Associazione Spazio Bianco
DIETRO LE QUINTE Testimonianze di vita di persone HIV+
Quaderni del volontariato sociale CESVOL PERUGIA EDITORE 2018
Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni
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Quaderni del volontariato 13
Edizione 2018
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net
Edizione dicembre 2018 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide
tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata ISBN 9788896649824
Le parole che trasformano Con la collana “I Quaderni del Volontariato”, giunta alla sua undicesima edizione, il Cesvol con ben 116 titoli, concretizza una delle proprie finalità istituzionali, che rimane quella di promuovere la cultura del volontariato, della solidarietà e della cittadinanza attiva. Si tratta di testimonianze e di esperienze di vita che possono contribuire a tessere un filo di coesione e di dialogo positivo, contaminando il nostro immaginario collettivo con messaggi valoriali ed equilibrati, in perfetta controtendenza rispetto al flusso, ormai pervasivo, di contenuti volgari ed, in molti casi, violenti ed aggressivi di cui è piena la contemporaneità con le sue “vie brevi” di comunicazione (come i social). Se consideriamo la nostra mente come un bicchiere, sarebbe da chiedersi di quale liquido si riempia quotidianamente. Se la nostra rappresentazione della realtà viene costruita dai programmi televisivi, se il nostro punto di vista su un tema specifico viene condizionato dai commenti della maggioranza dei nostri amici di facebook, se abbiamo appreso tutti la facilità con la quale è possibile trattar male una persona, mascherati e non identificabili, senza che questo produca qualche tipo di turbamento alla nostra condizione psicologica, se nel postare i nostri punti di vista ci consideriamo degli innovatori solo perché siamo ignoranti e tutto quello che sappiamo lo abbiamo ricavato da ricerche lampo su Google… ebbene, se riflettiamo su tutto questo, forse non va ricercata molto lontano la risposta alla domanda ormai cronica del perché di una polverizzazione delle relazioni, di un isolazionismo nelle nostre “case elettroniche”, dell’adesione acritica ai vari estremismi di turno che, quelli sì, sono perfettamente consapevoli del potere trasformativo della parola e della sua comprensione sia razionale che emozionale. Eppure, le parole (e quindi i pensieri e le emozioni che vi sottendono) creano la realtà. Non occorre scomodare tanta letteratura per
comprendere quanto i pensieri siano potenti nel determinare la nostra realtà, nel convincerci che una cosa è in questo modo piuttosto che in quell’altro. Lo abbiamo sperimentato più o meno tutti nella nostra esperienza di ogni giorno, ma poi perdiamo la consapevolezza della nostra stessa origine: “All’inizio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio. Il verbo era Dio”. Più laicamente, questa “sequenza” è stata ripresa in tutte le millenarie tradizioni sia orientali che più vicine a noi. Ma ancora una volta, oggi se ne è persa la consapevolezza. La parola è un “fattore” unico nel suo genere, una vera e propria bacchetta magica. Ascoltare, leggere, udire solo parole negative produce nel destinatario un vero e proprio campo energetico negativo. L’energia altro non è se non un trasferimento di informazioni. Un trasferimento che avviene attraverso il filo sottile della comunicazione. Oggi, forse inconsapevolmente, l’umanità sta letteralmente usando il potere della parola senza rendersi conto di quanto questa stia trasformandola, conducendola agli estremi di qualsiasi punto di vista. E, quindi, l’un contro l’altro armati. Dice il noto psichiatra Vittorino Andreoli, “Ci troviamo ad un livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”, ma a noi, come osservatorio della sottile realtà dell’associazionismo e del volontariato, piace conservare e consolidare la speranza che, ad un certo punto, rispuntino da qualche parte parole come amicizia, solidarietà, condivisione e, perché no, amore. Le parole, non urlate, che appartengono e che ispirano il comportamento di quella parte di cittadinanza che ha preso in carico la sua quota di responsabilità nella società che abita. E che non resta alla finestra, o peggio, dietro al rassicurante schermo di un computer. Sono queste le parole che popolano il piccolo mondo della Collana del Volontariato, che con queste testimonianze prova a riempire con il liquido magico della parola trasformante quel bicchiere ancora mezzo vuoto. Salvatore Fabrizio Cesvol Perugia I Quaderni del Volontariato
DIETRO LE QUINTE Testimonianze di vita di persone HIV+
Associazione Spazio Bianco
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Dietro le quinte
Alla Psicologa Mafalda Rossi che ci ha ascoltato e sostenuto con grandissima professionalità e amore fino all’ultimo giorno della sua vita
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Dietro le quinte INDICE Presentazione p. 11 I.
Io e lui, contro di lui, con lui: l’indesiderata convivenza p.15
II. Io sono positivo, perché son vivo, perché son vivo p.22 III. Succede a tutti, anche a quelli che si credono invincibili p.24 IV. Per un attimo di piacere mi sono giocata la vita p.28
V. Coincidenze p.31 VI. Da quella notte di gennaio si personificò la dea discriminazione… p.36 VII. Piccola rapsodia della contaminazione
p.41
VIII. Positivamente p.47 IX. Confessioni di un malandrino
p.53
X. Io non me lo aspettavo
p.62
XI. Dieci anni, un mese e pochi giorni
p.67
XII. Sono grato p.69 XIII. Ho incontrato l’HIV nel 1985 e si chiamava LAS p.72 XIV. Cambia. Molto è cambiato da quel giorno
p.75
XV. Intervista n. 1 p.77 XVI. Intervista n. 2 p.92 Breve storia dell’associazione Spazio Bianco p.96 Progetto fotografico OLTRE 9
p.99
Dietro le quinte
Presentazione L’idea di raccogliere i racconti della vita delle persone affette da HIV+ è maturata qualche anno fa prendendo spunto da un’inchiesta giornalistica che evidenziava come nei siti Web di incontro molti giovani cercassero rapporti non protetti con persone HIV+ nella speranza di infettarsi e non dover così più usare il preservativo. L’utilizzo di questo era considerata una pratica molto più fastidiosa che assumere una compressa al giorno forse per tutta la vita. Acquisire questo spaccato di realtà ci ha fatto sentire subito parte in causa nell’urgenza di far comprendere «al mondo» che la condizione di sieropositività non si riduce purtroppo a una pasticca.Volevamo comunque rappresentare da tempo il «dietro le quinte» della vita delle persone HIV+ perché il tema della discriminazione e del disagio ci è caro quanto quello della prevenzione e abbiamo ritenuto che, alla luce dei fatti, il racconto della convivenza con il virus dell’HIV avrebbe assolto un duplice compito: preventivo, per tutti coloro che con leggerezza e superficialità non ricorrevano alla prevenzione; informativo, in quanto illuminante della vita di persone che come pazienti non hanno volto e non hanno voce perché ancora oggi, a più di trenta anni dalla scoperta del virus, la paura di essere identificati è ancora elevatissima e gli episodi di discriminazione frequenti dal momento che in molti ancora ignorano le modalità di trasmissione del virus. Raccogliere queste testimonianze non è stato facile e ha richiesto tempo perché, come credo sia facile da comprendere, il ricordare, rievocare e focalizzare momenti 11
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di profondo disagio della propria vita e consegnarli anonimamente «al mondo», anche se per una nobile finalità, non è facile. Le persone che hanno accettato di scrivere sono una piccolissima minoranza rispetto a tutte quelle cui è stato domandato. Alcuni, pochi, hanno preferito essere intervistati. Abbiamo chiesto di buttare giù, «di pancia», quello che era stata per loro l’esperienza della sieropositività, al fine di far capire come il virus sia trasversale rispetto a qualsiasi appartenenza di rango, censo, cultura, sesso, identità sessuale e razza. I racconti rispecchiano la varietà dell’appartenenza degli autori. Gli scritti hanno tutti in comune il racconto della sofferenza ma anche la testimonianza di un equilibrio trovato nel tempo, equilibrio che auspichiamo possano raggiungere le persone HIV+ che ancora oggi non riescono a elaborare e ad accettare la condizione di sieropositività e il dolore che ne consegue. Ringrazio sentitamente tutti coloro i quali hanno accettato di partecipare alla realizzazione di questo volume ed il Cesvol che ci ha permesso di realizzarlo. Ci auguriamo possa aiutare a crescere rispetto alle proprie scelte e a comprendere e rispettare la condizione delle persone sieropositive. Un particolare ringraziamento al fotografo Mario Lucio D’Arrigo per la sensibilità dimostrata nei confronti dell’associazione proponendoci e regalandoci il progetto fotografico OLTRE del quale troverete alcune immagini nelle ultime pagine del libro. Il progetto fotografico affronta il problema della discriminazione focalizzando la 12
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barriera emotiva che c’è nei confronti delle persone HIV+. Le foto ritraggono i volontari di Spazio Bianco dietro un vetro, la barriera fisica che simboleggia quella emotiva tra sani e malati. Questa serie di scatti d’autore sono destinati a produrre un dibattito costruttivo nelle scuole e ovunque decideremo di portarli per sensibilizzare in merito al delicato problema della discriminazione. Titina Ciccone Presidente dell’Associazione Spazio Bianco
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I Io e lui, contro di lui, con lui: l’indesiderata convivenza Che fosse insieme a me da lungo tempo – molti anni, mi avrebbero detto alcune settimane dopo la scoperta – dovetti accorgermi in un momento, come tanti altri della vita, caratterizzato da alti e bassi. La sera del 27 gennaio 2005, nel corso di una riunione di lavoro, all’improvviso mi sentii venire meno e feci appena in tempo a uscire dalla stanza che caddi svenuto sul corridoio. Trasportato in ambulanza all’ospedale, fui lì trattenuto un paio d’ore; i medici dissero che ignoravano le ragioni di quanto mi fosse successo e di come quel febbrone a 40°, arrivato tanto rapidamente da determinare lo svenimento, fosse subito passato. Sul foglio di dimissione dal Pronto Soccorso di Perugia scrissero che si trattava di una crisi lipotimica dovuta a sindrome influenzale. Consigliato di recarmi l’indomani dal mio medico per le analisi del caso e l’eventuale, opportuna terapia, chiamai un amico che venne a prendermi e tornai a casa. Da un po’ di tempo in effetti non stavo bene: una febbricola e una candida alla bocca mi tormentavano da settimane. Non riuscendo a debellarle con non ricordo quali farmaci, il dottore disse che avrei dovuto fare prima le analisi del sangue e delle urine, poi una visita da un bravo otorino di sua conoscenza. Quest’ultimo senza tanti preamboli, data una rapida occhiata alla bocca, mi chiese se avessi «abitudini birichine», ovvero comportamenti sessuali a rischio; sorridendo, risposi subito «sì». Il 18 febbraio, dietro suo consiglio, feci analisi più approfondite in una clinica privata. 15
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Pochi giorni dopo, consegnandomi imbarazzato i risultati, un medico disse che era opportuno procedere a ulteriori e più specifici accertamenti a Malattie infettive, aggiungendo con atteggiamento mirante, invano, a tranquillizzarmi: «È probabile che lei abbia contratto l’HIV». La certezza l’ebbi il 23 dello stesso mese, quando un’infettivologa mi disse, senza mezzi termini, in un modo da me percepito come brutale, che avevo l’AIDS conclamato e in stato avanzato (27 CD4), e mi restavano 2-3 mesi di vita, considerando che sul braccio sinistro era apparsa una macchia identificabile a occhio nudo come sarcoma di Kaposi. All’inizio rimasi stupito dalla schiettezza e dall’impassibilità della dottoressa, ma con il senno di poi, considerando che svolgere la sua professione con troppa empatia fosse logorante, reputai quel comportamento una sorta di autodifesa da assumere nei tanti casi, più o meno gravi, cui doveva assistere ogni giorno. Di lì a poco, oltre al primo sarcoma, subito asportato e analizzato, ne comparve un altro sul palato, che sparì da solo alcune settimane dopo. Preso atto della situazione tutt’altro che rosea prospettatami, iniziai la terapia retrovirale che modificò gradualmente, in senso positivo, le mie condizioni. «Non sei ancora morto! Abbi fiducia!» mi disse qualche giorno dopo la diagnosi mia madre, provando a farmi coraggio, o forse cercando di far coraggio a se stessa. Fin dall’inizio l’avevo informata degli accertamenti in corso e quando seppi con certezza quanto dovevo sapere, e la misi al corrente della mia grave condizione patologica, lei cercò, come mia sorella, non di tranquillizzarmi, bensì di confortarmi. «Le terapie per combattere l’AIDS», dicevano, «hanno fatto progressi, e altri ne faranno… quindi cerca di 16
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tenere duro e non abbatterti!». La scelta di metterle subito al corrente di quello che mi stava accadendo – ma non di quanto mi era stato detto circa il poco tempo che mi restava da vivere – la presi considerando che non avrei sopportato una graduale confessione, cui sarebbero seguite inevitabili domande. Non intendevo, allora come oggi, fare outing e alle più o meno discrete richieste circa le cause del contagio alzavo le spalle, facendo intendere che le ignorassi, o fingevo di non sentire e conseguentemente non rispondevo. Ormai lui era con me, dentro di me! Per pragmatismo accettai la realtà, un po’ preoccupato ma, visto che ero quasi con un piede nella fossa, senza grosse difficoltà anche grazie agli scarsi effetti collaterali del Combivir e del Kaletra…, e sperando. Se avevo toccato il fondo, senza essere ancora morto, non potevo far altro che risalire: non avevo scelta! Il cammino sarebbe stato certamente lungo e duro, ma chissà!... Ero, e sono, uno che ha sempre avuto fiducia nelle medicine. Cercai di continuare a vivere come fino a qualche settimana prima della sgradita scoperta di cui informai una mia amica e i miei ultimi due partner. Ciò che invece nei primi mesi mi abbatté psicologicamente fu il fatto che il mio amico-amante del momento, di 12 anni più giovane – quello che la sera del 27 gennaio mi aveva riaccompagnato a casa dal Pronto soccorso, e che da tempo frequentavo con un rapporto spesso conflittuale dovuto alla diversità di carattere e non solo – aveva dovuto prendere atto, insieme a me, della sua condizione di sieropositivo asintomatico (29 CD4). Fui io, dalla clinica di Malattie infettive la mattina del 23 febbraio, a 17
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comunicarglielo telefonicamente, facendolo scoppiare in un pianto a stento controllato. Mi sentii responsabile, cercai di fargli coraggio e stargli vicino; cosa che feci anche perché i medici, rispondendo a una mia persistente domanda, dissero che ero stato molto probabilmente io a contagiarlo, e non viceversa. A distanza di anni gli stessi avrebbero poi sostenuto come non fosse possibile stabilire chi dei due avesse contratto prima il virus trasmettendolo all’altro. A parte questo, l’accaduto consolidò il rapporto, di recente allentatosi, con il mio amico che vedevo psicologicamente più fragile di me. Nei suoi confronti accentuai un atteggiamento paterno e protettivo, non sempre gradito a lui, che, devo dire, non mi ha mai attribuito la colpa di averlo contagiato. Continuammo a vivere la nostra storia, condividendone i momenti più o meno belli, anche dal punto di vista della salute. Affrontammo insieme Lue ed Epatite A, sostenendoci reciprocamente e talvolta ironizzando sul fatto che non ci fossimo fatti mancare niente. Vivevamo, ognuno a casa sua, con le periodiche nevrosi caratterizzanti tutti i rapporti, aggravate da una notevole differenza di temperamento. Dopo un po’ di tempo, superato lo shock della scoperta, riprendemmo le più o meno frequenti scappatelle, fatte sempre insieme, che io sappia, col terzo o col quarto: avventure sessuali da me vissute in modo goliardico e attento a impedire che nessuno scalfisse la solidità del complice, pluriennale, rapporto. Nel momento in cui egli prese una sbandata per un altro, episodio durato poco e dall’esito negativo, e me la confessò, la relazione che ci aveva visto condividere per oltre 10 anni 18
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avventure e disavventure finì tra litigi e accuse a non finire da parte sua nei miei confronti: io volevo scopare sempre, io ero ossessionato dal sesso, io guardavo tutti e tutti me li volevo fare. Certamente vanitoso, godevo nel catturare l’attenzione degli altri, la cosa mi gratificava molto. Il mio atteggiamento, disse, aveva spinto lui, gelosissimo per sua stessa ammissione, a guardare altrove…, a mettere in atto una vendetta spesso promessa, forse meditata, mai però consumata prima. Tutte giuste le sue accuse in un certo senso, ma è un fatto che io non ho mai preso sbandate per nessuno e quel che ho fatto è stato sempre alla luce del sole, in sua presenza, con la sua compiaciuta complicità; mai alle spalle. Malgrado i suoi tentativi di tornare indietro, di riprovarci ancora, considerando quanto avevamo condiviso nel bene e nel male, e di un affetto profondo che comunque continuava a legarci, rifiutai di rimettermi con lui. Rimasto tremendamente deluso dal tradimento, amareggiato e incazzato con il mondo, conosciuta poco tempo dopo un’altra persona, ancor più giovane – «ll prossimo sarà un diciottenne! Ti farà da badante!», disse lui tra uno sfottò e l’altro – non volli raccogliere e riattaccare i cocci di un vaso che pure era stato bello, ma a questo punto risultava irrimediabilmente rotto, nonostante tutto quello che ci accomunava, a cominciare dalla sieropositività. Quel rapporto era ormai storicizzato e archiviato: tale doveva rimanere per evitare che in futuro si ripresentassero situazioni analoghe. Malgrado gli stessi problemi, il virus, la distanza, sono ormai due anni che vivo questa nuova storia, un bel risultato 19
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per uno che, come me, vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. Con il mio attuale amico non ho avuto nessuna difficoltà a rivelarmi appieno. È vero che il giorno in cui lo incontrai – ero al mare arrabbiato e depresso – e avemmo il primo rapporto, egoisticamente e sbagliando, non gli dissi niente: ero sieropositivo sotto soglia e non sapevo se lo avrei rivisto… Poi, però, provando un’istintiva stima e attrazione nei suoi confronti, volli informarlo su chi fossi e del mio passato; cosa che feci con un certo timore e al contempo con soddisfazione. A lui spettava decidere: «Con me, oppure arrivederci e grazie!». È andata bene… Con il virus la convivenza è diventata un’abitudine, come all’inizio la lotta contro di esso; so che c’è, è lì e spero rimanga tranquillo a dormire. Lo tengo sotto controllo con l’aiuto dei medici di Malattie infettive di Perugia, a uno dei quali in particolare, Claudio Sfara, vanno, senza niente togliere agli altri, la mia stima e la mia gratitudine. Ho avuto inoltre la grande fortuna di conoscere e avvalermi del supporto psicologico, e non solo, di Spazio Bianco e dell’infaticabile Titina Ciccone, che mi è stata vicina nei momenti più difficili rivelandosi una vera amica. Agli occhi delle persone che mi circondano e con le quali per ragioni di lavoro mi rapporto, scoppio di salute e non presento problemi, ma loro non sanno... Il loro giudizio si basa sulle apparenze; d’altra parte la vita è uno spettacolo teatrale in cui ognuno recita la sua parte: non sai mai chi ci sia dietro la maschera. Anche io, qualche volta, mi sento più sano dei sani, ma so che ancora, e chissà fino a quando, dovrò convivere con lui, quell’HIV che sono convinto – «ingenuamente», direte voi – di aver preso dal dentista e non per via sessuale. 20
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Questa è la mia storia. Penso all’HIV come a una parte di me, qualcosa che mi ha fatto capire diversi lati del mio essere e del mio carattere che prima ignoravo. Nonostante tutto, posso dire che nella sfortuna mi sento comunque favorito dalla sorte: sono passato dalla condizione iniziale di malato, terminale o quasi, di AIDS, a quella di sieropositivo sotto soglia. La ricerca ha reso la Sindrome da immunodeficienza acquisita una realtà con cui è possibile convivere, almeno nella parte più ricca del pianeta, mentre ho visto tanta gente lottare contro muri di gomma e soffrire fino alla pazzia. Esistono mali che ti lacerano lentamente, pezzo per pezzo, finché di te rimane solo un ricordo, che ti tolgono dignità, forza e il desiderio di un domani. Esistono ma, ringraziando il destino, non è il mio caso.
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II Io sono positivo, perché son vivo, perché son vivo Venuto il dubbio, no? In effetti era «penso» e non «sono». Lorenzo cantava giusto: pensare positivo era l’invito. Che senso avrebbe avuto «sono positivo»? Nessuno. A maggior ragione non avrebbe avuto senso «sono positivo, perché son vivo». O meglio, forse non avrebbe avuto senso detto da lui, mentre affermato da me che invece «sono positivo» un senso ce l’avrebbe avuto, ma non l’ho scritto. Scriverò qualcosa che tenterà di mettere in relazione «positività» e «vita», ma non aspettatevi troppo perché non sono un «ragazzo fortunato». Eh, no, non sono un «ragazzo fortunato» e neanche un ragazzo. Sette anni fa mi hanno detto che il mio biglietto era stato estratto sulla Ruota del reparto Malattie infettive di Perugia. Quando andai a ritirare il premio fui accolto dai sorrisi di circostanza dei miei futuri angeli custodi in rigoroso verde operatorio. Non ero pronto per quel premio, non avevo preparato nessun discorso di ringraziamento e anche la statuetta d’oro l’avevano frantumata in pasticche di diverso colore da prendere ogni giorno. Ma che strane queste nuove abitudini! Poi mi hanno anche detto che non c’era bisogno di comprare altri biglietti: questo premio si poteva vincere una volta sola, ma, per fortuna, era per sempre. E adesso?... Stop, tornate indietro alle due parole che ho appena scritto «E adesso?». Ora aggiungete un lunghissimo 22
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silenzio, di più, molto più lungo. Ma lungo, lungo, lungo. Fatto? Ecco, dovreste sentire chiaramente un suono. Proprio quello. È il suono del vuoto! Non andate avanti a leggere, tornate e fissate le parole «È il suono del vuoto!». Vi disturba un po’? Di solito fa questo effetto, ma se siete di quelli che pensano «se l’ha presa, se l’è cercata» questo disturbo svanisce presto. Non preoccupatevi. Ho bisogno di una pausa: a me questo suono disturba ancora molto. Eravamo, eravamo…sì a sette anni fa, il vuoto e i miei angeli. Ma per fortuna ci sono gli artisti e i poeti che mi vengono incontro con generosità: «Sono… un uomo in cerca di se stesso. No, cosa sono adesso non lo so. Sono solo, solo il suono del mio passo». Come vorrei aver scritto io queste parole! Ogni volta c’è qualcuno che mi anticipa. Vabbè, stavolta mi tocca perdonare la PFM. Forse dovrei chiudere con uno slancio di speranza, di ottimismo. Ma come faccio? Aiutatemi, aiutiamoci!
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III Succede a tutti, anche a quelli che si credono invincibili Premetto che sono un uomo adulto, affermato in campo professionale, abbastanza ricercato, mai esageratamente raffinato. Sono benestante, ho sempre frequentato uomini più giovani e belli non solo dal punto di vista estetico; adesso ho una pseudo relazione amorosa/sessuale con un giovane di 36 anni, bellissimo, da prima pagina di giornale di fitness. Io sono sieropositivo..., mentre lui è negativo. Dieci anni sono passati da quando una composta dottoressa mi comunicò che stavo in fase di sieroconversione e che quindi ero entrato a pieno titolo nel club non proprio esclusivo di HIV+. Scenari apocalittici mi stravolsero la mente nel ricevere questo verdetto. Vacillai al punto che si rese necessario un intervento di natura psichiatrica, oltre a un’assistenza psicologica assicuratami gratuitamente da Spazio Bianco: un efficace sostegno, quest’ultimo, che oggi purtroppo senza contributi pubblici non può più essere offerto ai nuovi sieropositivi. L’impatto fu tremendo come non facili furono i momenti successivi, finché un’altra patologia molto più grave mi colpì circa un anno fa. Fu in quel momento che la mia famiglia, o meglio ciò che ne resta, venne informata sulla mia condizione da un idiota di infermiere e da un altrettanto inqualificabile medico specializzando. Costoro, senza il minimo rispetto della normativa sulla privacy, 24
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comunicarono, in momenti diversi, il mio stato sierologico e la mia patologia ad alcuni familiari, amici e parenti che mi venivano a trovare quando, ormai da giorni, ero a rischio reale di morte. Non è di questo, però, che voglio parlare, anche perché non ho ancora deciso cosa fare in merito alle conseguenze che una mia possibile azione legale potrebbe determinare per questi due soggetti inqualificabili e pericolosi. Voglio ricordare l’episodio spiacevole capitatomi incontrando un medico dal quale mi ero recato per un’ecografia. Quando, dopo avermi chiesto le ragioni dell’esame, io accennai alla possibilità di essere venuto a contatto con l’HIV, egli, assunto un atteggiamento fra lo scettico e lo stronzo, si rivolse a me un po’ sdegnato, come per farmi intendere che quanto accadutomi me lo ero meritato. Per il resto, sia in occasione di un intervento chirurgico, sia a seguito di una gravissima patologia che mi ha tenuto in ospedali e cliniche per circa 10 mesi, mai – sottolineo mai – sono stato discriminato, anzi, sono sempre stato trattato con molto rispetto ed educazione. Comunque ogni volta che mi succedeva di fare visite invasive, o dal dentista, sentivo il dovere di informare il personale sanitario del mio stato anche se, come previsto, mi prendeva il timore di non essere accettato e quindi non adeguatamente curato. Tornando all’esperienza di outing non mia, ma da parte dei due sanitari, in famiglia l’effetto è stato analogo a quello di una bomba atomica. Infatti fino a quel momento avevo tenuto tutto nascosto ai miei, sia per non dare ulteriori problemi sia perché una volta, guardando un programma 25
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televisivo in mia presenza, uno di loro affermò che l’AIDS colpiva drogati e gente con uno stile di vita inqualificabile. Ma io non rientravo in nessuna delle due categorie da lui contemplate. Comunque la mia più grande problematica è stata sempre sul piano affettivo-relazionale. Non trovavo mai il coraggio di dirlo ai miei partner occasionali che diventavano sempre più occasionali perché terrorizzato dall’eventualità che qualche incontro potesse svilupparsi in una possibile relazione. Sì, perché a quel punto avrei dovuto dire di me e non ce l’avrei fatta. Ho perso occasioni eccezionali per avere un rapporto amoroso, completo, con persone amabili, uomini proprio eccellenti. Il problema era il mio... non il loro. Allora ho anche provato a fare presente il mio status, non prima di aver fatto lunghe chiacchierate, interminabili chattate, masturbazioni via Skype, ma poi al momento di incontrarci e quindi di trasformare in pratica sessuale quell’immensa attrazione virtuale, al momento di raccontare della mia sieropositività, assistevo a dietrofront pazzeschi, con scuse banali. Nella realtà venivo scaricato in due secondi e improvvisamente non ero più quell’uomo magnifico, magnetico, affascinante... di un attimo prima. Ho quindi imparato a tenere questo segreto per me, facendo sesso con persone che mi ricercavano e sempre proponendo io l’uso del profilattico perché se fosse stato per la maggior parte di questi occasionali amanti non era 26
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necessario. E come non capirli… Alcuni di loro però non hanno vissuto i lutti di amici, amiche, fidanzati e semplici conoscenti come è capitato a me! Per anni è stato taciuto da parte della politica il problema della trasmissione del virus per cui il sesso «bareback», ovvero praticato senza protezioni, è diventato una pratica ordinaria e il virus si è diffuso di nuovo perché molti giovani, non facendo con regolarità gli accertamenti, si ammalano con viremie altissime e quindi fortemente contagiose. Chi, come me e tanti altri si cura con regolarità azzera la quantità di virus nel sangue e non può di conseguenza infettare. Oggi ho imparato a essere sereno... a dichiarare subito la mia condizione se ho interesse vero per una persona perché, se non lo fai subito o comunque prima di fare sesso, poi non lo farai mai e io non voglio più perdere l’opportunità di un amore solo perché sono HIV+. Ho deciso che è meglio essere chiaro subito perché è peggio vivere di rimpianti per il fatto di essere stato rifiutato, piuttosto che di rimorsi per non averlo detto.
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IV Per un attimo di piacere mi sono giocata la vita L’ho sempre vista così… per un semplice attimo di piacere, di godimento. Ti senti invincibile, questa malattia la conosci, ma la consideri lontano da te, pensi di non essere vulnerabile, che niente e nessuno ti può ferire… se solo avessi utilizzato il preservativo, un piccolo gesto… Si pensa che facendo sesso in modo sicuro, con le dovute precauzioni, non sia la stessa cosa, non si provi piacere, invece non è così; la mia vita sessuale adesso non può essere concepita senza preservativo e vi posso garantire che è la stessa cosa. Se solo l’avessi utilizzato prima…, penso che sia inutile dire così…, ma per esperienza dico «RAGAZZI, USATE IL PRESERVATIVO!!!» Io vivo una doppia vita parallela. Una sincera, profonda e purtroppo limitata solo a poche persone che mi conoscono realmente per quella che sono, con le mie ferite e con le mie esperienze; un’altra vita piena di bugie, di camuffamenti di fronte alla maggior parte delle persone, compreso mio figlio. Non poter essere sinceri neanche con la propria creatura solo perché questa malattia è considerata un tabù, costituisce qualcosa di inenarrabile. Ti devi nascondere, ti devi vergognare, devi portare sulle spalle questo peso enorme solo perché l’uomo considera questo virus come un marchio che rende inaccostabili. 28
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Essere sieropositiva mi fa sentire inferiore, diversa dagli altri. Ogni volta che quei pochi medici cui, al di fuori del reparto di Malattie infettive, mi rivolgo perché devono visitarmi, vengono a sapere della mia situazione li vedo cambiare espressione: cambia il loro modo di guardarmi, di toccarmi… e io vorrei urlar loro in faccia, chiedendogli cosa c’è che non va, qual è la differenza tra me e loro, tra me e un qualunque altro paziente. Sì, questa malattia ti rende diverso, ti porta a nasconderti per il resto della tua vita… Nessuno deve sapere, conoscere le tue emozioni, le tue sofferenze, i tuoi pianti, le tue lotte. Vivere da sieropositivi non è facile. Oggi sai che la tua vita può continuare perché esistono terapie che danno la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa. Una vita dipendente dalle medicine, dai controlli…, ma pur sempre una vita. Occorre controllare il numero delle copie del virus all’interno di te e contemporaneamente quello dei tuoi anticorpi. Mai questi numeri sono stati così importanti nella tua vita e ora tutto dipende da questi due valori… Il reparto di Malattie infettive diventa la tua seconda casa, l’unico posto dove sanno tutto di te, dove puoi essere te stessa senza vergognarti della tua patologia. Gli operatori sanitari ti stanno vicino e sono pronti ad aiutarti, a rimproverarti affinché tu possa mantenere un benessere personale accettabile. Nello stesso tempo ti rendi conto che sei fortunata perché 29
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vivi in un Paese dove ti viene data la possibilità di curarti gratuitamente, senza sborsare un euro per avere la terapia che ti permette di continuare a esistere, di respirare, di stare meglio giorno dopo giorno e apprezzare la vita‌ Spero una mattina di svegliarmi ed essere me stessa, libera, senza paure, timori, di poter amare liberamente senza subire pregiudizi.
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V Coincidenze Ho conosciuto il mio ex ragazzo nell’estate del 1993, all’età di 25 anni. Lui era diverso dai ragazzi incontrati prima: era molto affascinante. In realtà non avevo avuto molte esperienze, era il secondo ragazzo con cui avrei fatto l’amore. Questo è forse importante per capire la mia storia. Fino allora, un po’ per l’educazione ricevuta e un po’ per il carattere, non avevo avuto molti rapporti intimi. Con lui stavo bene, mi faceva sentire importante e desiderata. L’avevo conosciuto in un gruppo di amici. L’unica cosa che non mi convinceva era il fatto che due anni prima di conoscermi era uscito da una comunità di recupero per tossicodipendenti. Ma nonostante la mia diffidenza, più lo conoscevo e più mi faceva sentire speciale. Il modo in cui mi toccava e mi desiderava mi lusingava. La nostra storia è iniziata lentamente, ma è stata anche «travolgente»! Subito ho provato una grossa preoccupazione perché i mezzi d’informazione raccomandavano di fare attenzione ad avere rapporti intimi con ex-tossicodipendenti. Parlando, mi rassicurava dicendo che a causa del suo passato aveva ripetuto più volte il test dell’HIV ed era sempre risultato negativo. Quando si è presentato il momento di avere rapporti, però, io ho sempre voluto usare il preservativo. Lui mi tranquillizzava invitandomi a non avere paura, anche perché era stato sposato e aveva avuto due figli e stavano tutti bene. Ma io volevo continuare ad avere rapporti protetti. Ero 31
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diffidente, anche se lui in effetti sembrava in perfetta salute e veramente in forma. La storia andava avanti alla grande. Pensavo di aver trovato l’uomo della mia vita. Dopo un anno che ci frequentavamo regolarmente – abitavamo quasi insieme – io ero innamorata e lui diceva di esserlo di me. Gli proposi di prendere la pillola come contraccettivo e sospendere l’uso del preservativo. Per lui non c’era problema. Io volli però consultarmi con una ginecologa, la quale mi rassicurò dicendo che ormai lo conoscevo bene e potevo fidarmi: non c’era bisogno di fare dei controlli. A quel punto, considerato che anche la dottoressa mi tranquillizzava, la mia diffidenza mi sembrò eccessiva. Quindi presi la pillola, sospendendo l’uso del profilattico. La nostra storia sembrava magica, senza intoppi. Nel dicembre del 1994, dovendo fare gli esami generali di controllo ritenni opportuno fare anche il test dell’HIV per controllarmi e stare tranquilla. Inaspettatamente, però, risultai positiva. Incredula tornai a casa dal mio ragazzo e lui mi rassicurò dicendo che c’era stato sicuramente un errore perché lui era negativo. Ripetei il test: positivo. Tutto insieme, come un fulmine a ciel sereno, tutto si chiarì: il mio ragazzo mi aveva mentito! Ero sicura di questo perché io avevo avuto rapporti sessuali solo con un altro ragazzo, quello della prima volta, e al 32
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termine di quella relazione, dopo qualche mese, dovetti fare il test dell’HIV per sottopormi a un intervento chirurgico e risultò negativo. Tutto mi si chiarì facendomi crollare il mondo addosso. Ero perduta! Affrontai il mio ragazzo che, come un cane bastonato, ammise di aver mentito perché aveva paura di perdermi. Secondo lui avremmo affrontato tutto insieme. Aveva un metodo infallibile: ignorare tutto facendo finta che non ci fosse alcun problema. Non sapevo cosa fare!!! In quel momento pensai che il mio posto ormai poteva essere solo vicino a lui. Chi avrebbe potuto prendermi così? La nostra storia durò quasi altri quattro anni, come in un film: ognuno di noi «recitava» la propria parte. Tutti mi dicevano che eravamo proprio una bella coppia. All’inizio me ne ero convinta anche io, ma dopo un po’ di tempo scoppiai; non ce la facevo più a recitare una farsa. Il mio ragazzo stava benissimo, per lui potevamo andare avanti all’infinito così, ma io non stavo bene. Non riuscivo neanche più a dormire tranquillamente! Le uniche persone che sapevano della mia situazione erano mia sorella, che mi diceva di lasciarlo, e mia madre che era stata educata secondo il principio per cui la donna deve sopportare in silenzio, e forse mi faceva comodo rifugiarmi in questo pensiero! 33
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Una notte, però, sognai un signore anziano, sembrava un frate che mi sorrideva. All’inizio non detti peso al sogno, ma un giorno, pulendo lo scaffale dei libri, trovai una foto del frate. Allora andai da mia madre. Lei mi disse che era Padre Pio. Io non sapevo neanche chi fosse. Sono credente, ma non molto devota…, diciamo che ho la mia spiritualità. Sentivo di dover andare nella sua chiesa e così visitai il santuario di Padre Pio. Non sono guarita chiaramente, ma il mio «miracolo» è stato acquisire la «serenità». Percepii in me un cambiamento. Qualcosa o qualcuno mi aiutava, forse era suggestione, ma sapevo solo che ora volevo cambiare la mia vita. Pian piano trovai la forza di reagire alla mia situazione. Lasciai il mio ragazzo, perché non stavo bene in quella storia. Da quel momento, accettata la mia nuova condizione, cominciai a curarmi. Iniziai il mio durissimo percorso di sostegno, che continua tuttora con l’aiuto di medici, psicologi e di varie persone speciali. Ci tengo a ringraziare tutti quelli che in un modo o nell’altro mi sono stati vicino e hanno illuminato il mio buio, in particolare la dottoressa Rossi, Titina e tutti i medici e infermieri del Day Hospitaldi Malattie infettive di Perugia e Modena. In conclusione posso dire che forse sono stata ingenua, ma il mio vero errore ritengo sia stato quello di voler credere in un amore sincero. Da parte mia lo era, e sono contenta che questa storia comunque non mi abbia cambiato profondamente. Io sono e rimarrò una brava persona. 34
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Continuo a credere nell’amore. Adesso so che, anche se duro, è meglio sapere sempre la verità ed è un sacrosanto diritto avere la possibilità di scegliere. Se dovessi dare un consiglio a qualcuno che si trovi in una situazione simile gli direi di fidarsi solo delle analisi e dei propri presentimenti: dentro di noi sappiamo sempre qual è la strada giusta da intraprendere!
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VI Da quella notte di gennaio si personificò la dea discriminazione… Ho riflettuto molto sulla conoscenza del cuore, sulla vita, sulla sua inafferrabilità e sulla compassione partecipata verso i morti di questa malattia ma soprattutto verso i vivi, verso quanti convivono con essa, pensando anche ai tanti militanti delle associazioni che lottano in difesa dei malati, della loro dignità, dei loro diritti, della loro autoaccettazione e del loro inserimento «orgoglioso» all’interno di una società sempre più intollerante, violenta e individualista. Quando quella notte di gennaio di alcuni anni fa un medico entrò nella mia stanza comunicandomi, con sussiego, freddezza e un po’ di fastidio, la mia sieropositività, rimasi impietrito per un po’, non c’erano pensieri, la testa, già malata, era una palla leggera, come se fosse volata nello spazio, pendula, come un aquilone svuotato di gravità. Un dolore muto, come un vento freddo, si alzò quella notte, il suo rumore era simile alla voce dei lupi. Solo dopo, per un po’, mi prese una gran paura, il presagio di una rottura, di una crepa che dentro si apriva, di un alito o forse di un anelito segreto verso la fine… Da quella notte, ma forse anche prima, apparve un’ombra, che a periodi alternati, mi avrebbe accompagnato: si personificò la discriminazione. Anche tra i medici stessi, non tutti, in verità, e tra il personale sanitario, sia dentro sia fuori dall’ospedale. La discriminazione più grande, invece di trovarla in società, dove pur esisteva, eccome, la trovai 36
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nelle strutture sanitarie. Già all’annuncio della malattia, quando il medico a cui prima accennavo era una sorta «di angelo della morte», angelo proprio nella sua etimologia di annunciatore, e disse con ironia o forse con sarcasmo: «Non lo sospettava?». II sottotesto era «A chi vuoi darla a bere? Fai l’innocentino?»; ecco, già in quel primo momento io avvertii la discriminazione, ancora più brutta di quella palese perché ipocrita, cattiva, subdola, insinuante, giudicante. In Italia essere apertamente sieropositivi non è facile perché sei considerato una persona che si è comportata in modo disdicevole e spesso, dopo aver scoperto il loro stato, le persone stesse si autodiscriminano, come è successo anche a me: a volte parlo, mi apro, ma non posso nascondere che dentro provo una sorta di strano rimorso, di paura, di autocondanna. Forse si chiama senso di colpa. Dal dentista i primi tempi dicevo che avevo l’epatite. Ti accettano più facilmente. Chissà perché, per quali strambi meccanismi umani. Poi mi feci coraggio, capii che non era giusto, che mentivo anche a me stesso e io ho avuto sempre stima di me stesso, per cui iniziai a dire chiaramente che ero sieropositivo. Alcuni restarono impassibili, non dissero niente ma io captavo la loro avversione, altri fingevano di accogliermi, altri ancora mi hanno accolto. Forse per far soldi? È probabile. Non importa. Una volta andai a fare una colonscopia chiedendo la sedazione. La fecero ma dopo vari tentennamenti e con paura e fastidio negli occhi. La fecero ma alla fine nessuno del personale mi tolse l’ago, affermando che non era compito suo, che spettava al Day Hospital della clinica delle 37
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Malattie infettive. Mi incamminai tra una clinica e l’altra, mezzo morto, privo di forze e con l’ago inserito in vena. Anche ultimamente, per effettuare una risonanza magnetica encefalica con il mezzo di contrasto, ho trovato una sorta di resistenza; cercarono di inventare scuse ma fui forte, mi alterai e gli gridai di rispettare la prescrizione in ricetta che prevedeva il mezzo di contrasto. Mi chiedo spesso: è davvero paura la loro o c’è anche una subconscia «condanna morale»? O consapevole, invece? Alcune volte era palese che fosse tale. La paura si sconfigge solo quando la si racconta, solo quando ci si confronta con essa. Ma non so: a volte ho paura anche di incontrare altri sieropositivi, è come se mi inviassero segnali negativi, di reciproco rispecchiamento di una condizione forse mai accettata del tutto. Io non l’ho mai accettata del tutto. C’è ansia verso il futuro, pieno di sospensioni, di scadenze, di condizionamenti personali e sociali. E le famiglie, gli amici, sono davvero una fonte di sostegno e di forza? Chissà! Forse non del tutto, anche in loro ho notato incertezza, imbarazzo. Alcuni arretrano, quando ti salutano tendono a distanziarsi, a toccarti il meno possibile, ad accarezzarti sfuggenti una mano, invece di stringerla. C’è stigma, pregiudizio, paura. Forse nessun’altra malattia mette in gioco una serie di implicazioni e di complicazioni politiche, sociali, etiche, come questa: intolleranza tradizionale e religiosa, disuguaglianza economica e sociale, razzismo, sessismo, machismo, omofobia, scarsa istruzione, pudore. Peccato che ciò, tuttavia, io lo veda 38
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anche in persone cosiddette illuminate o progressiste. La paura e il pregiudizio sono trasversali. Raccontare la propria storia, aprirsi, è molto difficile: c’è qualcosa di strano, di non detto, negli occhi di chi ascolta o di chi finge di ascoltare. Questa malattia ti rende intoccabile, incapace di avvicinare davvero, in una forte unità relazionale, anche le persone che ti amano o che ami. A volte ho sentito in me un distacco pieno dal mondo, un isolamento monacale che mi dava, stranamente, anche forza. Ma dopo un po’ di tempo, ho imparato a rispondere a tono, a non farmi prevaricare più da nessuno e, nei momenti in cui capitano esperienze spiacevoli legate alla mia condizione, ho imparato a reagire «da saggio», cercando parole e comportamenti che non fanno soccombere più la mia persona ma quelli che attaccano, che deridono, che disprezzano. Ho imparato a ridere di me e della mia condizione, a ridere anche della morte, esorcizzandola in qualche modo, perché essa è cinica, ti sorprende quando vuole lei, quando decide lei. E allora perché non fare come diceva Lucrezio: «Se la morte non c’è, ancora, perché averne paura?». Ho imparato a ridere, a pensare positivo, a ridere, a ridere: nel decorso di questa mia situazione non ho mai del tutto smesso di ridere e forse, per fortuna, pur nel dolore, due cose non ho mai perso: le risate e l’appetito. Che cosa strana! Forse è semplicemente voglia di vivere. Occorre ridere, pensare bene, questo produce endorfine, che aiutano a contrastare lo sviluppo del virus. 39
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Non penso più a strade e sentieri chiusi senza uscita e senza speranza anche se rimane solitudine e paura. Non mi commisero più nel chiuso della mia stanza a disperdere i miei anni, a cadere tra le foglie e i rami spezzati di un autunno un po’ dimenticato. Non più pianti per mordere il destino. Asciugo iridi argentei e invoco: «O delicate lacrime… non spegnetemi, però, tutta la luce degli occhi…».
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VII Piccola rapsodia della contaminazione Ci sono occasioni nella vita in cui capita di fermarsi e scoprirsi stupiti di se stessi. Sovente questo succede se abbiamo detto o fatto cose belle che quasi non avremmo pensato di poter fare. E ne siamo lieti, orgogliosi, superbi, paghi e radiosi. Succede… Succede pure che si rimanga muti, stupiti, storditi. Sottomessi. E offesi. Offesi da un colpo di mortaio che dissolve il presente e il futuro; che occlude il passaggio alla storia del passato, e di questo ne mura la via, ne preclude il significato. Offesi. Mortalmente. Mortalmente offesi da uno schiaffo «ingiusto» in pieno viso, che non abbiamo schivato. Che ci ha umiliato… Un giorno ritorni in te dopo il sonno forte del mattino. Compi quei gesti che fai fin da bambino, come sempre, uno dietro l’altro, istintivi, meccanici, ripetitivi. Ma non è un giorno come un altro. Il mattino di quel giorno è un preludio in «mi» minore: note gravi e lunghe come raffiche d’uragano. Un crescendo. E poi il silenzio. La scena prima – la scena madre – si svolge in un ambiente lindo e asettico. Linoleum, formica bianca e bacchette di metallo. Alle pareti immagini di laghi, parchi e campanili. Qualche fiore finto qui e là e la pubblicità progresso di volti allegri ed evoluti con bianco denti-dentifriciomiracoloso che ad averceli sei già fortunato. Poi, camice 41
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bianco, stetoscopio igienizzato e scena-viso primo piano americano. Tono, ritmo e sincopato della voce completano il quadro. Il momento è fissato, il ciak non c’è stato. La notizia guizza minuziosa e controllata. Professionale e sentenziosa. Ma non immediata. La ricorderai dopo, con virgole, parentesi e interruzioni. La ricorderai precisa e in mille variazioni. Detto, non detto e immagini a seguire non si sa se siano veri o un’invenzione: due, o forse tre, le parole che la fanno da leone. Pervadono la mente, l’allagano. Sei terra di un’invasione… Mi ritrovai, così, invaso. A metà della mia vita. La seconda parte oscura. Giochi di parole, di pensieri, di visioni… Dentro, una freddezza che non dava spiegazioni. Ci impiegai del tempo per capire che ero io quell’immagine riflessa nello specchio, la consueta immagine del viso interessato che studia se stesso ogni mattino. Tuttavia, il principio di base, per il quale tutte le parti che costituiscono il mio corpo sono io, non sembrò più funzionare. Nella composizione del mio corpo adesso era entrato a far parte un virus che non se ne sarebbe più andato. Mi chiesi se era come avere, a un certo punto della vita, i capelli bianchi: i capelli biondi, rossi o scuri – come appunto i capelli bianchi – fanno parte della storia e dell’identità del nostro corpo. Anche il virus, perciò? Quindi io ero io, con un virus inestirpabile, ineliminabile, indesiderabile e trasmissibile? Mi sembrava di vedermi scisso in due realtà ugualmente tangibili e perciò osservabili, ma non lo credevo possibile. Se non potevo scindere, come potevo ricomporre? Come fare per riconfigurare me stesso e ricollocarmi nel 42
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mondo? Non avevo una risposta logica e ansiolitica a queste domande, ma nemmeno riuscivo a non pormele. Il fatto è che quando scopri di essere sieropositivo ogni elemento sulla faccia della terra diventa una domanda. E non si può continuamente vivere di domande se non sai o non ti vengono le risposte. Eppure, tra appuntamenti, test, questionari e accertamenti, rientravano anche lavoro, nutrimento e contatto con gli altri. Precedentemente erano state queste ultime cose ad avere un ruolo primario nella mia vita, ora erano scadute a mero corollario di una vita schermata. Io non ero più io e non potevo cambiare ciò che non mi piaceva. Non potevo cambiarlo nemmeno per chi, come me, non avrebbe mai e poi mai potuto gradire la mia nuova condizione, nemmeno per tutto l’amore del mondo. Tutt’al più, il cambiamento chimico nel mio corpo sarebbe stato oggetto di dolore e comprensione nel migliore dei casi, ma mai amabilmente condivisibile e gradito. Presto mi resi conto che avere a che fare in prima persona con l’HIV non significava solo dialogare in silenzio col mio corpo, nella costante sfida che mi vedeva combattere, più mentalmente che fisicamente, contro me stesso e, a ogni periodico referto, affermare una vittoria o una lieve ma allarmante sconfitta: la questione si poneva ogni qualvolta interagivo col mondo. Non portavo alcun segno sul mio viso o sul mio corpo e nessuno, perciò, poteva immaginarmi come mi vedevo; ma il pensiero di come gli altri avrebbero potuto reagire, se messi a parte del mio ospite, divenne un velo veramente sottile, pronto a squarciarsi, a rivelare. Vidi il mondo, dentro e fuori di me, ritrarsi, rimpicciolirsi 43
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e contrarsi. Mi parve, come avviene con certi software informatici, che inserendo certe variabili i risultati di una ricerca mostrano numeri sempre più ridotti; allo stesso modo, le possibilità per la mia vita si riducevano miseramente. La geografia stessa mi parve ridursi perché il numero del genere umano mi sembrò contrarsi drammaticamente. Risposte ancora poche, ma qualcosa lo imparai: se una parola buona è d’argento, il silenzio è d’oro! Il silenzio. Se un individuo si nutre abitualmente di dialogo, deve farsi forza e chiudere una (buona) parte dei cancelli della propria vita; rinunciare agli sguardi, alle parole, all’interesse di chi riusciresti ad attrarre. Il confronto, inevitabilmente, è ad armi impari: se scattasse sarebbe un massacro. A quel tempo mi ricordai di un romanzo di Edmund White, che avevo letto tempo prima, sui pensieri di un artista che guardava il mondo intorno a sé dalla nuova prospettiva di sieropositivo. Si era trovato al suo solito club per fare un po’ d’esercizio, tra maschi e femmine sudati e loquaci alle prese con macchine e flessioni, che tradivano ogni volontà di star bene. Si era trovato mille volte in quel posto; mille volte era stato al centro delle attenzioni o si era sentito parte di quel mondo che coglieva da lui, di volta in volta, gemme di cultura e della sua arte. Ma un giorno, giunto in sala, si era ritrovato in silenzio, immobile, le mani strette su un manubrio che rimaneva fermo sulla rastrelliera come pesasse mille e mille volte di più. Guardò, non visto, i volti di quella gente che conosceva da tempo e, in taluni casi, anche bene. Lui pensò che potenzialmente anche gli altri erano cambiati: nessuna arte, nessuna expertise, nemmeno raccontare una delle storie intrecciate intorno ai tessuti o 44
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agli oggetti antichi che studiava avrebbe potuto colmare il vuoto che si era aperto tra lui e il mondo… Lo pensai anche io. Se un qualsiasi punto della mia personalità e del mio aspetto avesse attratto e disposto gli altri in mio favore, lo spettro temibile e deforme, figlio della più cupa immaginazione, che si sarebbe materializzato dal mio essere avrebbe spaventato gli amici, pietrificato la più promettente delle intenzioni di chi, come me, ogni giorno sperava di trovare dietro un bel volto e il vissuto di un altro uomo l’inizio di un amore stabile e concreto. E allora dissi addio – un addio non pronunciato – a un uomo conosciuto qualche settimana prima. Era stato un incontro casuale e divertente, ma il viso franco e piacevole su un corpo attraente e sensuale avevano senz’altro favorito la lunga conversazione che ne era seguita. Scambiandoci il numero, senza chiedersi di più in quell’occasione, ci eravamo detti in silenzio che quell’ora sapeva di speciale, sapeva di speranza. Tre incontri ancora – cinema, pizzeria, teatro – avevano aperto il corso a una valle verde di eccitazione e occasioni. Qualche gesto segreto in cerca della mano lasciava presagire il resto. Tornando in macchina, il giorno della rivelazione, lasciai stare gli sguardi alla primavera e mi concentrai sull’inverno del mio dolore. E sotto la coltre di ghiaccio e gelo sotterrai la prospettiva di quell’amore. Fu la prima cosa che feci nella mia nuova vita. Lo feci bene, con molta diligenza e attenzione. Presi a rispondere ai messaggi con notevole ritardo, e poi non risposi più. Non diedi spiegazioni, non cercai argomenti, non mi difesi. 45
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Per alcuni amici e conoscenti costruii muri di estrema cortesia e affetto, dei begli spunti di conversazione che potessero dare l’impressione di amicizia sincera, ma non di condivisione. Ai più cari – due – rivelai tutto: ne dovetti asciugare le lacrime e capirne il dolore come si fa per un dispiacere altrui che un altro ancora ha causato. Paradosso dell’umano! Mi giunsero notizie di storie sordide e tristi di individui che ricattavano altri individui perché sapevano della loro sieropositività; di altri il cui «sincero» dolore induceva a raccontare in giro che Matteo, Marco, Luca e Giovanni, «poveri cari», se l’erano beccata pure loro; sentii di chi diffondeva, solidale, la rete «segreta» di nomi contagiati. Ma il mondo non era solo quello e per fortuna, dopo un po’ me ne accorsi pure io. Il mondo era fatto di chi lavorava con passione e profonda sensibilità per aiutare me, e molte altre persone, a vivere la propria sieropositività o la malattia con dignità, fiducia negli altri e pazienza. Trovai nuovi amici, ascoltai nuove storie di solidarietà e di speranza, imparai a fidarmi del mio corpo e a trattarlo meglio di prima. Da allora ho preso perfino a lavorare anche meglio. Ma questo non è un lieto fine; non è nemmeno una triste storia, alla fine. È una storia che è iniziata per leggerezza ma che ha prodotto tanto dolore. Oggi il senso di offesa si è placato, il volto è stato risanato. Le due parti di me, grazie a preziose persone e parole preziose, si sono riunificate. Ma quello che è stato non va dimenticato. Non è finito. L’ospite indesiderato che appare all’improvviso va lasciato fuori. Va fermato.
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VIII Positivamente 1. Squilla il telefono. Sono le 14 all’incirca. È il 15 marzo del 2009, domenica. La febbre era iniziata il 14 febbraio e si era piano piano alzata fino a stabilizzarsi intorno ai 39,5 gradi. Un rosario di analisi – mentre a mano a mano mi indebolivo – cercando la causa di tutta quell’escalation di temperatura. Di volta in volta esclusi: parassiti, febbri tropicali, citomegalovirus (tracce insufficienti a giustificare…), batteri intergalattici, mononucleosi (tracce insufficienti a giustificare…), inizio di possessione diabolica (ah, forse quella da anni…). Fino alla domanda fatidica «Ma vogliamo fare anche l’ELISA per l’HIV?». Uno sguardo e quel mio «Beh, sì facciamola!»… non era solo un assenso e implicava ben più di un sospetto. Conteneva una quasi certezza appena nascosta dall’attesa di una formale conferma… Rispondo al telefono. È il dottore: «Salve, le chiederei di venire su che abbiamo i risultati del test». Tremore. E un senso strano e – poi non tanto – assurdo di liberazione. Sono più spaventose le ombre, a volte. Dalla settimana successiva all’inizio della febbre, avevo iniziato a ruminare sull’HIV fino a evocarne il fantasma, che sedeva là accanto a me in silenzio, in poltrona, prostrato 47
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dai combattimenti del mio organismo sotto assedio. Non ricordo di aver iniziato a consultare internet o cose simili, indagando su sintomi e sensazioni. Non ce n’era bisogno. Ricordo che quando riconobbi la voce del dottore dissi tra me: «Ecco, questo chiama di domenica alle 14 e dice di andare su. Secondo te, perché?». Liquefatto da quasi un mese di febbre alta, dovetti farmi accompagnare da mio padre. Tenere il volante, sì, potevo, ma per girarlo mi ci sarebbe voluto un quarto d’ora. 2. Una delle questioni serie nel caso dell’HIV è la gestione dell’informazione «sul fatto». Un primo contesto in cui la notizia va gestita è la famiglia. Parlare dell’HIV non è semplice, non tanto per la malattia in sé ma per tutte le domande che inevitabilmente porterà con sé. E, diciamolo francamente, soprattutto per quelle. Facile dire: «Valuta con lucidità la situazione e vedi se dirlo o meno». Nella stanzetta ci sono io, il dottore… e mio padre. La situazione che va a generarsi è per certi versi tragicomica. Il dottore non sa bene come parlare in presenza di mio padre, che sembra non capire e neanche fa domande. O meglio, adotta tutti i sistemi inconsci per sedare il suo intuito radicale. Capisce e rimuove. Il dottore biascica frasi di disarticolata «tranquillizzazione»... «Non bisogna preoccuparsi, oggi la medicina gestisce 48
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queste situazioni… con le terapie attuali tutto è sotto controllo». Una malattia senza nome ma curabile e curata. Fantastico! Insomma il papocchio informativo – colpa di tutti e di nessuno – si genera e porterà a un periodo, che si chiuderà con il termine della fase acuta e con la ripresa dell’autonomia in termini di mobilità, in cui materialmente le scatole di Truvada e Kaletra saranno nelle mani dei miei genitori. Roba da dissociazione mentale. Abile, in questo contesto, nella sua lucida e strumentale disonestà, il medico di famiglia che dirà a mio padre: «Quei farmaci li danno in situazioni sperimentali, quando non capiscono di cosa si tratti, per misura preventiva». Questo lo tranquillizzò molto; credo che rimase comunque sempre con un retropensiero, ma non mi chiese mai nulla. Il mio stato di salute migliorò in poco tempo (evoluzione naturale dell’infezione opportunista + l’effetto dei farmaci) e a distanza di qualche mese mi ritrovai fisicamente rigenerato, dimagrito di otto chili, persi nei quasi due mesi di febbre, con un nuovo vigore, ringiovanito. Considerata la disposizione all’ansia dei miei genitori, che avrebbe comportato su di me il peso psicologico dell’altrui preoccupazione, decisi, per sano egoismo, di non dire nulla. Inutile innescare dinamiche non controllabili. Spirali emotive che strangolano quel poco di serenità che si riesce a vivere. D’altronde la situazione, dal punto di vista sanitario era sotto controllo. C’era una cintura amicale ristretta informata 49
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del fatto, inevitabilmente con qualcuno ti aprirai…; il mio psicoterapeuta ne era stato portato a conoscenza. Mi sentivo adeguatamente sostenuto. Ah! Avevo iniziato una relazione con una persona sieronegativa che si mostrò per nulla spaventata, non mutò le sue qualità di accoglienza e tenerezza, né mai mostrò titubanze o ritrosia nell’intimità fisica. Il tavolino della mia esistenza aveva i tre punti d’appoggio essenziali. Uno mi rassicurava sotto il profilo sanitario (l’assistenza al reparto e il blando, ma pur sempre esistente, dialogo con uno psichiatra gestaltico); l’altro mi confortava quando guardavo il mondo (gli amici fanno questo: ti fanno sentire che il domani sarà migliore dell’oggi); il terzo, la relazionalità a due, nelle sue componenti fisiche e psichiche, mi ridava una identità senza stigma. E se ti senti senza stigma tu, quello degli altri non ti sfiora lontanamente. Ah, ancora. Diciamo che poi, nella mia piccola, debole, prospettiva di fede, nel mio problematico ma continuo rapporto con Dio – chiamatelo come volete, a me viene così – con un Dio che qualche tempo prima avevo scoperto «non giudicante», comunque giusto, e non forcaiolo (i nodi ce li facciamo da noi e i patiboli sono il risultato di una serie di nostre azioni), in sintesi, credendoci un poco, sono riuscito meglio a vedere e afferrare tutte quelle buone cose di cui sopra. Che stavano lì, mi aspettavano. E che non avrei visto se mi fossi chiuso nella disperazione e nel risentimento.
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3. Dunque io e «l’ospite». Un nuovo sguardo sulla vita. La malattia come strumento di conoscenza. Consapevole di vivere una malattia privilegiata. Cure sanitarie efficaci e gratuite. Condizioni di vita pressoché normali. … Con un rischio, serio, non grave ma serio. La sindrome dell’invulnerabilità. Eh sì, perché la sicumera e la stoltezza – le quali prendono le forme dell’ingenuità – che mi avevano portato a gestire la sessualità incautamente e s’erano volatilizzate nel periodo della malattia e nei mesi immediatamente successi, si rifanno presenti. Perché il sieropositivo bello sano, in salute, con la viremia sotto le 20 copie e/o non rilevabile si sente un poco come quei supereroi morsi dal ragno mortale, colpiti dal raggio cosmico, immersi nelle sostanze tossiche. E che sopravvivono… Più forti di prima, credono loro. E i comportamenti tendono a tornare molto disinvolti, senza una grossa, vera consapevolezza delle miriadi di altre malattie sessualmente trasmissibili. Fosse poi solo una questione tecnico-sanitaria. È che, sì, proprio si rischia di entrare in una percezione distorta della realtà. Il confine di quello che puoi/non puoi. 51
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E con la scusa che tra sieropositivi in terapia – magari con lo stesso farmaco – rischi non ve ne sono affatto… facile trarne le conseguenze. … Dalla mia una cosa, forse. L’esigenza di essere chiaro e trasparente nella gestione degli approcci. Temo le conseguenze e i contraccolpi di una reticenza molto di più di un rifiuto. Un rifiuto fa bene, non fosse che: a) ti ridimensiona e ti mette in discussione, b) ti aiuta a selezionare. 4. Siamo quasi a dieci anni. D’acchito mi vengono in mente le persone che mi hanno conosciuto e mi conoscono sieropositivo e che mi vogliono bene: tutto lo staff sanitario che mi ha seguito e mi segue nel percorso terapeutico. E…, con una grande tenerezza, tutte le persone che mi vogliono veramente bene e che non sanno della mia condizione di sieropositività. Lo sapranno? Non lo sapranno? Se tu vuoi bene loro veramente capirai se e quando è il caso.
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IX Confessioni di un malandrino Prendo a prestito questo titolo di canzone, perché è così che mi sento: un po’malandrino. No, non pensavo di essere invulnerabile. Ipocondriaco come ero, a ogni piccolo sintomo e doloretto pensavo di avere chissà quale brutta malattia. Però pensavo che l’HIV e l’AIDS, all’epoca per me sinonimi, fossero qualcosa di «riservato» ad altri, a chi conduceva una vita sregolata, a chi aveva decine di rapporti non protetti a settimana. Vivendo in provincia e non avendo a quel tempo ancora mai frequentato certe realtà, locali gay, saune, di cui avevo un’idea distorta da girone dantesco, pensavo che un eventuale contagio potesse accadere solo a «loro», ai «malandrini» veri, a quelli che vivevano «oltre» le regole di buon senso. Io mi limitavo a farmi ogni tanto qualche giro nei luoghi di battuage dei dintorni: qualche fortuito incontro avveniva ma, essendo molto selettivo, accadeva davvero di rado. Non era «probabile» – qualsiasi cosa avesse significato questa parola nella mia mente all’epoca – che io mi contagiassi. Nella mia testa mi dicevo che dopo tutto non ero tra «quelli che se la vanno a cercare». E invece è stato l’HIV a cercare me. Pare che abbia voluto proprio me, per come sono andate le cose. C’era una bellissima mostra alla Galleria nazionale dell’Umbria e non solo lì: una mostra diffusa che toccava tutte le località in cui il Perugino ha lasciato le sue opere. Frequentavo anche io all’epoca le chat, i siti di incontri, che poi non avvenivano quasi mai, avevo le mie conoscenze, tutte virtuali, con persone da cui mi separavano centinaia di chilometri: per 53
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come ero e sono fatto io, che mi muovo di rado e ancor meno per andare a conoscere qualcuno, sarebbero rimaste confinate all’interno di un pc, relegate a chiacchiere o al massimo a fantasie erotiche. Non avevo mai avuto la volontà di andare oltre, ma una volta successe. Parlavo in chat da un po’ con un architetto di Torino di origine siciliana. Bellissimo ragazzone siculo con una spiccata intelligenza, vivace, molto sensuale, mi piaceva. Non so quanto io piacessi a lui, che apprezzava i cosiddetti «orsi», gli uomini sovrappeso e tendenzialmente massicci, muscolosi; io ero troppo alto e ancora troppo magro rispetto all’altezza per rientrare nella categoria. Ma vivevo a Perugia, dove c’era questa mostra e lui era un architetto che voleva vederla: tanto bastò per chiedermi di ospitarlo per qualche giorno e di andare a vedere la mostra insieme. A me la pittura piace e piaceva, pur non avendola studiata e non capendoci quasi niente. Mi sembrò interessante accettare la proposta. Ok, no, diciamo le cose come stanno, mi sembrò ancora più interessante avere Fabrizio a casa mia e nel mio letto per quattro giorni. Ricordo tutto di quel susseguirsi di sesso e quadri, quadri e sesso, e mai nessun rapporto protetto. Ma ero io quello favorito dalle statistiche: si leggeva che chi svolge la parte «attiva» ha meno probabilità di contagiarsi rispetto al partner «passivo», quindi ancora una volta negai a me stesso l’idea di stare correndo un rischio. Non entrai mai in contatto con i suoi fluidi, tranne una volta.Vorrei non descriverla perché se lo faccessi sembrerebbe che io stia cercando una giustificazione, una scusa, un modo per dire «Pensate che sfiga!», oppure che voglia condire il mio racconto di particolari per sembrare a tutti i costi originale, ma giuro che il contagio avvenne in un modo che rocambolesco è 54
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dir poco. Dirò solo che so per certo, al mille per cento, che quel giorno d’estate di mille anni fa i suoi fluidi entrarono nel mio corpo non certo nel modo che comunemente ci si può immaginare. E sì, fu proprio sfiga! Ovviamente non mi preoccupai nemmeno in quel momento. Ne ridemmo, era tutto così comico per come era meccanicamente accaduto. Fabrizio ripartì il giorno dopo, 18 luglio, eravamo sazi di bellezza e piacere, ci eravamo regalati una piccola vacanza. Ero comunque sicuro che non ci saremmo più rivisti, esclusi già da subito un’amicizia degna di questo nome, perché al di là del bello che mi fece conoscere e comprendere davanti a quei capolavori e a letto – ma dopo quattro giorni la «novità» non era più tale e quindi era meno eccitante già di per sé – non c’erano le basi caratteriali per poter coltivare un rapporto. Ricordo quando riprese quel treno, ma ero convinto che forse ci saremmo sentiti ancora al massimo un paio di volte, o magari nemmeno. Sarei partito per la Puglia un paio di settimane dopo: Fabrizio era un capitolo archiviato. Era un mercoledì quando fui colto da un febbrone altissimo, arrivai a toccare e superare 40 gradi. Poi, aggredita da un quantitativo industriale di antipiretici, la febbre scese permettendomi di partire il sabato successivo. Mi arresi a Foggia: provvidenzialmente – oggi lo posso dire, altrimenti è probabile che avrei con caparbietà continuato il viaggio – la macchina si fermò mentre uscivamo dal casello. Io stavo male, la febbre stava risalendo. Ricordo il carro attrezzi, ricordo il taxi che ci portò all’albergo più vicino: ma l’albergo non lo ricordo, sudavo copiosamente, la febbre era schizzata di nuovo a livelli certo non consoni a proseguire un viaggio. La macchina fu pronta la mattina dopo, non era niente di grave. Riprendemmo la strada 55
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di casa perché ci sembrò inopportuno proseguire. Parlo al plurale. Non ero solo in quel viaggio, anzi, nel «mio viaggio» non ero solo già da più di 10 anni. Avevo un compagno e nel racconto lo introduco solo ora perché avevamo un rapporto già pluridecennale molto libero, il che non significa che avessimo rapporti con chissà chi e chissà quanti: era una libertà «di testa», era più un sapere di «poter fare» che un «fare» sesso con altri. Allora non vivevamo insieme e, quando lo misi al corrente che sarebbe venuto Fabrizio, mi rispose che me lo sarei dovuto gestire da solo perché fisicamente non gli piaceva. «Buon divertimento!» mi disse, anche se era la prima volta che arrivava qualcuno a scombussolare un po’ le nostre giornate. La vacanza in Puglia finì nel mio letto da cui mi ero alzato il sabato mattina e a cui tornai il pomeriggio del giorno dopo restandoci fino al mercoledì. Appaio melodrammatico se dico che mi sentivo strano, che più di una volta dissi al mio compagno: «Stavolta c’è qualcosa che non va?». Lui non mi considerò nemmeno, convinto che fosse la mia solita ipocondria a parlare. Avevo ragione io, quella volta: ne avemmo conferma due giorni dopo, venerdì, quando Fabrizio mi chiamò. Ero a casa del mio compagno, lui non c’era, stavo preparando il pranzo in attesa che tornasse dal lavoro. «Sai, ti devo dire una cosa non piacevole: ti ricordi quel mal di gola che avevo e che non riuscivo a far passare, per cui avevo dato la colpa all’aria condizionata del mio studio? Siccome non passava, sono andato a fare le analisi e ho fatto anche il test HIV: è risultato positivo. Credo proprio ti debba controllare anche tu». Liberi di non credere che in quel preciso momento io mi sentii dentro la presenza del virus. C’era, era lì, un po’ come il mostro che nel film Alien si sviluppa all’interno del corpo degli ospiti umani. 56
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Un ospite torinese me lo aveva infilato dentro e ora stava proliferando in me: la febbre altissima di quei giorni non ne era che la prima prova. Salutai Fabrizio. Il mio compagno tornò. Lo informai. Rimase granitico, come sempre è stato ed è: lui è la mia parte solida, quella che finché non arriva l’evidenza dei fatti non crede. Disse: «Andiamo a fare il test!» e il giorno dopo ero in un laboratorio di analisi privato a farmi togliere, per la prima di innumerevoli volte, un po’ di sangue. All’epoca bisognava aspettare alcuni giorni prima di avere i risultati: li vissi come in apnea, pur sapendo dentro di me quale sarebbe stato l’esito, tuttavia sperando di essere smentito. Ma sapevo. Io lo sapevo, non c’era storia: ero sieropositivo, condannato, finito. A ritirare il referto pretesi di andare da solo. Vissi così, con l’atteggiamento del condannato a morte, la consegna di quella busta che non arrivava mai. Seppi che quelle con risposta negativa arrivavano nella prima mattinata, invece io dovetti aspettare di più, un «secondo gruppo», come disse la segretaria. Beh, di quel secondo gruppo quella mattina facevo parte solo io. Fui fatto sedere e informato intorno a mezzogiorno. Avevo avuto ragione, anche se mi fu detto che bisognava effettuare un secondo controllo e che questo sarebbe dovuto avvenire presso una struttura ospedaliera. Telefonai per primo a Fabrizio, ovviamente al mio compagno lo volevo dire di persona. Fabrizio stava aspettando notizie con una certa ansia, o almeno così dimostrò in quel frangente: ritenni che non c’era alcun motivo di dirgli la verità, di farlo sentire in colpa per qualcosa che avevamo fatto in due, pensai che avrebbe sofferto inutilmente quando già doveva pensare al «suo» problema senza dover per forza sapere che ora era anche un problema mio. Quindi gli dissi che il risultato era stato 57
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negativo. Mi sentivo dentro la forza di un leone. C’era un problema? Bene, lo avrei affrontato. La mia famiglia veniva da una serie pluriennale di difficoltà, un incidente stradale invalidante e due casi di cancro. Ora toccava a me, non potevo abbattermi e ovviamente non potevo dirlo a nessuno se non al mio compagno, nemmeno alla mia famiglia di origine in cui c’era chi in quel momento stava affrontando una radioterapia dopo aver sostenuto nove mesi di chemio. Dirlo era fuori discussione. Rifeci il test che ovviamente confermò il primo. Dico ovviamente non perché non creda che a volte vi siano falsi positivi, ma solo perché, come ripeto, io già sapevo tutto fin dalla telefonata di Fabrizio, quel venerdì. I medici furono sorpresi dalla mia forza di volontà, pensavano di avere davanti, come chissà quante altre volte era successo, una persona disperata e invece si sentirono dire «Bene, signori, ora cosa facciamo? Che devo fare? Il toro va preso per le corna!». I miei valori, quei numeretti con cui ancora oggi, per fortuna perché sono ancora vivo, faccio i conti, non erano così preoccupanti per una persona appena siero convertita. Alti, ma non altissimi, mi permisero di non iniziare subito la terapia. Quindi mi sembrava di non essere malato, continuavo la mia vita di sempre, ogni tanto un controllo, ma niente di che, dopo tutto. Crollai, come a un certo punto crollano tutti, quando mi fu detto che la mia viremia era ormai oltre 300.000 copie e i miei CD4 stavano scendendo, anche se non di molto, il che mi obbligava a iniziare a prendere i farmaci. Fu lì che mi sentii malato, che mi sentii condannato. Mi fu detto che esistevano tanti farmaci, che altri erano in sperimentazione, che se avessi seguito con scrupolo le indicazioni non avrei avuto fallimenti terapeutici e che, se ci fossero malauguratamente stati, avrei potuto 58
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prendere altre medicine. Non ero moribondo, insomma. Fui aiutato. Mi aiutò una stupenda persona, una psicologa che ora non è più tra noi: ce la portò via all’improvviso un cancro, a tutti noi sieropositivi che trovavamo un grande e gratuito conforto, parlando con lei. Andai avanti. Mi buttai nel lavoro, in cui ci fu qualche contraccolpo ma dovendo affrontare difficoltà anche in quell’ambito – niente che andasse oltre problemi di convivenza o divisioni di compiti, tutte stronzate insomma – non mi era permesso di pensare. Prendevo i farmaci, andavo avanti, i valori erano tornati accettabili, quelli che dovevano scendere scendevano e quelli che dovevano salire, o almeno non scendere, lo facevano. In tutto questo tempo non ho assunto sempre la stessa terapia. Mi accorsi dopo un paio d’anni che gomiti e ginocchia perdevano massa: non ho mai avuto braccia voluminose e vedendole assottigliarsi ancora di più andai dai medici e dissi loro che se il mio corpo doveva subire modificazioni per la lipodistrofia causata dai farmaci, non mi sarei più curato. Mi cambiarono la cura. Andai avanti. La lipodistrofia si interruppe e non ebbi altri effetti collaterali: sembrava che la battaglia non fosse più mia ma dei medici che non riuscivano ad azzerarmi la carica virale, che restava sempre un po’ sopra la soglia della rilevabilità. Di portarmi sotto soglia fregava più a loro che al sottoscritto. Tuttavia, dire che per me l’HIV era come se non esistesse è una bugia. È vero, non ci facevo più caso, nemmeno la mattina quando prendevo le medicine, però è rimasto sempre presente davanti a me, magari non proprio a sbarrarmi il cammino, ma più come una luce che vedi sempre con la coda dell’occhio, un asterisco sulla vita. Sono invecchiato, ho passato anni in cui l’HIV non è stato certo il primo dei 59
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miei problemi. È restato lì, sullo sfondo, e chissenefrega! E ora sono a carica irrilevabile. Ma è stronzo, l’HIV. L’HIV si fa sempre ricordare. Da un po’ di tempo, circa un anno, sono rientrato nelle statistiche, quelle che mostrano come chi è sieropositivo sia più spesso colpito da altre patologie che non sono a esso necessariamente correlate, ma che con più frequenza colpiscono noi rispetto ai soggetti sani. Mi racconto ogni giorno che forse questa nuova malattia sarebbe arrivata lo stesso, mi curo sebbene anch’essa sia cronica – e ringraziamo tutti gli dei di ogni pantheon perché oramai anche l’HIV può considerarsi patologia cronicizzata! – e vado avanti. Qualche volta lo mando affanculo, qualche volta ci vado d’accordo, come con un gemello siamese che non mi sono scelto. E guardo ai ragazzi di oggi, quelli che potrebbero essere miei figli, quelli che pensano che con una pillola da prendere, anziché usare i preservativi, non ci si possa contagiare. Vedo schiere di gay inneggiare alla PrEP, li vedo usarla come se fosse la pillola anticoncezionale, che ti impedisce di rimanere gravido di un figlio con un nome di tre lettere, senza considerarne gli effetti collaterali pesantissimi su fegato e reni che io almeno monitoro continuamente, mentre loro, «forti» del fatto che «ormai c’è un rimedio», non si fanno nemmeno uno straccio di analisi di qualunque tipo. Vedo ragazzi convinti che ormai l’HIV e l’AIDS siano qualcosa che appartiene al passato, che il progresso li abbia sconfitti, che non ci sia più bisogno di preoccuparsi e «vabbè, poveracci quelli che ormai ce l’hanno». A me è successo a 38 anni, avevo già fatto un pezzo della mia strada... e vedo persone che ne hanno 20 e non si 60
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rendono conto che gli anni più verdi della vita è meglio «camminarli» senza pesi sulle spalle, pesi che non potrai toglierti mai. Si va avanti, è chiaro, ma anche se non rinnego nulla di quello che ho fatto perché io non so cosa siano i rimpianti (non è vero, ne ho uno bello grosso, ma non riguarda il mio stato di salute)... beh, sarebbe stato meglio non andarci, a quella mostra. Oppure andarci, ma al ritorno fermarsi a comprare una scatola di preservativi, anziché dover per sempre avere a che fare con scatole di antiretrovirali dai nomi più fantasiosi. Così facendo, almeno, si può continuare a vivere, anziché andare avanti.
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X Io non me lo aspettavo 3 giugno 2003 «Tosse da stress»: questo mi avevano detto. Poi... Una sera d’estate sono uscita per fare la spesa e ho rivisto la mia casa e il mio cane dopo tre lunghi mesi. Tre lunghi mesi di solitudine e di terrore. Non avevo mai fatto i conti con la paura. La paura, lo dico con umiltà, fino ad allora non sapevo cosa fosse… Da ex malata, ex perché sono entrata nella fase conclamata senza avere la minima idea di cosa fosse (AIDS o Hiv+… le cose sono diverse). In un attimo è cambiata la mia vita, radicalmente e non ci sono sconti per nessuno. Punto. E allora «Mambo»! Io voglio vivere come se non ci fosse un domani. Ma andiamo per gradi. Dopo aver ripreso il mio corpo, il peso che era andato troppo giù da non stare in piedi, piano piano ho ripreso a vivere, vivere la quotidianità intendo. Che sembra una cosa scontata, ma in quel caso non lo era. Non lo era perché io, fino a pochi mesi prima, per esempio, mi alzavo la mattina per andare a lavorare, uscivo con gli amici e… bla bla bla…, cose scontate. 62
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Ma di scontato ormai non c’era più nulla. Nulla! La cooperativa per la quale lavoravo come operatrice sociale mi aveva licenziato «costringendomi» a firmare: scandaloso! «Ma come mai?», vi chiederete. L’ospedale in cui ero nella prima settimana non ha rispettato la privacy, quindi la seconda fase della malattia, che doveva essere la ripresa della quotidianità, è stata la più dura di tutte. Sì perché avevo problemi di salute alquanto seri, e soprattutto avevo il frigo, la dispensa e la ciotola del cane vuoti; quel vuoto era esteso anche negli occhi della gente che mi additava come puttana e drogata, cose a me estranee. Piccoli passi, grandi risultati. L’ignoranza, nel senso letterario della parola, ha giocato a mio favore. Con la ripresa del mio corpo, ma ancora ben lontana dalla serenità, iniziavo il mio reinserimento «in società». Anche con l’aiuto di quei pochi amici vicini, cui naturalmente non avevo detto nulla, per i quali avevo un tumore polmonare, tesi che a tutt’oggi porto avanti: SONO SOLO FATTI MIEI! Avendo perso i genitori in età adolescenziale, la cosa è stata assai più difficile. Ma salto questo passaggio su sorelle, parenti ecc…, per non ricadere nel buio dei giudizi non detti ma evidentissimi. Sguardi e assenze hanno spiegato ogni cosa. Piano piano ho ricominciato a lavorare, piccole cose, ma abbastanza per andare avanti, saltuarie certo, ma abbastanza 63
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per mangiare io e il mio piccolo cane. Non avendo supporto di amore vero e incondizionato, famiglia questa sconosciuta, ho cercato amore ovunque ci fosse qualcosa che brillasse, secondo me, come le cornacchie che scambiano un brillante con una molletta da bucato. Naturalmente erano solo mollette. Questa fase è finita da poco. Anche la mia ultima relazione era una molletta. Da un bel po’ di anni ho scoperto, prendendone coscienza solo da poco però, che le coincidenze non esistono. Spiego. Un giorno, guidando verso il mare in un pomeriggio assolato, ho visto un camion che mi sorpassava…«OK, ORA STERZO TUTTO A SINISTRA E LA FACCIO FINITA!» Invece, sempre col senno di poi, fu l’inizio per ricominciare a ricolorare la mia vita. In lacrime chiamai il Day Hospital e al telefono come sempre, piena d’amore e di gentilezza, l’infermiera mi disse di fermarmi subito e mi diede appuntamento per il venerdì successivo. Lì, vestita di tutto punto come faccio sempre quando vado in ospedale per esorcizzare il luogo, mi presentarono una ragazza, allora psicologa dell’associazione di volontariato a difesa del malato che individuò immediatamente la situazione. Testuali parole, lo ricordo come fosse ora: «Nooo, ma tu sei sola!». 64
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Io dallo psicologo, non se ne parla, assoluta presunzione. Intrapresi un percorso molto breve ma fondamentale: non ero più sola. Non era assolutamente vero che questa patologia apparteneva a categorie specifiche, no! Fa parte, purtroppo, della quotidianità di tutti noi, nessuno escluso. Nessuno escluso! Razza, età, estrazione sociale, preferenza sessuale, nessuno escluso! Posso dire che al momento non soffro più come allora, che, sembrerà strano, ma questo ospite dentro di me neanche mi dà noia più di tanto, non si fa vedere da un sacco di tempo (in gergo non rilevato), e che, da ultimo, ma sicuramente non per importanza, lì, in quel venerdì con la camicia a fiori e gli stivali verdi, io ho trovato la mia nuova famiglia, quella che ti scegli, quella che si chiama Tobia e Nina, quella alla quale mi rivolgo anche per le stupidaggini, quella con cui condivido i viaggi. Beh!!! non male direi… Un grazie particolare di amore e di grande stima per il/la presidente dell’associazione che ha permesso, con l’impegno, la costanza e la tenacia del suo instancabile lavoro, a me e a tante altre persone come me, di ricominciare a colorare la propria vita. GRAZIE INFINITE, ALL’INFINITO! Ora non ci penso quasi mai, la mattina a colazione prendo la pillola e punto. Non tralascerei l’importanza del mio medico personale (mai dimenticherò la sua dolce voce che mi diceva «Ti prego, mangia! Altrimenti non guarisci!». Io, invece, mi lasciavo morire. Il virologo è soprattutto amico, lo specchio al quale non mi posso sottrarre e il mio confidente n. 1. 65
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Quando faccio i controlli di routine – che devo dire? – sembra strano, ma è come se i membri dello staff sanitario fossero i cugini di questa famiglia scelta. Insomma, è vero io sono HIV+, ma sono anche una donna di 53 anni in forma smagliante, una donna che fa un sacco di lavori, una donna con una famiglia, quella del DNA, ritrovata, bellissima, e con una famiglia acquisita favolosa. LA PAURA È UN PENSIERO CHE DETERMINA UNO STATO D’ANIMO, MA I PENSIERI SI POSSONO CAMBIARE. LAVORANDOCI, NATURALMENTE, MA SI POSSONO CAMBIARE, GARANTITO! Questa è la sintesi di anni di sofferenza nella quale ho trovato alla fine anche la gioia. Quindi vorrei dire alle persone che del giudizio hanno fatto motivo di conversazione, che chi è senza peccato, beh, ci pensi meglio. Giù le mani dalla mia autostima! In fede, MOLLETTA
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XI Dieci anni, un mese e pochi giorni Dieci anni, un mese e pochi giorni... Sono Joy, nomignolo che mi sono dato da quando sono diventato anche sieropositivo! Eh sì! Sono anche sieropositivo oltre a essere un uomo, imprenditore, sicuro di me, ma anche un po’ narciso e un po’ matto! Quando ho scoperto che ero entrato in contatto col virus il mondo mi è crollato addosso. Avevo tanta paura ma soprattutto provavo tanta rabbia nei confronti della persona che me lo aveva trasmesso, il mio compagno di allora che, purtroppo, non era stato sincero con me: ho avuto troppa fiducia in lui. Cosa ho fatto di male per meritare ciò? In fondo ho sempre vissuto una vita «non fuori dagli schemi»! I primi tempi sono stati duri, non vedevo più un futuro tranquillo, mi ponevo delle domande alle quali non riuscivo a dare risposta, o, se la trovavo, era tutto nero... - «E se infetto qualcuno?» - «Con chi potrò parlarne?» - «Cosa penserà la gente se viene a conoscenza del fatto che sono sieropositivo?» 67
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La mia ignoranza in merito all’argomento era tanta, ma con il tempo e soprattutto grazie a una nuova famiglia, ho ritrovato la forza e il coraggio di ricominciare a credere che in fondo, a parte alcuni piccoli accorgimenti, potrò vivere una vita «normale»! Ebbene sì! Ho trovato una nuova famiglia, non sono solo, e questo grazie a Spazio Bianco, tramite cui ho conosciuto tante altre persone che come me hanno contratto il virus o hanno un contatto quotidiano con persone che lo hanno contratto. Il riuscire a confrontarsi con altre persone con la stessa situazione sierologica mi ha aiutato ad aprire gli occhi e vivere la vita con un sorriso in più! Grazie Titti! Ma grazie anche a L., a P., a M., a S., a M.; grazie a tutti voi che mi avete dato la forza di guardare avanti.
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XII Sono grato La mia storia inizia con la fine di un fidanzamento che credevo sarebbe durato tutta la vita. Per me fu un vero colpo, tutto era perfetto, tranne per un piccolo particolare: un nuovo dirigente nella ditta della mia fidanzata. Ma, come si dice, chiusa una porta, si apre un portone… I mesi seguenti, trascinato da conoscenze casuali e inaspettate, mi diedi alla pazza gioia, alla riscoperta di me stesso e fu con uno di quegli incontri che scoprii la mia indiscutibile omosessualità. Stupì anche me, bigotto e inibito, quanto il coinvolgimento, anche solo per un’avventura, potesse cambiarmi. Ma dopo la quiete c’è sempre una tempesta. Lavoro in ambito ospedaliero e ho a che fare coi rifiuti speciali, e proprio questo lavoro mi ha lasciato un segno indelebile, sia dentro che fuori. Nel 2012 al mio paese nevicò per due settimane costringendomi a casa nell’impossibilità di fare qualcos’altro che oziare. Le strade erano infatti impraticabili e le ferie fino al disgelo furono d’obbligo. Fu dopo questo breve periodo che cominciai ad avvertire i primi sintomi delle malattie: urine scure, fiacchezza e una gran voglia di non fare niente, nemmeno di camminare o mangiare. Così mi decisi ad andare al Pronto soccorso e fui subito ricoverato in isolamento. Ricordo che trascorsi ogni minuto di ogni giorno di quell’interminabile settimana in apprensione aspettando l’esito dei prelievi che non arrivava mai. Poi fui trasferito al reparto Malattie infettive e lì ebbi il riscontro con la dura realtà. I medici e gli infermieri me li 69
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mandò il cielo, sono sicuro, perché prima di comunicarmi la diagnosi cercarono in tutti i modi di farmi sentire «normale», anche se di «normale» i risultati avevano ben poco. Ero sieropositivo, con contorno di Epatite B e una spruzzata – seppi mesi dopo – di sifilide. Perfetto no? L’album delle figurine era quasi finito. Ora ci scherzo ma lì per lì ero un vorticoso concentrato di domande: «Come lo dirò ai miei, agli amici? Come sarà la mia vita? È tutto finito? Ho contagiato qualcuno? Cosa dovrò fare? Uscirò mai da questo ospedale?». Eh sì, perché, per un ignorante in materia come me, quelle parole erano genericamente sinonimo di morte, cancro… e nient’altro. A questi miei interrogativi trovai risposta grazie ai dottori, che per prima cosa vollero farmi capire come con questa malattia si continuasse a vivere normalmente, solo con qualche accortezza in più. Mi spiegarono bene cosa fosse e come si curasse, dimostrando una grande disponibilità a stabilire un rapporto molto confidenziale, al punto di arrivare a voler sapere come avrei affrontato certe situazioni, cosa mi sentissi di fare o non fare. Ebbi così il coraggio di dirlo ad amici e familiari e devo dire che il calore ricevuto fu totale. La cosa che più mi diede sollievo fu il fatto di non aver contagiato nessuno intorno a me. Quell’ago galeotto, che tanto male mi trasmise, mi fece scoprire un mondo di cui ignoravo del tutto l’esistenza. In reparto conobbi persone con problemi immensi, non come i miei, «risolvibili» assumendo 2 o 3 pasticche: gente che lottava giorno per giorno tra la vita e la morte. E queste persone, nella tragedia, mi facevano in qualche modo sentire fortunato, perché, se non altro, il mio male era curabile. 70
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Fin dall’inizio la mia famiglia e le persone intorno a me si sono dimostrate uniche, belle dentro e fuori. Hanno accettato la mia situazione senza cambiare una virgola nel nostro rapporto, anzi stringendosi ancor di più intorno a me e riempiendomi d’amore e di amicizia. Molta acqua è passata sotto i ponti da quella volta, ma la mia vita non è cambiata se non per i trimestrali controlli e i farmaci da assumere quotidianamente. Terapia semplice, non vi pare? Ma è proprio questa che mi tiene in vita, che tiene assopito il male dentro me, che non gli permette di prendermi come ha già fatto con migliaia e migliaia di anime in passato. Mi dispiace infatti sentire di gente che muore solo per non aver preso correttamente i medicinali; la cura c’è e con effetti collaterali sempre minori. Perché buttare via una vita che potrebbe essere ancora piena di gioie e momenti indimenticabili?!? La ricerca fa miracoli. Pensare che se fossi nato 20 anni prima forse non starei qui a raccontarlo mi fa apprezzare ancora di più la vita, anche nelle cose più semplici. Alla luce della mia esperienza, dopo tutti questi anni mi rimangono solo due parole: «Sono grato». Sono grato alla ricerca, ai dottori e agli infermieri che con molto tatto e infinita accortezza mi hanno accompagnato fino alla dimissione, e a quelli che tuttora mi seguono. È bello sentirsi chiamare per nome e cognome in ospedale… Sono grato alla mia famiglia che non mi ha fatto mai mancare il suo amore, agli amici che hanno vissuto con me tutte le tappe di questa vicenda senza mai lasciarmi la mano. E ora sono felice di esser grato anche a un nuovo amore che da 2 anni illumina la mia vita. 71
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XIII Ho incontrato l’HIV nel 1985 e si chiamava LAS Ho incontrato l’HIV nel 1985, ero in una comunità diurna lontano dalla mia città, per smettere di usare eroina. Lì mi venne annunciato il contagio con questo virus che ancora non aveva neanche un nome, figuriamoci una cura; a me dissero che si trattava di LAS, linfoadenopatia satellite. All’epoca ero molto presa dalla mia dipendenza e non mi spaventai per niente anche perché fisicamente mi sentivo bene e sono andata avanti con la mia vita da eroinomane. Nel 1986 decisi di entrare in una comunità, residenziale stavolta, e lì eravamo praticamente quasi tutti sieropositivi. Molti sono morti, ho perso decine di amici e ancora cure certe non ce ne erano e quelle che c’erano acceleravano la dipartita. Intanto il virus aveva cambiato nome in HIV. All’inizio degli anni Novanta erano arrivati in Italia un paio di farmaci antiretrovirali, uno più devastante dell’altro in quanto a effetti collaterali, tanto da inficiare profondamente la qualità della vita. Il 1993 è stato per me l’annus horribilis, ho perso un bambino che aspettavo anche grazie al farmaco AZT che dovetti assumere, d’altronde le informazioni mediche in quel periodo erano limitate e devo ringraziare di essere ancora viva. Comunque l’esperienza con le terapie per me finì allora. Poi nel 1999 arrivarono dei farmaci per me sopportabili, iniziai ufficialmente la terapia, perlopiù spaventata dalle analisi della carica virale: 1.300.000 copie. Avrò ingerito migliaia di pillole, la media all’epoca era di 72
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14/15 al giorno…oggi facciamo festa con le monoterapie e poi, quando capita di stare senza un giorno o due…, ti senti comunque rinascere e capisci che quei disturbi che provi tutti i giorni non sono colpa tua ma solo causa dei farmaci che ci tocca prendere. E tocca prenderli veramente, ho provato in passato a fare sospensioni controllate cioè concordate col medico, lì per lì ti senti un leone, poi dopo qualche mese… a me tornava la candida ovunque ed ero costretta a ricominciare subito la terapia. Tutta questa sofferenza mi ha portato a entrare in un’associazione di pazienti per cercare di far sentire la nostra voce, richiedere farmaci con molecole migliorate rispetto la loro tossicità e quindi con minori effetti collaterali, meno discriminazioni, evitare di essere licenziati dal proprio posto di lavoro se si viene a sapere la condizione di sieropositività, e altre mille tematiche che fanno parte dell’HIV. Eravamo «visibili» solo in 20, nel senso che molte persone HIV+ sono costrette a vivere nell’anonimato appunto per evitare licenziamenti, sfratti e abbandoni perché, diciamolo, questa è una malattia che hanno voluto rendere «sporca», insopportabile da vivere, con una affettività assai articolata e molto soggettiva…e oggi, ahimè, è ancora tutto così. Poco è cambiato perché senza programmi seri di informazione e prevenzione, che tutti i governi hanno eluso, o peggiorato la situazione «categorizzando» dalla fine degli anni Ottanta a oggi, si alimentano solo paure, paranoie e falsi miti di contagio. In compenso nell’enorme business dei medicinali le case farmaceutiche hanno prodotto farmaci sicuramente più funzionali e meno tossici. Di AIDS in Italia non si muore quasi più, ma ci viene 73
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data un altro tipo di morte: quella sociale. Io mi ritengo fortunata ad aver incontrato molte persone che hanno accettato il mio stato, la mia famiglia per prima, e questo certamente ha fatto di me una persona più forte, ma penso sempre a tutti coloro che non hanno famiglia o che vengono discriminati e giudicati proprio dalle loro famiglie, e ce ne sono ancora tanti, troppi. Siamo nel 2018 e bisogna smettere di considerare l’HIV come una cosa sporca perché te la sei andata a cercare: è una malattia come le altre. Tutti i giudizi e le discriminazioni vengono da una società malata, ignorante perché non investe nella prevenzione e fallita, perché l’umanità ha perso se non comprende che comprensione, tolleranza e aiuto reciproco dovrebbero essere lo scopo unico della nostra esistenza su questo pianeta. Spero, sempre e comunque, nell’essere Umano. Oggi faccio ancora la terapia e dovrò fare i conti anche con la vecchiaia, sicuramente posso ritenermi fortunata rispetto alle decine di amici che ho perso in tutti questi anni grazie a questo virus che oggi io chiamo «il mio simbionte».
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XIV Cambia. Molto è cambiato da quel giorno Sebbene fossi stato sempre attento e scrupoloso, l’HIV si è presentato davanti a me come un fulmine a ciel sereno. Sono bastati pochi rapporti orali completi e l’incubo si è avverato. Mi ha aiutato il mio coraggio. Mi hanno aiutato la forza di volontà e la capacità di non arrendermi mai. Mi ha aiutato il voler guardare in faccia la realtà che mi ha permesso di affrontare una situazione davvero complessa. Perdere la propria memoria e ritrovarsi sieropositivo nel giro di un solo anno è quanto di più duro possa accadere nella vita. Ciò nonostante eccomi qui a raccontare questo pezzo di storia di una persona che oggi riesce a guardare con lucidità e razionalità un periodo difficile e travagliato, dal quale sono riuscito a venir fuori a testa alta, con assoluta dignità e animo sereno. Non è certo facile abituarsi a dover prendere per tutta la vita delle pasticche, e doversi recare in ospedale periodicamente per analisi e visite, ma soprattutto non è facile accettare di essere sieropositivi e quindi imparare a conviverci. Eppure questa è la sfida che mi attende. Sono stato fortunato ad avere persone straordinarie accanto che mi hanno supportato, consigliato e sorretto nei momenti più terribili in cui lo sconforto rischiava di prendere il sopravvento. Le ringrazio dal profondo del mio cuore e ringrazio chi mi è rimasto accanto nonostante la sieropositività. 75
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Posso dire con tranquillità che rifarei tutto quello che ho fatto. Non ho rimorsi né rimpianti. Perché la paura delle malattie e dell’HIV in particolare non mi ha mai impedito di essere e sentirmi libero. Non me lo ha impedito perché non glielo ho permesso io. Tra il vivere una vita libera anche sessualmente e il non viverla schiacciato dalle paure ho preferito la prima. Bisogna sempre trovare il giusto equilibrio tra libertà – anche sessuale – e la tutela della salute propria e di quella degli altri. C’è una linea sottile che le divide: saperle conciliare è il risultato più ambizioso che auguro di raggiungere a tutti e a ciascuno.
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XV Intervista n. 1 11 maggio 2013 Ma sta già registrando? Sì, sta registrando. Allora proviamo a fare questa intervista… anche se tu sai già molto. Non so quanto mi ricordo ancora… perché certe volte voglio rimuovere alcuni momenti, il passato… lo voglio rimuovere. Che cosa vuoi sapere? Mi racconti come hai contratto la malattia? La storia della tua vita…, solo quello che ti va di dirmi… È stato il destino! È stato il destino a farmi incontrare mio marito, perché se io fossi riuscita a perdonare il mio primo fidanzato con cui sono stata insieme per quattro anni… Lo trovai in casa con una ragazza. Lei stava nuda sul mio letto, lui in mutande… Non ti puoi neanche immaginare come mi sentii. Mi sentii morire… Ma lei, alla fine, che c’entrava? È stato lui molto debole. Anche se diceva che mi amava ed è venuto parecchie volte a chiedermi scusa, io non sono mai riuscita a perdonarlo, tanto profondamente mi sentivo ferita. In seguito mi ha cercato spesso, a volte mi ha anche seguito… Ma io nulla. Mi faceva schifo. In seguito andò – era un ingegnere – a Londra dove mi chiese dopo alcuni mesi di raggiungerlo. Ricevei una lettera con il biglietto aereo per Londra, e 300 sterline… lì per lì stavo 77
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quasi decidendo di andare, di riprovare, non dormii per due notti… ma, riavvolgendo il nastro, non ce la feci, stracciai il biglietto aereo e con i soldi decisi di farmi una vacanza insieme ad Anna, la mia sorella più piccola, in Sardegna. Fu qui che conobbi Roberto, quello che è diventato poi mio marito. Avevo 23 anni… Per questo ti dico che è il destino…, se io non fossi andata lì… [silenzio], ma è così che è successo. A Roberto, per il Natale di quell’anno, i nipoti regalarono una bambola, una bambola con i capelli biondi, come auspicio che lui entro pochi mesi avrebbe conosciuto la donna della sua vita, appunto una bambola. E dopo che successe? Roberto si trovava lì per motivi di lavoro, insieme a un suo amico. Ma allora non accadde nulla. Parlammo, ci vedemmo, ridemmo,… niente di che. La vacanza finì presto ma, tornata a casa, lui si innamorò talmente da perdere la testa: non voleva stare senza di me. Probabilmente aveva già il suo piano ben definito, sapeva dove voleva arrivare… Ci rivedemmo…[silenzio] e poi successe quello che succede… [silenzio, parla sottovoce] C’è stato, la prima volta, un rapporto protetto… [silenzio] e poi non protetto… e in seguito, una notte alle 3, dopo il rapporto, mi disse che era malato di AIDS. La seconda volta? Sì! Me lo ha detto la seconda volta e io ho iniziato a piangere, a disperarmi e a pensare che Dio avesse voluto così… Non sapevo cosa dire, pensavo che quello dovesse essere il mio destino. Piangevo e basta. A quei tempi non 78
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c’erano terapie. Dopo un po’ è uscito il primo farmaco, l’AZT mi sembra. Ma quando te l’ha detto, tu come hai reagito? Qual era la tua consapevolezza di allora? Tu sapevi cosa fosse questa malattia? No, non ne sapevo niente, tranne che era l’anticamera della morte. Pensavo che sarei morta a breve e… dicevo dentro di me che Dio aveva voluto così. [sospira] Quella notte piansi sempre… Non sapevo che avrei dovuto fare, ma poi in fondo… Io ho amato quest’uomo. A me è piaciuto perché a quell’epoca io desideravo un uomo nella mia vita; quello che doveva essere mio marito doveva essere carino, giovane, bello… Ho sempre pregato di non innamorarmi di un uomo più grande di me, di uno sposato, meno carino, o di un uomo con dei figli.[silenzio] Parliamo dell’inizio del 1991. Lui mi informò più dettagliatamente su questa malattia. Ma io sempre, sempre con questo pensiero fisso, mi ripetevo: «Questo è il mio destino, probabilmente deve essere lui il mio uomo, mio marito. A questo punto dico sì, solo lui potrà essere mio marito, nessun altro, perché poi…» [piange] Quello che mi ha fatto più rabbia è che avrebbe potuto, e dovuto, dirmelo prima, in modo tale che potessi scegliere…, no? Se questo uomo, che sentivo come quello della mia vita, che avevo cercato e che mi piaceva per l’aspetto, come per tutto il resto, me lo avesse confessato… forse, ugualmente, avrei detto: «Questo è il mio destino. Questo ho scelto e, anche se ha un problema, me lo sposo; con il problema e tutto il resto». Sarebbe stata la mia scelta, la mia libera scelta. Per amore si fa tutto… tante volte. 79
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Lui cercava sempre di tranquillizzarmi, perché nel frattempo si faceva dei controlli e mi diceva: «Guarda, i dottori dicono che ci sono delle speranze, più in là dovranno uscire dei farmaci…», e così via. Ma lui non prendeva dei farmaci? Lui, insieme a un altro, è stato tra i primi casi di questa malattia nella sua zona. Lui è stato il secondo caso. Ma non faceva terapie? E tu non sei andata a fare nessuna analisi all’ospedale? Niente, niente, a quei tempi… Niente! Io ho fatto il test dopo otto mesi circa… e a lui, dopo un anno e mezzo, hanno proposto di fare una terapia, con l’AZT…, un farmaco mi sembra che era da poco tempo uscito. Quando mi hanno fatto le prime analisi, dal test è venuto fuori che ero stata infettata, ma il quadro generale clinico risultava buono. Avevo i CD4 quasi come una persona normale, circa 900. Tutto era normale nel complesso, a parte la presenza del virus. Con il passare dei mesi io cominciai ad avvertire molta stanchezza, soprattutto nelle gambe… In questo periodo hai avuto rapporti protetti o non protetti? O non ti interessava nemmeno averli? Qualche volta protetti, qualche volta non protetti…, più non protetti che protetti… non so… Ho preso la cosa pensando: «Oramai più di questo che cosa può succedermi?» Alla fine l’ho scaricata sul destino, dicendomi: «È successo così! Adesso insieme combatteremo…». Da una parte lui mi rafforzava, ribadendo che prima o poi sarebbe uscito un vaccino e ci saremmo salvati; dall’altra mi dicevo che avevamo formato una coppia e saremmo così andati avanti. 80
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Dopo alcuni mesi, nel corso dei quali erano continuati i miei malesseri, andammo di nuovo a fare i controlli programmati. Già alcuni valori si stavano modificando, iniziavano a scendere gli anticorpi e a presentarsi un po’ di fastidi. Dopo circa due anni, ripetei ancora questi esami, non mi dettero niente, perché stavo bene… Io ho iniziato ad assumere farmaci nel 1995, o forse più tardi, nel 1997. Ma lui faceva delle terapie? Lui sì! I suoi anticorpi erano arrivati a 150. Aveva iniziato con le cure, ma al principio stava male e non riusciva a prendere le medicine. Un anno è stato senza, poi gradualmente si è abituato e le ha prese. Tornai a fare altri controlli e scoprii che lui aveva anche l’Epatite C. Dopo il secondo o il terzo anno di accertamenti risultò che anche io l’avevo contratta, malgrado fin dall’inizio avessi sempre fatto il kit di analisi e non fosse mai emerso. Non sapevano come dirmelo… anche quest’altra malattia! Già quando mi avevano informato dell’HIV, non sapevano come darmi la notizia. Erano intervenuti pure gli psicologi, oltre ai medici… [silenzio] Anche allora mi ero sentita sola, sola, sola. Di fatto lo ero, perché lui come carattere è abbastanza distratto, incapace di trasmettere senso di protezione. È stato sempre un egoista, ha sempre pensato solo per se stesso e queste sono state le due giornate in cui, avendo notizie tristi, molto tristi, ho sentito la durezza della solitudine. Ho avvertito sempre più questa lontananza, pur standogli vicino… Lo hai perdonato? Non lo so. Adesso mi è quasi indifferente…, vorrei 81
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cancellare questo passato. Non l’associo più a me, anche se magari, guardando una foto, dico: «È lui, il mio ex marito!». Certo, l’avere accettato il fatto che mi avesse contagiata significa che provavo per lui un sentimento molto forte, un amore folle. Folle o forte sei quando fai questo per l’altra persona. D’altronde… non mi sono mai sentita tanto responsabile, se non per il fatto che, se non fossi stata lì quel giorno, non lo avrei conosciuto. Forse sarebbe andata meglio da questo punto di vista, cioè della salute. Nessuno prevede il futuro, nessuno può sapere… Se avessi perdonato il mio ex fidanzato, se fossi andata a vivere con lui, magari mi avrebbe riempito di botte… può darsi sarebbe stato peggio dell’inferno che è la mia vita, non lo so… Pensa che in quel paesino dove vivevo con lui, io ho ricevuto solo del bene, rispetto e ammirazione. Anche oggi, se andassi lì dopo tanti anni, chiunque ricorderebbe l’ex moglie di Roberto C. S’incantavano le persone a parlare con me. Non sono mai stata marginalizzata per la mia sieropositività, forse perché sapevano che questo «problema» me lo aveva trasmesso lui. Non ho mai subito alcun dispiacere dalle persone, parenti o conoscenti, che erano state informate della mia situazione. Nessuno mi ha emarginato, nessuno ha mostrato insofferenza nei miei confronti o si è allontanato da me. Nessuno ha avuto paura di mangiare a casa mia o di dormirvi, di ricevermi a casa sua, di invitarmi a una cena o a una festa. Rispetto ad altre persone che hanno avuto questi problemi, io non ho sofferto mai alcuna emarginazione o discriminazione. Hai cercato altre persone sieropositive, per vedere, 82
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per sentire come si vive e come non si vive con questa malattia? No…, però, andando a fare i controlli all’ospedale, nella sala d’attesa, mentre aspettavo che arrivasse il mio turno, capitava di scambiare una parola con qualcuno. E così abbiamo conosciuto – eravamo sempre insieme – diverse persone con cui abbiamo fatto amicizia e confrontato le diverse esperienze di vita. Alcuni raccontavano come vivevano nelle loro famiglie, a chi lo potevano dire e a chi no… Di qualcuno lo sapeva soltanto la madre, mentre i fratelli ignoravano completamente la cosa. Di qualcun altro, invece, lo sapevano tutti gli amici e non c’erano problemi. Ricordo che a quei tempi, parlo sempre del 1995, vennero delle coppie, marito e moglie, a fare delle analisi. Malgrado uno dei due avesse la malattia, facevano sesso non protetto e l’altro non si infettava, non prendeva il virus. Da allora si iniziò a dire che forse gli scienziati avrebbero dovuto scoprire che tipo di anticorpi avessero quelle persone lì, per riuscire ad aiutare anche gli altri. Adesso conduci una vita diversa da allora? Come vivi la malattia, anche sessualmente parlando? Da allora ho adottato uno stile di vita il più sano possibile sia nei comportamenti, sia nell’alimentazione; mai eccessi o abusi. Sapendo ad esempio che le cose fritte mi fanno male al fegato, ho evitato sempre di mangiarle… Ho mirato, insomma, a condurre una vita salutare e tranquilla, cercando di non esagerare mai. Poi, per quanto riguarda i farmaci, o la malattia, devo precisare: all’inizio i medici – quando hanno provato a somministrarmi le prime terapie perché il sistema immunitario stava scendendo con gli 83
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anticorpi a 300 – insistevano con l’assunzione scrupolosa delle medicine tra cui c’era sempre questo AZT che il mio organismo non tollerava per niente. Provai a prenderlo due o tre volte, ma arrivavo fino alla seconda settimana con malesseri forti e non riuscivo più ad andare avanti… Poi sono uscite altre terapie che al principio si vendevano alla farmacia del Vaticano, dove andavamo a comprarle finché non fu approvato il piano sanitario a livello nazionale per tutte le strutture ospedaliere… Il Norvir, mi sembra, era acquistabile soltanto in quella farmacia e costava allora un milione di lire… Le prime terapie, che pagavamo a caro prezzo, non mi facevano stare bene. Forse il mio sarà stato un caso a parte… io non avevo una grande fiducia nei farmaci che, anzi, ritenevo mi facessero solo male, malgrado l’insistenza dei medici i quali mi sollecitavano ad assumerli, nonostante i risultati delle analisi del sangue non fossero incoraggianti. Per di più avevo dei malesseri e spesso non riuscivo nemmeno a stare in piedi. Ad aiutarmi di più è stato il mio carattere che mi ha nel corso degli anni fatto trovare in me stessa le forze per reagire al male. E allora, mentre io vedevo che loro mi torturavano con questa idea delle terapie, all’inizio c’erano poche possibilità di scegliere. I farmaci erano due: su qualcuno andavano bene, su qualcun altro no. Non si sapeva quale procurasse più danni al fegato. Non presi niente per qualche anno ancora, perché quello mi faceva male e quell’altro lo stesso: arrivata la terza scelta, mi inserirono nel nuovo protocollo. Io a malavoglia, dopo aver letto tutti i fogli informativi, tutti i prospetti, anche se ero contraria a questa terapia, 84
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mi convinsi e iniziai ad assumerla. Malgrado stessi sempre male i primi tempi, resistei e andai avanti. Passò il tempo e dopo tre mesi le analisi del sangue ancora una volta non erano come dovevano essere. Stavo male, mi ricoverarono e mi tennero più di un mese in ospedale, senza farmi scendere dal letto, perché dovevo far riposare il fegato: non c’era niente che potesse far scendere i miei valori se non il riposo… Lì sono stata veramente male… Durante quel mese di ricovero mi fecero assumere un farmaco che mi procurò quasi uno shock anafilattico. Un infermiere mi salvò… Ricordo che una sera uno dei ragazzi ricoverati, che stava abitualmente a parlare sulla sedia proprio davanti alla porta della sua camera, pregava tutti i santi, San Gennaro, Padre Pio, ma la mattina del giorno dopo morì. Lo vidi poche ore dopo mentre lo portavano via… era la prima volta che assistevo a una scena del genere. Stava nella stanza di fianco alla mia, aveva la tosse, respirava male. Allora si prendeva facilmente la bronchite e la polmonite. La maggior parte dei ragazzi ricoverati ricordo che aveva, oltre a queste, altre infezioni, la candida che, dovuta ai farmaci, colpì anche me allo stomaco. Lasciato il Policlinico di Napoli, mi spostai all’ospedale Spallanzani di Roma, dove fui inserita in un altro protocollo di farmaci. Ma anche questi mi facevano male e i valori del sangue restavano sempre uguali; male, male, male, fino a quando mi portarono in un altro reparto per la candida allo stomaco. Non ti dico quante sofferenze ho sopportato, a quante gastroscopie mi sono dovuta sottoporre allo Spallanzani 85
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e dopo un anno o due di ricovero volevano darmi altre medicine, passando a un altro protocollo… Questi sono stati tutti esperimenti; affermo ciò perché a livello immunitario non è mai salito un anticorpo con questi farmaci che assumevo, e i valori risultavano alterati. Tutti gli effetti collaterali li avevo io! Niente migliorava! Niente di niente. Un altro, nuovo, protocollo dietro insistenza dei dottori che mi dicevano: «Giochi con la tua vita! Devi prendere i farmaci, devi prendere i farmaci!». Cominciai quindi ad assumerli ma, visto che stavo male, smisi, nascondendo questo fatto ai medici. Senza questa terapia, tutti i miei valori iniziarono a migliorare e migliorarono le condizioni del mio fegato. A parte le vitamine, cercavo sempre di condurre una vita tranquilla e sana dal punto di vista dell’alimentazione. Quando andavo a fare le analisi vedevo i medici che mi chiedevano: «Prende la terapia?» e io rispondevo: «Sì! Prendo la terapia». «Bene, ti fa bene!», dicevano. Per fortuna che ho agito in questo modo, che mi sono disintossicata e sono andata avanti così… gli anticorpi senza terapia sono saliti fino a 400. Pensa che, quando io uscivo dal reparto, volevo volare, volare! Ma non è finita qui perché, passato un po’ di tempo, iniziai un’altra terapia: il Viracept combinato con non so quale altro farmaco. Di lì a poco avrei vissuto un altro trauma. Avendo allora un fisico perfetto, da modella – ho fatto anche la modella –, apparivo in forma e mi dicevo: «Almeno questo corpicino è intatto, ancora resiste e riesce a combattere il male». Da un giorno all’altro però le cose cambiarono: una 86
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mattina, andando a fare la doccia, mi accorsi che la carne del mio corpo era sparita, come se fosse stata risucchiata dall’interno; avevo perso volume e tonicità muscolare, soprattutto nelle gambe. Fu un’esperienza sconvolgente… Con la nuova terapia nel tempo, oltre questo problema, mi vennero dei noduli alla tiroide: la mia tiroide andò in tilt. Anche a causa di questo per due anni girai altri ospedali e, facendo ancora una volta la furba, sospesi la terapia, pur avendo paura perché sentivo che tanti morivano. Comunque sia, ero sempre alla ricerca di qualcosa adatto a me…, che andasse ad agire sul virus e non su tutti gli organi che mi si stavano distruggendo. Fino a sei anni fa io non sono stata fortunata, non ho mai avuto una terapia capace di fare risultati per quanto riguarda il virus. Mai! Con la mia forza d’animo, essendo stata sempre una persona ottimista, calma, dolce, sono arrivata fin dove sono arrivata, là dove una terapia mi ha fatto qualcosa… e pensa quanto tempo è passato dal 1991 quasi fino a oggi… Io seguivo per un certo numero di mesi le terapie che però mi provocavano queste infezioni, oltre agli effetti collaterali che su di me erano sempre, tutti, presenti; pertanto decidevo da sola di interromperle, considerando che mi portavano a peggiorare, non a migliorare. Dopo l’esperienza allo Spallanzani decisi di andare a Modena dove c’era un policlinico in cui facevano un check-up totale… Anche lì fui inserita in un protocollo, mi fu fatta una cartella per l’alimentazione, iniziai una terapia e fui attenzionata sotto molti aspetti fra cui quello dell’alimentazione, per me di fondamentale importanza. Mi piaceva l’organizzazione, il fatto che i medici parlassero con 87
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i pazienti e avessero per questi molte attenzioni altrove mai incontrate. Dopo un certo periodo a Modena, malgrado fosse stancante ed economicamente caro spostarmi, iniziai a tornare giù alla ricerca di qualche ospedale dotato di attrezzature, farmaci e medici specifici per questa patologia: niente. Ce n’erano distrutture ospedaliere… ma nessuna all’altezza: non ti assicuravano una terapia efficace! Nel frattempo rimasi con la mia cartella allo Spallanzani, alle prese con la solita insistenza dei medici circa l’assunzione delle terapie che se da un lato mi facevano star male dall’altro non miglioravano il sistema immunitario mentre i miei valori continuavano a essere fortemente alterati… Io non capivo questa cosa… che non mi faceva stare bene. Scelsi di andare anche a Milano, al San Raffaele. Presi appuntamento, feci i prelievi, entrai anche lì in un protocollo con un nuovo farmaco. I medici valutarono quanto avevo fatto in precedenza e li informai del fatto di non essere stata costante nell’assunzione dei farmaci, spiegandogliene le ragioni. Ma facevi avanti e indietro da sola? Lui non ti accompagnava? Sì, facevo avanti e indietro da sola…, prendevo l’aereo da sola. Andavo e tornavo, perché su di lui, al contrario di me, i farmaci funzionavano, agivano sul virus, senza effetti collaterali. Anche se facevano fatica ad alzargli il sistema immunitario… gli controllavano il virus. Quindi non ha mai avuto i problemi che avevo io. Lui andava allo Spallanzani ed era soddisfatto. Non ha mai avuto un ricovero. Mai! Io ne ho avuti tanti, lui nessuno. A Milano non è mai venuto e io mi sono trovata sempre 88
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sola. Nonostante i nuovi farmaci, continuavo a star male, per cui decisi di non andare più a Milano… Visti i risultati, interruppi di nuovo la terapia, e tornai allo Spallanzani, a Roma… ma anche lì andavo solo per i controlli, e non per prendere la terapia. Finalmente, quando arrivai a Perugia, dopo tante esperienze negative, il dottor Sfara mi indovinò la terapia giusta. Da quando io sono venuta a Perugia, sei anni, i miei anticorpi sono saliti sempre più: 600/700, adesso ne ho quasi 1.000… Quando mai ho avuto prima tutti questi anticorpi? Nel frattempo Roberto se ne era andato; ci siamo separati e sono in attesa del divorzio. Anche lui era un peso… perché altrimenti non si spiega… Prima che partisse avevo 400 CD4, un anno dopo la sua partenza erano raddoppiati. Partito lui, sono diventata più felice… Lo hai perdonato? Non lo so…, diciamo di sì. Credevo che, sposata in Comune e in Chiesa, migliorasse, che diventasse anche più affettuoso e si rendesse conto che era stato lui a infettare me, rovinandomi, non io… Ma devo dire un’altra cosa riguardo al «problema», a questa malattia che mi ha trasmesso. Quando ci incontravamo con gli amici affermava che lui mi aveva contagiata per paura di perdermi. Se me lo avesse detto prima… Diceva ai nostri amici: «Se io lo avessi detto prima probabilmente oggi non sarebbe più mia». Tanto dolore, tanto dispiacere, tanto pianto, e quello che mi dispiace un pochino in tutti questi anni che ho convissuto con la malattia… è che in fondo forse sono riuscita anche 89
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a perdonarlo… Qualche volta, quando stavo male, litigavamo… lo rimproveravo… ma raramente. Essendo un tipo violento con le parole e con i modi, lui mi faceva stare ancora peggio… perché io sono una persona a cui non piace bisticciare, urlare. Mi crea ansia sentire le persone litigare. E allora io, per evitare queste violenze, tante volte nemmeno dicevo niente. Soltanto una come me riesce a sopportarlo; ci sono riuscita per 17 anni. Quello che più mi dispiace è che, nonostante quanto mi ha fatto, in tutti questo tempo non mi ha mai chiamato «amore mio», mai! Io non mi sono mai sentita una donna amata…, è vero! E probabilmente quello che mi ha fatto bene è stato l’amore, sopra ogni cosa…, l’amore che ho ricevuto da questa persona – lui non è sieropositivo – che adesso mi sta vicino… l’amore nel vero senso della parola. Oggi mi sento di essere una donna amata da un uomo: lui è ossigeno per me. Alla fine, in questa vita, tutto gira intorno all’amore… Puoi avere qualunque cosa desideri, ma se non vivi questo sentimento, se non hai l’amore, non cresce niente in te, non si dà senso alla vita e alle cose che fai. Ma tu avresti preferito non sapere di essere sieropositiva? Diciamo che io sono una persona che preferisce sapere le cose… anzi qualche volta vado io a scavare per sapere… Avresti cambiato la tua vita? L’avresti vissuta in un altro modo non sapendo? Non lo so... [silenzio] Come stile penso che sarebbe stata più o meno uguale… 90
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Hai chiesto mai un sostegno psicologico? No, mai. Mi sono sentita sempre un buon psicologo di me stessa… veramente sono stata io psicologo di tanti altri…, psicologo suo, della suocera, di quanti ho avuto intorno, amici e parenti. Forse è anche il mio altruismo che mi ha portato a non nutrire un odio tremendo nei suoi confronti. Per la malattia ho provato un odio forte quando stavo ricoverata… Quasi tutte le volte che sono stata ricoverata…, sì! In quei momenti sola, con il dolore fisico, in quei momenti piangevo e lo odiavo e mi rendevo conto che quest’uomo mi aveva distrutto l’esistenza… Poi, quando tornavo alla vita normale, cercavo di dimenticare, di vedere in lui anche le cose positive per cercare di fare coppia, di essere una famiglia. Noi due insieme eravamo una bella coppia all’apparenza, però era soltanto una bellezza esteriore, non interiore. Io mi sono innamorata di lui, della sua bellezza esteriore, non del suo carattere e della sua vera e profonda interiorità che ho scoperto dopo. Lui era tanto egoista, amava solo se stesso… Secondo te le autorità fanno abbastanza per aiutare una donna che subisce una violenza del genere? Secondo me sono pochi quelli che ti ascoltano. Le persone che vedo io intorno a me, anche i medici, sono tutti stressati…
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XVI Intervista n. 2 1° giugno 2017 Potresti parlarci dell’impatto di quando ti hanno detto che avevi contratto l’HIV? So che è da pochissimo che hai appreso questa notizia… Sì, quasi un anno, diciamo… meno di un anno. Meno di un anno è il periodo più duro in assoluto… L’impatto con la notizia è come se a un certo punto entri in una stanza e ci rimani per molto tempo al buio, abituandoti a questo… e tu credi, e pensi, che quella non luce, quel buio sia la tua vita e diventerà per sempre ciò che tu vedrai. È come avere un forte dolore…, è come se, soffrendo di mal di denti da anni, a questo dolore ti abitui e poi, a un certo punto, per un attimo diventa meno intenso e allora ti rendi conto che si può stare meglio, che è possibile…, che questa sofferenza non dovrà per forza essere tutti i giorni così. È successo qualcosa in particolare che ti ha fatto diminuire, o interrompere, per un attimo il dolore e capire che potevi stare meglio? Non lo so, è stato comunque un processo travagliato. Quando hai appreso la notizia eri in comunità… ti sei tenuto questo segreto, non rivelandolo ai ragazzi che 92
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erano lì con te? Sì, infatti ho vissuto per tre mesi con trenta persone… e il consiglio, quasi l’obbligo, da parte degli operatori era di tacere, di non dirlo…, perché all’interno della comunità ciò avrebbe potuto costituire motivo di discriminazione, con il conseguente rischio di essere isolato. Chi ti ha dato questo consiglio? I medici e gli operatori. Questa cosa non ha fatto altro che aumentare l’ansia e far montare dentro di me il senso di colpa…: «Oh, Dio, che cosa ho fatto?». Come mi sentivo? Come se avessi la terribile colpa di essermi ammalato… e quindi per tutti questi mesi mi sono portato dietro un’angoscia che poi è venuta fuori nel modo peggiore. Mi ero confidato con una persona, perché avevo proprio bisogno di vedere, e anche di provare, che cosa accadesse. Quale persona migliore di un ragazzo della comunità che non ti conosce e non è della tua città…? È vero che ci devo vivere… ma è anche vero che devo provare a capire cosa succede. Siccome sono testardo e amo fare il contrario di quanto mi si ordina, a un certo punto ho detto «Basta, questa cosa voglio dirla a qualcuno!», un po’ perché non ce la facevo più a tenerla per me, un po’ perché volevo provare... quindi l’ho detta a un ragazzo… Questo per un po’ ha tenuto il segreto per sé, poi sono entrate delle ragazze in comunità e lui, spaventato dal fatto che comunque io potessi frequentarne una e infettarla, è andato da loro e le ha mese subito in guardia nei miei confronti, in modo tale, secondo me, da proteggere se 93
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stesso nell’ipotesi che avesse avuto rapporti sessuali con loro. E io a quel punto ho deciso di affrontare l’argomento in assemblea davanti a trenta persone. L’ho detto a tutti quanti e basta. Quale è stata la loro reazione? Cosa ti hanno detto? Lì è cambiato tutto. Al contrario di quanto mi aspettassi, il riscontro fu positivo. Se avessi detto questa cosa singolarmente a ogni persona sarebbe stato diverso, ma il fatto di averla affrontata a faccia scoperta, davanti a tutti, è stato molto meglio. Le persone hanno apprezzato il coraggio, hanno detto «ok» e hanno ammirato la sincerità. Tu hai detto che le persone hanno apprezzato il coraggio e l’onestà; passando dal rapporto con il gruppo al rapporto privato-sentimentale… anche li è accaduta la stessa cosa? Nei rapporti avuti con le ragazze con le quali sono uscito… sono stato attento, ma non ho affrontato il problema, non ho trovato il coraggio di dirlo subito. Mi rendevo conto che questa cosa, comunque, non mi lasciava libero, non mi faceva stare tranquillo e che molte delle relazioni precedenti erano finite prima per la paura di ritrovarmi coinvolto e di dover poi scappare per l’incapacità di affrontare la realtà. Questo tenerselo dentro sicuramente è un errore. Conosci una persona una sera, pensi che non sia il caso di dirlo subito… però… Ricordati che hai l’obbligo di usare il preservativo ma non quello di dichiarare la tua condizione. Ti consiglio però di essere chiaro prima di avere rapporti sessuali completi perché se quella conoscenza diventa 94
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qualcosa di importante nella tua vita di solito, come ti è già capitato, poi si scappa e si continua a scappare per non affrontare l’ira del partner e il dolore del rifiuto. Alcuni con la tua stessa problematica hanno, così facendo, distrutto storie d’amore con persone che potevano essere loro accanto per la vita. Possiamo testimoniarti che quanti hanno vissuto l’esperienza del «te lo dico prima» hanno avuto esperienze molto positive. Cerca di applicare anche in questo caso il tuo pensiero in merito al dolore che hai provato alla tua sieroconversione: «Le persone si dimenticano che possono stare bene». Come lo hai saputo? Intendo dire: la restituzione del test come è avvenuta? Mi ricordo benissimo la scena: stavo tagliando l’erba in mezzo al campo e mi chiamarono gli operatori. Io avevo fatto i prelievi che si fanno per il preingresso in comunità. Entrai in ufficio e loro erano in fondo alla stanza…, mi ricordo le facce cupe… Dissi: «Oh Dio! Che cosa è successo?» Mi informarono che erano arrivati i risultati delle analisi e che ero sieropositivo. Lì per lì mi si gelò il sangue in faccia…, porca miseria,…non sapendo proprio niente di questa cosa. «Ti accompagniamo subito in ospedale, così puoi parlare con il medico delle Malattie infettive!» Anche loro erano secondo me impreparati. Durante il periodo in cui sono vissuto lì, l’aspetto della malattia non è stato seguito e toccato quasi per niente… era un tabù anche per loro.
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Breve storia dell’associazione Spazio Bianco L’associazione Spazio Bianco, costituita a Perugia nel 1992 ed effettivamente operativa dal 1993, si occupa principalmente di assistenza e sostegno alle persone HIV+ positive e ai malati di AIDS. Nell’immaginario di molti l’AIDS è esclusivamente la patologia dei tossicodipendenti e degli omosessuali. In realtà, essendo una malattia a trasmissione sessuale, può essere contratta da chiunque non usi prevenzione nei rapporti sessuali. Dal momento in cui si entra in contatto con il virus possono trascorrere anche 10 anni nei quali non c’è nessun sintomo dell’infezione e solo il test specifico può rilevarne l’esistenza; è facile quindi immaginare che ci occupiamo, e ci siamo occupati, di ogni «genere» di persona: uomini e donne eterosessuali o omosessuali, bambini e anziani, genitori e figli. L’ignoranza sulle reali modalità di trasmissione del virus è ancora molto diffusa e chi contrae questa malattia diventa una persona estremamente discriminata che vive l’incubo di essere identificata. Le persone HIV+ e i malati di AIDS sono pazienti senza voce e senza volto, che molte volte nascondono anche ai fratelli o ai genitori la loro condizione per il timore del giudizio e del rifiuto. I volontari di Spazio Bianco sono spesso la loro voce e il loro volto e a volte quella «famiglia» che condivide il «grande segreto» e li aiuta in silenzio. In questi 25 anni di impegno abbiamo così imparato a occuparci di molte cose: 96
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- assistenza ospedaliera nel reparto delle Malattie infettive; - assistenza domiciliare; - assistenza e trasporto dei pazienti nelle visite ambulatoriali; - organizzazione di gruppi di auto-mutuo-aiuto; - ritiro dei farmaci specifici per la patologia e consegna personale a tutela della privacy; - assistenza dei pazienti nelle visite per l’invalidità civile; - sostegno economico nelle tante necessità essenziali per i più indigenti; - assistenza e trasporto dei pazienti in difficoltà economica o di salute nelle consulenze specialistiche fuori regione…, alcune volte anche all’estero; - trasporto di campioni di sangue per particolari analisi fuori Regione. Dal 2001al 2013 abbiamo accolto e sostenuto in una casa del Comune di Perugia, che ci sosteneva esclusivamente nel pagamento delle utenze, mamme sieropositive in difficoltà con i loro bambini. Ancora oggi continuiamo ad aiutare nuclei familiari sia economicamente sia nel far maturare in loro strumenti che li rendano capaci di sopravvivere autonomamente: aiuto nella formazione professionale, nel conseguimento di titoli di studio non completati…ecc. Abbiamo dato assistenza legale gratuita e ci siamo occupati degli effetti collaterali dei farmaci nelle persone in cura facendoci promotori e ottenendo presso l’ospedale di Umbertide l’unica strumentazione del Servizio sanitario nazionale per la cura della Lipodistrofia nei pazienti 97
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sieropositivi. Conoscendo la sofferenza psicologica, e molte volte anche quella fisica, di chi ha la «sfortuna» di contrarre questa malattia, non potevamo non occuparci di prevenzione. Abbiamo un numero verde nazionale (800015249) per le informazioni sulle modalità di contagio; abbiamo fatto prevenzione nelle scuole di Perugia e della Regione; organizziamo di solito almeno 2 eventi pubblici l’anno per poter parlare con la gente di prevenzione e solidarietà. Abbiamo ricevuto pochissimi contributi dagli Enti pubblici e negli ultimi 7 anni assolutamente niente, fatta eccezione per il contributo del 5x1000. L’Associazione vive da sempre della silenziosa generosità delle persone e soprattutto dei suoi soci che, in maggioranza non coinvolti nella malattia, mettono a disposizione tempo e risorse economiche.
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Progetto fotografico OLTRE Il progetto fotografico intende offrire una serie di ritratti dei soci di Spazio Bianco e delle persone seguite dall’Associazione; non c’è distinzione esplicita tra gli uni e gli altri, ma solo spontaneità e naturalezza del soggetto. «Esiste ancora oggi una BARRIERA EMOTIVA nei confronti di coloro che hanno contratto una malattia infettiva. Questa barriera viene qui considerata come una BARRIERA FISICA: le persone infatti sono ritratte dietro un vetro». Mario Lucio D’Arrigo maludafoto.it
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22th International Memorial and Mobilization AIDS CANDELE LIGHT
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Convivere con l'HIV+ non è soltanto assumere una pasticca Abbiamo pensato di elencare tutte le frasi ricorrenti che in questi 25 anni abbiamo ascoltato dalla voce angosciata delle persone sieropositive che ci chiedevano consigli e aiuto perché «convivere con l'HIV+ non è decisamente una pasticca e non ci penso più!». Sono sicuro che appena dico di essere HIV+ scappa! Non mi vorrà più nessuno! Il certificato di sana e robusta costituzione… come faccio? L'azienda mi fa fare la visita dal suo medico… cosa farò se lo scoprono? Se i miei genitori lo vengono a sapere è la fine!!! Se lo sa mio figlio… mi uccido. Mio fratello non capirebbe mai… Ma la farmacia sa a cosa corrisponde il mio codice di esenzione?… Allora preferisco pagare il ticket. Ti rendi conto che sono un medico?... Capisci… faccio la maestra… Se si venisse a sapere una cosa del genere… Ti rendi conto che faccio l'infermiere e non mi posso curare dove lavoro? Non mi posso operare in questo ospedale perché ci lavora… e verrebbe a saperlo per forza. Ma se mi chiedono perché ho la 104?... Il dentista… come faccio? Non lo sapevamo… In Romania per sposarti vogliono il test. Se sei HIV+ non ti puoi sposare. Che diciamo a genitori e parenti?… Che ci inventiamo per giustificare che non possiamo sposarci più?