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Donne che disegnano gli uomini
Le designer lavorano sul progetto e i designer sull’immaginario. Basta questo per dire che lo specifico femminile è più incisivo NEL CAMBIAMENTO della moda maschile? Una risposta arriva dall’incontro di un critico e di un’accademica attraverso gli esempi di Rei Kawakubo, Miuccia Prada, Sarah Burton, Donatella Versace, Chitose Abe e altre.
Michele Ciavarella incontra Maria Luisa Frisa
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dDa tempo mi chiedo come mai la moda femminile appare più libera di evolversi anche quando è creata da designer maschi e perché la moda per l’uomo resta meno ancorata ai canoni tradizionali quando è creata da designer femmine. Le quali nella moda per le donne hanno introdotto i concetti della consapevolezza e del femminismo, una riflessione che non appare altrettanto radicale tra i designer maschi che disegnano moda per l’uomo. Quello che segue, quindi, non è un esercizio concettuale che non ha alcuna coerenza con la realtà. Proprio alla luce della realtà occorre porsi la domanda se esiste una specificità delle fashion designer che creano la moda maschile e ne parlo con Maria Luisa Frisa, curatrice e professoressa ordinaria all’università Iuav di Venezia, perché mentre il mio sguardo da critico di moda potrebbe essere troppo analitico, il suo approccio accademico potrebbe allargare lo sguardo su altri significati. Senza voler fare un esercizio di retorica fashion, si tratta di osservare se il metodo creativo differente tra maschi e femmine porta a risultati diversi e anche, ma forse soprattutto, se la sensibilità verso i temi che pone la costruzione dell’abito verso il corpo sessuato influenza di più i designer maschi, frenandoli, rispetto alle designer femmine che, in tutta evidenza, su questo tema sembrano più disinvolte.
Una riflessione che arriva anche da un’osservazione di pura cronaca spinta dalla quantità di collezioni, sfilate, presentazioni, che di anno in anno si succedono, si accavallano, si confondono creando un’enorme raccolta di dati che, alla luce dell’attualità con i temi come «no gender», «inclusione», «diversità», «sostenibilità socio-culturale» e altro, rapresenta un grande contributo che la moda sta dando al dibattito generale sulla convivenza fra le persone. Una raccolta dati arricchita negli ultimi anni dalle sfilate e presentazioni co-ed, cioè quelle in cui designer e aziende presentano contemporaneamente le collezioni maschili e femminili che hanno effetti molto diversi, passando da un’evidente differenziazione di codici a una altrettanto evidente sovrapposizione di immagini. Fino ad arrivare al caso estremo di Alessandro Michele per Gucci e all’abito che ha perso completamente la specificità sessuata e può tranquillamente transitare dal corpo femminile a quello maschile assumendo il ruolo che ogni persona gli assegna.
La generalità, invece, non è questa: siamo di fronte immancabilmente a una «forma maschile» e a una «forma femminile» che in un’enorme presenza di
varianti riescono a perpetuarsi. Proprio qui, però, non si può fare a meno di notare che le donne designer hanno dato una spinta decisiva alla riconsiderazione del ruolo femminile. E anche se molti uomini designer hanno seguito senza difficoltà le loro colleghe nella evoluzione della moda femminile, non hanno invece elaborato una strada di riflessione autonoma nella moda maschile. E in questo modo hanno lasciato il campo della sperimentazione più libera proprio alle colleghe che hanno allargato anche sul maschile le riflessioni realizzate sul femminile.
sMaria Luisa Frisa. La tua premessa è interessante, ma a chi ti riferisci in concreto? Michele Ciavarella Secondo me, i casi sono moltissimi. Potrei fermarmi a Rei Kawakubo, Miuccia Prada, Sarah Burton, Donatella Versace, Chitose Abe. E vorrei citare anche Véronique Nichanian che con i suoi 33 anni a capo dello stile maschile di Hermès risulta la veterana delle designer che disegnano l’uomo. Per esempio, nel lavoro di Miuccia Prada credo che la svolta in questo senso sia arrivata già nei primi anni Duemila quando, pur continuando a decrittare il significato dell’abito formale giacca-pantaloni, ha aggiunto le platform alle suole delle scarpe maschili costringendo gli uomini ad assumere un’andatura meno protervia per spingere a una riflessione sul predominio culturale maschile. La riflessione trova il suo culmine nella famosa «collezione del potere» dell’inverno 2012 in cui ha svelato agli uomini tutte le bugie che hanno raccontato loro a proposito del potere espresso attraverso l’abito borghese fatto di giacca, gilet, camicia, pantaloni e cappotto con il colletto in astrakan.
M.L.F. Interessante che tu citi quella collezione. È vero che tutto il lavoro di Miuccia Prada è indirizzato alla messa in discussione dell’uniforme borghese, e lo realizza con spostamenti su una dimensione «anti graziosa» usando spesso dei tessuti fastidiosi che annullano il cosiddetto benessere che, invece, l’abito borghese deve procurare. Lei però fa la stessa operazione nella donna, dove appare perfino più forte perché ha meno paura di introdurre le «cose sbagliate». In questo senso penso a un’altra sua collezione maschile, quella dell’estate 2013, quando insieme alle strisce bianche a contrasto all’interno del cavallo dei pantaloni e delle maniche delle giacche introduce una specie
di canottiera bordata che sostituisce il gilet. È un top femminile introdotto nel guardaroba maschile: un cambiamento di paradigma che solo una donna poteva fare nel territorio in cui maschile e femminile si sovrappongono.
M.C. Perché dici che solo una donna poteva farlo? Forse in questo c’è il nodo da sciogliere…
M.L.F. Se quel top l’avesse disegnato un uomo sarebbe stata la canottiera scollata per mettere in vista i muscoli di braccia e pettorali. La cosa straordinaria, invece, è che la canottiera in questione mette in evidenza l’esposizione di una nudità maschile molto tenera protetta da una giacca, senza voyerismo, con un evidente cambiamento di atteggiamento perché, hai ragione tu, i cambiamenti si manifestano attraverso gli atteggiamenti che, secondo me, i fotografi e gli stylist rendono più evidenti con il loro lavoro. E tutto questo smentisce chi non riconosce il ruolo di progettista alla donna designer.
M.C. Dal mio punto di vista, però, devo arrivare fino alla sfilata della collezione maschile di Comme des Garçons del giugno 2019 e poi della collezione femminile del successivo ottobre per vedere il velo della finzione completamente squarciato con il progetto che Rei Kawakubo ha diviso in tre atti di cui i primi due, le due collezioni di moda, sono propedeutici al terzo, rappresentato dai costumi per l’opera Orlando della compositrice Olga Neuwirth andata in scena all’Opera di Vienna nel novembre dello stesso anno. Rendendo «reale» la mutazione di Orlando, il/la protagonista del romanzo che Virginia Woolf scrisse nel 1928, Kawakubo esplicita il passaggio che in altri tempi si sarebbe definito «di genere» in una transizione liquida in cui il percorso non è mai a senso unico ma fluido e possibilmente circolare anche se non necessariamente ciclico. L’Orlando maschio e l’Orlando femmina sono un’unica soluzione che passa dalla realtà degli abiti di moda da indossare nella vita reale alla finzione dei costumi per un palcoscenico teatrale, un doppio salto che rende possibile e leggibile una realtà alternativa: non l’abito «gender» o al contrario «no gender», ma l’abito e basta.
M.L.F. Certo! Ed è stato possibile perché a Rei Kawakubo non interessa che l’abito (per la donna come per l’uomo) stia bene. Infatti, per lei non esiste il problema della coerenza con il corpo tanto è vero che lavora sulle «protesi», i suoi famosi volumi aggiunti. E va detto che il processo creativo femminile è
molto diverso: mentre i designer maschi che creano per le donne esprimono il loro complesso costruendosi un’immagine artificiale del femminile attraverso la così detta musa, le donne che disegnano la moda maschile non si costruiscono nessuna specie di idolo a cui ispirarsi ma realizzano abiti che rispondono a un loro progetto che riguarda sia il corpo sia l’abito e in cui è il secondo che dà la forma al primo. Ed è per questo che, in questo caso, sono i movimenti e le attitudini che hanno un grande valore e non le aderenze o le scollature che definiscono la comunicazione dei corpi.
M.C. Quello di Kawakubo è di fatto uno «sguardo altro» che produce un lavoro radicale attraverso una presa di posizione culturale (non dimentichiamo che è anche lo sguardo di una orientale sulla moda occidentale). Ma anche altre designer hanno prodotto uno spiazzamento di aspetti, forme e volumi che ci porta diritti alla questione di genere. Penso a Sarah Burton per Alexander McQueen che ha portato i ricami e le incrostazioni in paillettes e pietre dure nelle formalità della sartoria di un tempio esclusivamente maschile come Savile Row e ha obbligato le giacche, i pantaloni, le camicie, i cappotti a confrontarsi con pieghe, plissettature e asimmetrie.
M.L.F. Ricordiamoci che siamo a Londra e che gli inglesi sanno tenere insieme cose diverse. Sono loro che hanno recuperato gli elementi della «grande rinuncia» (con questa definizione si intende l’abbandono da parte degli uomini delle sete, dei ricami, dei pizzi e dei tacchi quando nell’Ottocento la rivoluzione industriale cambia i loro abiti e fa nascere l’uniforme della borghesia, ndr). Burton recupera la tradizione maschile dell’abito di seta colorato, un ciclo storico interrotto dall’abito borghese. E mi viene in mente di paragonare il lavoro di Burton a quello di Alessandro Michele: anche l’approccio del designer maschio sulla moda maschile è cambiato moltissimo, ma mentre quello di Michele assume un’emotività che è una messa in discussione del concetto di virilità che avviene dall’interno, quello di Burton mette in discussione tutti gli stereotipi della cultura maschile.
M.C. In questo senso, allora, anche il lavoro di Donatella Versace appare più globale: lei ha trasferito nell’uomo l’idea del sexy che una cultura sessista aveva cucito addosso esclusivamente al corpo femminile ma non ha mercificato il corpo maschile come gli uomini, al contrario, hanno fatto con quello femminile. Il suo è un racconto sulla sensualità a prescindere dal genere sessuato che la esprime.
M.L.F. Le donne sono sempre più rispettose: lei si muove su un lascito progettuale del fratello (Gianni) che già lavorava sulla sensualità femminile e maschile e sapeva benissimo che la moda ha a che fare con il corpo, il sesso e il desiderio.
cM.C. Ci sono altre donne che percorrono altre strade: penso a Silvia Venturini Fendi che ha portato nell’uomo di Fendi una visione di preziosità dei materiali riservata alla moda femminile, e Chitose Abe che non si è nascosta dietro la tendenza dello streetwear per disegnare l’uomo della sua linea Sacai nella spregiudicata libertà formale concessa alla moda femminile nello stesso tempo in cui per raccontare un uomo «diverso» i designer maschi si sono rifugiati nelle sneakers e nelle felpe con il risultato di riaffermare una propensione all’immagine del maschio alfa o, come successe qualche anno fa con la tendenza Spornosexual (sport pù sex degli ossessionati dala forma fisica) verso un’immagine queer. M.F.L. La cosa interessante che mi viene in mente mentre parli è che le designer donne guardano con rispetto all’abito maschile: Sacai lo decostruisce perché crede nei valori dei suoi elementi costitutivi, che sono gli stessi di quelli femminili. Le donne non si costruiscono modelli astratti di uomo, e quindi nemmeno immagini queer: ripeto, le donne sono progettiste, non fanno rotture. Sono i designer maschi che giocano sul gesto eclatante del cambiamento…
M.C. E a me viene in mente che sono i couturier maschi ad aver inserito l’uomo nella Haute Couture, come Pierpalo Piccioli da Valentino e Kim Jones da Fendi. Che cosa ne pensi?
M.L.F. Secondo me è un inserimento sbagliato perché la couture ha un proprio linguaggio anche molto ben codificato.
M.C. Quindi torniamo all’inizio: esiste uno specifico femminile nella questione della moda maschile? Cioè, le donne che disegnano gli uomini lo aiutano di più a cambiare la sua percezione come essere umano prima che come essere sessuato?
M.L.F. Lo scrittore Paul B. Preciado sostiene che l’approccio femminile è quello più dialogante tra i due sessi e tra i due generi. Tutte le designer di cui abbiamo parlato lavorano con un progetto che supera la corporeità. La loro riflessione risulta sempre più ampia.
E quindi, a questo punto, la conclusione è sì: le designer disegnano l’uomo in modo diverso da come lo disegnano i designer. Così le donne danno all’uomo un po ’ di coraggio in più per accettare il cambiamento della cultura maschile.
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