrato per caso mentre pescava era stata mantenuta. Era venuto finalmente il momento di riscuotere la ricompensa di una vita di lavoro massacrante. E’ l’alba di una tiepida giornata primaverile. Si alza presto, come del resto era stato sempre costretto a fare. Ma oggi ha scelto di farlo. E’ eccitato, come neanche si sarebbe più sognato di poter essere, alla sua età. Si avvia a piedi, senza fretta, lungo una strada di campagna, portando a tracolla una sacca leggera e affusolata. Scende piano il greto del fiume sedendosi sulla riva, per assaporare meglio il suo premio, atteso da troppo tempo. Solo il verme è cambiato. La 229
canna, l’amo e gli occhi che scrutano attenti il pelo dell’acqua sono sempre gli stessi. Flavia Tiberi – 2° Liceo linguistico
230
POESIE SEZIONE ADULTI “La poesia comincia quando un’emozione ha trovato il pensiero e il pensiero ha trovato le sue parole”. Robert Frost
Centro storico di San Venanzo con sullo sfondo il Museo vulcanologico 231
L’ ATTESA Sono fermo qui ad aspettare, quando vieni a spegnere la luce, dopo, lasciami ancora un attimo, non fare subito buio, devo ancora finire di scrivere gli appunti e lasciare un segno di questo lungo viaggio. Mi serve ancora un po’ di luce per vedere il foglio dei ricordi. Non portarmi via subito, lasciami il tempo di chiedere perdono e riempire il vaso di sincere lacrime, così i fiori non appassiranno. Lasciami solo un attimo, per ricordare quelli che non ho saputo amare. Giovanni Cianchetti - 1° classificato IL GIARDINO FIORITO Mi manca il ciliegio che abbracciava il terrazzo con la sua cascata di fiori e poi con la sua ricchezza di frutti. Mi mancano le tue manine protese 232
a ghermirli in competizione con gli uccelli le tue manine imbrattate di rosso come le tue labbra. Mi manca il salice con la sua tenda di foglie stroncato un giorno dal vento. Mi manchi tu sul bordo della vasca con un ramo a battere l’acqua divertito a spaventare le rane. E la vasca è ancora lì con rane e ninfee in un giardino inutilmente fiorito. Vera Bianchini - 2° classificato LA FORMICA Un giorno ch’era callo buttanno via ‘na cica, l’annai a pistà col piede Quanno vidi ‘na formica. Tutto ‘ntorno era ‘na bruscia che lì per lì ce pensai poco, 233
perché toccava annà de prescia Sinnò partiva l’foco. Ma appena fu conclusa la pressante operazione, la mente mia confusa affina l’attenzione: Ma guarda che fatica ‘sto diligente insetto, chissa’ chi jie comanna e je ‘npone ‘sta condanna. E n’è solo stavolta ma c’ho sempre avuto l’chiodo, de capi’ perché ‘sta bestia lavora cusì sodo. C’era n’afa già da la mattina, l’pensiero era annebbiato, quanno una vocina me sembro’ vinì dal prato. “Potresti anna più la’ che acciacchi la mi porta, Io sto a lavorà E già so stracca morta” Me pizzicai ‘na guancia, 234
me ripresi in un baleno, recuperai la competenza, e jie risposi a tono: “ ‘Ntanto parla piano e pesa le parole, io so’ ‘n esssere umano e tu ‘n essere ‘nferiore semo la specie dominante e stemo sopra a tutti quanti, la razza nostra è intelligente e pu c’emo i sentimenti”. Per gnente ‘ntimorita Dall’ umana tracotanza, La piccola creatura Arringò con supponenza “Illuso prepotente com’è che nun t’accorgi de come la tu gente è ridotta al giorno d’oggi? La mia è ‘na stirper marginale, ma lavoramo tutti e magnamo tutti uguale, nun famo come voi che ta chi ha lavorato quanno che va a magnà già J’onno sparecchiato. 235
Ma quali sentimenti? Io vedo solo cattiveria che ve spinge nell’agone tra chi morirà in miseria e chi strozzato col boccone. Al posto della testa c’hai solo ‘n bello scojo anzi di più , c’hai proprio ‘no scojone e te c’ avanza anche na “esse” cusì ce fai ‘l sapone . Vabbè so’ affari tui, ta me la cosa ‘n me riguarda, ma si proprio voi ‘na mano te cercherò ‘na corda.” Famme scenne disotto che al piano superiore c’è n’inquilino sciocco che del creato è ‘l disonore. Luca Caciotto - 3° classificato SIMBIOSI Passano ogni mattina quasi alla stessa ora, il cane e l’uomo: rasentano la battigia sulla spiaggia affollata di bagnanti, e l’uno porta l’altro e l’altro l’uno, senza poter distinguere quale, tra i due, è il portato 236
e quale il portatore, tant’è la simbiosi fra l’uomo e l’animale; di tanto in tanto, allorquando una palla, lanciata da un bambino per caso lo colpisce, il cane ha un guizzo appena percettibile, ma subito represso, per il ricordo di più lieti giorni di giochi e di pazzie, ma ligio ai suoi doveri, subito ricomposto nell’assetto, riprende a tracciare la strada al compagno privo della vista che si affida, è proprio il caso ciecamente a lui; ed insieme vanno sempre con lo stesso passo, silenziosi ma non tristi; l’uomo, sicuro dell’amico, il cane votato all’amicizia; non l’uno senza l’altro; due anime in simbiosi ed ogni volta 237
il mio sguardo li segue affascinato, allontanarsi tra la folla indifferente, ed un moto di commozione mi gratifica per quella dedizione del cane al suo padrone. Raffaele Conte – Menzione speciale SCRIVIAMO UNA POESIA SUI FIORI Rosa mughetto calcedonia croco viola del pensiero mi apro in boccio e scopro un sentiero inerbito e poco calpestato. Sono tutti belli i fiori ma la più cara è la rosa canina che ha rubato all’alba i colori e sembra raccogliere petali di brina. 238
Narciso, fiordaliso, mughetto fiori di campo distesi alla solina quasi nascosti nellâ&#x20AC;&#x2122;erba del prato senza superbia come stella alpina. Rose, rose, rose e rose ancora, datemi rose antiche nel giardino sotto una spalliera di sorrisi voglio dormire fino a mattutino e passeggiare in sogno su un bel prato insieme a te mio angelo dorato Vera Bianchini GIOCHI DI LUCE Ci sono giochi di luce e dâ&#x20AC;&#x2122;ombre sui muri a proiettare forme nuove 239
e a darti una veste di bellezza paese mio antico scrostato, scalpellato riappiccicato. Mi mostri i tuoi colori affioranti qua e là autentici mosaici del caso. Nel silenzio la natura si riappropria di te con quei ciuffi di parietaria e di sambuco sui tetti e dentro i muri ora che l’uomo fugge. E la casa più antica è buia ma io colgo un canto nell’ombra del fanale sulla strada. Vera Bianchini FIGLIO MIO Figlio mio non so cosa mi dirai quando capirai, un giorno, che non sono stata io ad averti messo al mondo. Però so che ti sarò accanto quando piangerai, 240
quando riderai, quando avrai paura, quando farai domande: asciugherò le tue lacrime, sorriderò della tua allegria, calmerò le tue ansie, cercherò con te le risposte. Perché è quello che fa una mamma. Perché è quello che fa la TUA mamma. Daniela Bruschini UN POSTO ALL’APPOMESSA È successo all’improvviso E nun l’avrei mai creso, tanto che so’ confuso e ancora un po’ sorpreso. Nella vita ho sempre dato e guardato solo avanti. Un giorno però ho ‘nciampicato e me so’ fatto quattro conti. Più de mezza n’ è passata e ‘n soffio m’è sparita, de quel po’ che n’è restata che vojio fanne de sta vita? Ricercato dal destino 241
perché j’ ho fatto salta’ ‘l banco me ne toccava uno ‘nvece ho tre angeli accanto. Allora che me manca? C’ho pensato per davero, se i soldi ‘n porto’n banca ce porto ‘l mi’ pensiero. Aprii subito ‘n conto versanno ‘na commedia anche si ‘n è tanto qualcos’altro se rimedia. ‘Sta cassa de risparmio è davero sorprendente perché non trae guadagno dal sudore della gente. Voi ‘n ce crederete, ma si annate a preleva’ ‘n ve chiedono chi sete e ve vojion regala’. Dentro le su’ casse ‘n ce so’ mica i soldoni al posto delle tasse Se versono emozioni. E pu la cosa bella 242
che ’l capitale che ce porti è come accenne ‘na stella per quanno che tu parti. Così ‘sto novo astro ‘n se spegnerà mai più spiegherà ‘n maestro che l’hai acceso proprio tu! “Do’ stai co’ la capoccia c’emo da fa’ parecchio nun fa’ quilla faccia riempeme ‘sto secchio!” Quella voce perentoria fu come ‘n colpo al cuore perché strappò l’estorta gloria a ‘n illuso sognatore. Sarà stato solo ‘n sogno ma quanto bello ‘n poi capi’! Si ce potessi mette’ ‘n segno ripartirei da lì. Anzi ce vojio torna’ e portacce i mejio amici a ’sto vento che c’è qua Tanti saluti e baci. Vinite dietro a me, 243
accettate la scommessa, me direte poi com’è ‘sto posto all’appomessa. Luca Caciotto GISTO Una volta a rcoie l’ovi pe‘ la festa, Ce s’annava pe’i paesi co’ la cesta. Capitò che ‘n certo “Gisto” anche si nun ce l’ho visto, ma sicuro è cosa vera perchè a rcontallo fu chi c’era. Artornando giù dal “Doglio,” ‘l problema è proprio quisto quil che manca a ‘sto paese sò le persone come “Gisto”. Nun so si pe’ la stracca o si pel vino, scivolò sotto “Damino”. De cent’ova o forse più nel canestro all’ammucchiata, tre o quattro supper giù furon fuori da la frittata. ‘Sto poretto disgraziato ‘n ce pensò manco un minuto, 244
mise mano ta la cesta acchiappando quil’che resta ringrazianno a modo suo tutti i santi della festa. Con fermezza e senza indugio completava la faccenna e siccome era de maggio ‘n se scordo’ de la Madonna. Per rispetto del paese, anche se non stipendiato, ripagò tutte le spese per sentirsi sollevato. né saggezza nè pazzia, questa è filosofia. Io per questo l’ho raccolta tra le storie de ’na volta. Sò le storie della gente che sembra che nun conta gnente. ‘L problema è proprio quisto quil che manca a ‘sto paese sò le persone come “Gisto” Luca Caciotto GIOVENTÙ Ti ho avuta dentro 245
Prepotente Verde come un prato d’aprile Ti ho stretta forte Per non lasciarti andare via Eppure sei fuggita Ti cerco ancora Ma trovo solo fotografie Silvano Cappelletti VIESTE Muto pomeriggio d’estate dove la terra arida dorme da sempre, le case bianche e assolate sembrano dipinti appesi alle rocce. La vita scorre lentamente, come in un presepe. Anche la cicala rinuncia al suo canto quasi a non voler turbare questa quiete. Di tanto in tanto il mare, silenziosamente bacia la sabbia poi torna a confondersi con il cielo. Ondeggiano lentamente i rami d’ulivo mossi dal vento che arriva dall’est. Silvano Cappelletti VOLA ANCORA Prima che il vento porti via i nostri giorni di follia 246
e la nebbia rubi ai nostri occhi l’allegria, prima che il sole non ci riscaldi quasi più e l’autunno ingiallisca i nostri ricordi. Vola ancora se vuoi, volerò insieme a te non fermarti perché un prato verde ancora c’è nel giardino dentro te. Voglio cogliere ancora i tuoi fiori, voglio prenderti ancora per mano sentirti vicina e portarti lontano. Sarò ancora accanto a te quando il tempo verrà, il buio cancellerà tutto ma il nostro amore resterà per sempre. Silvano Cappelletti FRASTUONO DI VELE Frastuono di vele scosse resterò, fin tanto che un mare dentro di te indugerà. Voce sopra vento, voce che vedi di me, null’altro devi dare per scontato. Solamente questa preghiera che confonde l’abbaglio di un cielo, il fumo che ci si attende da una pagina scritta, lentamente evaporando al sole. Nel dubbio di un’ombra scomparendo. Certo soltanto di poter stare ancorato 247
ai più sottili fili di canapa rimasti preziosa preda del viaggio. Bruno Centomo SCAMPOLO DI CANZONE Ho un giorno, un’ emozione, un pensiero. Sono in attesa di una scelta, di una gioia e di una lacrima, di una forza. Eppure io scelgo le mie stagioni, sbottono il mio peso e le parole, che si accontentano cercarsi una dopo l’altra. Declino fatica e dolore sugli spigoli bianchi delle mie pagine di donna, sui lembi del destino che muove le solitudini dei sogni. Tu ci sei genio per ogni mio frammento, mano che spinge, voce che prima ascolta e poi si apre, sottile, gentile, forte. Senza te sarei cenere fredda, aiuola che erbacce soffocano. Canterei un sogno, se tu non ci fossi? E tu canteresti per me, senza lasciarmi solitudine di me stesso? Io sono scampolo di canzone. Io, la mia vita: pentagramma di note furiose, calme, già pronte all’ora che sempre 248
si rincorre, mai puntuale. Bruno Centomo OLTRE IL DITO Voci bizzarre arrivano dal disco suonato piano della Luna. Dice così, la mia bambina curiosa di ciò che troverà, catturando col retino, il riflesso dorato nell’acqua. S’arrabbia quando invece l’immagine si disfà, perdendosi in frantumi per poi ricomporsi intatta e dispettosa. Io, che so guardare soltanto il dito e non la Luna che mi viene indicata, sorriderò sornione, senza accorgermi che mi hanno già rubato le ali che trasportavano lontano i sogni. Lontano. Sopra i carri di Selene. Bruno Centomo FRATELLO Hai sofferto tanto dolore, attraversando monti e mari, mai speranza ti ha lasciato, 249
ora che sei nella mia terra, tu che sei venuto da lontano, non cercare di strappare dalle mie mani i simboli, da sempre nel mio cuore. Questo, il tuo Dio, in suo nome, non può permetterlo a nessuno. L’uomo appeso a quella Croce, è la speranza mia e del mondo, quelle braccia aperte, accoglienti, sono segno di nuovo amore. Lascia che la vera luce sia quella che emana dalla Croce. Tu, che sei venuto da lontano accolto, non meditare la morte mia, per inneggiare al tuo Dio. Tu, venuto sulla mia terra, ricordati, che su questo luogo, è meglio camminare insieme. Giovanni Cianchetti TESTAMENTO Tornerò nella mia terra, a scavare nei suoi ricordi, ritrovare le vecchie impronte affondate nella storia del tempo, a ricercare tra le immagini le persone spesso dimenticate, 250
i fantasmi di chi ho amato. Tornerò a rivedere mio padre, mia madre, sua fedele compagna, il loro sudore e semplice amore, nella terra antica che fu loro. In questa terra la mia anima si è fermata a cercare le radici profonde della sbiadita storia. Sono nato su questa terra amata e vorrei mescolare le mie polveri alle sue sottili zolle del tempo. Tornerò a risentire quel vento, che bisbiglia agli ulivi e tiene compagnia al mio cuore. Giovanni Cianchetti LA COMETA (Ballata per la Pace - 1214 : San Francesco sul cammino di Santiago di Compostela ) Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Dal primo sol fin al meriggio tardo per le strade andavan camminando a piedi scalzi col baston in mano fratel Francesco con fratel Bernardo il volare d’augelli’n ciel mirando al Signore laudi dedicavano. 251
Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Nell’umido notturno di Galizia riposano le membr’appesantite, blandito è il cuor da lieve vento: Francesco benedice con letizia le creature che si son sopite sotto la coltre blu del firmamento. Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Una nube al sol faceva schermo nella marcia ripresa quel mattino, come stoffa vista in trasparenza steso per terra vider un infermo: “Bernardo per curar teco destino”, quest’il capo chinò per obbedienza. Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Finchè giunser al Campo della Stella ove giaceva Giacomo maggiore, apostolo che fu martirizzato reo di diffonder buona novella per il mondo, nel nome del Signore. Umile, Francesco si è prostrato. Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. In compagnia di frate Leone ospite del povero carbonaio cui porse il pan dell’amicizia, 252
le notti passate in orazione rivolgendo le sue preci a Dio circonfuso da un alon di grazia. Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Dio Padre non tardò a mostrarsi nella benedettina provvidenza: offrì a Francesco il su’ convento imponendogli di moltiplicarsi, come bontà fosse la semenza del profondo cristiano sentimento. Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Poi venne tempo di tornar indietro: da Roncisvalle traversar Provenza tra campi di grano e fiordalisi, coi fra’ Leone, Bernardo e Pietro felici di stare in penitenza verso la Porziuncola di Assisi. Ne’loro bigio saio verso la meta la pace nei lor cuor come cometa. Antonio Cirillo LA POLENTA Sopra la fiamma coce nel paiolo, mentre la nonna ruma… ruma... ruma... il ciocco piano piano si consuma nel tardo rincasar del boscaiolo. 253
Oggi si cena con un primo solo con quell’impasto giallo ch’ora fuma tra gli sguardi famelici s’aggruma bionda colando su quel borracciolo. Passa lo spago per tagliar le fette ognun si serva con le sue mani, a volontà, fin che la fame sazia che oggi il Signor ci fa la grazia di mangiar tanto pur restando sani: a pancia piena con le tasche strette. Antonio Cirillo SENIL CANDORE Forse perchè son nato di dicembre ma nel freddo vivo indifferente come se fosse l’abito dell’ombre che trasparse si fondon nella mente. Sature di ricordi del passato, puledre dalla lieve corsa stanca di passi cadenzati sul selciato ammantato da una coltre bianca. I grigi crini della senescenza sono fiori spuntati sulla testa come candide perle di saggezza per mostrarsi a Lui con la certezza d’una vita trascorsa come questa: 254
vivendo sempre nella trasparenza. Antonio Cirillo IL SUONO AZZURRO DI UNA LACRIMA Nelle tasche ci sono cicatrici oblique di una stagione che non si è seduta sulla sedia sconfitta dalle mie ombre di padre sulla quale mi osserva un cuore senza spazio i cui passi sono stretti in un alito di sassi e d’innocenza sbiadiscono le vertebre di un sogno che una lacrima raccoglie in un suono azzurro sotto un cielo di magnolia dove il sangue liscio di parole in esilio ha plasmato un nido freddo come l’inverno dopo la marea. Ogni parola è una conchiglia disseminata del solstizio ogni conchiglia un sogno declinato ogni sogno una stagione che si è andata a confondere con l’ombra delle mie ossa che sa ancora di latte e non mi è possibile fare la conta di quante volte sono morto e poi risorto stringendo un pallido rosario di padre al cuore tra le mani morbide e mutevoli di Dio 255
al suono azzurro di una lacrima e dietro il nulla. Ho collezionato ogni mio capriccio nelle tasche lievi come tutto me stesso come una vita intera e il buio. Davide Rocco Colacrai TEOREMA DELLE QUATTORDICI LUNE Ho bevuto dalla prima luna sotto lâ&#x20AC;&#x2122;azzurra corona delle sue efelidi allâ&#x20AC;&#x2122;aritmia obliqua del respiro sui palmi dei sogni ai quali siamo in appoggio dopo la linea del riposo nella congiunzione ad una lacrima della sorte per tracimare in nota di principio. La carezza di un uomo aderisce alla sua geometria in un perfetto prolungamento del cuore incontro ad una bozza di vita da plasmare in due lo sguardo racchiude le radici di un incontro il cui sudore scava spazi perpetui come il fiammifero di unâ&#x20AC;&#x2122;aurora la confessione si tramuta in un apprendistato al passo di una penna 256
incontro all’onda madida di un inchiostro d’uomo. Non è forse vero che amare è rinascere d’infinito? Ho bevuto dall’ultima luna Sotto la rugiada spiegata in un istante al ticchettio perpendicolare del silenzio sul polso dell’infinito di espiazioni munte e desnude in punta di parola. Ci sono nell’elogio di lune sorelle concatenate le ossa del nostro nome e al cerchio scalzo di questo grembo il quattordicesimo battesimo non è forse vero che amare è palesare il nostro eroe dalle vene? Davide Rocco Colacrai POMERIGGIO D’ AGOSTO La frenesia del traffico è finita, m’affaccio alla finestra di casa mia e vedo la strada vuota; sento una cicala cantare il solito ritornello, vedo la formica che ricerca, infaticabilmente, 257
derrate per l’inverno; ammiro una farfalla che, silenziosa, svolazza da un fiore all’altro; una colomba tuba dal nido che ha fatto sotto il tetto; anche le nuvole, bianche nell’azzurro del cielo, sembrano immobili. Passa una fanciulla in bicicletta, pedalando piano; si guarda intorno e scopre, forse per la prima volta, il mondo che la circonda. Anche un motociclista scorre sulla strada guidando piano, per gustare, appieno, la brezza che l’accarezza. E’ tutto fermo, immobile e tranquillo sotto il sole, e l’atmosfera di questa situazione invade cuore e mente e mi dona sia pure per un attimo un senso di sereno appagamento. 258
Ma poi, qualcosa all’improvviso rompe l’incanto; mi sveglio e mi ritrovo a terra. Raffaele Conte ACQUERELLO IMPRESSIONISTA Le note di un pianoforte in una silente notte stellata; il cinguettio di un passerotto che attende, a bocca spalancata, d’essere imboccato; il ricordo d’una persona cara prematuramente scomparsa; l’alitare lieve del vento che muove, appena, le chiome degli abeti; uno spicchio di cielo che fora, spavaldo la cupola del verde; ombre fluttuanti nella tenebra incombente in cerca della luce, e l’animo mio si compiace ed affonda nella grandezza del creato. Raffaele Conte 259
LA NOSTRA LIRA Eri così bella con i tuoi colori ti si ammirava e ti si lodava quando eri in tasca ti si amava e a far le spese ti si portava. Ora da anni tu ci hai lasciato ma il tuo ricordo l’abbiamo ancora in ogni istante e in ogni ora come farfalle intorno a un bel lume. Un gran gioiello da custodire in uno scrigno ben riparato o in un quadretto bene tenuto per conservarlo in modo geloso. Il sogno grande di tutti noi che l’abbiamo avuta e adoperata come un bel fiore l’abbiamo tenuta per tanti anni nel nostro cuor. Certo adesso non è facile dimenticare anni di storia del suo passato e della sua gloria che ci ha fatto fieri del nostro ieri. Ora quello che la Lira ha fatto nella sua lunga vita per noi Italiani non è più di oggi né di domani, 260
ma qualcosa da non dimenticare. Noi siamo fieri di averla avuta e l’ammiriamo ancora con tutto il cuore come il ricordo del primo amore che mai davvero si può scordare. Ce l’abbiamo in molti la nostra Lira. C’è chi l’ha messa in un cofanetto e chi l’ha appesa in un quadretto per conservarla come un cimelio. Ora la Lira è andata in pensione e più non torna da noi Italiani solo il ricordo dei tempi lontani che studieranno i nostri bambini. Questa è la storia della nostra Lira e noi siamo felici di averla avuta che per tant’anni l’abbiamo goduta negli anni belli della nostra gioventù. Teodoro Paolo Corradini LASTRICATI Meschino il lastricato mattino, inesorabile negli incroci 261
di volte intense, interrotte dal plasmare di ali, da bagliori immersi in rivincite enigmatiche, da sogni dissetati nella distinta povertà, essere, mancare, ripercorrersi, avvertire le indacee vinche sul lungo riverbero vitale, ne riconosco il sospiro, nutre il segreto della terra. Antonietta Ferrovecchio
DECLIVI Grappoli malinconici interrompono i silenzi, riaffiorano dall’implacabile mancanza di una resina che intrappoli il tutto, che renda il tutto possibile… e l’attesa… si adorna di declivi sul sottaciuto equilibrio che riprende il passo. Antonietta Ferrovecchio 262
TARDA ORA Come malìa si avvicina, rotola la tarda ora su davanzale spezzato dalla pioggia, giunge sorda su quell’isolata spersità, mancanze riviste e allontanate, gli incunaboli ne fanno segreto, nel cuore gli spergiuri per allontanare i prossimi bagliori, migrano i pensieri sui rottami di cristalli, …sapientemente brillavano… danzano per l’oscurità affogano nei vortici, …ora sono irriconoscibili. Antonietta Ferrovecchio LA PAUSA INCERTA Si separa dal nido l’uccello fatto e non tarda Borea che, di canute trame, tesse il vello. A lui proteso di matassa 263
bandolo rimbocca, quasi a nasconder il mirabil evento. In arcione di Eos salgon le lacrime e sui rami, per vitrei ricami, galaverna scivola, cigola tra le fronde immote: del battito ad assopire il ritmo, dello spirito, a tacer le grida. Tesa e distesa di marmo drappo a soffocar aneliti, ronza in silenzio l’occulta sorvegliante. Tra le pieghe d’ombra Paura erompe per quella quiete alcionia che al bando vorrebbe, dell’orizzonte per l’aura opalescente che tanto teme. Di pietra 264
le mie viscere. Nell’umida terra, a testa in giù, la bocca colmo di quest’ultimo elemento, affamato di quell’odore, risoluto a bere solo quello. Sono nel fitto gioco di Ermes! Il percorso in tondo di ciò che ci dà da vivere e ciò che ci dà da morire. Straniere trame senza principio e senza fine fugano certezze di cristallo e il mio tempo rincula, ritorna sul proprio continuo essere presente, nell’ ipnosi di dipanare quella matassa. Altrove il consueto defluire degli eventi Astreo, risveglia, 265
pronto a sciogliersi in verdi convolute e di foglie tingere l’ attesa mia….. Ma di me resta la pausa incerta, oltre le poderose soglie dell’inconoscibile. Lucio Fringuelli L’ ESPERIENZA DEL RIMPIANTO Annaspa la falena contro il lampione ancora caldo: è altra vita consumata sul braciere dell’ esistenza. Fili assottigliati mi legano ormai alla ragnatela, li guardo impallidire mentre occupo spazi dove il tempo rallenta, quando….. Con grande ambascia, s’impone il sapore di pietanze mai assaggiate, le parole mute di un antico richiamo, lascate lì, 266
in giacenza dal sommesso diniego di un futuro elusivo. Ho respirato fumo eppure bramo aria fresca. Non ho conosciuto l’amore ma sconto l’elaborazione dell’assenza! Si può morire dell’inconoscibile? Dritta alla meta vita si consuma ad ogni passo incerto, e l’inetto, nel groviglio di sentieri, sceglie l’impervio. Conosco il rifiuto ma aspiravo all’assenzo, come il seme confida di germogliare sul cemento! Non ho più giorni da cedere a fittizie contropartite né alla speranza di elaborate ricompense. Annaspo contro la marea del tempo 267
per riconquistare la mia terra ma intuisco il suo inganno….. Troppo tardi, l’ orologio è fermo! Vita è motore che accende il fato perché nasca l’occasione! ……L’incendio divampa A motore spento e nel braciere il sommesso lamento. Lucio Fringuelli ODE ALLA N. E’ l’opaco di un pensiero stordito. Dirada fievole dopo il letargo forzato. L’occhio sonda stanze sfacciate. L’impudenza dei colori. L’irriverenza delle forme. E ante dischiudono il purpureo fardello. E’ questo il trofeo? Vibra le membra il canto del caprimulgo, riverbera cieli limacciosi 268
dove tutto inizia e tutto finisce, ed è già a monte di noi quell’attimo di sconfinata unità che in tralice traguardava la separazione. Di notte, nei sogni di giorno, nel ricordo tormenterai le mie ore….. Se un’anima c’è è nell’amore condiviso, non offuscato dal tempo, a valle del perituro essere. Tra conformi copie di un lontano passato quando di te non conoscevo l’ombra, sta il tuo corpo, immoto, che tanto di movimento ha dato agli altri per la tua vocazione a dispensare. Tu operaia del bene, mite nei tuoi tumulti, alla pace lavoravi 269
nel raspare di quelle gonfie giornate. Come nella presenza zelante a frenar le nostre discese. Sempre lĂŹ! Pronta al momento da cogliere per dare alla vita lâ&#x20AC;&#x2122;ultimo senso. Lucio Fringuelli MAMMA Una delizia stormiva le stagioni, ogni dolore sversava sul tuo seno in confessioni le assoluzioni di questo rovo. Vendemmie di sorrisi nellâ&#x20AC;&#x2122;immoto sguardo, anticamera della speranza, firmamento ove mietere 270
grani sereni. Eri rugiada, il tuo roseto adornava tanti bambini e il gioco dell’oca, aromi di frescura ventagliava un limone. Oggi stormisco solo ricordi, nel perenne brivido d’una coscienza senza ovile ma prigioniera, d’amori senz’anima come la tua. Nunzio Industria A SAN LORENZO Arcaici miti trapuntano il telaio, palpiti alieni ove sguardi tremuli s’immolano di sogni e una mescita soave sussurrando s’eleva: sono preghiere. Destini usati scandagliano nel cielo 271
e nell’incoscienza cercano metà eguali. Ecco la falce: osserva indifferente e miete le stagioni. Alberi si stagliano oscuri e scarni, privi di foglie, tuttavia colmi: una mammella sepolta nella neve allatta con rugiada vecchie radici, e le sagome cieche sussultano di nuovo, al crepitìo d’una lacrima quando s’asciuga, a San Lorenzo. Nunzio Industria L’ABITO NUOVO Come acquerello in cornice, dalla finestra lo sguardo sposa l’abito fresco di colori e aromi. 272
Scorre un brivido, e mi inebrio tuffandomi, rotolo nellâ&#x20AC;&#x2122;erba e mi bagno di fiori. abbracciandomi nella cappa schiusa di madre Terra, quando si trucca di Primavera. Nunzio Industria AI MIEI DESIDERI I miei desideri invadono il tempo del mio spirito Come ragni Che cominciano a creare la loro tela Ad incastro, nel mio cuore E inizia la guerra Dei buoni sensi che fanno guardia sulla torretta della difesa Sono invidiosi questi ragni Da destra, da sinistra sbucano Le battaglie diventano dure Tante volte chiudo gli occhi e creo il pensiero della stanchezza Il mio cuore pulsa di qua e di lĂ E le mie guardie non hanno serenitĂ Ci sono traditori 273
La luce degli occhi nella bellezza del mondo Nutre l’invasione E le riserve del mio tempio cominciano a calare L’acqua della vita è agli sgoccioli Verso le tenebre scivola l’Anima mia Ho gridato l’urlo della sete E ho visto il sentiero che porta ad un pozzo C’era l’arma della salvezza Caricato con l’Amore e il sorriso, il mio secchio Le mie guardie hanno ripreso vita E vedevo ragni in fuga nel deserto I desideri tornano a compiersi Intrecciare bellezza che scende E il cuore batte Gioia dell’incontro con la pace Il pozzo è nel mio recinto E sempre mi attende, l’acqua della vita Che fruttifica i miei desideri Vero lo spirito che vola. Dedin Jaku NELLA DIFFERENZA Io sono qui oggi Straniero fra stranieri. Il mio grido Segue le ombre del dubbio Per una chiarezza del mattino. La nostalgia di ieri 274
Mi fa entrare in un labirinto E la mia lacrima accompagna ogni tramonto. Non sono un fantasma Che soddisfa ogni specie di interesse Vorrei, che gli occhi scendessero nella valle del cuore Vorrei, che nelle mie strade incontrassi quel sorriso, Che mette in moto i miei sogni E sopra le nuvole riposare i miei pensieri Vorrei, che i miei desideri si sciogliessero nel sole della morbidezza Ma, il mio urlo dei perché naviga nel cielo del vuoto Vorrei camminare per le vie della pace E ammirare le stelle che hanno posto nel cielo i miei sogni Navigare nel mare dei pensieri liberatori E assorbire aria di vita, ma: La realtà gelida mi butta all’angolo della sopravvivenza La sabbia del deserto mi nega l’accesso del sorriso E fantasma tra stranieri rimango I miei sogni non chiedono l’impossibile La mia stranezza non è marziana Non rubo la speranza altrui Vorrei solo fare un posto per la mia piccola storia Una volta guardavo l’infinito numero di stelle Desideri cadenti con la loro luce appena nata Ormai il mio cielo è un flash di un ricordo 275
Mentre cammino nel pianeta del mio paesaggio Il mio sguardo si aggancia alla speranza Filo portante del mio decollo. La mia piccola storia scritta sulla sabbia Orma cancellata nelle tempeste a catena Non mollo comunque Le mie righe le scrivo con il cuore E un sorriso lascio ad ogni scambio. Quando andremo nella nostra terra, Vedremo quanto è stata stupida la differenza. Dedin Jaku HAI TEMPO ?! Hai tempo tu? Vedere aprirsi una rosa Guardare come vola una farfalla Come canta un uccello Nella gioia, di veder gioire un agnello. Hai tempo? Sentire il rumore dello sbucare dellâ&#x20AC;&#x2122;acqua dalla terra Capire il rassegnarsi delle onde del mare Stare con i fiocchi bianchi della neve. Hai tempo tu? Meditare, alzando gli occhi al cielo Specchiarsi nelle stelle e la Luna Nei raggi del Sole vivere. Hai tempo tu? Io ho tempo? 276
Dire al tempo il significato del mio tempo Dove vado correndo nello spazio Senza un’orbita Ferma Non cadrà tutto Anzi vedrai alzarti E avrai tutto il tempo. Dedin Jaku LE CAMPANE Lassù dove la terra si fa più alta, tu chiamala collina La torre vedova lancia un grido..! Il suo espendioso suono mai più mi desterà “campane”. Tu nonno passando un dì narrerai ai tuoi nipoti Alzando gli occhi di come giocose e magiche suonavate Complici di condivise gioie e problemi risolti insieme. Ipocrisia e passaggi per dimostrare che corriamo nudi, dietro una realtà che spoglia di quelle campane, si sentirà il rantolo! Verserò sangue nero quello della nostalgia che allontana, 277
i bagliori più vivi, un cuore sfilacciato sente quel suono da lontano, ha bisogno del pane della vita. Lena Maltempi IL DOLORE NON HA ALI Un popolo non ha memoria, e non ha futuro, se non ricorda le lacrime versate, da madri private, dei figli e mariti se richiamati alla guerra. Se tutto questo ha un senso, raccontalo. Il passato è qui. Ora nel presente difendilo dall’indifferenza e dall’orgoglio cieco. Andavano alla guerra cantando, obbligati giovani con fucili e baionette, fra quei carri armati si udiva il parlare che sapeva di storie e dialetti di paesi, nel taschino una foto di un amore lasciato a casa, una scatola di tabacco trinciato e due cartine per una sigaretta fatta a mano. Andavano cantando un canto d’amore, per addormentare il dolore dove i ricordi non hanno prezzo per chi sogna casa sua, aspettando la pace. Lena Maltempi 278
SE FOSSI EDERA Se fossi edera sarei rimasta lì, aggrappata a quel muro, fino in cima arrivata fino al tetto, dove colombi facevano il nido. Pezzi di gelo alla grondaia ne avrei fatto uno scialle al primo sole di marzo avrei allungato il collo per veder crescere i miei germogli. Se l’edera dove s’attacca muore lasciatemi lì, datemi una coperta. Coprirò il camino che non ha più fumo. Resterò ancora a lungo fino che non cederà il muro. Sarò con lui nell’ultimo abbraccio. Lena Maltempi ATTORI SOLITARI Amicizia, amore, felicità, parole perdute nella quotidiana ed indifferente ipocrisia di un presente che mette in scena solo falsi sentimenti, attori anonimi, 279
senza un volto giriamo in un mondo che esalta solo l’egoismo e noi ignari di tutto, abbiamo la superbia di crederci vivi, pensiamo di esistere, ma siamo e saremo per sempre sognatori di realtà. Giorgia Marcacci METEORA Ecco la felicità: un bimbo nel grembo i progetti, le domande; il tuo cielo che si espande le sue piccole attenzioni le prime preoccupazioni. Poi un giorno in una fredda stanza il responso inatteso: “il suo cuore più non pulsa” … Perché a me questa triste sorte? Perché è giunta qui la morte? Non c’è più nulla da fare. Il mio grembo è ormai vuoto sensazione di amarezza. Il mio uomo mi accarezza mi inonda di dolcezza. 280
Un addio al nostro bimbo precipitato nel limbo. Milena Nigro CASA Echi di risate, soffocate. Al buio dolci parole d’amore, sussurrate, promesse, segreti, memorie perdute. Tutto perso nel tempo passato… Tutto ricomincerà… Ho speranze. Sul portone di casa il cartello “affittasi” dondola al vento. Orietta Palanca LO STRANIERO È li, fuori dal centro commerciale. Ha un cappello da Babbo Natale. Lunghi capelli, barbuto, un po’ ingobbito, con il calore della vita concentrato, 281
negli occhi vividi per troppe cose viste. Tende la mano. Lo guardo, mi sorride, strizza l’occhio e mi augura buon natale. Orietta Palanca IL TRAMONTO Com’è bello il tramonto stasera, è così bello da far paura. E io mi perdo, in questo spettacolo che è la natura. Lingue di fuoco: rosse, gialle, arancioni, incendiano l’orizzonte. Un batter d’occhi, un sospiro e tutto è finito. Il sole nell’Adriatico d’argento si è spento. Orietta Palanca LA ROSA Confido i miei sentimenti ad una rosa di fuoco cogliendola dalla pianta e 282
donandola al vento. Come il mio cuore vola catturata dalle folate gira in brevi turbini e scompare dalla mia vista. Se ne va per il paesaggio dipinto di aria e di sole che non riesce in pieno a placare il mio io. La rosa ritorna non è riuscita a trovare un luogo dove stare e posarsi non poteva che tornare. Eâ&#x20AC;&#x2122; finita lâ&#x20AC;&#x2122;illusione di avere un posto dove alloggiare che accetti una rosa di fuoco colma di sentimenti. Sentimenti come segreti che io gli ho confidato che io non conosco sperando che se ne andassero. Sono tornati insieme alla rosa di fuoco ancora 283
intatti non c’è posto per loro è un sogno che svanisce. Riccardo Pescatori ABBRACCIO Il poter non smettere di abbracciarti all’alba per sentire il profumo del tuo silenzioso risveglio. Riscoprire e scaldare il buio che sta in te con l’abbraccio del mio cuore animoso. Vedere gli occhi nei tuoi occhi il segreto palese a tutti e il vero sentimento del mio abbraccio mentale. Le tue lacrime colme di sale che il mio abbraccio crea e cancella nel tuo viso pieno di segni invisibili. Le tue braccia fragili e decise che sento su spalle e schiena a ricambiare il mio abbraccio 284
alla luce del giorno nascente. La tua flessuosità donata dalla strana natura dell’aria colma in pieno il mio abbraccio che solo su di te e in te si chiarisce. Riccardo Pescatori L’ INFANZIA Stare ore a guardare un bambino intento con i suoi giochi in un alone misterioso. La concentrazione che esce per capire il meccanismo dell’elementare che può apparire ad altri ovvio. I suoi occhi che esprimono delizia e pace assoluta contento di essere essenza e presente con il gioco. Qualcosa che sfugge a noi non lo riusciamo noi a cogliere per intero nella sua semplice forma. 285
Sta sulla punta delle dita e con la velocità dell’acqua neutra ci scivola via lasciandoci l’ombra di una sensazione. Il mondo di un bambino al di fuori di qualunque cosa possiede un’ aria di protezione e di unicità. Non è presente nel mondo terreno tocca i punti del soprannaturale puro spirito e magia invariabili nel tempo. La logica e la razionalità non sono ammesse si trova solo affetto e amore e la semplice semplicità. Riccardo Pescatori QUESTO IO NECESSITA NECESSARIAMENTE DI UN TU Solitudine: un’incline riflessione per assaggiare ogni emozione. Il nostro corpo in cerca di qualsiasi emozione perché crei una suggestione. 286
Un bianco e un nero per rendere il mondo un po’ più vero. Evitiamo colori per paura di nuovi dolori. Un’infanzia, una gioventù, una vecchiaia; questa vita dove tutto sfugge e si distrugge. Ci si accontenta, spesso non si tenta e ci si lamenta di questa vita turbolenta. Mi perdo nel mio ego nonostante io prego. Un mistero, un senso, mi contraddico nel mio penso. Un corpo e un cuore in cerca di qualche amore. Amore che evitiamo, amore che non troviamo ma nonostante tutto lo desideriamo. Materialisti ma nel profondo spiritualisti, siamo niente se sopravviviamo 287
e del mondo non ci sorprendiamo. Stupirci è un modo per unirci a quell’animo sognante a volte un po’ vagante. Soli siamo splendenti ma insieme siamo raggianti. Condividere è perdere una parte di sé e regalare ciò che da solo non potresti realizzare. Sognate, credete ma non vi perdete. Sogniamo raramente ma ricordiamo le illusioni repentinamente. Odio e amore trovano sempre posto in ogni cuore. Un io e un tu dove tutto può diventare più blu solo se lo vuoi tu. Valentina Priorelli
288
L’ AUTOBUS Ho perso, un secolo fa, l’unico autobus del mio futuro. M’è sfilato davanti. Ho cercato allora di raggiungerlo. Invano. Non faceva fermate intermedie. L’ho visto scomparire. Un punto sempre più lontano, sempre più piccolo. Sono rimasto in attesa. Non è più passato. Alfredo Scotti COSI’ VICINI, COSI’ LONTANI Seduti sul divano, ci sfioriamo appena. Così vicini, così lontani. Nella falsa penombra incrocio per caso il tuo sguardo e vi leggo la noia. 289
Pensieri diversi attraversano l’aria immobile come acqua di stagno. Alfredo Scotti MI DIRAI TUTTO DI TE Mi dirai tutto di te nelle livide serate d’autunno quando il tramonto si tinge di nero e nella stanza scende il buio. Mi dirai tutto di te nelle fredde serate d’inverno quando la neve sfuma i rumori e nella stanza arde il camino. Mi dirai tutto di te nelle tiepide serate di primavera quando il vento accarezza le foglie e nella stanza splende il sole. Mi dirai tutto di te nelle afose serate d’estate quando il mare brulica di corpi e nella stanza manca il respiro. Mi dirai tutto di te ….. 290
ed io, sarò lì ad ascoltarti. Alfredo Scotti GORGO Annaspo Preda del gorgo Per non chiedere Strade del domani Fino alla fine E non voglio tralasciare Il tempo del ricordo Per immergermi In evoluzione di stelle Lasciate vaganti Dall’onda dei riflessi Dei tuoi occhi….. Nei miei. Giuseppina Scotti AUTUNNO L’autunno si sbriciola In mille brune foglie di castagno Sui vostri silenzi Narranti Storie d’uomini Avvenimenti di vita Rincorrersi 291
Di persone frettolose Nell’ambito Di un mondo svanito Dietro Eventi immani E fine di sogni In frammenti di specchio. Giuseppina Scotti INCERTEZZA Fugge la vita Mentre traballo Nelle mie incertezze Quelle di sempre Mentre silenzi lunghi Coprono l’interferire Di volontà represse Condizionate nell’esistere Da faticosa scala Umida di lacrime D’impalpabile tristezza Di paradisi vuoti D’incolmabili tratti Di paura subitanea Avvolgente Vesti nitide Ma sgualcite Da sordo dolore 292
Da ambiente sbiadito In oscurità Senza fine. Giuseppina Scotti UN CUORE METALLICO Un cuore metallico Sostituisce un cuore malato. Un cuore freddo Non dà l’inverno all’anima. Un cuore artificiale permette l’esistenza Ma non inganna l’amore di una mamma. Un cuore impiantato dà ritmo alle membra Ma non cancella l’impronta di Dio da un corpo rallentato. Non cessa il sorriso trasuda la gioia l’amore trionfa e contagia cuori inariditi e stanchi che si trascinano dietro l’esistenza.
293
ANIMO, GIOVANI non cercate lo sballo, ascoltate quel ritmo ricordate quel cuore metallico, sì, ma intriso d’amore. Gioia di vivere è il messaggio che lascia. Luce dell’anima sguardo dal cielo quel cuore va oltre e testimonia la vita, l’amore. Elvira Vannoni AL BAR DI QUARTIERE Giovane capelli neri sola coi suoi pensieri davanti ad un caffè da bere in fretta pagare e poi andare verso il futuro 294
che l’aspetta. Massimo Vico C’È UN MONDO DA CAPOVOLGERE Occhiali da soli abbandonati sopra una panchina guardano il mondo da un’altezza insolita e soprattutto lo vedono capovolto …e sorridono forse basta guardare il mondo da una diversa angolazione e prima di tutto provare a capovolgerlo per riuscire ad essere felici Massimo Vico È VENUTO IL GIARDINIERE E ha spazzato le foglie secche dalla strada dei garage 295
poi con le cesoie come un bravo barbiere ha cominciato ad aggredire il pitosforo châ&#x20AC;&#x2122;era straripato e tagliava accorciava finchĂŠ la siepe non è diventata magra magra non è stato contento io spero soltanto che per stanotte non arrivi vento Massimo Vico
296
RACCONTI SEZIONE ADULTI “La storia è il racconto dei fatti e i racconti sono la storia dei sentimenti” Claude Adrieu Helvetius
Giardini comunali di San Venanzo 297
TOCCA A ME Il mister si agita avanti e indietro, imprecando a destra e manca, si dimena come se nessuno lo ascoltasse. E’ un tipo tosto; uno che anche se già retrocesso vuole che la squadra giochi al meglio. Mette gli occhi sui miei compagni accaldati e sudati che cercano di arrivare alla fine della partita. Il mister si gira verso la panchina. Sguardo serio, fugacemente scorre tutti i suoi e quando incrocia me pronuncia poche, semplici, parole: «Riscaldati, tocca a te» Il cuore batte talmente forte che sembra esplodere. Ho paura che i compagni seduti al mio fianco possano sentire il tamburo che ho nel petto. Mi alzo e nei miei passi c’è un’ emozione che sale fin dalle caviglie. Corro lungo il rettangolo di gioco ma lo faccio solo con il corpo. La mente è lontana, a tre anni fa. Tre anni fa giocavo la mia ultima partita, al Morandi di Umbertide. Avevo deciso che, basta, sarebbe stata l’ultima. E il destino ha quasi voluto convalidare la mia scelta, nel peggiore dei modi possibili. Dopo dodici anni l’ultima partita con quella maglia addosso. Più che una maglia una seconda pelle, anzi, una corazza. Son convinto che sia stata lei a proteggermi dall’intervento a gamba tesa che la sorte mi ha riservato. E il caso ha voluto che riprendessi i sensi proprio nel centro riabilitativo di Umbertide. La concessione di una seconda opportunità. Continuo a correre, stringo i pugni, le unghie s’infi298
lano nei palmi. Dovevo solo recuperare un problema oculistico, dicevano. Con il tempo sarei tornato quello di prima, dicevano. Quanto tempo serve? Quanto manca? Come i bambini che vogliono arrivare presto al mare e in macchina assillano i genitori. A me, dannazione, quanto manca? Il tempo non fa il suo dovere, a volte peggiora le cose… Questo mi ripeteva Max Gazzè all’orecchio. Gazzè e i dottori. Non guarivo, passavano i giorni e i mesi e non c’erano miglioramenti. Odio le cazzate, anche quelle dette a fin di bene, quindi smettetela di prendermi per il culo. Poi uno spiraglio: l’idea di un medico che suggerisce un paio di occhiali prismatici. Li facevano solo a Torino. Torno presente a me stesso, corro ancora sul perimetro del campo. Aumento un po’ l’andatura, ogni tanto infilo qualche calciata all’indietro. Sento qualche urlo di rabbia provenire dalla panchina dei nostri avversari. Torino… Sono partito appigliandomi a tutte le possibilità. Forse ‘sti occhiali avrebbero funzionato e poi, a Torino c’era la Juve. Eh già, la Juve. Facevo dei castelli in aria, mi vedevo già come Davids, campione bianconero che giocava con degli occhiali protettivi dopo essere stato operato agli occhi per un glaucoma. Se ce l’aveva fatta lui, potevo farcela anche io. Sì, va beh, lui era quel Davids, il guerriero, e io ero io. Però sapere che qualcuno aveva potuto rimanere a certi livelli, con difficoltà immense e nonostante 299
tutto, mi riempiva di coraggio. Come non detto, gli occhiali non erano adatti a me, non facevano l’effetto sperato. Però Torino qualcosa di buono me l’ha dato perché quella sera sono andato a vedere JuveFiorentina e abbiamo vinto noi 2 a 0. Per novanta minuti sono riuscito a non essere arrabbiato né con il mondo né con me stesso. Anzi, mi sono accorto che, se la mia mente era impegnata a osservare qualcosa che amavo, il mio difetto scompariva, o meglio, non gli prestavo attenzione. Tornavo da Torino con un nuovo interrogativo: e se fosse bastato solo crederci? Sono di nuovo sul campo, mi riscaldo alternando calciate in avanti con calciate laterali. Qualcuno insulta l’arbitro, soffoco una risata. Dopo Torino è stata la volta di Cesena. Che c’era a Cesena? Un centro di neuroscienze che avrebbe dovuto attenuare il mio problema. Ho passato ben tre settimane all’Inferno. Sentivo il cervello scoppiare ma per tornare in campo, questo e altro.“Posso ricominciare a giocare? Posso?”, un bambino in castigo. “No, il calcio è troppo pericoloso, ma potresti darti al ping pong” aveva risposto il medico di Cesena. Il ping pong, signori, ping pong. Già il nome sembra una presa per i fondelli. Marco Aurelio diceva: “A nessuno accade nulla che non sia formato da natura a sopportare”. In altre parole, non ti devi preoccupare perché tutte le grane che ti succedono sono adeguate a quanto puoi reggere. Quanto vorrei crederci, quanto vorrei fosse vero. A volte il peso mi schiaccia così 300
tanto che… Marco Aurelio, posso dirti? Ma vaffanculo… Un altro insulto all’arbitro, poveretto. Chi glielo fa fare? Correre senza toccare la palla, non lo capirò mai. Una vita passata a garantire il rispetto delle regole senza mai sporcarsi davvero le mani, o meglio, i piedi. Comunque, il dottore del ping pong suggeriva di andare a Milano. Altro giro, altra corsa in questa giostra d’ospedali che mi scombussolava lo stomaco come il protagonista di un film horror di serie B. Dovevo fare una risonanza al nervo ottico. Forse c’era una possibilità di recupero. Ho stretto i denti, pregato, incrociato le dita ma niente. “Nessun miglioramento possibile, anzi, potrebbe peggiorare”. “Basta che io desideri una cosa perché quella svanisca”, scriveva Pessoa. Mi sono trascinato a vedere una delle mie opere d’arte preferite: il Cenacolo Vinciano. Sì, lo so, lo so, Dan Brown non è attendibile, ma a me il suo Codice Da Vinci era piaciuto. Finalmente potevo vedere l’Ultima Cena da vicino. Credeteci o fate a meno, ma io la sindrome di Stendhal l’ho provata, lì, davanti all’opera di Leonardo. Solo che al posto delle vertigini, io ho provato un assurdo senso di lucidità. Vedevo quell’affresco nitidamente, forse per l’emozione o grazie all’immaginazione, magari attraverso la memoria acquisita prima dell’incidente però lì ero come tutti gli altri visitatori e vedevo come loro o forse più di loro, così abituati a dare per 301
scontati i cinque sensi. Anche quella volta ho provato sulla mia pelle che la passione per qualcosa cancellava ogni possibile difficoltà. “Davanti a un muro, c’è chi fischia e fa il giro, lamenta che il mondo è cattivo, non è nel mio stile, bisogna salire, chi non prova ha perso già”. Max Gazzè, mi perseguiti. Il ricordo si dissolve, vengo richiamato dal fischio dell’arbitro indirizzato a non so chi, non voglio guardare. Cambio passo, incrocio i piedi e tengo le mani sui fianchi. Dato che nulla è andato come volevo, il lavoro mi ha portato a Venezia. Ero lontano da casa, spaventato e non conoscevo nessuno. Eppure, sempre a denti stretti ce l’ho fatta. Forse è stata solo una coincidenza, l’ennesima, ma Del Piero quell’estate è sbarcato in ritiro con il Sydney a Jesolo, a 40 km da Venezia. Sono andato a vederlo con un mio amico speciale. Speciale perché in carrozzina a rotelle, speciale perché con una malattia che mangia i giorni, speciale perché non ho mai visto nessuno con un sorriso come il suo quando Del Piero si è avvicinato per parlargli. Irradiava energia pura. L’amore per qualcuno o qualcosa ci rende uguali agli altri, mi son detto, e nell’amore siamo tutti figli dello stesso capriccioso destino. Corro incrociando i piedi, le braccia in fuori, il respiro mi si profuma di erba appena tagliata. C o s a facevo a Venezia? Correvo. Ero convinto che se avessi continuato a correre sarebbe stato come non 302
aver mai smesso di giocare. Correvo con le stesse scarpe che indossavo il giorno in cui il mio mondo ha deciso di crollare. Correvo con quelle perché abbassando lo sguardo quando non ce la facevo più ricordavo che è solo non mollando mai che si arriva dove si vuole. Inizio gli allunghi, afferro trenta metri alla volta, rompo il fiato e lo ricompongo. Per mesi ho ricomposto e risistemato i pezzi di puzzle che la vita mi lanciava. Perché quello che è successo è successo proprio a me e non ad altri? Cosa devo aver fatto di male? Coelho ha scritto: “Le ingiustizie accadono. In quei momenti, il guerriero della luce rimane in silenzio”. Caro guerriero, io zitto non ci rimango. E infatti ero nervoso e mi lamentavo. Eccome se mi lamentavo. Non sopportavo chi mi diceva che ero stato fortunato. Lo capisco da solo che poteva andare peggio, ma questo non mi consola. Un giorno, una collega mi ha prestato un libro: Giobbe. Giobbe nella Bibbia era un brav’uomo, fedele a Dio, ricco e con una bella famiglia. E a un certo punto perde tutto. Una sfiga dopo l’altra. E Dio che fa? Vede che Giobbe incredibilmente lo ama ancora. E allora, eccolo là, il premio: altre ricchezze e un’altra famiglia. E a me? Che premio arriva a me? Forse, mi son detto, dovevo solo accettare quello che accadeva e aver fede perché, come dice un altro libro della Bibbia, il Qoelet, “per ogni cosa c’è il suo tempo”. Non è facile ma giuro che un giorno tornerò a fare le cose che 303
amo, devo solo continuare a lottare, lo ripeto come un mantra. Mi chino e cerco di toccarmi la punta dei piedi, inspiro e allungo espirando. Tre anni fa, il 22 maggio, l’incontro col destino a cui a quanto pare non potevo mancare, mi ha investito sotto forma di auto lanciata a 100 all’ora. Ero a Roma per un concorso, stavo attraversando le strisce pedonali, una macchina si è fermata, l’altra no, non mi ha visto. Non ricordo nulla. Buio. Chi c’era ha detto che ho avuto la prontezza di saltare. Un mese di coma, i medici temevano che non avrei più potuto camminare, e invece ho ricominciato a correre; forse non avrei potuto parlare, e invece posso urlare. E gli occhi? “Ritorneranno normali in due/tre mesi”. E invece no. Non sono mai migliorati. Per l’urto ho perso la visione laterale destra di entrambi. Per capirci meglio, prendete la parola CENTROCAMPISTA. Se fisso la R, vedo solo CENTR. Per vedere l’intera parola devo spostare di continuo gli occhi e la testa. Sforzo la memoria visiva. Provate a pensare di camminare in mezzo alla folla con un paraocchi. Fatelo, senza andare addosso a nessuno. Ecco, io voglio giocare a calcio con quel paraocchi continuo. Il 22 maggio si celebra Santa Rita da Cascia. Mi hanno spiegato che è la santa dei casi impossibili. Un giorno devo fare un salto a Cascia, mi dico. Male non può fare. Gamba avanti, ginocchio piegato, l’altra indietro, 304
tesa. Spingo il tallone per terra e allungo il polpaccio. Poi cambio gamba, ricomincio. Fischiano fallo, l’arbitro tira fuori il cartellino giallo. Dopo un anno a Venezia, sono riuscito a ottenere il trasferimento a Perugia. Nelle sale del museo cittadino ho trovato qualcosa e di fronte alla cicatrice di Grifonetto Baglioni, così netta e viva nonostante sia solo in un quadro, mi facevo domande sulla vita che volevo, su come la immaginavo prima e come non è più. Ignorando che quelle cicatrici, la mia e di Grifonetto, altro non sono se non il segno tangibile di una vita che muta, che a volte ci costringe a rivedere i nostri piani ma che comunque è nostra e possiamo scegliere se viverla da guerrieri o da semplici spettatori. Beh le cicatrici le portano i guerrieri e io non voglio certo stare a guardare. Io non mi arrendo. Quindi voglio tornare a giocare. Il problema all’occhio rimane quindi aspetto che la ricerca faccia qualche passo avanti e lotto per cavarmela lo stesso. Ieri mi sono ricordato di Santa Rita. Sono stato al suo santuario. Lì, di fianco al suo corpo, c’era una maglia di Del Piero lasciata come ex-voto. Un’altra coincidenza? Di certo un altro pezzo di puzzle. Universo, cosa stai cercando di dirmi? Impugno un piede con una mano, fletto la gamba. Espiro e porto il tallone in alto, con calma. Dopo l’incidente sono peggiorato o sono un uomo migliore? Indietro non si torna e tutto quello che ho passato mi è servito, sono cresciuto. Sono un soluto305
re più che abile per enigmistica applicata alla vita reale. Merito solo cruciverba impossibili. Se risolvessi quelli facili farei un torto ai principianti. Adesso sono qui, con questa possibilità. Posso riprendere da dove ero rimasto. Mi piace vedere qualcosa di poetico in tutti questi eventi, come se non fossero solo coincidenze ma tessere di un mosaico. Il mio mosaico. Quello che vedo ogni giorno su me stesso. Sento la testa canticchiare il solito Gazzè: “Questa volta sembra proprio vero, che qualcosa sta cambiando, come fili di vento leggero le nostre vite allo sbando …” «Tocca a te» il mister mi fa un cenno con la testa. Afferro la casacca con le mani sudate, la sfilo dal collo con il cuore in gola, lego i parastinchi cercando di tenere a bada lo stomaco impazzito. E poi varco quella linea bianca che non delimita più solo il campo, è un confine straniero, è il mio Rubicone, tra l’ io di ieri e quello di domani. Ecco, i piedi poggiano sull’erba, e mi accorgo di non aver più paura perché, chi se ne frega se perdiamo, tanto io ho già vinto. Punto. Jacopo Meniconi – Ilaria Fidone – 1° classificato L’ AQUILONE L’aquilone si librava leggero nell’aria sfiorando con dolcezza le cime degli alberi che si stagliavano come guglie nel parco comunale che si snodava al di là dal 306
piccolo torrente. Uno strappo improvviso lo fece impennare e poi precipitare. Scomparve con la stessa velocità con cui era apparso. Mattia, in piedi sulla veranda, rimase a fissare quel punto in cui l’aveva visto precipitare e tornò indietro con la memoria a quel lontano periodo durante il quale anche lui era solito giocare con gli aquiloni. Ci sapeva fare, forse più degli altri. Si arrampicava con le sue esili gambe sui costoni del piccolo promontorio e si batteva a lungo per dimostrare la sua bravura. Si allontanava di nascosto da casa, nelle ore più calde di quegli assolati pomeriggi estivi, portando con sé in una borsa di carta quel prezioso fardello che custodiva con cura in un angolo della buia cantina. Mamma Luisa non voleva che si inerpicasse fin lassù, ma Mattia continuava a fare di testa sua perché in caso contrario i compagni l’avrebbero preso in giro. Se la mamma lo minacciava brandendo la scopa, Mattia cominciava a fare le moine e poi l’abbracciava più forte che poteva. Finiva sempre così. Luisa aveva un debole per quel figlio nato prematuro e afflitto da tanti piccoli problemi. Il medico di famiglia cercava di tranquillizzarla, ma lei si preoccupava anche per un semplice raffreddore. Mattia stava bene solo d’estate in quella casa di campagna che Luisa aveva avuto in eredità alla morte di una vecchia zia. Il pallore spariva dal suo viso e di notte solo a tratti tossiva. Respirava a pieni polmoni e raramente si sentiva stanco. Erano da diversi anni ormai che trascorreva 307
le vacanze estive in quella borgata di collina quasi a ridosso degli Appennini. Prima era stata una necessità, poi era diventata un’abitudine. La mamma in quell’angolo sperduto si riposava. Lui le faceva compagnia, anche se era sempre in giro. Rimaneva buono nei dintorni solo quando stava per arrivare babbo Andrea. Era grande e grosso e incuteva, solo a guardarlo, un timore reverenziale. Mattia voleva bene al babbo, ma non riusciva a dimostrarglielo. Con la mamma invece era diverso. E non sapeva nemmeno spiegarselo. Forse perché il babbo era sempre in giro per lavoro e quando tornava non aveva mai il tempo per giocare con lui. Il più delle volte, dopo cena, andava nel suo piccolo studio e cominciava a scrivere. La mamma aveva tentato di giustificarlo, ma lui sinceramente non ci aveva capito granché. “Deve rendere conto del suo lavoro ai suoi superiori”, gli aveva poi detto una sera mentre lo accompagnava a letto per augurargli la buona notte. Mattia non aveva insistito, ma prima di addormentarsi aveva riflettuto a lungo su quelle parole che gli erano rimaste scolpite nella mente. Il babbo non parlava molto perfino con la mamma. Un breve saluto solo quando usciva la mattina presto. Non faceva colazione. Beveva una tazzina di caffè nero che la mamma gli preparava in cucina mentre lui si radeva e basta. Era stato sempre così. Sembrava aver fretta di andar via, quasi di fuggire da casa. Questo pensiero aveva tormentato a lungo Mattia che se l’era 308
tenuto sempre per sé. Non ne aveva fatto cenno con la mamma, anche se in certe occasioni avrebbe voluto. Un’estate purtroppo successe ciò che la mamma aveva sempre temuto. Bruno, il figlio dei vicini, nel rincorrere il suo aquilone che gli era sfuggito di mano, inciampò sui massi e rotolò giù per la scarpata. Nell’impatto si ruppe la gamba. Mattia corse lungo il sentiero per chiedere aiuto. Giunsero in diversi e Bruno fu portato in ospedale. Da quel giorno gli aquiloni furono chiusi a chiave e non se ne fece più nulla. Tutti i genitori impedirono ai figli di uscire da soli e il castigo durò fino alla fine delle vacanze. Quando arrivò il giorno della partenza fu una vera liberazione. Mattia si era alzato presto quella mattina. Non vedeva l’ora di tornare in città e di sedersi sui banchi di scuola. Il padre gli aveva anche promesso di portarlo allo stadio se si fosse comportato bene. Appena lo rivide e lo abbracciò rimase turbato. Ebbe come un brutto presentimento. Aveva uno sguardo accigliato. Allora preferì rifugiarsi in camera con la scusa che doveva disfare la sua piccola valigia. La mamma e il babbo dopo un po’ cominciarono a discutere e il tono di voce era abbastanza alto. Si sentì un sordo rumore, una porta venne sbattuta con forza. I vetri tintinnarono. Mattia corse in cucina e vide che la mamma piangeva. La vita era cambiata. Il babbo se ne era andato e non si era fatto più vivo. Lui almeno non l’aveva più visto. La mamma dopo il primo attimo di smarrimento si era rimboccata le 309
maniche. Aveva mandato avanti la baracca facendo perfino gli straordinari in ufficio. Mai un lamento e soprattutto mai una spiegazione. Nemmeno quando Mattia, raggiunta la maggiore età, aveva affrontato l’argomento. Luisa si era rifiutata di parlare del babbo che aveva fatto perdere le sue tracce. Nessuno era in grado di dire dove fosse finito. Qualcuno aveva parlato dell’estero ma probabilmente era solo un’ipotesi. Mattia per un lungo periodo se ne era fatto un cruccio, in seguito si era arreso all’evidenza. In fondo gli mancava meno di quanto lasciasse credere. La casa in campagna era stata venduta. La mamma non poteva permettersela perché i soldi non bastavano mai. Mattia se lo ricordava bene anche a distanza di tempo. La fortuna tuttavia gli aveva dato una mano. Appena diplomato aveva trovato il lavoro presso una ditta. La specializzazione in informatica si era rivelata fondamentale. Si era iscritto all’università e con la laurea era arrivato a essere un vero esperto nel ramo. Mamma Luisa, però, aveva goduto solo in parte del suo successo. Era morta troppo in fretta e senza alcun preavviso. Era stato un duro colpo per Mattia che all’improvviso si era trovato completamente solo. I pochi parenti della mamma abitavano lontano e in piccoli paesi di provincia. Quelli del padre li aveva ormai dimenticati. Dubitava che li avrebbe riconosciuti se mai fossero apparsi all’orizzonte. La cerimonia funebre si era svolta in maniera sbrigativa. La mamma non era mai stata una 310
credente nel vero senso della parola. Il tempo libero lo dedicava al volontariato. La conoscevano in tanti. Proprio per questo Mattia si vide recapitare una cesta di telegrammi. Ne lesse solo qualcuno. Il resto lo gettò via nella spazzatura. Li trovava pieni d’ipocrisia. Decise di cambiare casa nei mesi successivi. Vedeva la mamma dappertutto… L’aquilone riapparve e tornò a librarsi oltre le cime degli alberi. C’era molta animazione nel parco. Era sempre così la domenica mattina se il tempo era bello. Mattia rimaneva a condividere la felicità degli altri. Alla sua sembrava averci rinunciato. Troppi pensieri per la testa e forse la paura nascosta di non saper instaurare un certo tipo di rapporto con una donna. Aveva tentato, ma aveva sistematicamente fallito. La mamma l’aveva spinto a provarci, ma lui se n’era sempre stropicciato con la scusa che prima avrebbe dovuto sistemarsi. Poi gli era mancata la capacità di assorbire il rifiuto. Non era un tipo divertente. Lo sapeva perfettamente. Percepiva dentro di sé la solitudine dell’orfano anche se non voleva ammetterlo. La mamma per quanti sforzi avesse fatto non si era potuta sostituire alla figura paterna. Mattia aveva dovuto far fronte a una nuova realtà senza esserne preparato. La fuga del padre lo aveva completamente spiazzato e reso troppo fragile. Si era rifugiato nello studio, ma non era bastato. Sempre più spesso si ritrovava a fare i conti con la propria coscienza. So311
prattutto quando, lontano dal lavoro, rimaneva solo con se stesso. Come quella mattina d’inizio primavera. L’aver notato quell’aquilone l’aveva riportato indietro negli anni. E ne erano passati davvero tanti. Aveva un lavoro, ma per il resto non aveva niente. Nessun affetto solido, nessun legame, solo sporadiche amicizie instaurate tra le pieghe della professione. Era stato sempre così fin da quando il babbo se ne era andato sbattendo la porta. Era volato via al pari di quegli aquiloni che, liberatisi dei lacci, si spingono nell’azzurro del cielo attratti dall’ignoto. Cosa l’avesse spinto a fuggire rimaneva un mistero. Almeno per lui. La verità era che non aveva mai rimosso l’avvenimento. Aveva costantemente mentito a se stesso. Soltanto ora se ne rendeva perfettamente conto. Era bastato uno stupido aquilone in quella tiepida mattina di primavera e riaprire una ferita che non si era mai completamente rimarginata. Batté con forza i pugni sulla ringhiera e poi prese a calci dei portavasi di plastica. C’era solo una cosa da fare e prima possibile. Scoprire dove mai si fosse cacciato babbo Andrea. Alfredo Scotti - 2° classificato LA TERRA DI MEZZO Con la barba entrava da regolare nelle facce di un’epoca in disuso, poi si era laureato con una tesi sugli impressionisti, questo lo iniziava a stringere mani 312
diverse, un sapere generale che non parlava solo di quattrini, ma brillava il successo effimero fino a negarsi anche il potere, rifiutando una vita senza ideali. Franz non era il solito morto di fame che campava sulle briciole dei grandi; sonnecchiava sul liberalismo economico dove trafficavano libere volpi con libere galline, ma non ne voleva sapere, certe macchie coprivano senza trasparenze i colori della vita. Il suo berretto basco era un simbolo di forza contro quelli che snobbavano l’arte degli intellettuali come lui, sempre in bolletta scannata. Quel mondo criptato dai soldi, naufragato nell’high life, gli creava un’insufficienza respiratoria, ma si lasciò trafiggere da un altro destino: solo la montagna per lui rimaneva straordinario simbolo di purezza e di riscatto; avrebbe, vivendola, condiviso una solitudine salutare con il fascino discreto del silenzio e della pace, un codice, un’alchimia divagante sulla sua pelle illuminata dal chiaroscuro dei tramonti, per farsi rubare il tempo e non la vita. Così decise di ubriacarsi d’immagini, lasciando alla natura la genialità dei suoi quadri, incorniciandoli dentro l’Alpenrose, un vecchio albergo di famiglia lasciatogli dai suoi, per servire ai clienti un surrealismo naturale, con le figure stampate da quei forti velieri che stazionavano eterni contro il cielo, montagne che disegnavano con forza una presenza sempre uguale, testimoni senza fine della purezza di una lirica infinita. 313
Franz voleva far esplodere una ricchezza forse bizzarra mettendo vertiginosamente in gioco parole, musica e immagini per gli ospiti, nel rifacimento mirato del suo albergo. Non voleva un turismo speculativo, esibito come testimonianza della propria ricchezza, ma un incontro leale, arricchito dal suo irrinunciabile progetto. Sentimenti nati da un regalo che da ragazzo aveva ricevuto dai nonni, due montanari innamorati di quel libro che la natura sfogliava ogni giorno per loro: il regalo era per il suo futuro, “una striscia di terra tra due confini, una terra di mezzo tra i boschi”, per ricordargli la sua origine, un sale nella vita che l’avrebbe distolto da cose inutili, provocandolo nei sentimenti più profondi. Voleva inventarsi su quel terreno un sentiero natura, che avrebbe portato gli ospiti dentro a un sapere antico senza agitazione: c’era più tempo che vita in quei passi lenti. Già i primi clienti si erano affacciati ai balconi dell’Alpenrose, erano due sposi nel loro primo viaggio; altri come Josef e Mary arrivavano dall’Austria, dalla Francia una famiglia di Nizza aveva portato l’eleganza, mentre una scuola di musica era scesa nel salone per le prove. C’era festa in quei giorni nel suo albergo e Franz si era messo alla finestra, per godere di quell’atmosfera colorata dai suoi gerani e da un creato così maestoso che incitava a un’allegria spensierata. 314
Come il tempo, che regalava anche giornate grigie, la via a volte si presentava con contraccolpi indesiderati: i due giovani sposi sembravano aver perso il sorriso, un vento contrario soffiava contro di loro, una telefonata inopportuna aveva ingelosito Fabio, una vecchia relazione di Greta ormai dimenticata si era affacciata pericolosamente e adesso c’era un vuoto imprevisto da riempire, con l’amore messo alla prova ma Franz li aveva subito presi per mano, sapeva lui chi dovevano incontrare. Con la faccia di un ribelle che voleva vincere, li portò in quella terra di mezzo, dove un film nascosto appariva lentamente, facendoli entrare in quella natura così maestra, che raccontava un regalo per il cuore. Il silenzio era d’obbligo, tutti e tre tenendosi per mano recitavano un antico copione: usare i sensi e non la matematica nella vita. I tramonti da quelle parti coprivano giornate indimenticabili, come l’avventura degli austriaci Josef e Mary, due cantanti di Salisburgo, che si erano fatti invitare alle prove dalla scuola di musica, ospite in albergo, per intonare arie classiche e ancora, la famiglia francese così signorile, aveva invaso la cucina, preparando sui fornelli specialità internazionali. Franz guardava quei miracoli di vita come un regalo alla sua teoria: unire le persone per renderle libere. Una sera decise di riunirli tutti attorno a un tavolo, offrì la cena e poi si vestì come il nonno, da montanaro, presentandosi come un affabulatore, raccontando 315
di una piccola chiave di ferro lasciata dal suo avo, trovata in un antro roccioso di quella terra di mezzo: una chiave simbolica che apriva a ognuno un paradiso all’improvviso, in quel passaggio nel bosco, con la promessa d’incantarsi davanti a tanta bellezza. Ma, un’altra chiave in quel salotto era offerta dai Francesi di Nizza: il loro mare, i colori di quel cielo, i tappeti di lavanda: un quadro d’artista per colpire la fantasia di chi sapeva guardare. Mentre loro due si raccontavano, gli occhi celebravano un’appartenenza incantevole con quella di Franz per la sua terra: era un abbraccio tra esperienze sui codici della vita. Anche Mary si fece avanti, raccontando sulle note di una musica di Mozart la sua infanzia a Salisburgo, su un vecchio pianoforte di famiglia come compagno di quei primi passi, poi suo padre regalò anche a lei una chiave prestigiosa: un posto nel coro per farla crescere tra le armonie. Con Josef, il marito, aveva poi conservato quel dono rivivendolo con lui ogni volta che le note piegavano davanti ai grandi maestri, una fonte culturale inesauribile per la loro vita. I ragazzi della scuola di musica ascoltavano incuriositi, forse erano parole di un’altra epoca, ma all’improvviso Vanja il giovane direttore si alzò, aprì la finestra lasciando entrare la cantilena della notte, un’intuizione che rispondeva alle attese di quell’affabulatore che era Franz, anche quella era una chiave 316
di lettura che voleva rubare i segreti a quel parco stellato che raccontava l’infinito. Ancora una volta la natura rivestiva i pensieri di tutti e le luci per quella notte si erano spente con la poesia tra le loro mani. Il ristorante dell’albergo si riempiva ogni giorno di turisti, la stazione della funivia si fermava proprio davanti ai tavoli di Franz e quel giorno lui inventò un regalo per tutti i suoi clienti: una piccola chiave, per ricordare loro un riferimento esistenziale, con un passeggio nella terra di mezzo raccontando la storia di ogni fiore, invitandoli poi ad ascoltare quel silenzio così creativo. Le fotografie e i commenti di quel percorso erano arrivati oltre quella valle risvegliando anche qualche artista assopito. I clienti cominciavano a cambiare, non solo turisti con lo zaino ma anche profeti di qualche arte con tanto di tavolozze e pennelli, come Jonathan, un americano amante di quegli spazi o Denis uno scrittore francese con i capelli appoggiati sulle spalle. Gli artisti vedevano in quell’esperienza una relazione nuova con la natura, era come scuotere l’albero dell’inventiva per raccogliere nuove sensazioni, ma era stato Patrick un artista internazionale a rompere gli indugi, con una proposta che realizzava nel cuore di Franz un sogno: celebrare l’arte come rappresentazione della natura, così reale poteva confinare con il sublime, “un’esposizione all’aperto”, usando rami, 317
arbusti, tronchi, innalzando dei Menhir moderni per esorcizzare quei confini facendoli rivivere. Quella terra di mezzo poteva diventare il simbolo di una nuova creazione, uno spettacolo eterno nell’eternità del creato. In poco tempo gli artisti delegati sotto l’occhio vigile di Patrick avevano dato vita ai primi esempi di sculture naturali, in quella cornice abbellita dalla corsa immobile delle montagne. I visitatori cominciavano ad arrivare: all’entrata della mostra li aspettava una sorpresa che Franz aveva fatto scolpire nei legni da Patrick: “una grande chiave”, perché ognuno potesse aprire in quel passaggio un incantesimo per la propria vita. Adesso lui si era rimesso il basco, circondato da quegli impressionisti francesi che l’avevano adottato dopo la laurea; dall’alto di una roccia guardava la sua creazione, non mancava niente ma, su quella panchina naturale dove si era accovacciato c’era un posto libero, certo il nonno avrebbe apprezzato quella compagnia. Tirò fuori dalla tasca la sua chiave arrugginita e se l’appoggiò vicino, cominciando a raccontarsi da capo quella storia che avevano costruito insieme, per riviverla e ricrearla, un regalo che Franz si sarebbe fatto ogni giorno e che avrebbe donato alle persone che sapevano vedere e non solo guardare, che non spegnevano la loro creatività, amando la vita. Fabrizio Gotta - 3° classificato 318
ALLA RICERCA DELLA FELICITA’ “L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”. Con questa affermazione Sigmund Freud ci vuole comunicare che per raggiungere la felicità c’è da fare molta strada, bisogna compiere numerose rinunce, è un po’ il prezzo da pagare per essere felici. Ma a volte la volontà di affermazione personale viene subordinata al desiderio di certezze e sicurezza, quindi di ricevere protezione dal mondo esterno per essere protagonisti di un’esistenza in qualche modo già delineata e nei binari giusti. Penso proprio che l’uomo moderno preferisca di gran lunga avere dei punti fermi di riferimento e quindi avere sicurezze piuttosto che essere uno spirito libero senza meta spensierato e felice ma che non conosce regole. L’essere umano sente quindi il bisogno di essere rassicurato per attenuare le ansie che lo caratterizzano e perciò a volte mette in secondo piano la propria felicità che comunque non sarebbe vissuta a pieno senza il supporto dell’ambiente che lo circonda. Attualizzando la situazione ai nostri giorni, si può dire che il nostro è un periodo storico pieno di difficoltà e insicurezze in cui è molto difficile vedere un barlume di speranza e tantomeno avere nel cuore un po’ di felicità. Penso proprio che l’uomo odierno avrebbe molto più desiderio e bisogno di un lavoro e di una sicurezza economica per sperare in un futuro migliore piuttosto che alcuni sprazzi di felicità senza valore. Il pensiero di Freud ci permette 319
di evincere che la nostra esistenza è costituita da un lato da un forte anelito verso la felicità più viva mentre dall’altro da un altrettanto importante desiderio di sicurezza; la vita è quindi una lotta, un compromesso tra volontà di essere superiori e la necessità di ricevere protezione. Vi è quindi un alternarsi tra rinunce e privazione e risultati buoni e conquiste. Antonio Alessandri LA CODA ALLA VACCINARA Ci sono degli attimi in cui il tempo si ferma. E’ la sosta tra un’attività e l’altra, come in questo momento, dopo colazione, quando tutti se ne vanno e la casa piomba negli innumerevoli ronzii del silenzio. In una mano la tazza vuota, la testa appoggiata sull’altra, un tavolo di legno che presenta ancora le tracce dei lavori svolti ieri sera: all’orlo opposto un mucchietto di prezzemolo appassito. Ma lo sguardo sorvola e passa oltre la vetrina. Un piccolo quadro rassicurante. Esalta la scena una porzione di tavolo Liberty in marmo e ferro battuto che si staglia sui colori dei gerani e sul fogliame degli alberi e dei cespugli, dove, anticonformista, data la stagione, spicca ancora una rosa. 320
Ieri mi è venuta la voglia di cucinare la coda alla vaccinara. Che idea strana. Ora ripasserò la ricetta. Sono in una fase di casalinghitudine acuta. Mi piace perfino stendere i panni. Sarà perché quest’ultimo sole ottobrino abbronza e trafigge le ossa, che mi attardo ad appendere la biancheria laggiù, sul filo, tra l’orto e il giardino e mi soffermo più del necessario a scuotere le lenzuola e a tirare bene gli orli, a controllare che tutti i panni siano ben tesi a ricevere i raggi e il vento. E intanto sento che i pettirossi sono arrivati. Mi duole che la casa sia così possessiva. Vorrei avere più tempo per la letteratura. L’abitare in campagna mi ha avvinghiata in una realtà che non avevo neanche immaginato. Però non potrei fare a meno neanche di una foglia di questi alberi che mi circondano e di nessuno dei miei gatti acciambellati sotto i cespugli. Non potrei vivere in una città. Forse ho inseguito sempre sogni troppo evanescenti e, mentre sognavo, la vita mi ha invasa. Una vita tranquilla, ai margini dell’eremitaggio, mentre avevo un cuore zingaro. E’ pericoloso sognare. 321
Non bisognerebbe farlo affatto. Mentre senti le chiacchiere delle donne sedute fuori sui gradini e ascolti la musica o disegni la Grotta Azzurra alla lavagna per prepararti agli esami di stato e fermi ogni tanto il gessetto per ascoltare il rumore di un motorino che passa, ti scorrono i minuti sotto gli occhi e le ore e i giorni. Poi, alla fine, non disegnerai la Grotta Azzurra, ma una vigna sulle colline digradanti e su in cima una torre che guarda il mare. Perché c’è sempre il mare, anche se non sai perché ci sia sempre, così prepotente, il mare nella tua vita. Il tempo concesso è scaduto e tu non sei riuscita a terminare il disegno troppo complesso e il professore ti chiederà che cosa sono quei segni scuri accanto a quelle macchie di colore acceso. E avrai qualche voto in meno, tanto che ti domanderai perché mai hai cambiato soggetto all’ultimo minuto, tradendo la Grotta Azzurra . Ma la Grotta Azzurra è ancora là sulla lavagna; anche se impolverata e sbiadita. Ha resistito a tanti anni di soffitta. Rimarrà in soffitta. Anzi, è già sparita in soffitta. Ora percorro la mia strada con passo indolente nel sole del meriggio e mi soffermo ad ascoltare pigo322
lii di piccioncini sotto le grondaie, sorprendendomi che i loro genitori, cacciati da tutte le crepe e le torri del paese, riescano ancora a trovare un angolo per nidificare. Il vicolo è deserto, il vento vi mulina piume e foglie. Una bimba siede sui gradini, ha dei piccioni ai suoi piedi e una treccia d’oro. Sono venuta a sfamare i gatti randagi e aspetto che la gatta sbuchi fuori dalla finestra del cellaio e si lasci accarezzare. Tra tutti i cellai del paese ha scelto proprio il mio. E ci ha trasportato i suoi tre micini. Penso che fili sottili di telepatia abbiano intrecciato le nostre esistenze. Cervelli sopraffini sono quelli dei gatti che fiutano, osservano, scrutano, scelgono. Scelgono le persone. Vorrei essere un gatto. C’è ancora un tratto di strada prima del cancello. La banchina verde ha un bordo rosso di foglie di vite americana e anche il vecchio capannone è tutto rosseggiante e non mostra più le sue lamiere e il tetto di eternit. Improvvisa la vite americana ha devastato gli aspetti fatiscenti con un’allegria di stagione. So che durerà poco, ma adesso è intensa. 323
Ora sto cucinando la coda alla vaccinara. Vera Bianchini IL PICCOLO SOGNATORE Gianni era nato ad Enna, su un cucuzzolo a circa mille metri d’altezza ai piedi dell’Etna. Dalla città si vedevano le eruzioni e la cima innevata tutto l’inverno. La città era piccola ma soprattutto povera di risorse e le famiglie sopravvivevano grazie alle miniere di carbone. Tutti gli uomini in grado di lavorare scendevano in miniera al mattino, quando era ancora buio, e ne uscivano quando il sole era già alto. Il loro passo lento, i loro volti segnati dalla fatica, facevano intuire quanto fosse duro scendere giù in fondo dentro un ascensore manovrato a mano da grosse corde: si veniva avvolti dall’oscurità più assoluta. Poi la debole luce delle lampade indicava loro la strada nei meandri del sottosuolo. Il pericolo era sempre in agguato: il crollo di una galleria, l’esalazione di gas. Ma quello più insidioso era l’inalazione delle polveri di silicio che, nel tempo, provocavano gravi malattie polmonari come la silicosi. Per portare fuori dalla miniera il carbone, venivano usati gli asini che, con pesanti cesti, lo trasportavano dalla galleria fino alla superficie. Gli asini venivano guidati da bambini figli di minatori che aiutavano la famiglia con il loro lavoro. 324
Un giorno, il padre di Gianni, poiché la famiglia era numerosa, si decise a portarlo con sé al lavoro: era il figlio più grande. Aveva appena otto anni e si sentì grande e orgoglioso quando di buon mattino, seguì suo padre in miniera mentre lo sguardo e il cuore della sua mamma seguivano entrambi con amore. Gianni non dimenticò mai quel giorno. Il giorno dopo e dopo ancora… e ancora si rifiutò di scendere nelle miniere. La paura del buio, di quello strano odore acre, il bruciore agli occhi erano troppo vivi. Il padre si rassegnò e dopo un po’ si portò con sè ad uno ad uno i suoi fratelli. Tuttavia Gianni era sempre più pensieroso: dentro di sé sapeva che prima o poi li avrebbe seguiti. Trascorse così qualche anno finchè un giorno raggiunse, con mezzi di fortuna, il porto di Catania. Il mare lo affascinava mentre guardava con occhi sognanti la nave ancorata al porto. C’era un grande via vai di gente: chi saliva, chi scendeva, chi trasportava merci. Chissà dov’erano diretti. Chissà in quante città si erano fermati. Il nostro ragazzo sognava una vita simile. Si avvicinò alla nave senza essere visto e quatto quatto riuscì a salire nascondendosi nella stiva, dove, tutto rannicchiato dietro grosse scatole, cominciò a pensare alla famiglia: gli mancavano già i fratelli, le sorelline e i suoi genitori. Si alzò per tornare indietro, quando il rollio della nave che si era mossa lo scaraventò per terra. Con le mani si coprì le orecchie per il rumore assordante dei motori. Ormai 325
era partito. Pensò a quanto sarebbero stati in pensiero i suoi genitori; gli sembrò di vedere il volto della sua mamma pieno di lacrime, le stesse che scendevano silenziose sul suo volto. Rimase nella stiva per qualche ora finchè la nave fu al largo sicchè non potesse più essere rimandato indietro: avrebbe mandato a casa sue notizie dal primo porto in cui si fossero fermati. Il freddo e la fame cominciavano a farsi sentire e perciò, quando un marinaio entrò nella stiva per controllare i bagagli, gli andò incontro per essere portato dal capitano. A quell’uomo dal piglio severo, raccontò di essersi imbarcato clandestinamente, raccontò il suo rifiuto della miniera, il suo sogno di navigare. Il capitano squadrò dalla testa ai piedi quel soldo di cacio magrolino, biondo e con gli occhi azzurri. Il suo viso sembrò distendersi in un mezzo sorriso, gli posò una mano sulla testa scompigliandogli i capelli, lo nominò mozzo e dette l’ordine di considerarlo membro dell’equipaggio. Quanti giorni passarono a lucidare gli ottoni e i pavimenti di bordo. Gianni la sera era stanco ma felice perché lavorando poteva guardare, quando era sul ponte o dall’oblò, il mare e il cielo. Giunti al primo porto, scrisse e inviò ai suoi cari una lettera rassicurandoli e confermando la sua volontà di diventare marinaio. L’arrivo di quella lettera riportò il sorriso nella fami326
glia di Gianni: il loro figlio e fratello maggiore, aveva trovato la sua strada sicuramente migliore della vita in miniera. Ma sarà stato poi vero? Diventato marinaio, fu poi imbarcato su una nave militare. Di lì a poco sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale. Gianni aveva appena diciassette anni.. Liliana Bruno LA PRIGIONE DI MARIA Un battito di ciglia è un sì: se trattieni il battito è un no. Due occhi soli per piangere. Due occhi soli per rispondere. Due occhi per parlare in un corpo immobile, che non risponde più. Un giorno… una lunga serie di domande, le tue risposte rapide, decise, un battito di ciglia per un sì; nessun battito: è un no. Ho sentito in quell’istante la tua coscienza vigile, presente, attenta… ho capito, ad un tratto, quell’arcobaleno di colori nascosto dietro i tuoi occhi, che gridano la voglia di muoversi, il desiderio di scappare, la disperazione di non poter urlare. Prigioniera, sei prigioniera da 15 anni di un mostro senza pietà, troppo giovane, piccola donna, ma chi è accanto a te non ti ha abbandonato, non ha smesso di amarti. Chissà se senti la mia carezza lieve sulle tue mani, 327
ma ho timore che mi dici di no e non te lo chiedo. Invece so che ti piace il burro di cacao sulle labbra, così te lo metto spesso e tu mi guardi e ti sforzi e io ti vedo sorridere o forse credo di vederlo. Ed è così, quando ti parlo del tuo cagnolino: i tuoi occhi brillano perché sai che ti sta aspettando e vuoi tornare a casa anche per lui. Piccola grande donna, così viva in questo corpo ormai troppo stanco. Quante cose ci hai insegnato in quel tempo passato insieme! I nostri dolori scompaiono, inghiottiti dalla voragine della tua sofferenza. E l’amore, che continui ad avere per la vita, è per noi la forza per andare avanti. Patrizia Ceci LE RONDINI Ti racconto un episodio molto bello, a cui ho assistito qualche giorno fa. Sono uscita di casa presto ed ho subito sentito nell’aria qualcosa di diverso: un garrire allegro e festoso, proveniente da una vecchia casa non lontano dalla mia, che ospita da molti anni qualche nido di rondine. Uno stormo stava dirigendosi da quella parte. Arrivata lì ho assistito a questa scena: ho osservato due rondinelle aggrappate al muro, fuori dal nido, e un bel numero di rondini che girava in cerchio attor328
no a quel nido. Di tanto in tanto, una usciva dal cerchio e, volando, si avvicinava alle due rondinelle come per incitarle a fare il gran salto e poi tornava a garrire e a volare con le altre. Ma le due, titubanti ed impaurite, non sembrava avessero alcuna intenzione di lasciarsi andare. Intanto frotte di rondini arrivavano da ogni parte a riempire il cielo e garrivano e volteggiavano in un ripetersi all’infinito…un tempo lunghissimo! Poi una delle due si è staccata dalla parete e si è librata nel vuoto e subito il cerchio l’ha accolta e si è confusa con le altre. Ma ora, di nuovo, tutte tornavano dalla più timorosa, ancora aggrappata alla parete, a sollecitarla ed io ho pensato: “fidati, lasciati andare, è così che si fa!”… E dopo un po’ si è buttata… di colpo, e si è confusa con le altre e sono tutte sparite. Il cielo è tornato immobile, di un azzurro quasi cobalto. In un silenzio incredibile è sparita anche l’ultima rondine all’orizzonte. Pensa che, da quando abito qui è la prima volta che mi capita di vedere un tale spettacolo… che bella sensazione. Patrizia Ceci
329
LA CINCIALLEGRA Ieri mattina, era una giornata di quelle grigie. Aveva da poco cessato di piovere ed io ero davanti alla finestra a fare colazione, osservando l’albero rosa coperto di gemme e di stilli d’acqua. Mi sono messa a immaginare come sarebbe stato bello riuscire a fissare quella visione in un disegno. D’improvviso è diventato tutto ancora più buio, è sparita anche quel poco di luce che c’era, ed ho perso quella visione, che mi aveva incantato. Un grigiore diffuso ha avvolto tutto: i colori si sono dileguati; una nebbiolina sottile, avanzando, ha nascosto la visuale come una malia. Allora ho pensato a come è difficile, a volte inutile, sforzarsi a cercare di trovare il bello in ogni cosa, soprattutto in quelle più buie. Poi sai che è successo? All’improvviso è arrivata una cinciallegra, uno di quegli uccellini dalle piume un po’ azzurre e gialle e un po’ verdi. Si è messa a saltellare sui rami alla finestra, mentre io ero lì. Ho preso un foglio e gli acquarelli e ho abbozzato i suoi colori, le gemme dell’albero rosa e le gocce d’acqua. La cinciallegra non si è spaventata, non è volata via ed io ho avuto il tempo necessario per ultimare il mio acquarello. Mi sono sentita felice e libera…e mi sono commossa… Quell’immagine mi ha accompagnata per tutto il giorno e ieri sera ho voluto condividerla con te. 330
Sono contenta di sapere che stai bene. Un abbraccio. Patrizia Ceci AURORA E IL SUO MONDO Aurora era una bella bambina di circa quattro anni, capelli lunghi castani, che scivolavano sulla schiena, viso rotondo, colorito quasi rosa, con due occhietti che spiavano tutto, vestita alla moderna, con gonnellino a fiori e una maglietta aderente, scarpe di vernice. Era la prima volta che, con sua madre, saliva su un aereo per un lungo viaggio. L’emozione era molta. Attesero il loro turno per salire la scaletta. I posti loro riservati erano al centro. Aurora subito si sedette su quello vicino all’oblò, con la sua Bennj di stoffa in braccio. Appena seduta, il suo sguardo si rivolse all’esterno. Con il suo visino dolce e lo sguardo ficcante, come sapeva fare quando voleva qualcosa, iniziò a fare domande alla mamma. Aveva una parlantina da lasciare stupiti tutti. Erano da poco sedute, quando una voce suadente e sicura si sentì all’improvviso. “Si prega di allacciare le cinture di sicurezza, non fumare e spegnere il cellulare”. Aurora non aveva capito niente e continuava a girarsi sul sedile. Allora una hostess, molto gentile, passò ed allacciò la cintura ad Aurora, in cambio ricevette una dura occhiata. L’aereo si mosse poco dopo con gran rumore, tutto 331
cominciava a vedersi sempre più piccolo e lontano. Aurora non staccava lo sguardo dall’oblò. La stessa voce si fece risentire: “ I gentili passeggeri possono slacciare le cinture e mettersi comodi, siamo a quota tremila metri e tutto funziona, il comandante vi augura un buon viaggio”. Quando l’aereo passava tra le nuvole, non si vedeva più il cielo, anzi per lei sembrava che l’aereo si riposasse sopra quel bianco e soffice letto. Lei sorrideva alla sua Bennj per farla addormentare, come l’aereo. All’improvviso la voce suadente la chiama: “Aurora desidera qualcosa?” Lei si girò di scatto e la sua Bennj le cadde. Si rivolse alla mamma: “E’ tutta colpa sua”, rivolta all’hostess, “se Bennj si è fatta male”. “Stai zitta, non fare la sciocchina”, la riprese la mamma. E lei di rimando: “Mi ha distratto dal mio film, lo sai? Dentro quella nuvola vi erano tanti angeli che mi parlavano ed ora sono andati via”. “Ma sei proprio sicura che in quelle nuvole c’erano tanti angeli, tutti per te?” chiese la hostess con la sua suadente voce. “Sì erano proprio angeli”, rispose stizzita Aurora, “anche se voi non li avete visti, loro erano solo per Bennj e me”. “Le dia un pacchetto di patatine, così sta zitta”, riprese la mamma. Allora Aurora si atteggiò a persona seria e disse alla mamma. “Io ti voglio bene, mi devi sopportare come sono”. La mamma a quelle parole non seppe rispondere, se la strinse a sé con forza e lei non voleva staccarsi. Una grossa nuvola la riportò a guardare, con la Bennj, dal finestri332
no. A un ennesimo scricchiolio dell’aereo, più forte del solito, la bambina guardò la mamma, era con gli occhi chiusi. “Mamma cos’hai?” Chiese Aurora. La mamma non rispose e si strinse la bambina a fianco. Lei di rimando: ”Non aver paura, mamma, i miei angeli tengono l’aereo e non lo lasciano cadere”. La mamma la strinse ancora più forte, mentre la voce suadente e sicura: “Siamo per atterrare, allacciare le cinture di sicurezza, non fumare, grazie”. Aurora si staccò dalla mamma e l’hostess si chinò verso dei lei e le allacciò la cintura. Poco dopo l’aereo toccò terra. Tutti scesero dall’aereo per risalire sul bus. Aurora si voltò verso l’aereo, vide una figura allontanarsi e la salutò. “Mamma”, disse, “il mio angelo va via”. La mamma si voltò e non vide nessuno. Accarezzò Aurora e sorrise. Giovanni Cianchetti DENTRO IL CASSETTO…..I RICORDI Finalmente vacanza, la scuola è finita, le giornate libere. Insieme ad un amico salii in soffitta, la nonna mi aveva sempre detto che in soffitta si poteva trovare di tutto, fuori e dentro i cassetti, anche i sogni, perché quello che non serviva più, una volta, si riponeva in soffitta, dove potevano dormire per molti anni, a meno che qualcuno non li andasse a svegliare. Iniziammo la ricerca; libri vecchi con tanta polvere, qualche giornalino sgualcito, dei piccoli grembiulini 333
nei vari colori, un cavallino in legno a dondolo, ma in una cassapanca, nascosta dietro delle assi, quasi non si vedeva, al suo interno una grande sorpresa: il bel cagnolino di stoffa, che avevo avuto sempre con me da piccolo, dormiva con me, lo coccolavo prima di addormentarmi, mi guardava come incuriosito, lo presi in mano, lo accarezzai e mi sedetti per osservarlo meglio. Lasciai che il mio amico continuasse la ricerca. La mia mente tornò indietro al mio cagnolino vero, che avevo avuto, anzi che era sempre stato in quella casa ed era sempre vicino a me da quando iniziai a camminare, poi era scomparso, cosĂŹ diceva la nonna. Nella mia memoria câ&#x20AC;&#x2122;era sempre la sua figura, era il mio compagno, era un trovatello. Il suo nome era Svelto. Abitava con noi, si fa per dire, nel nostro casolare in campagna, noi eravamo i suoi compagni, era stato raccolto, tutto bagnato e tremante, in un vecchio canale di scarico di acque piovane, che scorre vicino alla casa. Curato ed accudito dai nonni come un figlio, lui ricambiò questo affetto con dedizione e amicizia verso tutti, accompagnandoci quando ci si allontanava dal casolare per lavori o per il pascolo del bestiame. Era una garanzia sia per la guardia, sia per la compagnia. Confinante con la fattoria vi era un grande allevamento di cani di razza pregiata, ben tenuta, recinta334
ta, le bestie erano tenute pulite, ma non erano libere come Svelto, il mio cagnolino. Spesso lo vedevo vicino al recinto girando intorno, poi si fermava immobile con lo sguardo lontano, assorto, dopo un po’ lo chiamavo per distoglierlo, lui veniva di corsa, si faceva accarezzare, beveva dell’acqua, poi se ne tornava vicino al recinto. Fu curioso, lo lasciai lì e dopo poco lo vidi che annusava un altro cane, dello stesso colore suo, poi lo lasciava, tornava in casa a mangiare e poi scompariva. Guardai lungo la recinzione e lo vidi annusare ancora lo stesso cane dell’altra volta, come se si parlassero. Lasciai che continuasse. L’altro cane aveva un portamento fiero, non poteva conoscere un cane come il mio, nato chissà dove e da chi e per sua fortuna approdato vicino alla nostra casa. Passò del tempo, osservai più attentamente cosa stavano facendo e notai che l’altro, all’interno della recinzione, si era messo a scavare sotto alla rete e la stessa cosa aveva cominciato a fare il mio Svelto, anche con più impegno. Il foro sotto la rete era fatto, volevo vedere chi dei due passasse, fu quello all’interno ad infilarsi sotto la rete ed il mio l’aiutò tirandolo per le zampe anteriori. Era una visione commovente, vedere quei due cagnolini che si aiutavano in quel frangente. Quando vidi che tutti e due erano liberi, mi si serrò il cuore e risi di gioia, capii cosa voleva dire essere liberi. Si precipitarono di corsa nel prato e scomparvero. 335
Poi all’imbrunire si presentarono tutti e due a casa, sporchi, quasi piangendo, scodinzolando per avere il cibo. Era contento di aver trovato un compagno libero come lui con cui giocare. La felicità durò poco. Sentimmo due individui bussare alla porta, volevano parlare con noi. Questi volevano sapere se avevamo visto una cagnetta aggirarsi da noi, a loro sembrava, anzi ne erano certi, che si fosse aggregata al nostro cane. Il nuovo arrivato sembrò capire dalle voci e tentò di nascondersi, ma non ci fu verso. Fu ripreso e consegnato a queste persone. Poi uscirono con la povera bestia in braccio, lui la guardava tutto compunto. Li seguimmo per un po’, il buio impedì ai nostri occhi la fine del tragitto, eravamo certi che erano quelli dell’allevamento, e non avremmo più rivisto quella compagna trovata con tanto entusiasmo. Svelto, il mio cagnolino, il giorno dopo riprese il suo solito giro, ma non trovò più la sua compagna, al solito posto, avevano ricoperto il buco e rimesso l’erba. La cagnetta non fu più vista. Passò del tempo, le piogge iniziarono a cadere sempre più frequenti e copiose, il vecchio scarico si gonfiò a dismisura e un giorno, Svelto, gironzolando lungo il percorso, avvistò due batuffolini, che l’acqua aveva lasciati fuori dall’argine. Svelto li annusò e sembrò riconoscerli, per lui avevano lo stesso odo336
re della cagnetta, erano il frutto della libertà. Ne prese uno e lo portò in casa e corse a prendere l’altro, ma appena posò l’altro capì cosa era successo. Si adagiò vicino a loro e li strinse. Avevano pagato a caro prezzo la colpa della mamma per quel giorno di libertà. Una bestiola di classe non poteva miscelarsi con un bastardino. Forse si ricordò di come era stato trovato lui e pensò che essere uscito vivo da un allevamento di classe, lui bastardo, era stata una grossa fortuna. Strinsi più forte quel cagnetto di cenci e pensai che la fortuna spesso ha occhi per guardare cosa succede poco distante da lei. Ho rimesso il cagnetto al suo posto e sono sceso. Tremavo tutto, ero però contento e commosso. Giovanni Cianchetti IL GRANDE ULIVO Era nato in quella terra fertile, silente e libera, neanche lui sapeva quando, era cresciuto per molti anni, ora, dall’alto della sua veneranda età, ne era il grande signore, alto e possente dominatore di quella terra. Nessuno dei mortali conosceva la sua età. Lui era già lì quando costruirono il grande castello, vide molti re, serventi, gente della gleba, conteggiò il tempo impiegato alla costruzione. Sapeva ormai a memoria tutto, conosceva gli animali che si fermavano solo a riposare o a pascolare alla 337
sua ombra, come cervi, pecore, capre e quei bei coniglietti, così carini sempre assieme, gli uccelli che si posavano sui rami e spesso i nuovi cinguettii dei piccoli nati, le persone che riprendevano le loro forze alla sua grande ombra d’estate. Aveva visto passare cavalieri con i loro pennacchi e corazze scintillanti, i cavalli bardati coi mantelli di vari colori e carri di contadini trainati da buoi o somari, aveva ascoltato le loro imprecazioni, preoccupazioni, desideri e speranze ed anche preghiere. Da tutti veniva rispettato e la sua presenza era un punto di riferimento storico. Erano passate centinaia di primavere, aveva sopportato inverni freddi e ventosi, aveva sempre dato frutti abbondanti negli autunni. In tutti i suoi anni aveva visto di tutto ed ora vedeva i primi veri uomini, che si fermavano in quella terra, non per riposare, ma per rimanere, per coltivarla, era la prima famiglia di contadini, venuti in cerca di spazio e lì intorno ce n’era tanto. Si fermarono, iniziarono a costruire una piccola abitazione. Lui che aveva visto una infinità di gente, animali, e conosceva le voci di tanti, non ricordava di aver sentito le voci di bambini, le loro risate, i loro pianti e ne rimase assorto e sorpreso, aveva compagnia dopo un così lungo tempo da solo. Fu felice. Da quando era stato costruito il grande castello prese possesso dello stesso un folletto, che spesso faceva 338
il giro di tutto il circondario e si fermava sulla sua chioma fluente ad osservare dall’alto la campagna circostante. Si divertiva qualche volta a spaventare i contadini, con i suoi scherzi, mentre riposavano alla sua ombra. Lui, il grande ulivo, non fu contento. Quella zona ricoperta di boschi, impareggiabile nei campi coltivati, lui vedeva le colline coltivate ad ulivi, sembravano come fratelli e figli, al chiaro di luna, veniva visitata dal folletto in cerca di gente a cui fare scherzi, specie nelle nottate di grandi venti. Il grande ulivo cominciò ad essere inquieto per questo, dopo tanti anni passati nel silenzio e nella libertà, non poteva sopportare, nel suo territorio, quell’intruso, che aveva scelto proprio lui, come casa. Forse col tempo avrebbe studiato una soluzione. Ma il tempo fu tiranno e anticipò le sue mosse. Quella terra, dove lui risiedeva, aveva sempre goduto della libertà, del libero pensiero della vita. I tempi non erano sempre stati lieti: guerre, rivoluzioni, malattie erano passate, tornando sempre la pace e la tranquillità, anche se le persone erano aumentate e pur rumoreggianti più che in passato, trovavano quella terra ancora incantevole e tranquilla come era prima. Al grande ulivo piaceva molto la notte, fresca con quella brezza che alimenta la vita in primavera, il sole caldo d’estate per la crescita, l’autunno portatore dei suoi frutti, l’inverno non era di suo gradimen339
to, ma ormai ne aveva passati tanti e ne aveva fatto una ragione di vita. Non sopportava il vento freddo delle montagne, che scendeva giù prepotente, freddo e sembrava non smettere mai. Molti alberi morivano durante la sua corsa. Lui finora aveva sempre vinto. Il vento non dimenticò. Voleva la sua vita. Una notte d’inverno, buia, iniziò un venticello gelido, divenne sempre più forte, passò la tempesta, lui resisteva senza piegarsi, ma il vento si trasformò in uragano e non si fermava più. Quel vento fece ancora un grande sforzo, voleva la sua vittoria sul grande ulivo. Il grande ulivo, signore possente e dominatore, non volle piegarsi, fu divelto dalla terra madre e sbattuto con un immenso schianto sulla distesa erbosa circostante. Solo il vento e la buia notte furono testimoni della sua fine. Poi il vento cessò come d’incanto. I suoi fratelli, sulle colline, si inchinarono al vento possente che passò quella notte, ma non troppo, erano giovani e flessibili, inesperti, ricordarono la lezione: l’ulivo non può e non deve piegarsi davanti a nessuno, lui è l’ulivo, la pianta sacra dell’umanità. L’indomani, lui disteso, furono gli uccelli a vederlo in quella posizione, il grande e possente albero coricato, come dormisse a braccia aperte, un gigante. Il folletto rimase a singhiozzare da solo e poco dopo si ritirò sul castello e non si vide più. 340
I contadini rimasero stupefatti a vedere quel grande albero ormai sradicato, le radici, che dopo secoli vedevano la luce del sole, vigorose e nodose, piene di terra, senza più la forza della vita per rianimare il grade albero. Il grande ulivo era morto. Fu fatto a pezzi dagli uomini per i propri bisogni, come era servito per i frutti, l’ombra e il riposo, in questo modo da gran signore ritornò alla sua terra in altre forme. Al suo posto ora c’è un grande vuoto. È la vita. Giovanni Cianchetti LA NOSTRA LIRA: UN RICORDO PER TUTTI GLI ITALIANI Alcuni anni fa noi Italiani avevamo la Lira, la nostra moneta che ci ha accompagnato per centocinquant’anni. Un bel fiore all’occhiello che era un vanto per tutti noi. Il sogno di tutti gli Italiani perché la Lira ha fatto la nostra storia. Come ci si muoveva, nel bene o anche nel male, si adoperava la Lira. Era la nostra moneta e faceva fiero il nostro popolo. Si è partiti con le monete dei centesimi fino ad arrivare alle mille lire, coniate pochi anni prima dell’arrivo dell’euro. C’erano anche le banconote di vari tagli: si partiva da una lira, poi due lire, cinque, dieci, venti, cinquanta, cento, cinquecento e mille. Negli ultimi decenni sono state stampate le cinquemila lire, le dieci, le venti, le cinquanta, le cento e le cin341
quecentomila lire. Gli ultimi tagli non erano tanto conosciuti tra la gente comune, perché non era tanto facile averli tra le mani. Nel commercio le banconote più maneggevoli erano quelle da dieci, da cinquanta e da centomila lire. Questi ultimi tagli sono arrivati fino all’euro. Ora noi Italiani non possiamo dimenticare la nostra lira, e andiamo fieri di conservarla e farla conoscere alle generazioni future come un dono del nostro passato. Io credo che siamo in tanti ad avere conservato alcuni pezzi della lira nelle nostre case perché pezzo di storia non vada disperso, ma fatto conoscere come le cose belle e sacre da ricordare. Noi uomini del XXI secolo conosciamo la storia e il grande passato dai libri perché gli uomini di ieri l’hanno scritta e noi possiamo conoscere quello che è stato il loro presente. Quanti popoli sono passati nel mondo e hanno fatto la loro storia. Quanti imperi e regni, anche molto grandi, sono finiti e noi conosciamo la loro esistenza dai libri perché gli uomini hanno conservato le loro tracce. Ora anche la lira passerà alla storia, come una cosa da conservare per farla conoscere alle generazioni future. Il XX secolo è stato dilaniato da due grandi guerre che avevano tolto il modo di vivere quotidiano agli uomini. Dalle macerie delle guerre sono emerse delle persone capaci di formare la nuova Europa. Appena finita l’ultima guerra si misero insieme sei stati e strinsero un patto di amicizia per formare la 342
nuova Europa. Ora siamo in molti ad avere aderito a questa nuova Europa. Allora ecco è arrivata la nuova moneta che noi abbiamo accolto con tutto il nostro orgoglio. La Lira ora appartiene al passato, con la sua antica bellezza, con i suoi vecchi colori, con i ricordi che suscita e con le sue glorie che hanno fatto fieri tutti noi Italiani per averla conosciuta, amata e adoperata. Certo questo desiderio di conservare la Lira nelle nostre case è di molti e molti Italiani. Teodoro Paolo Corradini INNAMORATA DELL’AMORE Mi chiamo Alba. Ricordo le esperienze, le sconfitte, le rinunce ed i fallimenti che hanno determinato e caratterizzato gli anni della mia prima giovinezza. E’ triste desiderare ardentemente un compagno in grado di capirmi anche solo leggendo il mio sguardo. Avrei avuto un mare di cose da dire, di sentimenti da esternare e di emozioni. Volevo essere amata per i miei sentimenti, per la mia anima, per il mio vissuto e per la mia speranza in un futuro roseo, sereno, appagante. Ho temuto che le mie aspirazioni fossero solo un’utopia. Ero carina, con carattere estroverso, vivace ed espansivo. Nascondevo dietro questi attributi il mio desiderio di piacere al prossimo, di incuriosirlo tanto da gradire la mia compagnia…era fame di amore! Ho avuto compagnie che hanno colmato in parte 343
questi miei desideri, ma le amicizie, anche se preziose quando sono sincere, non mi offrivano quel tutto cui aspiravo: cercavo una fusione totale, colma di calore e di armonia che solo in un “compagno” pensavo di poter trovare. Il tempo mi ha aperto gli occhi! La sensibilità femminile è molto diversa da quella dell’uomo. La tenerezza, l’istinto materno, la comprensione dello stato d’animo di chi sta di fronte, conoscere i sentimenti, assecondare gli umori, il saper ascoltare per trovare le risposte opportune è quanto può dare solo una donna innamorata. L’uomo è quasi sempre impastato di egoismo ed il suo “ego” non deve mai essere giudicato né contraddetto. Ho imparato, nel tempo, a tacere, a cercare di cambiare argomento, anche se mi stava a cuore approfondire il dialogo iniziato. Sapevo che, alla conclusione, sarebbe finita con una sconfitta se avessi continuato. Così mi veniva il “magone” con dolorosissime coliche. Dovevo andare avanti per non spezzare quel fragile equilibrio, quella necessità di non infastidire, ma di mantenere una certa armonia, assecondare e non contrastare il parere opposto. Il tempo è veramente un maestro! Però non si deve attendere troppo per capire quanto sia difficile frenare i desideri, le aspirazioni e soffocare il proprio carattere invece di sfogarsi e liberarsi!!! Purtroppo il primo approccio era sempre influenzato e determinato dall’aspetto esteriore e raramente 344
ho incontrato qualcuno che desiderasse conoscere la mia anima e i miei pensieri. Finalmente è apparso nel mio percorso di vita colui che ha fugato il mio pessimismo. E’ stato un lungo cammino, ma alla fine i risultati sono stati positivi. Qualche nube ogni tanto ha offuscato l’orizzonte, ma ho cercato di superare gli ostacoli con l’aiuto del silenzio… ed ho imparato che la speranza non deve mai venir meno! Alba Fiori PRIMA ESPERIENZA 1955-56 Era il mio primo giorno di insegnamento. Avevo ricevuto la nomina per una supplenza presso il liceo scientifico di Lugo di Romagna. Emozionata, mi recai alle otto del mattino presso quella scuola. Chiesi ad un bidello dove fosse la presidenza, bussai, mi presentai al preside e chiesi l’orario delle lezioni. Entrai nell’aula indicatami: la prima ora era in una classe quarta ed era mista. Tremavo come una foglia nel vedere che gli alunni avevano quasi gli stessi anni miei: dai diciotto ai venti… io ne avevo venticinque ma non li dimostravo sembravo una loro coetanea. Per l’occasione avevo indossato il mio cappotto peggiore, era grigio, informe, perché quello rosso era troppo elegante e vistoso. Cercavo di mimetizzarmi con occhiali da vista che non usavo da anni per dar345
mi un aspetto severo. Entrai in classe, mi osservarono con tanta curiosità e inciampai nella pedana della cattedra: stavo per rovinare lunga e stesa, ma con disinvoltura e uno sforzo considerevole riuscii a stento a riprendere l’equilibrio. Una volta assisa in cattedra, afferrai il registro di classe, feci l’appello e controllai le lezioni precedenti tenute dal mio collega. Così iniziò la mia prima ora. Era tale la novità e la curiosità degli alunni che mi ascoltarono attenti mentre iniziavo la lezione di storia dell’arte. Finì la prima ora e mi recai nella classe successiva: era una seconda. Nell’intervallo fra una lezione e l’altra regnava un chiasso infernale ed a nulla valsero i miei ripetuti “buongiorno”. Esasperata, col palmo della mano destra colpii il piano della cattedra. I ragazzi, a quel suono, si girarono verso di me mentre agitavo furiosamente la mano per far passare il dolore. Un alunno si avvicinò al paniere della legna, prese un bastone, me lo porse invitandomi, in futuro, ad usarlo per non farmi male alle mani. Era dicembre, faceva molto freddo e le aule erano riscaldate con enormi stufe a legna. Tutti i presenti, nell’udire la battuta del compagno, si scatenarono con scrosci di risate. Il chiasso fu tale che richiamò il preside preoccupato per la mia incolumità Risposi che andava tutto bene. Si avvicinò comunque ad un alunno, gli torse un braccio, ed il ragazzo si inginocchiò. Solo molto tempo dopo seppi che nel pizzicarlo, insieme 346
al maglione, il preside prese anche la pelle. Pare che questa punizione fosse frequente per ottenere silenzio ed attenzione. Dopo quel primo giorno si stabilì, con la scolaresca, un rapporto di simpatia reciproca. Fui invitata ad accompagnare la classe quinta alla gita a Roma, nonostante fosse terminata la supplenza. Per il pernottamento le femmine furono ospitate in un convento di suore… i maschi presso un seminario. Ero l’unica insegnante che, con le ragazze, fu ospitata in un’enorme camerata. C’era una suora seduta in un angolo per controllarci. Invitai ripetutamente la religiosa ad andare a riposare, avrei provveduto io, come insegnante, alla vigilanza delle ragazze. Speravamo impazienti di restare sole per tirarci vicendevolmente i cuscini come ragazzine per scaricare la nostra esuberanza. La suorina non mi credette, avevo un aspetto così giovanile che mi scambiò per una alunna. Restò, quindi, tutta la notte seduta su quella sedia. Quando ci recammo a Ravenna ebbi la gioia e l’orgoglio di far conoscere ai miei ex alunni i monumenti e le opere d’arte della mia città. Ebbi costantemente la collaborazione del preside in tutte le mie iniziative, anche per la stesura di un giornalino scolastico. Successivamente fui convocata per una supplenza presso il liceo scientifico di Faenza. Avevo superato la prima esperienza, e, in seguito, non mi preoccupai più come la prima volta. E’ stato bellissimo vivere quei mesi con i ragazzi. Ho cercato di emulare i miei 347
professori del liceo artistico: comprensivi, affettuosi e disponibili. Non era necessario essere severi, amavano la materia ed erano impazienti di assistere alle lezioni. Capivo la loro esuberanza perché ero giovane come loro e questo aveva consentito un rapporto di stima e fiducia reciproca. Alba Fiori L’OSSESSIONE DEL DUE “Vuoi una caramella?” “No, ne voglio due.” Abbastanza normale che un bambino di tre anni preferisca due caramelle a una. Per Luigi la risposta era la medesima se si trattava di biscotti, di gelati, di macchinine, di palloni. “Adesso ti do un bel bacio”. La mamma lo abbracciava forte quando il piccolo tornava dalla scuola materna. “Ne voglio due.” Se qualcuno lo invitava a disegnare, si verificava lo stesso raddoppiamento: alla richiesta di raffigurare un albero, un gatto, un fiore, un amico, immancabilmente sul foglio ne comparivano due, molto simili l’uno all’altro. Se si trattava del sole, stessa cosa: secondo lui nel cielo non ce ne poteva stare uno solo. Uguale sorte per la luna. Le maestre gli facevano notare che disegnare due alberi è accettabile, ma due soli o due lune non andrebbe altrettanto bene. Il 348
bambino annuiva, mostrava di aver capito, ma rimaneva coerente a quella sua antipatia per la solitudine dell’unità. Risparmiava solo la mamma e il papà, anche perché messi insieme erano due. Due mamme sarebbe stato davvero troppo. Durante i cinque anni della scuola elementare ci furono dei progressi: imparò a non disegnare più in forma duplice tutto ciò che assolutamente aveva la caratteristica dell’unicità, sia il sole e la luna, sia l’Italia e Babbo Natale. Nel periodo iniziale delle scuole medie cominciò a fare dei sogni strani, in cui con insistenza si ripresentavano le dualità più disparate: due pesci che nuotavano accanto in un’acqua tiepida e trasparente; due rondini che sfrecciavano in un cielo terso, intrecciando i loro voli; due funghi rossi che crescevano ai piedi di un albero nel folto del bosco; due torte ben lievitate nel forno, due amiche sorridenti a passeggio, due arance profumate nella fruttiera. I sogni scomparivano lasciandogli al risveglio un ricordo preciso e un senso di pace. Li raccontava alla mamma, che in risposta sorrideva con un velo di tristezza. Dopo circa un anno i sogni si interruppero, ma subentrò una stranezza che gli capitava da sveglio. La sua attenzione era catturata, come stregata da tutto ciò che gli si presentava in coppia: due libri sul tavolo, due gessetti sulla cattedra, due gatti nel cortile, due nipotini a spasso con i nonni, che in tutto erano quattro persone. 349
Anche i multipli del due lo attiravano e gli producevano una sorta di stupore incantato: sei calciatori in panchina, otto paste in un vassoio in pasticceria, dieci canarini nella gabbia di un negozio di animali. Non poteva fare a meno di notare che la realtà si conformava dolcemente a quei numeri, si placava in essi: provava per questo un senso di soddisfazione, di appagamento. I numeri dispari per lui non avevano lo stesso effetto: rendevano la realtà squilibrata e tesa, le toglievano l’equilibrio, la mettevano in pericolo. Poi questa fissazione diurna scomparve, e ripresero i sogni. Con il passare degli anni, l’alterazione si riproponeva a fasi alterne, ora di giorno, ora di notte: quando scompariva quella onirica, si ripresentava alla luce del sole. Come sport praticò sempre il ciclismo, fin da bambino: ore e ore, chilometri e chilometri sulle due ruote. Diventò un ragazzo generoso e tranquillo, anche se all’improvviso poteva diventare irascibile, magari per delle sciocchezze. Soprattutto in certe giornate negative era meglio stargli alla larga. In particolare era intrattabile di lunedì, ma si sa, per molte persone riprendere il ritmo dopo la domenica crea qualche disagio. Però il martedì e nei giorni pari della settimana era di una gentilezza deliziosa. A scuola non diede mai problemi, ma quando venne il momento di scegliere la facoltà universitaria non riuscì a decidere. Cambiava idea di continuo: ingegneria, medicina, architettura, poi filosofia, e alla 350
fine rinunciò, abbandonò tutto. In quel periodo viveva una delle fasi ricorrenti dei sogni. Fu sconcertato dal fatto di dover scegliere una sola strada? Allora i genitori lo aiutarono ad aprire un negozio di abbigliamento e di articoli sportivi in una via del centro: l’attività, pur con alti e bassi, risultò subito proficua, tanto da permettergli di andare a vivere da solo e di essere del tutto autonomo. Trovò infine, dopo qualche anno e varie esperienze, la donna adatta a lui, Carla, una bruna alta, esile e scattante; un carattere deciso e autonomo, una persona su cui appoggiarsi e di cui fidarsi. Decisero presto di sposarsi. Poco dopo il matrimonio, la madre di Luigi si ammalò in modo grave: si capì presto che i medici non potevano fare nulla per salvarla. Nei momenti dolorosissimi in cui bisogna pure provvedere a tante necessità, il padre informò il figlio che non c’erano problemi per la sepoltura: i due coniugi avevano da molti anni acquistato un loculo per ciascuno, uno accanto all’altro. Al funerale Luigi, che aveva ormai ventotto anni, non riusciva a trattenere le lacrime: smetteva facendosi forza, ma dopo pochi minuti scoppiava di nuovo a piangere. Carla gli stava accanto, premurosa e addolorata. Quando stavano per deporre la bara nel loculo, una scoperta gelò Luigi : in quello accanto a destra, senza foto, era segnata la data della sua nascita, e il nome 351
Giuseppe, davanti al suo stesso cognome. Che significava? Cercò gli occhi del padre, con uno sguardo interrogativo e accorato che significava una domanda, mentre le parole non gli uscivano. “Era un tuo gemello, morto appena dopo la nascita. Abbiamo comprato due loculi accanto a lui, appena dopo averlo sepolto”. Avevano appena fatto a tempo a battezzarlo. Luigi era doppiamente straziato. Aveva sempre creduto di essere stato l’unico figlio. Non gli avevano mai detto niente, chissà perché. Forse temevano che si sentisse colpevole per il fatto di essere lui il sopravvissuto? Si dileguò la nebbia sulle sue ossessioni. Possibile che fosse quello? Che la mancanza di un fratello di cui non conosceva l’esistenza lo avesse così a fondo condizionato? Aveva letto da qualche parte che i mesi passati in simbiosi con la madre sono determinanti per tanti aspetti della vita, anche se non ne può rimanere la minima consapevolezza. Che l’abitudine contratta per nove mesi nella pancia della mamma gli avesse lasciato la nostalgia di una compagnia e l’angoscia di essere solo? Per questo l’ossessione del due aveva attraversato tutti i suoi anni precedenti? Quel giorno fu come se fossero sepolti due suoi cari: la madre e quel gemello sconosciuto. Quella scoperta non gli fece bene, tutt’altro. Diventò più nervoso, intrattabile, scontento di tutto. Non aveva voglia di parlare, né di frequentare gli amici 352
consueti, né di uscire con la moglie. Era meglio lasciarlo indisturbato nel suo mutismo. Carla notò il cambiamento, ma era ben lontana dal capirne la ragione, e tanto più si preoccupava: cercava solo di essere paziente. Luigi si rendeva ben conto, invece, che la consapevolezza di aver avuto un fratello lo aveva eccessivamente scosso. Lo riconosceva anche lui, stava reagendo in maniera ingiustificabile. Per un periodo cessarono sogni notturni e fissazioni diurne, ma prese a soffrire d’insonnia. Quando Carla rimase incinta, Luigi non manifestò particolare gioia, e non sembrò che qualcosa fosse cambiato per lui. A negozio trattava male le due commesse per qualunque sciocchezza; rimproverava la moglie di non aver cucinato bene – poco sale, troppo olio, carne dura, pasta scotta – mentre la poverina combatteva con le nausee dei primi mesi della gravidanza, quindi non aveva la minima forza né di mangiare, né di controbattere. Quando però l’ecografia rivelò che Carla era in attesa di due gemelli, fu come se un terremoto benefico rimettesse tutto a posto. Luigi uscì da quello studio medico come se fosse un’altra persona, come se fosse venuto alla luce una seconda volta. Tutto quello che vedeva intorno gli sembrava nuovo, diverso: le persone che camminavano, le auto che si fermavano al semaforo, il gatto che attraversava la strada, il viso un po’ preoccupato di sua moglie. Tutto più luminoso, colorato, familiare, amichevole. 353
Camminando davanti alle vetrine fantasmagoriche della migliore pasticceria della città, da cui uscivano profumi paradisiaci, chiese alla moglie di festeggiare insieme la notizia con un peccato di gola, ma lei per poco non vomitò al solo pensiero. Mentre erano quasi giunti alla macchina, incontrarono due giovani frati francescani che venivano dalla parte opposta, sorridenti e gioviali nel loro saio marrone stretto dal capestro. Forse per questo ebbe l’ispirazione, il giorno seguente, dopo aver dormito una notte serena e senza sogni, di rientrare in una chiesa, dopo molti anni che non lo faceva. Appena varcato il portone, si sentì invaso da una serenità che non ricordava di aver mai provato. Avanzò nella semioscurità accogliente della navata centrale del duomo, evitando di far rumore con i suoi passi, anche se non c’era nessuno. Donatella Giovannelli LA STRADA DI CASA La curiosa storiella che mi accingo a narrare si svolge nell’arco temporale estivo del 1966 e riguarda un ristretto agglomerato di abitazioni nel circondario di una stradina del quartiere di Napoli ove vivo, a Pianura. La strada, all’epoca viottolo di campagna, era soggetta annualmente a inondazioni ed erosioni procurate dalle acque meteoriche che grondavano dalla 354
sovrastante Collina dei Camaldoli. Il fondo della carreggiata era irregolare e un piede nel posto sbagliato, quando pioveva, significava immergere lo stivaletto oltre la caviglia, con immaginabili conseguenze dello scolaro indirizzato a scuola. Anche le rare auto del mio numeroso nucleo tribale, tra le quali spiccava la fantozziana “FIAT 850”, quella a forma di brutta scarpetta, talora si impantanavano al punto da richiedere il traino. Il tragitto, privo di illuminazione, era ornato da filari ai due lati, mentre sottostanti prosperavano lunghi roveti di more. Tutti gli alberi erano di nocciolo, curvi e piegati verso il centro della strada che si snodava come una capanna serpentina. Infatti il terreno, costantemente eroso alla base, dilavava le radici che sovente affioravano nude e i poverini non potevano far altro che sostenersi l’un l’altro, ciascuno abbracciando il proprio dirimpettaio. Quando c’era vento forte, coloro che hanno visto “Cime Tempestose” possono farsi un’idea dell’ambiente, ove tra raffiche di vento, lampi, rombi di tuono e scrosciar di pioggia capitava che un malcapitato e già macilento alberello si coricasse al suolo ormai stanco e voglioso di dormire, piuttosto che agitarsi e scricchiolare come un fantasma. Una volta capitò che la strada indossasse un abito inusuale: nevicò abbondantemente, evento raro alle nostre latitudini, stratificando venti centimetri di neve sulla “capanna”, che divenne così un lumine355
scente igloo-serpente. Comunque sia, anche d’estate, tranne qualche rivolo sparuto che forava la coltre di foglie, primeggiava una cortina d’ombra che mutava in crepuscolo nei giorni invernali. Molti associavano a questo tratto parvenze di camposanto. A me piaceva. In questo preambolo, ancora un episodio. Accadde in una notte fonda e ventosa di circa trent’anni orsono. Ero di ritorno a casa, in taxi, quando l’autista, giunto all’inizio della selva oscura, innestò una marcia alta e sfrecciò veloce. Poi inchiodò l’auto a terra con una brusca frenata e nel mentre scoppiò a piangere. Terreo in volto, cambiò in retromarcia e precipitosamente ritornò all’imbocco della strada! Ansando mi disse che non si sarebbe più mosso, ove io non fossi sceso immediatamente: certamente ero un rapinatore o quantomeno un complice per averlo condotto in un posto sì infame. A nulla valsero il mio dire pacato e il sorriso rassicurante. A tratti, confesso oggi con vergogna, traspariva anche un mal dissimulato sberleffo di cinica gioventù: io percorrevo abitualmente a piedi la selva oscura sin da bambino, mentre un “cittadino” adulto e maturo, blindato nella sua comoda automobilina se la faceva addosso! Esisteva comunque una strada alternativa, pubblica e illuminata. Usata da tutti tranne che dal sottoscritto, mio padre e pochissimi altri, oltre qualche rarissimo malintenzionato o sarebbe meglio dire, nel vero senso della parola, rubagalline. 356
Questo secondo tratto stradale, pur ubicato perpendicolarmente, allungava di poco il percorso. In quegli anni camminare a piedi era la norma, anche per un bambino nell’andare a scuola, come la mia piuttosto lontana dall’abitazione. Non esisteva nelle possibilità economiche e neppure nelle vedute familiari il pulmino. Roba da ricchi, nonostante io stesso mi percepissi un “privilegiato”: una conseguenza al fatto che i miei non avevano sfornato figli al ritmo dei conigli. Riuscivano a seguirmi meglio, moralmente e materialmente, con attenzioni allora rare per la maggior parte dei coetanei inseriti in un humus post contadino, spersonalizzato del retaggio positivo e privo del “nuovo”. Eravamo di fatto anticamera anche mentale del “salotto” quale era percepito il centro cittadino, a dieci minuti di auto. C’era l’usanza, tutt’ora in voga tra le vecchie quanto le nuove generazioni, descrivere l’azione dell’andare in centro: “vaco a Napule” (vado a Napoli) ove ovviamente Pianura quartiere “è” Napoli. Torniamo ora alla stradina, che tutti evitavano per quanto detto dulcis in fundo per una nutrita presenza di randagi, sconfinati dalla guardia di piccoli poderi o dalle miserabili masserie, in un periodo ove non si andava per il sottile in termini di alimentazione degli animali, spesso affamati e talvolta anche rabbiosi. Per quanto mi riguardava, la cosa sortiva un effetto contrario. Le “coccole” familiari mi avevano procurato una pessima “fama”, in un ambiente non scevro 357
da bullismo e machismo a buon mercato. Proprio per mostrare a me stesso e a chicchessia il mio “coraggio”, a dieci anni percorrevo la strada da solo, anche in quelle tenebrose serate invernali ove capitava una veloce commissione per la cena. Non provavo timore alcuno, tranne quando mi balzava il cuore in gola ove al buio completo sfrecciava un gatto tra le gambe, senza che entrambi terrorizzati comprendessimo cosa stesse accadendo. Dunque, è definita la cornice, ove non ho ricamato nulla che non sia degno di fede alla marmellata dei ricordi. Resta da precisare solo che nessuno, tra gli abitanti del fazzolettino di terra interessato, chiamava questa strada col suo vero nome, anagraficamente provvisorio, perché la mia abitazione non insisteva nell’ oppressivo vialetto attualmente involuto, ma quasi al centro di un vasto appezzamento. Un lascito degli avi a mio nonno e poi dallo stesso a sei fratelli e sei sorelle. Un agrumeto era retrostante la mia dimora e una pari estensione posteriore era colma di peschi, nespoli, ciliegi e fichi, in fiore a primavera e successivamente grondanti di succosi frutti e indimenticati aromi e sapori, ovviamente colti e divorati all’istante, senza pratica igienica alcuna che ne deturpasse il gusto, anche del…proibito. Sotto giaceva un prato d’erba, trifogli, margheritine o campanule a seconda del periodo dell’anno. Ricordo il medico di famiglia, un tizio dai capelli precocemente di neve, che si intratteneva solitamen358
te a casa dopo la visita. Un caffè, il limoncello e conversazione. Costui, sensibile alla natura, amava casa mia sì che l’apostrofava tale la “Casetta delle Fate”. In età adulta seppi poi che le lunghe soste nascevano anche dalla sua timida corte a una giovane cugina, che non ricambiava quel quarantenne matusa. A dirla tutta, sia la mia cara madre che l’odierna carissima matura cugina, un po’ si divertivano con civettuolo cinismo a spese del soggetto un po’ “frillocco” (sciocco) nel cascarci, a dispetto della sua aria seria e meditabonda. A latere di una tentata e insolita avance, il soggetto in questione tentò di baciare la “ingenua” fanciullina, mentre mia madre sorniona era in cucina a preparare il caffè. Nel tornare in salotto, quest’ultima si spanciò dalle risate sino a farsela letteralmente addosso – la pipì ovviamente – ove trovò il buon “dottore” col cappotto di pelo di cammello spelacchiato, ancora fumante per le fiamme del camino, verso cui con decisione l’aveva respinto e sospinto la mia tenera cuginetta. Bene, o male, vista la parentesi che non c’entra proprio nulla con la storiella, ma restituisce quel sapore di mezzo secolo addietro tipico della provincia-nonprovincia. Ma torniamo al dunque. Ove capitò che un bel giorno, o meglio stante che non siamo in una fiaba ma nella vita, un giorno veramente brutto, si ammalò di cancro galoppante e che lo spinse nella tomba in soli 359
tre mesi, proprio il padre di questa cuginetta di allora. Nel frattempo, era cresciuto l’agglomerato residenziale – abusivo – a spese del “mio” prato, e anche i suoi avevano affiancato la loro abitazione alla mia. C’era un ingresso principale comune, poi dirimpettai con le rispettive entrate. Io avevo sei anni e mi tappavo le orecchie straziato da quelle urla disumane. Tutto questo capitò nei mesi estivi. Mio zio smise di soffrire a fine agosto. In quel periodo, tranne me che avevo interessi diversi dal pallone e dalle biglie, una “mmorra” (banda) di ragazzini stazionava sempre sotto la finestra-balcone di questo poveraccio morente. Che solo di tanto in tanto, nelle ore calde del pomeriggio, spossato dal dolore e dalla morfina, si appisolava fra le cure premurose di mia zia. Non di rado finiva che questi “angioletti” procuravano fare un gran chiasso, usuale a tutti i bambini dei quartieri periferici: strepiti, parolacce e soprattutto tambureggianti pallonate nei vetri dell’abitazione, che strappavano il malato dal torpore e insieme ancora aspre grida di dolore. Con evidente sofferenza di mia zia, che essendo d’indole mite, non era usa ricorrere ai secchi d’acqua per scacciare la tornata scatenata, come era prassi comune allora. Ma qualcosa bisognava pur fare…e allora ideò un travestimento. Con un frammisto del guardaroba di mio zio, nonno e qualcosa cucì lei stessa, si combinò in una figura mista tra uno stregone e uno spaventapasseri: cappellaccio nero a punta, mantello nero e 360
lungo, stivali delle sette leghe altrettanto neri, una specie di velatura manco a dirla nera per coprire il viso e i capelli, e persino ricorse al nerofumo del carbone. Poi guanti neri e un bel randello per completare la parata. E così bardata uscì la prima volta al balcone-finestra, emettendo come un sussurro di chi annaspa soffocando e alternando, di tanto in tanto, soprattutto al crepuscolo, il lamentoso ululato d’un lupo mannaro. Il successo fu totale: i ragazzini scapparono a gambe levate. Bastò ripetere periodicamente queste apparizioni, per ottenere che pace e tranquillità regnassero nel viale sottostante l’abitazione. Quando mia zia finse un inseguimento agitando il randello, i ragazzini mai più si avventurarono per la stradina di accesso al viale. Che da allora mutò il suo nome – già un soprannome – da “’ncoppa e nucelle” (“sopra le nocciole”, chiaro riferimento alla tipologia di alberatura) in un ombroso “a via ro’ viecchio” (la strada del vecchio). Col tempo, questo fantomatico “viecchio” prese il soprannome onomatopeico di “o ci-ci-ci”, anche se in realtà lui (lei) pronunciava uno strascicato “ssscih-ssscih-ssscih” qualcosa simile al sibilare d’un serpente, enfatizzando la “sci”, mentre al calar del sole emetteva come già detto inquietanti ululati. Preciso ad onore della mia credibilità che gli adulti del circondario, tutti parenti stretti e affini, conoscevano ovviamente lo stratagemma della zia. Io che non avevo mai assistito a questa sceneggiata, non 361
credevo alle dicerie paradossalmente vere dei bambini. I retroscena mi sono stati noti ormai adulto, riuscendomi finalmente a spiegare perché taluni creduloni restano convinti dell’esistenza di quello strano essere ancor oggi. Tutta la storiella, nata per preservare il riposo in terra di mio zio, l’ho appresa nei particolari sul letto di morte di mia zia. Ove non so da voi, ma dalle mie parti capita che quando un morente, generalmente anziano, finisce le sue ore in stato mentale lucido, si riportano a galla taluni episodi più comici della sua esistenza, tanto per…rallegrare l’atmosfera. Nunzio Industria QUELLA S…….A DELLA BEFANA Tanti anni fa, quando i miei bambini erano piccoli (5 e 7 anni). Qualche giorno prima di Natale, lascio i bambini a mamma per andare al lavoro saltuario che avevo trovato in quel periodo. Dopo un paio d’ore che ero in negozio, telefona mia madre che dovevo tornare subito a casa. Parto preoccupata, arrivo a casa…trovo mamma che piangeva e mio padre con le mani nei capelli che urlava: sono spariti i bambini è mezz’ora che li cerchiamo ma non si trovano!! Abbiamo cercato dappertutto, in casa, in giardino, nel capanno degli attrezzi ma non ci sono, li hanno rapiti io adesso chiamo i carabinieri!! Carabinieri è stata la parola magica, si sente una vocina: mamma, 362
mamma siamo qui non ci ha rapito nessuno. Si erano nascosti nella cameretta di quando ero bambina sotto il letto per giocare agli esploratori. Io arrabbiatissima li ho sgridati e anche sculacciati. Passata la paura dovevo far capire loro che con i nonni si dovevano comportare bene e visto che era vicino l’epifania decido che la befana porterà loro solo carbone, ma quello vero, no di zucchero! La vigilia dell’epifania prima di andare a dormire prepararono le calze e il latte e biscotti per la befana e li lasciarono sul caminetto. Il mattino dopo mia figlia si alza e corre in sala chiamando il fratello perché la befana aveva lasciato un biglietto, ma lei non sapeva ancora leggere. Nel biglietto, che avevo scritto io naturalmente, c’era scritto: cari bambini, ho visto che avete fatto piangere i nonni per questo niente doni, ma solo carbone! Firmato la Befana. A questo punto mi aspettavo un po’ di delusione da parte loro, invece quella “streghetta” di mia figlia guarda suo fratello e dice: sai che mi importa se quella stronza della befana non ci ha portato i regali, Babbo Natale sì che è stato bravo e ce ne ha portati tanti. Orietta Palanca IN RICORDO DEL NOSTRO SAV Caro Sav, ci ricorderemo sempre i nostri anni passati insieme sui banchi di scuola, le varie gite, le grandi risate e la tua grande vitalità. Sicuramente non di363
menticheremo mai i tanti pomeriggi passati con te ,Marsilio, Rita e Francesco. CIAO SAV!!insieme a casa tua, tu posizionato in porta e noi davanti a te a tirare i rigori. Passavamo ore e ore a giocare con il pallone o con la play station, e tu che, o vincevi o perdevi, rimanevi sempre con il sorriso in bocca; perché effettivamente l’unica cosa che importava era stare insieme. Ci piace salutarti così, ricordando le belle giornate a casa tua che terminavano con una bella cena con i tuoi genitori, Rita, Marsilio e tuo fratello, Francesco. Alessandro Pambianco – Alessio Sargentini – Francesco Mencacci Memorie di casa mia IL GIORNO DEL PANE Ruvidi rossi mattoni, un’alta credenza che custodisce un tesoro: il servizio “bono”, quello delle occasioni, i piatti col filo d’argento e i bicchieri col piedistallo. Un grande camino con i cantoni, l’immagine sfocata di mio nonno, il cappello in testa, i ciocchi ai piedi, dentro il cantone, alla fiamma rassicurante del fuoco, giochiamo insieme ai colori…. La luce fioca e azzurrina dell’acetilene, a un lato della grande cucina “la mattera” amica preziosa, quando sollevi il pesante coperchio..il profumo del lievito ben protetto. Una mattina…prima dell’alba..la cucina appena il364
luminata dalla fiamma nel camino, nella mattera ben ripulita: farina, lievito, acqua... Le donne col fazzoletto scuro annodato dietro la nuca, le maniche arrotolate sulle braccia, asciutte quelle di mia nonna, robuste quelle di mia madre, le mani impastano, sollevano, sbattono a lungo, con energia e levità, poi la lunga tavola del pane, il panno ruvido, bianco di bucato di cenere, la mano solleva un pezzo di pasta, dà forma, panciuta e affusolata agli estremi, con dolcezza la depone sul telo infarinato, una piega a lato perché non s’attacchi alla successiva, poi un’altra fila, un’altra, un’altra ancora, la tavola è piena di file ben allineate, bianche, belle, tutte uguali….poi la coltella, quella del pane, due tocchi dolci e decisi su ogni fila, un panno bianco sopra: le file sono pronte per attendere il miracolo della lievitazione…. Nella cucina la finestra non chiude bene, ma il fuoco amico del camino vuol collaborare col suo calore. “Attizza, attizza il foco, più legna, più legna, non comincia ancora a lievitare, è tanto freddo stamattina!” “La fiamma gioiosa si ravviva, scoppietta, guizza via giocosa per la cappa… Il controllo attento delle donne: con delicatezza sollevano il telo….” “Ha cominciato a lievitare….ma fuori il forno a che punto sta?” Nel grande forno vegliato da un gelso premuroso la legna arde, arde, il nonno già da un po’ sta provve365
dendo e il forno è già a buon punto. Le donne in casa controllano, risollevano ancora una volta il telo, il miracolo si è completato….le file hanno quasi raddoppiato, sono belle, alte, “Brave!” Il profumo della pasta lievitata conforta la grande cucina…che stupore… E il forno? Anche il forno è pronto! “Il cielo è bianco, ma attenzione che non sia troppo infocato!” Un pezzo di busta del mangime entra e esce dalla bocca del forno, “Troppo bruciata, aspettiamo qualche secondo”, un’altra prova, è ora, la tavola è già arrivata, trasportata con delicatezza perché le file non tornassero giù. La pala, la pala del pane dal lungo manico, lesta e con maestria la mano della mamma in un baleno solleva da un lato il telo, passa la fila sulla pala, senza sciuparla,non saprei dire come,un tocco con la mano per farla più bella, la pala inforna, così la seconda, la terza, e tutte le altre, ad uguale distanza l’una dall’altra… La bocca del forno viene chiusa, la frenesia si spegne. Il pane è al sicuro, lentamente cuocerà, con dolcezza al giusto calore del provvido forno. Il controllo: si allontana poco poco il coperchio dalla bocca, sta cuocendo bene, ha appena preso colore, bene, bene! Esplode alla fine nell’aria il profumo fragrante del pane ormai cotto…. 366
Che festa! Che dolcezza! Caro pane di casa mia! Potessi ora assaporare una tua briciola! Maria Ripiccini LA SOLITUDINE Leo non era di sicuro un uomo perfetto. Non tanto per l’aspetto fisico che era da catalogarsi alla voce insignificante, quanto per il carattere che nella migliore delle ipotesi era da definire difficile. Alcuni pregi li aveva di certo, ma i difetti erano di gran lunga più numerosi. Colpiva di lui soprattutto quello spiccato atteggiamento di superiorità che non sempre riusciva a camuffare con massicce dosi di sottile ironia cui era solito ricorrere nei momenti più topici. Non lo faceva di proposito. Gli veniva quasi naturale. Forse era addirittura insito nel suo dna. Una sorta di compensazione alla statura che nell’era degli omogeneizzati e dei supervitaminizzati era da ritenersi appena accettabile. Leo durante la fase adolescenziale ne aveva sofferto. Poi se n’era fatta una ragione. Anche perché la vita gli aveva offerto altre possibilità. Ogni tanto il tarlo si riaffacciava e lo costringeva a sfiancanti elucubrazioni che lo gettavano nel più profondo sconforto. Sapersi piccolo gli impediva di emergere nelle competizioni. Specie quando si tentava l’approccio con l’altro sesso. Si trovava spiazzato. Un pesce fuor d’acqua. E non era solo un modo di dire. Si era liberato dal complesso col pas367
sare degli anni. Aveva capito che non tutte le donne guardano all’aspetto fisico in maniera esclusiva. Vanno oltre l’apparenza. A volte rimangono colpite da quella sorta di fascino magnetico che sprigiona l’uso appropriato della parola. E Leo in questo non aveva rivali. Se prendeva in mano il pallino della conversazione, non lo lasciava e diventava dura per tutti tenergli testa. Gli veniva spontaneo. Rubargli la scena risultava quasi un’impresa disperata perché riusciva comunque a riappropriarsene non appena il suo interlocutore aveva un passaggio a vuoto. E’ chiaro che a molti dava maledettamente fastidio questo suo modo di fare, ma Leo non ci badava. Anzi talvolta esasperava maggiormente i toni proprio per dimostrare che in quanto a dialettica non era inferiore a nessuno. E per di più fargli ammettere d’aver torto era pura utopia. Anche quando sapeva d’averlo si guardava bene dal gettare la spugna. Il suo assunto era: “Fino a quando non riuscirai a dimostrarlo, non avrai ragione”. Era ovviamente non una provocazione ma un’autentica bizzarria che aveva l’unico scopo di mandare in tilt chi si opponeva alle sue tesi. Le più strampalate che fossero. Questo suo atteggiamento se l’era portato sempre dietro. Non l’aveva abbandonato nemmeno quando la vita gli aveva proposto situazioni che richiedevano abilità diplomatiche e non gli scontri frontali. Solo gli amici lo giustificavano. Tutti gli altri lo tacciavano d’arroganza e di presunzione. In 368
fase d’approccio era quasi scontato provare per Leo quella forma d’antipatia epidermica che scatta senza alcun preavviso. A posteriori magari le cose cambiavano e spesso Leo finiva col conquistare anche i più prevenuti. Proprio perché Leo aveva la capacità di dialogare con tutti senza remore culturali. Se fosse riuscito a capire se stesso con la stessa facilità con cui entrava nella testa degli altri, sarebbe stato l’uomo più felice della terra. Invece si ritrovava spesso e volentieri completamente solo. E questo era il suo cruccio maggiore. La solitudine gli metteva addosso malinconia, lo angustiava, lo deprimeva. Lo faceva sentire al di fuori di ogni schema e gli procurava dubbi e incertezze. Il mostrarsi estroverso non aveva alcuna valenza perché in realtà era solo una maschera per nascondere questa sua infinita solitudine che si portava dentro da sempre. Non era servito a niente l’interrogarsi o spulciare tra le pieghe più nascoste del suo interiore. Era stato così non appena aveva superato la fase iniziale della sua esistenza. A volte lo trovava perfino originale isolarsi da tutti gli altri e rimanere faccia a faccia con i suoi pensieri. Lo faceva stare in sintonia con i suoi progetti che poi non erano altro che illusioni da coltivare in gran segreto o sogni che non si sarebbero mai realizzati. A gioco lungo, tuttavia, il peso di questa solitudine l’aveva condizionato. E non poco. Gli eventuali palliativi si frantumavano fragorosamente al cospetto della realtà quotidiana per motivi che sfuggivano anche alla 369
più attenta analisi critica. Purtroppo, ma non voleva ammetterlo, il suo modo di essere non s’integrava con l’ambiente in cui viveva e che lo costringeva a dover adattarsi a schemi standardizzati e omologati. Aveva anche cercato di smussare i lati più spigolosi del suo carattere, ma i risultati non erano stati confortanti. Tant’è che aveva finito con l’indossare di nuovo i panni del rompiscatole e del contestatore. Ruolo quest’ultimo che gli calzava a pennello, ma che lo inchiodava a fare sempre i conti con quella solitudine di cui aveva finito per diventare schiavo. Con lo scorrere del tempo s’era rassegnato al suo stato e si era lasciato andare senza prendersela più di tanto. Lui poteva sentirsi solo pur trovandosi nel bel mezzo della più totale confusione di una festa o nel caos che si scatena negli stadi quando le cose non vanno come si vorrebbe da parte dei più accaniti tifosi. Si poteva sentire solo pur nel frastuono assordante di una discoteca o nell’ingorgo del traffico di un qualsiasi fine settimana. Si poteva sentire solo mentre vedeva un film o durante la lettura di un libro. Si poteva sentire solo, infine, pur stando a contatto fisico con una donna o mentre stava dialogando con altri. Una vera assurdità, a pensarci bene. Eppure a Leo succedeva tutto questo e anche piuttosto spesso. Si estraniava completamente dalla situazione contingente rincorrendo pensieri che gli venivano improvvisi e che sul momento aveva bisogno di sviluppare. Quasi temesse di smarrirli 370
o di lasciarli incompiuti. Forse, proprio per questo motivo, aveva sempre evitato d’allacciare relazioni sentimentali che avrebbero sicuramente comportato compromessi costringendolo a spiegazioni che non era nemmeno in grado di dare. Ritornava a volte al passato e ricordava i disastri combinati con le varie donne della sua vita. La paura di dover rinunciare alla sua natura di lupo solitario lo portava a inventare un assortito campionario di scuse, a nascondersi, a defilarsi, a scomparire senza fornire uno straccio di chiarimento. Poi magari, ritrovandosi di nuovo in completa solitudine, si costringeva a interrogarsi, a chiedersi il perché di un simile comportamento, a tessere supposizioni che non portavano da nessuna parte. Ma non provava frustrazione. E del resto con chi avrebbe dovuto prendersela se non con se stesso? Le sue erano sconfitte del tutto volute, cercate, premeditate, assolutamente evitabili. Poi, un bel giorno, aveva superato queste sue paure o meglio aveva creduto di averle superate. Era così uscito dalla sua solitudine che gli era sempre parsa dorata. Aveva dismesso l’abito del single indossato a lungo per scelta personale e si era infilato nel tunnel sconosciuto della vita di coppia. Era durata poco la stagione della felicità. La solitudine non aveva tardato a riaffacciarsi. Dapprima con passi felpati, poi con il fastidioso rumore di scarpe chiodate. Aveva scavato solchi profondi in silenzio ma con pervicace costanza. Leo aveva tentato di opporsi con tutte le 371
sue forze per non gettare maledettamente alle ortiche quanto di buono stava cercando di realizzare, ma non ce l’aveva fatta. Lo stare insieme prevedeva il rispetto di certe regole. Lui si sentiva soffocare e temeva di finire nella morsa della prevedibilità, dell’ovvietà, della più insignificante banalità. Avvertiva l’impellente bisogno di respirare a pieni polmoni quella libertà di muoversi, di agire, di comportarsi di cui veniva privato giorno per giorno. Il ritrovarsi ancora più solo di prima non significava altro che una clamorosa sconfitta. Questa era la verità! Una verità scomoda senza dubbio, ma che doveva di sicuro accettare perché non poteva essere confutata. Pur stando in contatto con gli altri, non riusciva a relazionarsi con loro, a interagire, a calarsi realmente nella società, a esserne parte attiva. Una sorta di limite o di handicap mai veramente abbattuto o perlomeno cercato di aggirare. Eppure Leo solo in apparenza rimaneva sconcertato da questo gap esistenziale di cui nemmeno lui stesso conosceva le cause. Un’infanzia difficile forse o forse un’adolescenza problematica punteggiata da troppi buchi neri e da infinite privazioni. Il voluto isolamento per esorcizzarle evitando in tale modo sterili paragoni con i tanti coetanei. La sistematica illusione di un domani migliore sempre rinviato e la ferma convinzione a dover costruirsi l’avvenire basandosi esclusivamente sulle proprie forze. Il tutto, poi, puntualmente avveratosi a conferma di una determinazione feroce ma non mania372
cale. Leo, in effetti, s’era realizzato grazie proprio a quella solitudine di cui sentiva tutto il peso. Alfredo Scotti IL GRATTACIELO Grattacieli. Tanti grattacieli. Una montagna di grattacieli. Un’infinità di grattacieli. Solo grattacieli. Si stagliavano come affusolate guglie di antiche cattedrali verso la sommità del cielo. Sembravano quasi voler sfiorare le nuvole, arrampicandosi su funi virtuali. Chissà perché non facevo altro che sognare questi stramaledetti grattacieli che oltretutto io odiavo. Non sopportavo la loro altezza, quel senso di maestosità che incuteva rispetto e nello stesso tempo timore. Mi ritrovavo schiacciato da questi mostri enormi, assemblati con ogni genere di materiale, che mi correvano ripetutamente incontro e mi facevano smarrire il senso dell’orientamento. Cercavo una via di fuga ma finivo col perdermi nel labirinto delle strade che si snodavano in tutte le direzioni. Talvolta davano la sensazione di piegarsi su se stessi o d’implodere, tal’altra di allungarsi o di sdraiarsi a terra come primordiali dinosauri. Venivo afferrato dal panico e mi svegliavo di soprassalto in preda agli incubi. Un sorso di acqua rimetteva le cose a posto, ma rimaneva una sorta di buco proprio alla bocca dello stomaco. Un giorno, senza nemmeno una particolare ragione, ne parlai con Cristina. Nel cassetto 373
aveva una laurea in psicologia, ma in pratica faceva l’assistente sociale. “I sogni vanno interpretati. C’è sempre una causa alla loro origine. Si tratta di scoprirla”. La guardai perplesso. Tutto qui?, pensai. Poi mi ricordai che mi capitava di sognare spesso anche da bambino. “Non hai digerito bene”, mi diceva la mamma. E giù tazze di camomilla. Cristina mi fissò e scosse la testa. “Ti vedo preoccupato. Non voglio che me lo racconti. Forse devi andare da uno psicanalista”. Mi scappò una risata, ma mi accorsi che suonava forzata, quasi isterica. “Non prendertela a male, continuò Cristina. Consultare uno specialista non significa avere dei problemi”. “E’ come andare a passeggio”, annotai. “Il solito spiritoso”, fece lei e mi piantò in asso. “Ho un impegno”, mi gridò mentre saltava con destrezza sul tram. Si portò il pugno della mano destra all’orecchio facendomi capire che mi avrebbe telefonato. Il tram scomparve dalla mia vista lasciandomi solo con i miei dubbi. Alfredo Scotti RIFLESSIONI Permettere al tuo cuore di navigare sulle sottili onde di un cirro appeso al cielo spargendo ampia quiete che penetra timidamente nell’anima, dona pace... Osservare il vento nelle pianure che con il suo fruscio apre le vie della vita dove ondeggianti colline 374
emergono elegantemente dalle fitte nebbie, dona pace… Fidarmi del suo sguardo perso nell’orizzonte che riflette nobiltà di spirito per impadronirsi in un attimo dell’universo, dona pace… Perseverare la mia anima trattenendo nozioni, esperienze ed eventi vissuti che appaiono persistenti… realtà costituita dal vuoto, spazio senza limite che nella sua ampiezza permette di ricordare senza dolore, dona pace… Portare alla luce la propria spontaneità rimanendo in ascolto, in solitudine, in silenzio; là dove possiamo rigenerarci, portandoci con gioia a una profonda spiritualità, dona pace… Essere consapevoli della nostra età ci porta ad essere essenziali, affinando il nostro carattere ed essere fedeli a ciò che siamo, realtà che ci permette di condividere il più possibile i frutti preziosi che ci regala la nostra mente, dona pace… Seguire il nostro istinto, esprimere la propria natura, apprendere i significati più profondi del nostro essere ed accettare la nostra strada e i propri limiti, dona pace… Anita Stultz Solari 375
GLI SGUARDI DEI GIOVANI E QUELLI DEI VECCHI Ancora non mi sento addosso gli sguardi dei giovani pieni di tenerezza e di compassione con cui io alla loro età osservavo le persone della mia. Non mi sembra di correre questo rischio. Ancora la vecchiaia non è con me. Ma come sei e come sei stato non importa più a nessuno. Quando si è giovani non si pensa mai che anche un vecchio è stato giovane, e magari di bella presenza! Forse perché sono fortunato con la salute e ben conservato nell’aspetto e non dimostro la mia età che la frase “Sei sempre uguale” rivoltami da vecchi amici e da colleghi, e confermata anche da ex alunni, ormai quasi matusa, non è un’espressione di circostanza per me. Anzi, più di una volta mi è capitato di sentire da parte dei nipoti l’apprezzamento spontaneo e sincero del mio aspetto ancora giovanile, sono ragazzi e non sempre rispettosi, e, quando vogliono, dimostrano una naturale spavalderia, che è poi quella della giovinezza, e una certa competizione nei confronti di tutti, compresi i vecchi. Da parte mia osservo spesso i nipoti quando si trovano in mezzo al “gruppo” e mi fanno rabbia e tenerezza insieme, perché non mi “filano” per niente e sono sempre i primi a progettare scherzi e birichinate. Guardo con curiosità e attenzione il nipote più grande e ascolto i suoi discorsi con gli amici e li trovo 376
stupidamente giovani. Guardo le loro facce allegre, i loro corpi alti e snelli, le loro teste pieni di capelli con il taglio alla moda e li invidio. Invidio le loro illusioni, i loro corpi e le loro vite da consumare. Anche noi eravamo così alla loro età? Mi chiedo. Anche noi eravamo così leggeri e alla ricerca di emozioni? Non parlano di progetti, di studio, di affetti familiari e sentimentali, mentre della scuola e dei professori dicono tutto il male possibile. Parlano di ragazze, di musica, di sport, di motori, niente politica, niente Dio e problemi dell’anima. Per fortuna non li ho mai sentiti pronunciare le parole: droga, alcool, gioco d’azzardo…, neppure quando qualcuno del gruppo, per farsi bello con gli amici e soprattutto con le ragazze, sembra alla ricerca di facili e stupide bravate. Spero e mi auguro che i fatti non contraddicano le apparenze e le mie ottimistiche deduzioni. Giacomo, da quanto ne so, è astemio, non fuma e tiene troppo alla salute da sembrare ipocondriaco, per pensare alla droga o all’alcool. Vorrei comunque che mio nipote si smarcasse, si tenesse alla larga insomma da quel genere di amici e familiarizzasse con giovani più maturi e responsabili, più resistenti alle tentazioni. Qualcosa di simile avveniva anche ai miei tempi: cambia la società, si trasformano le famiglie e le persone, variano le situazioni economiche e le disponibilità finanziarie, ma le abitudini non mutano mai del tutto, evolvono, si aggiornano con i tempi 377
e i nuovi gusti. Noi avevamo il bar e l’osteria per giocare a carte e a biliardo, per trascorrere lietamente in compagnia le serate e per scolarci al massimo un quartino di vino bianco frizzante. Loro, i ragazzi di oggi, non vanno più neppure in pizzeria, hanno la loro”ora felice” in certi bar e caffetterie famose con il classico aperitivo che è diventato quasi una cena a buon mercato. L’happy hour, il rituale appuntamento dei giovani (e ultimamente anche degli adulti) per incontrarsi e socializzare, è diventata una moda, e il sabato diventa anche l’anticamera della discoteca. E’ qui, in questi luoghi che aumentano i pericoli e crescono i rischi per i nostri giovani, dove tra luci soffuse, musica sottofondo, belle ragazze e qualche bicchierino, le tentazioni diventano spesso incontrollabili. Noi non conoscevamo ancora la droga e l’uso e anche l’abuso dell’alcool potevano capitare, ma erano eventi piuttosto rari, quasi eccezionali. L’alcool entrava solo in qualche festa particolare e serviva ai maschietti più timidi per affrontare e per dichiararsi alle femminucce. Oggi i giovani sono più esperti, hanno più occasioni e sono più trasgressivi di noi. E i genitori devono essere più attenti e proteggere meglio i loro figli, mettendoli in guardia contro i pericoli .Questa è la migliore forma di prevenzione e di aiuto: soltanto che va estesa e messa in atto da tutti i genitori, compresi quelli più fiduciosi e ingenui. Ai miei tempi i papà e le mamme erano meno permis378
sivi ma più ignoranti e riservati e non ci dicevano niente o quasi su questi argomenti, allora tabù, ma la famiglia, la parrocchia e la scuola ci davano una mano per diventare più “grandi” e più forti. Ortelio Vincenzini LA RIMPATRIATA Anni fa sono stato invitato ad una di quelle cene con i vecchi compagni di scuola, più conosciute con il nome di “rimpatriata”. Mi sembrò una bella iniziativa e accettai volentieri e con entusiasmo l’invito. Avrei rivisto molti dei miei amici dell’adolescenza, con cui avevo trascorso tutti gli anni del liceo. Molti di loro non li avevo più incontrati da almeno 40 anni. Sfogliai mentalmente l’album dei ricordi e li rividi tutti: il Passerino, il Lillo, il Puzio, il Mela, il Marchese…e tanti altri. Chissà come saranno ora, pensavo, e che cosa faranno o meglio cosa avranno fatto nella vita. E non vedevo l’ora che giungesse quel giorno. E quel giorno arrivò. C’incontrammo nella piazza centrale della mia città nativa, davanti al solito bar, luogo abituale d’incontro in quegli anni giovanili. Ero molto curioso e anche molto emozionato. Arrivammo alla spicciolata da Arezzo, Perugia, Firenze, Pistoia, Milano, Bologna… e il gruppo man mano s’infoltiva e diventava sempre più numeroso e rumoroso. Cominciammo con i saluti, gli abbracci, le esclamazioni a 379
voce alta, le risate, le battute spiritose: “ Ma chi sei? Tu sei…Ma no! Sei proprio tu? E’ vero! Non ti ho proprio riconosciuto”. E così via. C’era anche chi, rischiando, tentava d’indovinare: “Tu sei…E’ vero? Ero quasi sicuro”. E affermava subito con un pizzico d’ipocrisia: “Non sei cambiato per niente, sei proprio uguale”. La maggior parte dei convenuti non si riconobbe: l’entusiasmo iniziale, le risate, qualche parolaccia non nascosero il disagio, la delusione e anche un po’ di tristezza, evidenti nei volti eccitati dei presenti. Dio come siamo cambiati! Tanti anni insieme e non ci siamo neppure riconosciuti. Eppure siamo cresciuti, abbiamo studiato, abbiamo sofferto, ci siamo divertiti sempre insieme, giorno dopo giorno, per tanti anni. Eravamo più che fratelli: eravamo amici. La calvizie, i capelli bianchi, gli occhiali, le rughe, le pance e il sovrappeso rappresentavano le acquisizioni esteriori più appariscenti del tempo trascorso. Il bel fisico d’atleta di…, la magrezza longilinea di…, la bella e folta chioma di…, il radioso sorriso di… dove erano andati a finire? Erano venuti meno giorno dopo giorno, anno dopo anno, insieme ai nostri sogni, alle nostre illusioni, ai nostri progetti. Parlammo molto quella sera e ricordammo con nostalgia i tempi in cui cercavamo scorciatoie per diventare “grandi”. Fu l’ultima occasione per raccontarci la vita: storie normali, di persone normali. Ma anche storie tristi di malattie e di morti premature. E fu l’ultima volta che 380
ci siamo visti. Ci lasciammo a tarda notte stanchi, un po’ brilli, ma felici, con tante promesse di rivederci presto che poi non mantenemmo. Ortelio Vincenzini UN CANE…AMICO In uno di quei pomeriggi di fine inverno, luminosi e ancora un po’ freddi, facevo la mia solita passeggiata salutistica, immerso nei miei pensieri, percorrendo una delle stradine di campagna che s’incontrano spesso nei pressi della mia abitazione, quando mi si affiancò un cane, di media corporatura, di colore grigio e nero, un bastardo probabilmente, con due occhi grandi e scuri, che mi guardavano con curiosità e rispetto e mi chiedevano. “Ma dove vai così solo e con questo passo, tutto insciarpato e imbacuccato così, mica nevica?”. Io ricambiai lo sguardo e gli sussurrai qualche parola di benvenuto e camminammo insieme a lungo, senza dirci altro. Ogni tanto c’incontravamo con gli sguardi e continuavamo a camminare. Mi accompagnò fino al cancello di casa e qui si fermò, immobile, silenzioso, con lo sguardo triste in attesa di un mio invito ad entrare. Vuoi vedere che ho trovato un amico! Ortelio Vincenzini
381
INDICE DEGLI AUTORI POESIE SCUOLA PRIMARIA p.13 BACCAILLE NICOLO’ - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Il ritorno delle farfalle (3° classificato) p.15 BALESTRO LORENZO - San Vito in Monte (Terni) Scuola Primaria – Classe IV La mano è un regalo p.17 CACCIAMANO ANDREA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria - Classe IV La mano è un amore p.18 CAVALLETTI MARTA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe 1 Le mie stelle ( Menzione speciale ) p.16 CLASSE IV – SCUOLA PRIMARIA DI SAN VENANZO (Tr) Se io fossi p.19 CLASSE V - SCUOLA PRIMARIA DI FABRO (Tr) Raggio di sole ( 1° classificato) p.14 La gioia di vivere p.19 FARNESI ALESSANDRA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe 4° Cane cane buffo p.20 FATTORINI GIULIA – San Vito in monte (Terni) Scuola Primaria – Classe IV La mano è un amore p.18 Le dolcezze dell’ inverno p.21 FLOREA ANDREA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV La luna p.21 GIONTELLA CHIARA - Ripalvella (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Cane cane buffo p.20 La mamma p.22 I sogni p.22 Tutto tranne me p.23 382
GROTTO BENEDETTA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV La mano è un regalo p.17 LO GRASSO GIULIO - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Il camaleonte p.24 MARCHETTI CRISTINA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Le bellezze dell’ estate p.25 L’amore…….…. p.25 Ho guardato p.26 Il gatto p.26 MINCIOTTI MARTINA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V L’ amore p.24 OFFREDI SARA - Civitella dei Conti (Terni) Scuola Primaria – Classe V Sofferenza p.27 OLIMPIERI TOMMASO - Todi (Perugia) Scuola Primaria – Classe V A Saverio p.28 PAJAZITI FLUTURIE - Ripalvella (Terni) Scuola Primaria – Classe V AWATIF ( 2° classificato) p.14 PASQUINI EDOARDO – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV I delfini p.29 POPOVICY EDUARD JOSIF AUGUSTIN – San Venanzo (Tr) Scuola Primaria – Classe IV Le rondini p.29 RELLINI GIULIA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Il gatto p.26 ROMANO ALESSANDRA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Primavera p.30 383
ROSSETTI RAFFAELE - Poggio Aquilone (Terni) Scuola Primaria – Classe V Sentimenti p.31 SADRAOUI MORAD - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV I delfini p.29 SCIRI RICCARDO - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Il ritorno delle farfalle ( 3° classificato) p.15 SPACCINO ANDREA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Raffaele p.31 SPACCINO AURORA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV Il camaleonte p.24 TODINI MATTEO - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Tommy p.32 TROIANIELLO FEDERICO – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe IV La mano è un amore p.18 RACCONTI SCUOLA PRIMARIA p.33 CLASSE V - SCUOLA PRIMARIA DI FABRO (Tr) I bambini viziati p.42 LISTANTI LUCREZIA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Me lo riprendo p.44 MARCUS JON CONSTANTIN - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Il pirata Barbarossa p.45 MAZZOCCHINI LUDOVICA – Ripalvella (Terni) Scuola Primaria – Classe V Amicizia ( 3° classificato) p.41 PASQUINI ANDREA - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Sei grande nonno p.46 384
PASQUINI NICOLO’ – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Tigri del Bengala in tre D p.47 POSTI BENEDETTA – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V La panchina p.48 ROSSETTI AZZURRA - Poggio Aquilone (Terni) Scuola Primaria – Classe V Mia madre p.49 ROSSETTI GIADA - Poggio Aquilone (Terni) Scuola Primaria – Classe V Famiglia (2° classificato) p.40 SARNEI FILIPPO – San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Tornare a sorridere p.50 TISEI TOMMASO - San Venanzo (Terni) Scuola Primaria – Classe V Un amico molto speciale p.51 Viaggio nel tempo ( 1° classificato) p.34 POESIA SCUOLA SECONDARIA DI 1° GRADO p.52 ASSADI NOUHAILA - Deruta (Perugia) Terza media Inno alla vita p.55 BERNACCHIA GIULIA – Marsciano (Perugia) Seconda media Life p.55 CECI STEFANY – Ospedaletto – (Terni) Terza media Amica mia (3° classificato) p.54 MANZAROLI CATERINA - Ospedaletto- (Terni) Terza media Il mobile nell’ immobile p.56 OFFREDI SIMONE – Civitella dei Conti – (Terni) Terza media Se tu ( 2° classificato) p.53 La mia vita p.57 ROMANO CHIARA – San Venanzo (Terni) Terza media La solitudine (1° classificato) p.53
385
RACCONTI SCUOLA SECONDARIA DI 1° GRADO p.58 BERNACCHIA GIULIA - Marsciano (Perugia) Seconda media Tutti hanno il diritto di tutto p.68 BISCARINI IRENE - Fratta Todina (Perugia) Terza media Il settore sette p.69 BOLDRINI ELEONORA - Deruta ( Perugia) Seconda media Io e l’ amicizia ( 3° classificato) p.63 BRIZI TOMMASO – Marsciano (Perugia) Prima media Clave il Dio p.73 BULANCIA CATALINA - Papiano (Perugia) Prima media Il suo nome è Arcobaleno p.75 CARBONI ALESSANDRO – Fratta Todina (Perugia) Seconda media Viaggio nell’ impossibile p.76 CARLONI MATTIA – San Venanzo (Terni) Terza media Un amore eterno p.80 CAVALLETTI ALESSIA - San Venanzo (Terni) Terza media Lei p.81 CERQUAGLIA NAOMI - Marsciano (Perugia) Prima media Gioia e allegria p.82 CIALFI PIERLUIGI - San Venanzo (Terni) Terza media E’ dura p.83 CINQUE SIMONE - Ripalvella (Terni) Terza media Una lettera al novecento p.84 DEGLI ESPOSTI VANESSA – Marsciano (Perugia) Seconda media Le avventure di Charlotte e Katrine p.86 FAGIOLI FILIPPO – Marsciano (Perugia) Prima media Lo gnomo con la pentola d’oro p.90 FANNY TADDEO - Ilci - Todi (Perugia) Seconda media Da quel giorno cambiai per sempre p.92 GALLETTI FILIPPO – Rotecastello (Terni) Terza media L’ amico è p.95 GIGLIONI ELIA - Marsciano (Perugia ) Prima media Ninfa Arcobaleno p.96 HAMMAL YASMINE - Marsciano (Perugia) Prima media L’ arcobaleno p.98 ILYAS LHARCHAOVI – Fratta Todina (Perugia)Seconda media Alieni contro umani p.99 386
JACOB RAMONA – Migliano (Perugia) Prima media L’arcobaleno dell’Olimpo p.103 LISTANTI SOFIA - San Venanzo (Terni) Terza media La fabbrica p.105 LUCCONI MICHELE – Papiano – (Perugia) Prima media Il pesce miracoloso p.107 LUNA O NULLA GIULIA - Marsciano – (Perugia) Seconda media Io e l’ adolescenza p.109 MAGISTRATO MATTEO - San Marino – (Terni) Terza media Una famiglia che non muore p.111 MANGONI EDOARDO - Fratta Todina - (Perugia)Seconda media EARTH, la nostra Terra p.112 MARCHETTI CHIARA - San Venanzo (Terni) Seconda media ……Saverio per me….. ( 2° classificato) p.61 MASSETTI FRANCESCA - Fratta Todina (Perugia) Terza media Tutta colpa di MRS SMITH p.116 MAZZOCCHINI COSTANZA – Ripalvella – (Terni) Terza media Nicola e la sua mamma p.118 MONTINI ALESSANDRA - Montecastello di Vibio (Perugia) Prima media I folletti dell’ arcobaleno p.121 NULLI ANGELA - Migliano (Perugia ) Seconda media La tristezza è un diritto p.123 PALOMBA LUISA – Marsciano (Perugia) Seconda media Un amore lungo 14 ore p.124 PEZZANERA MARIACHIARA – Palazzetta- Marsciano (Pg) Prima media I fiori degli dei p.128 PIERDOMENICO FEDERICO - Papiano (Perugia) Prima media Il pappagallo di Luca p.129 RALLI MATTIA - Rotecastello - (Terni) Terza media La corsa alla gloria p.131 RELLINI AMEDEO - San Venanzo (Terni) Terza media Amicizia p.133 SPACCINO LUDOVICA – San Venanzo (Terni)Terza media Grado sette (1° classificato) p.59 387
TROVARELLI LUDOVICA – Marsciano (Perugia) Terza media Nella vita …….basta distrarsi un attimo…. p.135 URSINI LEONARDO – Montemolino – Marsciano (Pg) Prima media Uno strano ponte p.138 VLAD BILIBOU – Ospedaletto (Terni) Terza media Non voglio andar via p.140 POESIA SCUOLA SECONDARIA DI 2° GRADO p.141 ANTONINI VERONICA - Gualdo Cattaneo (Perugia ) 1° Liceo Linguistico A Saverio ( 3° classificato) p.145 BELLAVEGLIA GLORIA – Mugnano (Perugia) 2° Istituto Agrario Falena p.145 CAVALLETTI MATTEO - San Venanzo (Terni) 1° Mecc La faccenda p.147 FALINI LAURA - Marsciano (Perugia) 2° Liceo Scientifico Un amico p.147 FEDERICI FEDERICA - Todi ( Perugia) 4° Liceo linguistico Il sorriso p.148 Nello stellato cielo una luce brilla p.149 LATINI GIULIA - Collazione - (Perugia) 4° Liceo Linguistico A Saverio p.149 LISTA ANNA CARMELA -Montalbano Jonico (Matera) 1° Liceo pedagogico La mia opera di teatro ( 2° classificato) p.143 MANCINELLI GIULIA - Rosceto - (Perugia) 4° Liceo linguistico Siamo fatti di …… p.150 NATICCHIONI GABRIELE - Marsciano (Perugia) 5° Liceo scientifico Falena ( 1° classificato) p.142 ROMUALDI DEBORAH - Massa Martana (Perugia) 4° Liceo linguistico Solamente ciò che sei p.150 SBARRA SIMONE – Amelia (Terni) 1° Istituto Agrario La chiave d’oro p.151 L’ anima regalata p.151 Droga p.152 388
SETTIMI FEDERICO – Marsciano (Perugia) 3° Liceo pedagogico La luce è velocità e tempo p.152 L’universo speranza p.153 Il sé meritato p.153 RACCCONTI SCUOLA SECONDARIA DI 2° GRADO p.155 AMADIAZ SAMY - Corciano Perugia 1° Liceo Linguistico Da circa tre mesi p.184 BELLAVEGLIA GLORIA - Mugnano (Perugia) 2° Istituto Agrario Ciò che resta dopo un sogno (2° classificato) p.165 CASINI DEBORAH - Marsciano (Perugia) 4° Liceo linguistico La giusta ricetta per un buon amore e una buona amicizia p.188 GAMBONI NICOLO’ - Perugia 1° Liceo Linguistico La vera amicizia p.191 LAURIA GAIA - Tursi (Matera) 1° Liceo pedagogico La forza dell’amore supera ogni ostacolo p.192 MARIANI MARIA VITTORIA - Ripalvella (Terni) 4° Liceo linguistico La solitudine ai tempi di Facebook: Braccialetti rossi p.199 MAURIZI LUCIA - Pantalla (Perugia) 4° Liceo Linguistico “Avere tanti amici” e poi non avere nessuno con cui uscire p.201 MORGAN SARA – Passignano sul Trasimeno – (Perugia) 1° Liceo Linguistico Io sono con te….. p.204 NUGNES MARIA TERESA - Perugia 1° Liceo Linguistico L’amicizia oltre la vita e la morte p.209 QUINTILI ALICE - Passignano sul Trasimeno (Perugia) 1° Liceo Linguistico Buio e luce (3° classificato) p.176 ROSSI ANDREA - Sismano Avigliano Umbro (Terni) 4° Liceo linguistico Fotografia d’estate p.213 TADDEI MARTINA - Marconia di Pisticci (Matera) 1° Liceo pedagogico Il coraggio di andare avanti p.215 TIBERI FLAVIA - Fratta Todina (Perugia) 2° Liceo Linguistico Una vita sprecata p.226 389
VLAD ROXANA MARIANA - Montecastello di Vibio (Perugia) 2° Liceo Linguistico La battaglia ( 1° classificato) p.156 POESIA ADULTI p.231 BIANCHINI VERA - Castel Viscardo (Terni) Il giardino fiorito ( 2° classificato ) p.232 Scriviamo una poesia sui fiori Giochi di luce p.238 Giochi di luce p.239 BRUSCHINI DANIELA – Fiore di Todi (Perugia) Figlio mio p.240 CACIOTTO LUCA - Collelungo di San Venanzo (Terni) Gisto p.244 La formica (3° classificato) p.233 Un posto all’appomessa p.241 CAPPELLETTI SILVANO - Valenza (Alessandria) Gioventù p.245 Vola ancora p.246 Vieste p.246 CENTOMO BRUNO - Santorso (Vicenza) Frastuono di vele p.247 Scampolo di canzone p.248 Oltre il dito p.249 CIANCHETTI GIOVANNI - Grugliasco (Torino) L’attesa (1° classificato) p.232 Fratello p.249 Testamento p.250 CIRILLO ANTONIO - Barga (Lucca) La cometa p.251 La polenta p.253 Senil candore p.254 COLACRAI DAVIDE ROCCO - Terranova di Bracciolini (Arezzo) Il suono azzurro di una lacrima p.255 Teorema delle quattordici lune p.256 390
CONTE RAFFAELE - Frosinone Simbiosi (Menzione speciale) p.236 Pomeriggio d’agosto p.257 Acquerello impressionista p.259 CORRADINI TEODORO – San Venanzo (Terni) La nostra lira p.260 DEDIN JAKU - Marsciano (Perugia ) Ai miei desideri p.273 Nella differenza p.274 Hai tempo? p.276 FERROVECCHIO ANTONIETTA - Todi (Perugia) Lastricati p.261 Declivi p.262 Tarda ora p.263 FRINGUELLI LUCIO - Marsciano (Perugia) La pausa incerta p.263 L’esperienza del rimpianto p.266 Ode alla N. p.268 INDUSTRIA NUNZIO - Napoli Mamma p.270 L’abito nuovo p.272 A San Lorenzo p.271 MALTEMPI LENA - Falconara Marittima (Ancona) Le campane p.277 Il dolore non ha ali p.278 Se fossi edera p.279 MARCACCI GIORGIA - Collepepe (Perugia) Attori solitari p.279 NIGRO MILENA - Muro Lucano ( Potenza) Meteora p.280 PALANCA ORIETTA – Falconara Marittima (Ancona) Casa p.281 Lo straniero p.281 Il tramonto p.282 PESCATORI RICCARDO – Morrano di Orvieto (Terni) La rosa p.282 391
Abbraccio p.284 L’infanzia p.285 PRIORELLI VALENTINA - Santa Maria Rossa (Perugia) Questo io necessita, necessariamente di un tu p.282 SCOTTI ALFREDO – Falconara Marittima (Ancona) L’autobus p.289 Così vicini …così lontani p.289 Mi dirai tutto di te p.290 SCOTTI GIUSEPPINA - Grosseto Gorgo p.291 Autunno p.291 Incertezza p.292 VANNONI ELVIRA - Deruta (Perugia) Un cuore metallico p.293 Animo giovane p.294 VICO MASSIMO - Ancona C’è un mondo da capovolgere p.295 E’ venuto il giardiniere p.295 Al bar di quartiere p.294 RACCONTI ADULTI p.297 ALESSANDRI ANTONIO – Prepo (Perugia) Alla ricerca della felicità p.319 BIANCHINI VERA - Castel Viscardo (Terni) La coda alla vaccinara p.320 BRUNO LILIANA - Castellaneta (Taranto) Il piccolo sognatore p.324 CECI PATRIZIA - Ospedaletto di San Venanzo (Terni) La prigione di Maria p.327 Le rondini p.328 La cinciallegra p.330 CIANCHETTI GIOVANNI - Grugliasco (Torino) Aurora e il suo mondo p.331 Dentro il cassetto: i ricordi p.333 Il grande ulivo p.337 392
CORRADINI TEODORO - San Venanzo (Terni) La nostra lira: un ricordo per tutti gli Italiani p.341 FIDONE ILARIA - Venezia Tocca a me (1° classificato) p.298 FIORI ALBA – Manduria (Taranto) Innamorata dell’ amore p.343 Prima esperienza : 1955- 1956 p.345 GIOVANNELLI DONATELLA - Deruta (Perugia) Ossessione del due p.342 GOTTA FABRIZIO – Valenza (Alessandria) La terra di mezzo (3° classificato) p.312 INDUSTRIA NUNZIO – Napoli La strada di casa p.354 MENCACCI FRANCESCO - San Venanzo (Terni) In ricordo del nostro Sav. p.363 MENICONI JACOPO - San Venanzo (Terni) Tocca a me ( 1° classificato) p.298 PALANCA ORIETTA – Falconara Marittima (Ancona) Quella s…… a della befana p.362 PAMBIANCO ALESSANDRO – San Venanzo (Terni) In ricordo del nostro Sav. p.363 RIPICCINI MARIA - Marsciano (Perugia) Memorie di casa mia . Il giorno del pane p.364 SARGENTINI ALESSIO – San Venanzo (Terni) In ricordo del nostro Sav. p.363 SCOTTI ALFREDO – Falconara Marittima (Ancona) La solitudine p.367 L’ aquilone ( 2° classificato) p.306 Il grattacielo p.373 STULTZ SOLARI ANITA - San Venanzo (Terni) Riflessioni p.374 VINCENZINI ORTELIO - Perugia Gli sguardi dei giovani e quelli dei vecchi p.376 La rimpatriata p.379 Un cane……amico p.381
393
INDICE ALFABETICO DEGLI AUTORI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34.
ALESSANDRI ANTONIO – Prepo (Perugia) AMADIAZE SAMY - Corciano (Perugia) ANTONINI VERONICA – Gualdo Cattaneo (Perugia) ASSADI NOUHAILA – Deruta (Perugia) BACCAILLE NICOLO’ - San Venanzo (Terni) BALESTRO LORENZO – San Venanzo (Terni) BELLAVEGLIA GLORIA - Mugnano (Perugia) BERNACCHIA GIULIA - Marsciano (Perugia) BIANCHINI VERA - Castel Viscardo (Terni) BISCARINI IRENE - Fratta Todina (Perugia) BOLDRINI ELEONORA - Deruta ( Perugia) BRIZI TOMMASO – Marsciano (Perugia) BRUNO LILIANA - Castellaneta (Taranto) BRUSCHINI DANIELA – Fiore di Todi (Perugia) BULANCIA CATALINA - Papiano (Perugia) CACCIAMANO ANDREA – San Venanzo (Terni) CACIOTTO LUCA - Collelungo di San Venanzo (Terni) CAPPELLETTI SILVANO - Valenza (Alessandria) CARBONI ALESSANDRO – Fratta Todina (Perugia) CARLONI MATTIA – San Venanzo (Terni) CASINI DEBORAH - Marsciano (Perugia) CAVALLETTI MATTEO - San Venanzo (Terni) CAVALLETTI MARTA - San Venanzo (Terni) CAVALLETTI ALESSIA - San Venanzo (Terni) CECI PATRIZIA - Ospedaletto di San Venanzo (Terni) CECI STEFANY – Ospedaletto – (Terni) CENTOMO BRUNO - Santorso (Vicenza) CERQUAGLIA NAOMI - Marsciano (Perugia) CIALFI PIERLUIGI - San Venanzo (Terni) CIANCHETTI GIOVANNI - Grugliasco (Torino) CINQUE SIMONE - Ripalvella (Terni) CIRILLO ANTONIO - Barga (Lucca) CLASSE IV – Scuola Primaria di San Venanzo (Tr) CLASSE V - SCUOLA PRIMARIA DI FABRO (Tr) 394
35. COLACRAI DAVIDE ROCCO - Terranova di Bracciolini (Arezzo) 36. CONTE RAFFAELE - Frosinone 37. CORRADINI TEODORO - San Venanzo (Terni) 38. DEDIN JAKU - Marsciano (Perugia ) 39. DEGLI ESPOSTI VANESSA – Marsciano (Perugia) 40. FAGIOLI FILIPPO – Marsciano (Perugia) 41. FALINI LAURA - Marsciano (Perugia) 42. FANNY TADDEO - Ilci - Todi (Perugia) 43. FARNESI ALESSANDRA – San Venanzo (Terni) 44. FATTORINI GIULIA – San Vito in monte (Terni) 45. FEDERICI FEDERICA - Todi ( Perugia) 46. FERROVECCHIO ANTONIETTA - Todi (Perugia) 47. FIDONE ILARIA - Venezia 48. FIORI ALBA – Manduria (Taranto) 49. FLOREA ANDREA - San Venanzo (Terni) 50. FRINGUELLI LUCIO - Marsciano (Perugia) 51. GALLETTI FILIPPO – Rotecastello (Terni) 52. GAMBONI NICOLO’ - Perugia 53. GIGLIONI ELIA - Marsciano (Perugia ) 54. GIONTELLA CHIARA - San Venanzo (Terni) 55. GIOVANNELLI DONATELLA - Deruta (Perugia) 56. GOTTA FABRIZIO – Valenza (Alessandria) 57. GROTTO BENEDETTA - San Venanzo (Terni) 58. HAMMAL YASMINE - Marsciano (Perugia) 59. ILYAS LHARCHAOVI – Fratta Todina (Perugia) 60. INDUSTRIA NUNZIO - Napoli 61. JACOB RAMONA – Migliano (Perugia) 62. LATINI GIULIA - Collazzone - (Perugia) 63. LAURIA GAIA - Tursi (Matera) 64. LISTA ANNA CARMELA -Montalbano Jonico (Matera) 65. LISTANTI LUCREZIA - San Venanzo (Terni) 66. LISTANTI SOFIA - San Venanzo (Terni) 67. LO GRASSO GIULIO - San Venanzo (Terni) 68. LUCCONI MICHELE – Papiano – (Perugia) 69. LUNA O NULLA GIULIA - Marsciano – (Perugia) 395
70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104.
MAGISTRATO MATTEO - San Marino – (Terni) MALTEMPI LENA - Falconara Marittima (Ancona) MANCINELLI GIULIA - Rosceto - (Perugia) MANGONI EDOARDO - Fratta Todina - (Perugia) MANZAROLI CATERINA - Ospedaletto- (Terni) MARCACCI GIORGIA - Collepepe (Perugia) MARCHETTI CHIARA - San Venanzo (Terni) MARCHETTI CRISTINA – San Venanzo (Terni) MARCUS JON CONSTANTIN - San Venanzo (Terni) MARIANI MARIA VITTORIA - Ripalvella (Terni) MASSETTI FRANCESCA - Fratta Todina (Perugia) MAURIZI LUCIA - Pantalla (Perugia) MAZZOCCHINI COSTANZA – Ripalvella – (Terni) MAZZOCCHINI LUDOVICA – San Venanzo (Terni) MENCACCI FRANCESCO - San Venanzo (Terni) MENICONI JACOPO - San Venanzo (Terni) MINCIOTTI MARTINA - San Venanzo (Terni) MONTINI ALESSANDRA - Montecastello di Vibio (Pg) MORGAN SARA – Passignano sul Trasimeno (Pg) NATICCHIONI GABRIELE - Marsciano (Perugia) NIGRO MILENA - Muro Lucano ( Potenza) NUGNES MARIA TERESA - Perugia NULLI ANGELA - Migliano (Perugia ) OFFREDI SARA - Civitella dei Conti (Terni) OFFREDI SIMONE – Civitella dei Conti – (Terni) OLIMPIERI TOMMASO - Todi (Perugia) PAJAZITI FLUTURIE - Ripalvella (Terni) PALANCA ORIETTA – Falconara Marittima (Ancona) PALOMBA LUISA – Marsciano (Perugia) PAMBIANCO ALESSANDRO – San Venanzo (Terni) PASQUINI ANDREA - San Venanzo (Terni) PASQUINI NICOLO’ – San Venanzo (Terni) PASQUINI EDOARDO – San Venanzo (Terni) PESCATORI RICCARDO – Morrano di Orvieto (Terni) PEZZANERA MARIACHIARA – PalazzettaMarsciano (Pg) 396
105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. 136. 137. 138. 139. 140.
PIERDOMENICO FEDERICO - Papiano (Perugia) POPOVICY EDUARD JOSIF AUGUSTIN – San Venanzo (Tr) POSTI BENEDETTA – San Venanzo (Terni) PRIORELLI VALENTINA - Santa Maria Rossa (Perugia) QUINTILI ALICE - Passignano sul Trasimeno (Perugia) RALLI MATTIA - Rotecastello - (Terni) RELLINI AMEDEO - San Venanzo (Terni) RELLINI GIULIA - San Venanzo (Terni) RIPICCINI MARIA – Marsciano (Perugia) ROMANO ALESSANDRA – San Venanzo (Terni) ROMANO CHIARA – San Venanzo (Terni) ROMUALDI DEBORAH - Massa Martana (Perugia) ROSSETTI AZZURRA - Poggio Aquilone (Terni) ROSSETTI GIADA - Poggio Aquilone (Terni) ROSSETTI RAFFAELE - Poggio Aquilone (Terni) ROSSI ANDREA - Sismano Avigliano Umbro (Terni) SADRAOUI MORAD - San Venanzo (Terni) SARGENTINI ALESSIO – San Venanzo (Terni) SARNEI FILIPPO – San Venanzo (Terni) SBARRA SIMONE – Amelia (Terni) SCIRI RICCARDO - San Venanzo (Terni) SCOTTI ALFREDO – Falconara Marittima (Ancona) SCOTTI GIUSEPPINA - Grosseto SETTIMI FEDERICO – Marsciano (Perugia) SPACCINO LUDOVICA – San Venanzo (Terni) SPACCINO ANDREA – San Venanzo (Terni) SPACCINO AURORA – San Venanzo (Terni) STULTZ SOLARI ANITA - San Venanzo (Terni) TADDEI MARTINA - Marconia di Pisticci (Matera) TIBERI FLAVIA - Fratta Todina (Perugia) TISEI TOMMASO - San Venanzo (Terni) TODINI MATTEO - San Venanzo (Terni) TROIANIELLO FEDERICO – San Venanzo (Terni) TROVARELLI LUDOVICA – Marsciano (Perugia) URSINI LEONARDO – Montemolino – Marsciano (Pg) VANNONI ELVIRA - Deruta (Perugia) 397
141. 142. 143. 144.
VICO MASSIMO - Ancona VINCENZINI ORTELIO - Perugia VLAD BILIBOU â&#x20AC;&#x201C; Ospedaletto (Terni) VLAD ROXANA MARIANA - Montecastello di Vibio (Pg)
398
Municipio di San Venanzo