Lorenzo Carrara
Questo volume è stato realizzato con il patrocinio della P.ED.I.AS. Pedagogisti ed Educatori Italiani Associati
CESVOL PERUGIA EDITORE
sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni
PERCHÉ la VIOLENZA sulle DONNE
(Milano, 1956), formatore e consulente esperto di Pedagogia Psicoanalitica, è direttore dell' A.I.S.P. (Associazione Italiana per lo Studio della Psicoanalisi), membro della P.ED.I.AS. Pedagogisti ed Educatori Italiani Associati, dell'I.A.P.S.P. (International Association for Psychoanalytic Self Psychology) – San Diego – California (USA) e dell'I.A.R.P.P. (International Association for Relational Psychoanalysis) – New York (USA)
PERCHÉ
la VIOLENZA sulle DONNE
Edizione 2016
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net
Edizione Luglio 2016 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide
tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata
ISBN: 9788896649527
Introduzione Questo volumetto nasce da due seminari di pedagogia psicoanalitica che si sono tenuti in Umbria nel 2015 e nel 2016, dedicati rispettivamente al tema della violenza sulle donne e del rapporto tra la dimensione del bisogno e quella del desiderio. Dal momento che esistono alcuni livelli ai quali i due temi si possono collegare concettualmente fra loro abbiamo pensato di riunirli in un’unica pubblicazione, deliberatamente agile e di facile lettura. Il nostro intento divulgativo ci suggerisce infatti di non appesantire il discorso con un eccessivo ricorso ai tecnicismi propri del linguaggio della psicoanalisi, la quale rimane in sottofondo come una base concettuale e un riferimento per noi scontato e irrinunciabile. In una pubblicazione come questa, noi pensiamo che sia possibile e necessario esprimere alcuni dei concetti-chiave della psicoanalisi utilizzando un linguaggio quanto più possibile aderente a quello usato nella vita quotidiana. Il lettore abituato a leggere di psicoanalisi troverà nel nostro scritto pochissimi termini di natura tecnica: ad esempio non faremo alcun riferimento esplicito a quel tema che nella psicoanalisi “classica” ha preso il nome di Complesso di Edipo e che noi oggi preferiamo chiamare “dinamica edipica”, per indicare uno slittamento di prospettiva volto a sottolinearne la natura di fenomeno del tutto normale e strutturalmente integrato nei processi di sviluppo della personalità. Dobbiamo sottolineare preliminarmente che del tema della violenza sulle donne abbiamo scelto di parlare solo ed esclusivamente allo scopo di avanzare una spiegazione di ciò che la 3
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causa. Molti altri aspetti di questo fenomeno non verranno nemmeno accennati, perché su di essi esiste già una letteratura molto ampia ed altrettanto valida. La nostra speranza è che questo volumetto possa costituire – pur con tutti i suoi limiti – un utile materiale di discussione ed eventualmente uno stimolo ad ulteriori approfondimenti. Lo dedichiamo a chiunque, vale a dire a tutti noi, spettatori e attori di questi fatti purtroppo comuni e drammatici, e in particolare a tutte le persone che non si accontentano di osservare ma sentono quanto sia importante, in questa nostra vita problematica e confusa, provare a capire. Todi, Marzo 2016
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Presentazione Da alcuni anni le ricerche delle neuroscienze e della pedagogia ci richiamano alla importanza della educazione, della relazione come fattori dello sviluppo e del cambiamento. Scriveva Vittorino Andreoli “l’intervento educativo non è verba volant ma preciso stimolo in grado di modificare le strutture cerebrali, di attivare un vero e proprio processo biologico che avviene in questa parte straordinaria che è il cervello”. Zappella ed altri hanno ben descritto l’importanza della intersoggettività primaria ovvero la relazione diretta fra il bambino e la figura adulta di accudimento mediante il corpo condiviso. Le prime esperienze emotive, cognitive e sociali di un bambino sono fondamentali per lo sviluppo armonico. La madre ed il padre, di solito, sono le persone che accompagnano il bambino verso la comprensione del mondo, l’interpretazione della realtà interna ed esterna. Questo percorso, anche se permeato di ostacoli e difficoltà, può promuovere la conquista dell’autonomia, della consapevolezza adulta e delle competenze relazionali nel rispetto di sé e dell’altro. Un rispetto nei confronti del corpo e del pensiero autonomo dell’altro anche quando “questo altro” diventa un compagno o compagna di vita. Lorenzo Carrara nella prima parte del testo ci introduce con delicatezza, garbo e nello stesso tempo con una chiarezza quasi disarmante in un tema tristemente attuale. Ci propone una lettura breve ma efficace per provare a comprendere le ragioni del comportamento aggressivo dell’uomo nei confronti della donna, sino ad arrivare al femminicidio. L’autore 5
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pone in risalto la non consistenza del fenomeno del “raptus” come uno dei moventi del comportamento violento e ci conduce a cercarne la radice profonda nella relazione primaria di accudimento fra la madre ed il figlio. Una relazione che potrebbe assumere e provocare comportamenti disfunzionali nel bambino diventato adulto. L’autore ci invita a riflettere sul significato di parole come amore, bisogno, istinto, che possono nascondere per periodi più o meno lunghi pensieri distorti rispetto al rapporto con l’altro. Nella seconda parte del testo troviamo una singolare analisi sulla contrapposizione tra il bisogno ed il desiderio. Due condizioni molto presenti nella vita di ciascun uomo. Quali differenze? Cosa distingue il primo dal secondo? L’autore ci propone un’interessante riflessione su come il bisogno sia legato ad uno stato di necessità che non promuove libertà mentre il desiderio richiama la progettualità dell’uomo, la gioia, la speranza, l’apertura all’altro. Ringrazio Lorenzo Carrara per la sua appassionata ricerca del positivo, delle fondamenta per una relazione rispettosa con un orizzonte pedagogico impregnato di progettualità, di speranza e di possibili cambiamenti nell’uomo. Grato per le riflessioni a cui sono stato costretto con grande piacere da questa lettura auguro ad ogni lettore la possibilità di assaporare con gusto critico e libero ogni riga del libro. Agostino Basile Presidente P.ED.I.AS. - Pedagogisti ed Educatori Italiani Associati 6
PERCHÉ LA VIOLENZA SULLE DONNE di Lorenzo Carrara
Non passa settimana senza che le cronache ci riportino più
volte notizia di donne uccise, sfregiate, percosse e mutilate dagli uomini che dicono di amarle. È difficile fare stime oggettive sui numeri di questo fenomeno, perché la maggior parte dei casi di violenza rimane purtroppo nell’ombra, coperta dalla vergogna e dalla paura delle vittime stesse e dei loro familiari. Ma i numeri che si conoscono parlano di un fenomeno in costante aumento, un aumento che molti mettono in relazione con quello dei casi di disturbi di personalità, un tipo di problema che si sta rapidamente imponendo alla nostra attenzione come l’emergenza del XXI secolo. Come qualunque psicologo potrà spiegarci, i disturbi di personalità sono le manifestazioni visibili di sofferenze interiori gravi, che nascono da profonde disfunzioni nella relazione con gli educatori primari. Sofferenze interiori gravi ma subdole, perché chi porta dentro di sé questo tipo di problema è quasi sempre un membro attivo del contesto sociale nel quale si muove, e spesso è una persona addirittura brillante, le cui “stranezze” vengono frequentemente accettate da chi li circonda come un segno della loro prorompente individualità, o addirittura – e qui c’è un altro paradosso – come segno di “forza di carattere”. Un osservatore più accorto può invece facilmente capire che quelle stesse manifestazioni che alcuni confondono con la forza rivelano al contrario una strutturale debolezza, un’angoscia profonda, una depressione nascosta. 7
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In questo breve scritto vorremmo esporre un punto di vista psicoanalitico a proposito del fenomeno della violenza sulle donne. Il quadro di riferimento epistemologico al quale faremo capo è quello della pedagogia psicoanalitica del Sé, che si ispira al lavoro del grande psicoanalista austriaco (naturalizzato statunitense) Heinz Kohut. Dunque: perché? Dove possiamo rintracciare la radice dell’odio per le donne? Da cosa nasce un sentimento così forte, profondo e violento? E perché quasi invariabilmente noi sentiamo i carnefici che cercano di giustificarsi parlando di amore nei confronti delle donne picchiate o uccise? In questo equivoco hanno purtroppo una parte attiva sia la cognizione comune che la voce degli organi di informazione. I giornali ci propongono spesso titoli come “L’ha uccisa per troppo amore”, oppure “Omicidio passionale”. Cosa significano queste interpretazioni, pesantemente distorte, di una realtà oggettiva di sopraffazione e odio? Cosa giustifica questo accostamento tra l’amore e l’odio, due sentimenti apparentemente inconciliabili? Per trovare le risposte a queste domande ci conviene iniziare dissipando gli equivoci, cioè provando a definire in modo sufficientemente chiaro un concetto che tutti diamo per scontato, che tutti pensiamo di conoscere e condividere. Si tratta del concetto di amore. È davvero strabiliante il fatto che ben raramente ci si prenda la briga di mettere in discussione e di spiegare il significato di questa parola. La maggior parte di noi sembra pensare che non ci sia niente da capire in proposito: l’amore è l’amore, è un sentimento semplice che tutti possono 8
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comprendere e che tutti condividono, anche quelli che sentono di non averlo, o che lo rifiutano. Un sentimento che non richiede alcuna definizione e alcuna comprensione profonda, intuitivamente molto chiaro e talmente positivo e luminoso di per sé da rendere bello e trasparente tutto ciò che tocca. Il problema è che sotto il tetto accogliente e invitante della parola “amore” facciamo spesso rientrare alcune cose che con l’amore non hanno niente a che fare, anzi: cose che sono – a ben pensarci – proprio la negazione dell’amore. Per procedere in modo chiaro, facciamo un rapido inventario. Ci sono tre categorie di “cose” che nel sentire comune vengono a trovarsi sotto il tetto della parola “amore”. La possessività è spesso presentata come una delle forme dell’amore, o addirittura come uno dei sintomi della sua presenza. In realtà, la possessività è - in ogni aspetto e in ogni quantità - una forma di violenza, prima di tutto perché esprime l’idea profonda che sia possibile possedere l’altro, e dunque che l’altro sia una cosa e non una persona. Ma le persone non si possiedono, perché non sono oggetti; sono esseri umani come noi, e hanno diritto ad avere piena potestà su se stesse. Già la pretesa di possedere una persona – di possedere e controllare il suo tempo, la sua attenzione, la sua mente – è una enorme violenza, ma oltre a questo è un’illusione ed un’idea in aperta contraddizione con il rispetto, che come vedremo è invece una componente fondamentale e irrinunciabile dell’amore. Oltre ad essere un’illusione, è una pretesa assurda e controproducente: se desideriamo che l’altra persona abbia voglia di stare con noi, la cosa migliore non è metterla in gabbia, ma cercare di darle dei buoni motivi per stare al nostro fianco. Le 9
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persone possessive sono persone insicure, che hanno il terrore di perdere ciò che si illudono di possedere, e credono che esercitando un controllo sull’altra persona potranno impedire un suo allontanamento. È ovviamente vero il contrario. Farla sentire libera di sceglierci, giorno dopo giorno, farle sentire che la nostra presenza è un piacere e non una costrizione è l’unico modo per poter ragionevolmente sperare di darle motivi solidi e duraturi per continuare a concederci il suo affetto. Naturalmente tutti noi siamo più o meno spaventati dalla possibilità di un abbandono, dunque rischiamo di essere in misura maggiore o minore possessivi. Ma è assolutamente necessario che ci rendiamo conto che la possessività non è amore e non ci assicura l’amore degli altri, anzi lavora sempre a detrimento dell’amore. Crescere interiormente, maturare come esseri umani, sviluppare una competenza nelle relazioni con gli altri comporta necessariamente di fare i conti con la possessività. Non è questione di negarne l’esistenza dentro di noi – come ho detto, siamo tutti, chi più e chi meno, spaventati dalla possibilità dell’abbandono – ma al contrario si tratta di rendersene pienamente consapevoli, e di fare tutto il possibile per comprendere che la possessività è un veleno che uccide l’amore. Questa comprensione ci permetterà di darle sempre meno spazio, specialmente se nel frattempo lavoreremo sui motivi antichi e profondi per i quali siamo così spaventati e insicuri. Nella maggior parte dei casi scopriremo che fra le altre cose c’è di mezzo un grave deficit nella nostra autostima. La seconda categoria di cose che spesso confondiamo con l’amore sono i bisogni. Una frase molto indicativa, per quanto assolutamente paradossale, è quella che si sente spesso pro10
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nunciare, sia nella vita reale che nei film: “Tu non puoi lasciarmi. Io ho bisogno di te”. Se ci pensate, è proprio rivelatrice, è una vera e propria confessione di fragilità. “Io ho bisogno”. Il problema è che il bisogno è un bisogno, e non è amore. È una necessità, un buco, un’assenza, una lacuna nella nostra vita, nella nostra autosufficienza, nella nostra personalità. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa che ci serve per vivere, come il sangue per il vampiro che se ne deve nutrire, pena la morte. È qualcosa che non abbiamo ricevuto a suo tempo e della quale sentiamo la mancanza in modo angosciante, tanto angosciante da farci temere per la nostra stessa capacità di sopravvivenza – almeno sul piano emotivo. Se io ho bisogno di qualcuno, vuol dire che penso – a torto o a ragione – che quel qualcuno può darmi qualcosa che per me è indispensabile. Detta in altri termini, io ho bisogno di ciò che mi manca, ma ho bisogno di avere, non di dare. Ma l’amore si basa sulla reciprocità, sullo scambio, sul dare oltreché sul prendere. Un accento così marcato su ciò che ci serve ricevere, ancora una volta rivela la nostra fragilità, la nostra immaturità, la nostra mancanza di autonomia e di autosufficienza. Anche in questo caso, riconoscere i nostri bisogni e trattarli come tali, evitando di confonderli con l’amore, è di enorme importanza. Anche in questo caso non si tratta di negare di avere dei bisogni, o di colpevolizzare se stessi, o di sentirsene minati nell’autostima, ma di discernere con chiarezza i nostri bisogni e di cercare di dare loro una risposta, una soddisfazione che non sia a detrimento dell’amore, che non ponga in capo all’altra persona l’obbligo di essere la soluzione dei nostri problemi. Se ho bisogno che qualcuno mi lavi i calzini o mi prepari la cena, fermo restando il fatto che potrei imparare a farmi queste cose 11
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da solo, non posso pretendere che l’altra persona veda come un privilegio e una cosa della massima importanza per lei assumere il ruolo della lavandaia o della cuoca. Specialmente se quello che offro in cambio sono altri bisogni, altre richieste. Bene. Dopo aver preso consapevolezza su ciò che non è l’amore, ma che spesso siamo portati a confondere con l’amore, possiamo provare a fare qualche ipotesi su quello che costituisce davvero questo sentimento. Un sentimento che è in realtà molto complesso, cioè è dato dalla somma di tanti aspetti fra loro diversi ma complementari. Quello che possiamo fare è dunque un elenco, potenzialmente piuttosto lungo, di cose che ci permettono di costruire un sentimento positivo e una possibilità di incontro e scambio con l’altro, con le altre persone. Vediamo un po’: quali possono essere gli ingredienti dell’amore? Proveremo a riassumerli e ipotizzarli con l’elenco che segue, che è un semplice abbozzo e non pretende di essere esaustivo né sistematico: - Stima per l’altro - Rispetto per i diritti dell’altro (compresa la sua privacy) e per le sue scelte - Capacità di mettersi in ascolto empatico e in sintonia con i modi di sentire dell’altro - Tolleranza per la diversità nei modi di sentire dell’altro - Simpatia per i modi di sentire dell’altro - Disponibilità a parlare dei propri sentimenti - Disponibilità a mettersi in ascolto dei sentimenti dell’altro - Simpatia per la corporeità dell’altro 12
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Sentimento di tenerezza per l’altro Disponibilità a dedicare tempo e cure all’altro Voglia di fare insieme Ecc. ecc.
Sarebbe interessante se ognuno di noi provasse a stilare un elenco quanto più possibile completo di quelle che considera le componenti dell’amore. Un simile elenco potrebbe costituire una specie di “manifesto di intenti” utile ad aiutare il partner (attuale o potenziale) a chiarirsi le idee sulla visione dell’amore della quale è portatrice la persona che si trova davanti... Ma questo punto è ora di riprendere il nostro discorso principale, per cercare di capire per quale motivo esistano uomini che arrivano a concepire e a realizzare atti aggressivi e violenti nei confronti delle donne. Un uomo che tratta la propria partner in modo violento – fisicamente o emotivamente violento – non lo fa senza motivo, nel senso che niente accade senza un preciso motivo all’interno della nostra mente. Ma prima di procedere lasciateci spendere un secondo per chiarire un’altra cosa importante: il “raptus” non esiste. La parola “raptus”, che in passato i giornalisti hanno usato con grande disinvoltura, non esiste né in psichiatria, né in psicologia, né in psicoanalisi. Quando succede qualcosa di così drammatico tra un uomo e una donna, è facile intuire che probabilmente qualcosa deve essere andato male non solo oggi o ieri, ma per un tempo molto più lungo, e con tutta probabilità fin dalle prime esperienze di relazione affettiva di colui che commette la violenza. E se vogliamo andare a trovare le radici di questo disastro emotivo, affettivo e relazionale, la prima cosa da 13
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fare è provare ad indagare un po’ nelle relazioni fondanti della nostra vita, a partire da quelle con la nostra madre. Ma attenzione! Non abbiamo nessuna intenzione di saltare a piè pari a conclusioni superficiali e sommarie, del tipo “...siccome la sua mamma lo ha picchiato, lui picchia sua moglie o la sua fidanzata...”. Le cose sono più complesse di così. Oltre a questo: noi non abbiamo alcuna intenzione di mettere sotto scrutinio le madri, né il loro ruolo, né il loro comportamento. Che questa cosa sia chiara. Quello che esamineremo – e di cui esporremo i rischi – sono le modalità di relazione disfunzionali, che come vedremo tra poco sono fondamentalmente due. In qualsiasi caso, il rapporto con la madre è fondamentale proprio perché è il primo e il più importante; costruisce la nostra personalità, la modella ma anche la distorce facilmente. Per dire un’ovvietà, potremmo affermare che un buon rapporto con la madre è il modello, il paradigma di ogni successivo rapporto di vero amore, dando alla parola amore il significato positivo che le spetta, mentre un rapporto con la madre improntato alla sofferenza potrà creare i presupposti per i più profondi fallimenti nella capacità di amare. Se il bambino non vive con gioia ma con dolore il rapporto con la propria madre, questo dolore si trasferirà nelle esperienze successive, tendendo quasi inevitabilmente a scaricarsi sulle partner della sua vita adulta. Per procedere ad un livello di maggiore profondità dobbiamo prima di tutto sgombrare il campo dalla convinzione, diffusa ma errata, che la capacità accuditiva sia istintiva, cioè in altre parole che esista l’istinto materno. In realtà, la capacità accu14
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ditiva non è qualcosa di innato, ma è, al contrario, qualcosa che si apprende dagli accudimenti ricevuti. Questo contrasta con quello che la maggior parte delle persone pensa e crede, ma tutti gli studi fatti fin qui dagli psicoanalisti, dagli psicologi, dai pedagogisti e gli psico-pedagogisti, dagli antropologi, dagli studiosi dello sviluppo infantile e da altre figure altrettanto qualificate convergono su questo concetto: le nostre capacità accuditive sono direttamente proporzionali alla qualità delle cure che abbiamo ricevuto nelle prime settimane e nei primi mesi di vita. Queste cure ci lasciano una sorta di “imprinting” che farà di noi – donne o uomini, senza distinzione – degli accuditori più o meno bravi. La letteratura scientifica in merito è abbondante, ma se non bastasse potremmo osservare la natura: una gattina che non ha ricevuto cure assidue e affettuose nelle sue prime settimane di vita sarà sì capace di rimanere incinta, ma non di aver cura dei propri cuccioli. Ho visto con i miei occhi gattine trascurate dalla propria madre (che era morta o che si era disinteressata a loro) partorire con fastidio, “seminando” i cuccioli in giro per la casa e rifiutando di allattarli e leccarli, a volte arrivando fino ad aggredirli. Se non viene allattato e leccato, un gattino appena nato è destinato a morire molto rapidamente, per denutrizione e/o blocco intestinale. Se non riceve adeguate cure sia materiali che affettive da mamma gatta il gattino può morire per una forma di profondissima carenza emotiva. E se sopravvive, con tutta probabilità la sua vita emotiva e la sua capacità accuditiva resteranno segnate per sempre. A questo punto possiamo cominciare a metterci nella prospettiva del bambino, e chiederci quali esiti possa avere un 15
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esordio nella vita degli affetti durante il quale la madre non offra ampi e frequenti spazi per il calore, la presenza sollecita ed empatica, la gioia della condivisione, il piacere del contatto emotivo e corporeo, il riconoscimento della presenza e l’importanza del bimbo, l’attenzione per i suoi bisogni emotivi. Detta in altri termini: quali sono gli effetti a lungo termine di una relazione insoddisfacente con una madre che si comporta in modo assente o freddo, distante, scostante, distratto, ansioso, discontinuo, scarsamente affettivo, contraddittorio, incapace di vivere con gioia il contatto fisico ed emotivo? È da sottolineare ancora una volta che intendiamo riferirci in modo particolare alle primissime fasi della vita del bambino, cioè a quello stadio che possiamo far coincidere con tutta la fase prima dell’acquisizione del linguaggio e con il periodo immediatamente successivo. Per intenderci: da zero a tre anni. Noi sappiamo bene quali siano gli effetti a medio e lungo termine dell’assenza di calde valenze emotive nel comportamento della figura materna: sono sentimento di vuoto, angoscia abbandonica, senso di impotenza e inefficacia, basso livello di autostima, ansia, senso di frammentazione. In una espressione sintetica: una profondissima sofferenza emotiva e l’impossibilità di costruire un solido senso di identità. Sul piano concreto, gli esiti possibili sono sostanzialmente due: la depressione oppure la rabbia. La depressione è un ripiegamento su se stessi che corrisponde ad una tristezza senza limiti e senza speranza di soluzione. Le persone depresse si sentono svuotate, disperate, prive dell’energia necessaria a reagire al proprio dolore e votate ad una qualche forma di autodistruzione. Il pensiero caratteristico dell’esito depressivo – un pen16
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siero che può essere anche inconscio e quindi del tutto inconsapevole - è questo: “Se mia madre non mi ha amato, è perché io sono cattivo o non valgo nulla. Deve per forza essere così”. Come se non ci fosse alcuna altra possibilità. I luoghi comuni sull’amore materno impediscono a queste persone di poter concepire un diverso tipo di spiegazione. Quanto alla rabbia, magistralmente descritta e spiegata da Heinz Kohut (che se ne è occupato in modo particolarmente approfondito), è il secondo tipo di esito, per certi versi diametralmente opposto al primo ma sostanzialmente equivalente sul piano concettuale. Sono le due facce della stessa medaglia: chi ha subito profonde ferite emotive nell’ambito del rapporto con la propria madre può infatti sviluppare una reazione caratterizzata da accenti paranoidi, cioè improntati alla convinzione rabbiosa di avere subìto un torto inaccettabile. L’alternativa più semplice all’incolpare se stesso è incolpare l’altro. Entrambe queste cose mostrano una impossibilità di rappresentarsi la situazione nella sua realtà: l’accuditrice aveva delle difficoltà ad accudire adeguatamente. È fortunatamente raro che da parte di una madre ci sia un preciso disegno, una precisa volontà di far del male, di ferire, di umiliare e far soffrire il bambino. Molto più spesso si tratta piuttosto di quella mancanza di disponibilità emotiva e di capacità accuditiva, ereditata da una generazione precedente, che abbiamo già descritto. Ma il bambino non ha gli strumenti concettuali per capire e giustificare la mancanza di accudimenti emotivi “caldi”. Quello che sa è che sente freddo: il freddo della mancanza di amore. 17
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Le sue possibilità di rappresentazione mentale si spingono ben raramente oltre l’alternativa che abbiamo descritto: “O non mi ama perché sono cattivo, oppure è lei ad essere cattiva”. Nel primo caso, io merito una punizione. Nel secondo caso, è lei a meritarla. E con il procedere dell’età, quest’area di sofferenza così acuta e profonda non viene quasi mai riconsiderata, perché riportarla alla luce sarebbe fonte di una angoscia troppo grande. Detta in altri termini: nella stragrande maggioranza dei casi, l’elaborazione del lutto di una infanzia danneggiata da rapporti disfunzionali non viene mai compiuta. Il lutto viene coperto e relegato nell’inconscio, chiuso nell’angolo più buio della psiche. Ma noi sappiamo che i contenuti dell’inconscio non sono affatto inattivi, anzi agiscono dentro di noi (senza che noi ce ne accorgiamo) con forza moltiplicata proprio dal fatto che operano segretamente, attingendo liberamente alle risorse energetiche praticamente illimitate che hanno proprio nell’inconscio la loro sede. Abbiamo quindi individuato una prima modalità di rapporto disfunzionale tra madre e figlio, che può generare profondi scompensi emotivi e costituire lo sfondo (qualcuno direbbe “il background”) per un sentimento aggressivo e rancoroso. Se il rancore e la sofferenza non vengono riconosciuti ed elaborati, l’immagine femminile – intesa in senso globale e generico – viene investita di attribuzioni negative. Questo significa che tutte le donne saranno potenzialmente confuse con l’immagine di una madre fredda, scostante, che si nega, avara di gratificazioni, che nella mente di queste persone è causa di dolore e merita una punizione.
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Ma c’è anche un altro tipo di madre che costruisce nel proprio figlio, con i propri comportamenti altrettanto sbilanciati, l’odio nei confronti delle donne. Si tratta in questo caso di donne che sembrano essere l’esatto opposto di quelle che manifestano freddezza e distanza emotiva: madri iperprotettive, sempre presenti, esageratamente sollecite e timorose di non essere amate dai loro figli, gravate da sensi di colpa basati sull’idea di “non fare mai abbastanza”, incapaci di lasciare che il proprio figliolo cresca e si autonomizzi, preoccupate da ogni suo segno di allontanamento. Madri che trattano come bambini i propri figli già adulti, che vivono come una rivale la sua partner, che pretendono di dominare e controllare le scelte della vita affettiva e relazionale del figlio. Sono persone che hanno bisogno (ecco riaffacciarsi la parola “bisogno”...) di tenere sempre acceso il desiderio nel proprio figlio per potersi sentire amate, desiderate, valorizzate, per potere rimanere al centro delle sue attenzioni. Questa figura è stata molto ben descritta dallo psichiatra scozzese David Ronald Laing. Una persona di questo tipo ha bisogno di sentirsi ammirata perché ciò sorregge la sua autostima. Anche la modalità di relazione offerta da queste madri ai propri figli è disfunzionale, perché finisce per “imbozzolare” il bambino prima e l’adulto poi in una rete soffocante di pseudoaccudimenti che non sortisce l’effetto di far stare bene il proprio figlio ma al contrario lo fa sentire impedito, dipendente, legato, castrato nelle sue possibilità di autoaffermarsi e di vivere con piacere e con serenità il rapporto con altre donne. E a nessun uomo piace sentirsi castrato. La rabbia che questa modalità disfunzionale di relazione può 19
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suscitare in un uomo è profonda e intensissima, per quanto spesso sotterranea. Non solo: l’uomo in questione tenderà a reprimere e a negare la propria rabbia anche perché sarà divorato dai sensi di colpa. Dirà tra sé: “Non posso concedermi di avere sentimenti ostili nei confronti di una madre che si è sempre prodigata per me, che ha sempre dato più attenzione a me e alle mie richieste che a se stessa! Se esprimessi tutto il mio senso di costrizione, tutto il mio bisogno di libertà, tutta la mia frustrazione, sarei un infame, un figlio ingrato e degenere, un mostro”. Preso tra l’incudine e il martello, tra una modalità di rapporto soffocante e l’impossibilità di liberarsene se non con un gesto (il distacco emotivo) percepito come “violento” ed estremo, quest’uomo coverà dentro di sé una rabbia latente che potrà essere fatta esplodere, in tempi successivi, da una qualsiasi circostanza sufficientemente destabilizzante all’interno di un rapporto di coppia, nel quale la figura della partner verrà ad essere inconsciamente sovrapposta e confusa con quella della madre. Altre cose potremmo aggiungere, ma abbiamo già messo sul tavolo una quantità sufficiente di elementi di riflessione. Se ci muovessimo nel contesto della letteratura poliziesca diremmo che abbiamo messo in chiaro il movente. La carica di rabbia derivante dalle profonde ferite emotive che un bambino prima e un adulto poi possono accumulare nel corso della loro esperienza di relazione ha poco da invidiare, per così dire, alla potenziale distruttivo di una bomba atomica. Bastano un’esperienza di abbandono, una frustrazione particolarmente cocente, un rifiuto carico di derisione o il morso profondo del bisogno e dell’angoscia della solitudine a farla esplodere, con 20
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gli esiti che conosciamo. Un bambino che nei primissimi mesi e anni della propria vita abbia sperimentato comportamenti di distacco e freddezza da parte della propria madre, oppure avrà dovuto subire la stretta soffocante di una madre-piovra, avrà una struttura di personalità fragile e facilmente vulnerabile, soggetta a crollare e disgregarsi sotto l’intensità di stimoli negativi che lascerebbero indenne un’altra persona, dotata di maggiore solidità perché resa forte da una esperienza di relazione più serena ed equilibrata. Quando il bicchiere della sofferenza è quasi pieno, basta poco a farlo rovesciare. Per chi è stato segnato nella prima infanzia da una esperienza emotiva devastante con la propria madre, se non c’è stata una adeguata elaborazione, ogni rapporto affettivo della sua vita adulta rischia di non essere altro che una riproposizione dell’esperienza primaria, con tutta la sua carica di angoscia e dolore. Quando si scatena, la rabbia della frustrazione può manifestarsi davvero come una furia selvaggia. Lo sa chi ha visitato la scena di uno qualsiasi di questi delitti, ma lo descrivono molto bene anche i racconti delle donne soggette alle violenze più sottili e continuate, alle pressioni sadiche dei loro partner, allo stalking. La violenza su una donna è quello che il bambino avrebbe desiderato infliggere a sua madre per vendicarsi di ciò che ha patito. Ogni donna è nella sua mente un clone della sua mamma – e lo dimostrano i rapporti di profonda dipendenza emotiva che queste persone istituiscono con la fidanzata o con la moglie – e ogni donna è per questo stesso e unico motivo colpevole. La violenza che l’uomo le infligge ha sempre il carattere della punizione. Ma cosa si punisce se non una colpa, un delitto commesso? Uno degli errori profondi 21
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commessi da questi uomini sta nel confondere fra loro le immagini di persone del passato e del presente, ma anche nel non capire che ciò che è disfunzionale non è la persona che abbiamo davanti, ma la qualità della relazione. E della qualità delle nostre relazioni siamo responsabili anche noi. Sta anche a noi scrivere la storia del nostro futuro emancipandola da quella del nostro passato. Dovrebbe peraltro risultare chiaro che gli uomini che odiano le donne non sono bambini che hanno ricevuto qualche frustrazione in modo sporadico e occasionale. Ricordiamoci che le piccole frustrazioni sono ciò che ci insegna a tenere a freno i nostri impulsi, a dare spazio agli altri, a consentirci di interiorizzare quella autodisciplina che ci aiuterà, nel corso della vita, a sopportare le avversità. Queste sono ciò che nella psicoanalisi e nella pedagogia psicoanalitica prende il nome di “frustrazioni ottimali”, cioè utili al processo evolutivo dell’individuo e del suo mondo emotivo. Sono frustrazioni benigne, sono forme di allenamento alla sopportazione di una moderata sofferenza, che non lasciano dietro di sé la devastazione e che non danno origine ad un accumulo di odio. Un bambino che ha ricevuto un accudimento affettuoso ed empatico da parte di una madre “sufficientemente buona”, per dirla con il pediatra e psicoanalista Winnicott – cioè che ha vissuto una relazionalità non fredda e scostante ma neanche iperprotettiva e soffocante - non diventerà mai un torturatore di donne. Dietro a chi compie un delitto contro una donna c’è sempre, invariabilmente, una storia di profonde sofferenze emotive mai superate, mai dimenticate e mai perdonate nell’ambito di una modalità di rapporto disfunzionale con la madre. 22
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Chi ci ha seguito fin qui avrà notato che nel corso della nostra argomentazione non è stato mai menzionato il ruolo del padre. Questa omissione risponde a due motivi: il primo è che volevamo prenderci tutto lo spazio necessario per approfondire adeguatamente la dinamica madre-figlio e le sue potenziali conseguenze. Come abbiamo visto, queste dinamiche sono il cardine su cui si impernia quell’insieme di sentimenti e di emozioni che possono dare luogo, in età adulta, ad un atteggiamento aggressivo nei confronti delle donne. Il secondo motivo discende dal fatto che il padre, nella cultura occidentale contemporanea, rischia sempre più di essere una figura assente. Molti padri, infatti, non sono presenti fisicamente: o perché lontani per motivi di lavoro (o di altra natura altrettanto cogente), oppure perché di fatto tendono a non prendere parte attiva all’educazione dei figli, che viene considerata una “cosa da donne” e lasciata in modo praticamente esclusivo nelle mani delle madri. Un tempo era abbastanza diffusa questa convinzione: l’educazione deve essere portata avanti dalle madri, mentre la formazione (intesa come la trasmissione delle competenze operative e lavorative, del “come si fa” rispetto alle cose della vita) spettava ai padri. Oggi anche questa idea sembra tramontata, non perché qualcuno l’abbia sostituita con una diversa concezione dei ruoli genitoriali, ma più semplicemente perché i padri hanno lasciato cadere questa parte del proprio ruolo, concentrandosi sulle attività lavorative e dunque riducendo la propria funzione a quella di chi “porta a casa lo stipendio”. Da parte di molti studiosi contemporanei (sociologi, antropologi, psicologi, psicoanalisti) si è parlato più volte di “evaporazione del padre”.
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La questione è di enorme importanza, ma non la svilupperemo in questa occasione. Ai fini della nostra argomentazione prenderemo invece in considerazione ciò che la presenza del padre può comportare rispetto alle dinamiche fin qui descritte. In altre parole: è importante il ruolo del padre? Cosa può fare per contribuire a far sì che i propri figli maschi non costruiscano dentro di sé quella aggressività nei confronti delle donne che potrebbe un domani sfociare in atti violenti nei loro confronti? La risposta alla prima domanda è “sì”: il ruolo del padre ha potenzialmente una grandissima importanza in questo ambito. Per vedere quale possa essere, e dare così una risposta anche alla seconda domanda, dobbiamo introdurre una nuova variabile nella dinamica a due che si viene costruendo e consolidando giorno dopo giorno tra madre e figlio. La presenza del padre (se il padre è fattivamente presente) può costituire un fattore protettivo, che filtra, media e trasforma alcuni aspetti potenzialmente critici del rapporto madre-figlio, “incuneandosi” benignamente tra i due. Il padre può infatti agire da freno, da fattore di stabilizzazione, rispetto agli eccessi e alle pretese emotive di entrambi, impedendo che il loro rapporto si incisti in una modalità simbiotica che è del tutto adeguata nelle prime settimane e nei primissimi mesi di vita, ma che nel corso del tempo deve progressivamente orientarsi verso una relazionalità più aperta al resto del mondo. È importante che si creino le opportunità per sviluppare il contatto profondo e significativo anche con altre persone (adulti e bambini), e il padre è il primo “rappresentante del mondo esterno” alla coppia simbiotica che si affaccia sulla scena del rapporto originario tra il bambino e la madre.
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La diciamo in un modo appena un po’ diverso, ma molto suggestivo: il padre “presenta il mondo al bambino” (ma anche viceversa), mettendo le basi per la costruzione della sua possibilità di diventare un essere sociale, inserito come membro alla pari in una comunità di persone di ogni età. Persone “diverse” dalla madre. Anche il padre è “diverso” dalla madre, e questa diversità arricchisce l’esperienza del bambino, la amplia, gli dà la possibilità di entrare in contatto con nuovi linguaggi, nuovi orizzonti affettivi, nuove modalità di relazione, nuovi stimoli intellettuali ed emotivi. Contemporaneamente, il padre è un modello da conoscere e imitare: vedere come si rapporta alla madre insegna al bambino come un uomo adulto si rapporta ad una donna adulta. Quell’uomo adulto che lui diventerà potrà usare modi simili con la sua compagna di domani. È più che chiaro che in questa ottica risulta importantissimo che il padre sappia rivolgersi alla madre in modo tale da mostrare e trasmettere al figlio le qualità e le modalità dell’amore adulto: stima, rispetto, empatia, solidarietà, ecc. Un padre che esprima aggressività, possessività e violenza nei confronti della propria partner è ovviamente l’esatto contrario di quello che auspichiamo. In questo caso, non c’è dubbio che il suo ruolo sarebbe negativo e anzi potenzialmente tale da rafforzare nel figlio la sensazione di potere e di dovere comportarsi in modo analogo. Di padri così, un bambino può sicuramente fare a meno. Per chiudere anche questo ramo del discorso – ma ci riserviamo di parlarne ancora in altre occasioni – vorremmo descrivere rapidamente, nello specifico, il tipo di impatto positivo che la presenza del padre (o più in generale della seconda 25
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persona nella coppia genitoriale) può avere rispetto alle due dinamiche-tipo che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti. Nel primo caso abbiamo una madre che tende a comportarsi in modo freddo e anaffettivo nei confronti del figlio. In questa situazione, il padre può venire a costituire il “polo caldo” della coppia genitoriale, compensando le carenze della partner con un atteggiamento più affettuoso e ricettivo. Per certi versi potremmo descriverla come una “inversione di ruoli” rispetto agli stereotipi consolidati nella nostra cultura a proposito delle funzioni genitoriali, ma il nostro auspicio è sempre che entrambi i partner siano in grado di offrire al proprio figlio questo tipo di accudimento affettivo, basato sulle qualità “morbide” della tenerezza, del calore emotivo e dell’ascolto empatico. Nel secondo caso, quello della madre-piovra, il padre potrà aiutare il proprio figlio a trovare lo spazio di autonomia che gli serve per poter crescere, per poter sentirsi a proprio agio con se stesso, per poter imparare a trovare piacere anche nella solitudine e nel silenzio, intese come dimensioni positive dell’incontro con la propria interiorità, per poter scoprire il piacere del contatto con l’“altro”, con tutto il resto del mondo che lo circonda. In entrambi i casi risulterà della massima importanza il modo in cui il padre si rapporta con la madre, ma anche il modo in cui si esprime verbalmente a proposito della madre parlando con il proprio figlio. Un padre che gli insegna a capire la personalità e il comportamento della madre, parlandone con simpatia e con rispetto, potrà aiutarlo a sviluppare un atteggiamento di consapevolezza e di comprensione attiva che sarà un fattore protettivo di eccezionale importanza nei confronti dei sentimenti potenzialmente aggressivi rivolti verso la madre (nel presente) e verso le don26
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ne in generale (in prospettiva futura). Una postilla, un’annotazione a margine rispetto alla questione dell’accuditività. Ci è stato chiesto se un eventuale deficit nelle capacità accuditive, dovuto al fatto di avere ricevuto accudimenti insufficienti nella primissima infanzia, sia da considerare come un fatto irrimediabile. La risposta è “no”, sicuramente “no”, almeno per quello che riguarda gli esseri umani. Non è irrimediabile, anche se è chiaro che un problema in questo ambito non è destinato a risolversi sempre, o non sempre in modo facile. Conosciamo moltissimi casi di persone – uomini e donne – che dopo aver vissuto in modo drammatico le prime fasi della propria vita hanno dovuto prendere atto del fatto che la loro disponibilità all’accudimento non esisteva, o era estremamente limitata, ma sono almeno altrettanti i casi di persone che hanno avuto modo, in età più adulta, di “ricostruire” l’esperienza dell’essere accuditi attraverso le cure ricevute da altri parenti, o da insegnanti, o da amici. Se il danno iniziale non è stato troppo pesante, gli accudimenti ricevuti “a posteriori” possono essere in grado di reintegrare almeno una parte di quelle esperienze empatiche che l’esperienza primaria ha loro negato. In questo ambito, la psicoanalisi relazionale e la psicoanalisi del Sé, grazie alla particolare attenzione che pongono al tema delle ferite profonde subìte dal Sé in formazione, hanno dato prova di notevoli possibilità di riparazione dei danni causati da un vissuto di abbandono o di malaccudimento.
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BISOGNO E DESIDERIO di Lorenzo Carrara
Uno dei temi più frequentemente ricorrenti nella pratica del-
la psicoanalisi è quello della contrapposizione tra bisogno e desiderio. Nella vita quotidiana, nel sentimento comune, questi due concetti tendono a confondersi e mescolarsi in modo tale da indurre ad una confusione che certo non giova alla possibilità di comprendere a fondo queste due classi di oggetti psichici, e dunque non giova alla nostra comprensione di sé. Cosa le accomuna? Cosa le differenzia? Ciò che le accomuna e dunque può renderle apparentemente simili è il fatto che entrambe comportano un cospicuo investimento di energie psichiche, nella particolare forma delle aspettative. Sono qualcosa verso cui tendiamo, qualcosa che cerchiamo di avere o di raggiungere, qualcosa che potenzialmente ci motiva all’azione, a volte addirittura - nel caso dei bisogni - in modo compulsivo, qualcosa che auspichiamo si verifichi, qualcosa che pensiamo possa ampliare i nostri spazi vitali, la nostra sensazione di benessere, il nostro senso di compiutezza. Questi punti in comune sono così rilevanti e così emotivamente importanti da trarci facilmente in inganno a proposito della differenza o dell’identità dei due concetti. Quando due insiemi condividono un sottoinsieme di caratteristiche rilevanti molto ampio e ricco, abbiamo naturalmente la tentazione di sottovalutare le caratteristiche che non rientrano in questo ambito comune, e dunque di minimizzare la diversità dei due insiemi di partenza, mentre, per converso, 29
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tutte le volte che gli elementi in comune sono deboli, mal percepibili o mal definiti, dotati di scarso peso emotivo, la nostra impressione sarà facilmente quella di una notevole distanza e differenza dei due insiemi considerati. È un’“illusione ottica” nella quale la percezione è falsata dalla prospettiva gerarchica, cioè dall’importanza relativa degli elementi che osserviamo. Qual è dunque la specificità di ciò che chiamiamo “bisogno”? E cosa lo distingue dal desiderio? Per aiutarci nella comprensione, pensiamo a titolo di esempio a qualcosa che abbia in modo spiccato la caratteristica del bisogno: il bisogno di respirare. Respirare non è un’opzione. È una nostra necessità. È qualcosa senza la quale si manifesta una mancanza potenzialmente letale (in questo caso, la mancanza di ossigeno, con tutte le sue conseguenze). Noi magari possiamo (con l’auto-asfissia) impedirci di soddisfare questo bisogno, ma se lo facciamo la nostra stessa vita viene messa in pericolo. Bene. Abbiamo già raccolto un paio di parole caratterizzanti a proposito dei bisogni: “mancanza” e “necessità”. A queste possiamo anche, almeno in via provvisoria, accostare il concetto di “auto-distruzione”, come qualcosa che può derivare dal mancato soddisfacimento di un bisogno. Ma vediamo di approfondire la nostra analisi. Il bisogno è uno stato che deriva dalla mancanza di qualcosa che avrebbe potuto o dovuto esserci e che non c’è o non c’è stata. Qualcosa il cui “non esserci” mette a rischio il nostro futuro, a volte il nostro immediato futuro (possiamo stare senza respirare per una quantità di tempo molto limitata), a volte un futuro piuttosto lontano dal momento presente. Il bisogno è dunque radicato nel passato, cioè nasce nel passato e ad esso ci tiene vincolati, mettendo a rischio il futuro. Il 30
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bisogno lega, nel senso che noi siamo legati al nostro “aver bisogno di...” e una parte importante delle nostre energie rimane bloccata fintantoché il bisogno perdura. Fino a quando non troveremo una risposta a quel bisogno vedremo protrarsi una condizione di sofferenza o di pericolo. Il bisogno è una temperatura negativa che ci raffredda, ci irrigidisce e ci fa tremare. Il bisogno è associato ad una condizione di doloere e di precarietà. Il bisogno fa male ed è una mancanza che quasi sempre ci toglie qualcosa. Ad esempio la lucidità di giudizio, o la voglia di vivere. Se il bisogno ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e potrebbe anche essere descritto come un lutto non superato (non elaborato), il desiderio al contrario si rivolge al futuro. Il desiderio non è associato al concetto di necessità, anche se è necessario desiderare per essere pienamente vivi. Chi non ha desideri è già morto. Il desiderio è un progetto, un’intenzione, un’invenzione che aggiunge qualcosa e non un tappo che usiamo per riempire il vuoto creato da un bisogno. È un “di più”, un’opzione, una possibilità che aggiunge qualcosa a ciò che c’è già, che abbiamo già, che siamo già. Il desiderio non è associato all’angoscia e al lutto, ma alla gioia e alla speranza. Guarda in avanti e crea le condizioni per un cambiamento che non si limita ad attenuare una sofferenza, ma che punta decisamente verso il benessere, verso l’ampliamento delle nostre possibilità di pensiero, di conoscenza, di condivisione. Il desiderio punta verso il piacere, la soddisfazione, l’espansione psichica ed emotiva. Il desiderio è una temperatura positiva che ci scalda e scalda chi ci sta intorno, è forza e non debolezza, è voglia di fare, di dire, di dare. Il desiderio non lega, ma libera. Libera energie ma libera anche le persone. Non c’è cosa 31
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che leghi due (o più) persone quanto il bisogno. E il legame – in questa accezione - non è mai una cosa positiva. Il desiderio, per sua natura, è una proposta, non un’imposizione o una necessità. È un’offerta, che facciamo a noi stessi e/o agli altri. Un desiderio frustrato potrebbe diventare fonte di dolore, ma l’energia psichica associata a quel desiderio potrà venire spostata senza eccessiva fatica o sofferenza su un altro oggetto, su un altro progetto, su un altro rapporto interpersonale, senza che noi ne dobbiamo risentire al punto da esserne distrutti. Il bisogno non ci concede questa libertà: per sua natura è totalizzante ed è intimamente legato alla necessità della sua soddisfazione, di un unico, specifico tipo di soddisfazione. Se stiamo soffocando per mancanza di ossigeno, non ci possiamo consolare togliendoci la sete o facendo una bella dormita. Se un desiderio non si realizza, invece, ecco che lascia spazio ed energie per un nuovo desiderio, magari anche più emozionante ed entusiasmante del precedente. La dimensione del desiderio ci tiene vivi, ci permette di investire (non “spendere”) le nostre energie vitali. Il desiderio è leggero e si alza in volo, il bisogno è pesante e ci fa sprofondare. Chi sta morendo di fame mangia per necessità, dunque per bisogno, e l’impellenza di questo bisogno non gli permette di scegliere né di assaporare, gli riempie la mente e offusca le sue capacità di percezione e discriminazione. Il buongustaio non è spinto dal bisogno, ma dalla voglia e dalla capacità di provare piacere, dalla curiosità di scoprire gusti nuovi o di ritrovare quelli già conosciuti. Può soffermarsi ad assaporare, a soppesare, a godere di ciò che gusta ma anche di ciò che viene colto dal suo olfatto, dalla vista e dal tatto. E degustare non è una necessità, non è un’impellenza, ma è la realizzazione di 32
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un desiderio, di un desiderare. Possiamo anche farne a meno, ma dando soddisfazione al nostro desiderio aggiungiamo qualcosa a ciò che sappiamo e a ciò che siamo già. Il desiderio è uno spazio transizionale, è un ponte che ci collega a ciò che ci circonda. Chi non desidera non conosce. Le sue porte sono chiuse all’altro, perché tutte le sue energie sono concentrate sul buco nero dei suoi bisogni, che tutto assorbe senza mai restituire nulla. Il desiderio invece è un campo di gioco pronto ad accogliere l’incontro di due o più persone, pronto ad ospitare i loro sentimenti e le loro energie creative. È l’acqua in cui nuotare insieme, la terra sulla quale corrersi incontro, il letto in cui incontrarsi per fare l’amore. Senza desiderio, il senso di ogni rapporto interpersonale (di coppia, di amicizia o in qualsiasi modo inteso) si perde e si svuota. Se io non ho il desiderio di vederti, di passare del tempo con te, perché dovrei farlo? Per bisogno, forse? Ma l’amore e l’amicizia hanno poco a che vedere con il bisogno, anzi, dove c’è uno stato di bisogno non riconosciuto non possono esserci né amicizia né amore. Siamo dunque condannati ad essere per sempre legati ai nostri bisogni? Dopo essere riusciti a cogliere la differenza, la distanza che intercorre tra bisogno e desiderio, qual è il passo successivo per poterci affrancare dalla schiavitù di ciò di cui avvertiamo la dolorosa mancanza? Il primo passo consiste proprio in questo: nella capacità di distinguere bisogno da desiderio, e di guardare il bisogno – per così dire – dritto negli occhi. E la cosa importante da capire è questa: il bisogno non è una colpa, e non dipende dalla nostra volontà. Se siamo bisognosi non è perché siamo stupidi, o cattivi, o egoisti, o colpevoli, o inadeguati, o meschini, o avidi. Il bisogno è la man33
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canza di qualcosa che avrebbe dovuto arrivarci dall’esterno, e che per un qualsiasi motivo non abbiamo ricevuto. Se sto soffocando per mancanza di ossigeno, non è perché io sono incapace di produrmelo da solo. È perché qualcosa (o qualcuno) ha interrotto il flusso di ossigeno che dovrebbe arrivare ai miei polmoni dall’esterno. Chi non si perdona il proprio stato di bisogno commette una doppia ingiustizia nei propri confronti, riversando su se stesso una riprovazione che va ad aggiungersi alla sofferenza già causata dal bisogno stesso. Non siamo noi a causare il nostro bisogno, e incolparsi o incolpare non serve a nulla. Ciò che ci serve è capire cosa impedisce che il nostro bisogno venga soddisfatto, ma anche, e soprattutto, quali sono il suo significato e la sua vera, profonda origine. Facciamo un esempio, parlando dell’autostima. Il bambino nasce vuoto di pregiudizi e di esperienze, e impara ad orientarsi ed ad agire nel mondo sulla base di ciò che gli accade – dentro e fuori – giorno dopo giorno. L’autostima non è una condizione “incorporata” negli esseri umani, ma si costruisce passo dopo passo se le esperienze ci confermano la nostra adeguatezza nei campi del pensiero e dell’azione. Chi manca di autostima, ne ha bisogno. Ma l’autostima mancante non si costruisce illudendosi di essere ciò che non si è, e nemmeno bombardando se stessi con una valanga di “affermazioni positive” o di auto-incoraggiamenti. E anche andare spasmodicamente, compulsivamente a caccia dei complimenti altrui non funziona, specialmente se dentro di noi sappiamo che non sono meritati ma sono solo parole vuote, fatte per adularci, e non rispecchiano la realtà di ciò che siamo. L’autostima nasce dal sapere di saper fare e dal sapere di saper essere, cioè dal sapere di essere in grado di affrontare i compiti e le 34
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complessità della vita che ci si parano davanti. Il suo opposto è il sentimento di inadeguatezza, cioè la convinzione (giusta o infondata) di non essere all’altezza delle cose che dobbiamo essere o fare. Il sentimento di inadeguatezza è dunque mancanza di autostima. Una autostima che avrebbe dovuto essere costruita imparando a fare e ad essere. Ma cosa succede se nessuno ci ha insegnato a fare e ad essere? Il bambino ha bisogno di maestri, ha bisogno di esempi, ha bisogno di sperimentare se stesso sotto la guida di qualcuno che possa insegnare e in un secondo tempo verificare e confermare la bontà dei risultati acquisiti (è uno degli aspetti di quello che noi chiamiamo “validazione”). Senza una adeguata validazione, il bambino rimarrà insicuro, dubbioso, sprovvisto di adeguate verifiche. Ma può accadere di peggio: se il bambino non riceve esempi adeguati (o non ne riceve affatto), se non gli viene data la possibilità di sperimentare, se addirittura i suoi tentativi di conoscere e di imparare vengono ostacolati o frustrati, se le cose che impara vengono sminuite, sbeffeggiate, derise, criticate, commentate come cose inutili o dannose, il risultato sarà devastante. Il bambino dà fiducia agli adulti dai quali dipende, e una loro parola può rafforzarlo o spezzargli le gambe. E sono in molti i genitori che – a volte senza averne alcuna consapevolezza – finiscono col distruggere, invece che contribuire a costruire, l’autostima del proprio figlio. Ecco dunque un ottimo esempio di bisogno, completo di spiegazione della sua origine. Una volta identificato un bisogno come tale, se riusciamo a ricostruire anche la sua genesi abbiamo nelle nostre mani quasi tutto quello che ci serve per potercene affrancare. Non che sia sempre facile; a volte, anzi, 35
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si rivela particolarmente difficile. Ma la strada è questa: capire cosa è accaduto e in quale punto si è inceppato il procedere positivo delle cose, per poter poi elaborare qualche efficace strategia di recupero. La strategia più immediata consiste nel cercare di individuare con chiarezza la natura profonda del bisogno in questione, per poter poi capire in quale modo sia possibile dare a quel bisogno una risposta che non sia superficiale, aleatoria o illusoria. Facciamo un esempio concreto di come “osservare” con nuova consapevolezza i nostri bisogni, per poter poi impostare una strategia che ci possa consentire di guadagnare un buon grado di libertà da essi. Consideriamo ad esempio una delle dipendenze che affliggono un notevole numero di individui, specialmente (ma non unicamente) di genere maschile. Molte persone vivono una sessualità compulsiva: sono sempre a caccia di occasioni, “bruciano” facilmente i partner – che cambiano con grande frequenza e facilità – senza mai trovare il modo e lo spazio per vivere una vera dimensione relazionale, sono preoccupati dall’aspetto prestazionale e quantitativo delle loro performance, sembrano avere perennemente “fame” di sesso. I loro pensieri sono orientati in quella direzione per la maggior parte del tempo, e quando conoscono una persona nuova immediatamente la immaginano e si immaginano in una situazione erotica. Questo, a grandi linee, è il quadro così come si presenta allo sguardo di un osservatore esterno. Queste persone, che solitamente vedono se stesse come “grandi amatori”, sono in realtà persone che usano il sesso per uno scopo che non è affatto sessuale, ma affettivo: attraverso il contatto dei corpi, attraverso la penetrazione, sono alla ricerca del calore umano che è loro mancato nell’esperienza di accudi36
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mento primario, vale a dire nel rapporto con i propri genitori. La penetrazione, in particolare, assume per loro il significato simbolico del ritorno dentro il grembo della madre. Ebbene: queste persone non sono praticamente mai consapevoli del significato profondo della propria compulsione, e dunque non sono in grado di individuare con chiarezza e lucidità il proprio bisogno, quel bisogno al quale cercano di dare una risposta attraverso la sessualità. Sempre affamati, sempre perseguitati da un profondo senso di vuoto, di mancanza, passano da un partner all’altro continuando ad inseguire una serenità, un appagamento che non potranno mai raggiungere fino a che non prenderanno piena consapevolezza del proprio stato di bisogno, e di quale sia l’oggetto reale del loro bisogno. Se riuscissero a chiarire a se stessi che ciò che cercano è il contatto affettivo e la risposta empatica che non hanno potuto ricevere da bambini, potrebbero indirizzare in quella direzione i propri sforzi e le proprie ricerche, con probabilità molto maggiori di riuscire a placare i morsi del bisogno. Ecco un altro esempio. Alcune forme di bulimia, come anche certi comportamenti alimentari meno estremi ma all’insegna della compulsione, rivelano facilmente, ad un’osservazione esterna, la vera natura del bisogno sottostante. Ancora una volta, chi eccede nella incorporazione di cibo lo fa spinto da un senso profondo di vuoto interiore. Riempire lo stomaco è un modo per cercare di attenuare questa sensazione di vuoto. Il problema è che il rapporto tra questa sensazione di vuoto e il cibo ingerito e il senso di pienezza che può indurre è un rapporto unicamente fittizio, come sarebbe il ricorso ad una pratica magica. Vale a dire che è un tentativo di soluzione che non può funzionare, o più precisamente può funzionare solo 37
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per qualche istante, giusto il tempo di accorgersi che il senso di vuoto interiore è rimasto sostanzialmente immutato. Se ci sentiamo soli, non supportati emotivamente, afflitti da una autostima fragile e precaria, nessuna quantità di cibo ingerito potrà farci sentire meglio. Al contrario: la cosa più probabile è che la consapevolezza del nostro comportamento alimentare fuori controllo ci faccia sentire ancor peggio, perché ci avvertiremo deboli e incapaci di resistere alle compulsioni, quindi la nostra autostima ne risulterà ulteriormente minata. Quello che abbiamo appena detto ci permette di mettere in luce un aspetto importante del bisogno: ogni forma di bisogno tende a manifestarsi con un comportamento compulsivo, che tende a sfuggire al nostro controllo razionale e a volte alla nostra stessa consapevolezza, e a sua volta produce un calo dell’autostima e un senso di profonda vergogna. Tutte le dipendenze – da cibo, sesso, alcool, lavoro, sostanze stupefacenti, gioco d’azzardo, eccesso di sonno, fino al recente utilizzo compulsivo di Internet, dei social media e dei telefonini – indicano e rivelano un bisogno profondo, primario, che non è stato riconosciuto e non ha ricevuto soddisfazione. Detta in altri termini: dietro ad ogni comportamento compulsivo si cela (ma volendo si scopre) un preciso bisogno insoddisfatto. E questa nozione ci fornisce un eccellente metodo di intervento. Assumersi la consapevolezza dei propri bisogni profondi e cercare il modo di soddisfarli dopo avere riconosciuto il piano su cui il bisogno si pone è l’unico modo per non esserne dipendenti per tutta la vita. È un percorso di conoscenza di sé complesso e a volte faticoso, ma il numero dei nostri bisogni di base disattesi è sempre molto limitato e circoscritto ad una 38
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gamma di varianti che potremmo contare sulle dita di una mano. Una volta conquistata una sufficiente chiarezza interiore, la ristrutturazione di sé non è un compito così difficile come potrebbe sembrare, e soprattutto non è così improbabile poter raggiungere un livello di benessere e di libertà molto maggiore di quello di partenza. Questo percorso quasi sempre richiede l’aiuto di una figura di supporto che ci permetterà, con la sua posizione esterna, di vedere come in uno specchio alcuni aspetti della nostra interiorità, facilitando la nostra assunzione di consapevolezza. Ma la chiave di tutto rimane quell’iniziale atto di coraggio che ci può consentire di uscire dai vicoli ciechi del bisogno per provare finalmente a giocare le nostre carte sul tavolo della vita.
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