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Lezioni (di moda) americane

C O N F R O N T I

L’annuale mostra del MET è stata divisa in due parti per raccontare 350 anni di stile made in Usa. Una ricerca di identità che parte con i pionieri, passa attraverso Hollywood, si sviluppa con lo sportswear e approda alla diversità e all’inclusione di oggi. Un lungo percorso che, secondo i curatori, dovrebbe servire per dimostrare che i designer americani sono più moderni degli europei.

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DI MICHELE CIAVARELLA

EPOPEA dei pionieri, gli Shaker, Hollywo-

L’ od, Charles James, i jeans, le T-shir etwear, il no gender, l’inclusione, americana e perfino le architetture t, lo strel’identità di Frank Lloyd Wright: una carrellata storica lunga 350 anni, dal 1670 a oggi, che però glissa clamorosamente su quella che gli storici chiamano Gilded Age, l’età dorata della seconda metà dell’Ottocento così come l’hanno raccontata gli abiti indossati dai personaggi di Edith Wharton ne L’età dell’innocenza e di Gore Vidal in Emma, 1876. Il tutto messo insieme per rispondere alla domanda: «Che cos’è la moda americana?». O meglio: «Chi o che cosa diventa americano?». Su questa ricerca di identità è nata la tradizionale mostra del Metropolitan Museum of Art che è stata divisa in due parti, In America: A Lexicon of Fashion e In America: An Anthology of Fashion, in programma per un anno dal prossimo 18 settembre al 5 settembre 2022, e che rappresenta la ripresa del ciclo delle mostre di moda dell’istituzione newyorkese nonché la celebrazione dei 75 anni del suo Costume Institute. L’esposizione è, quindi, una lunga esplorazione della storia americana attraverso quella dei vestiti di chi ha contribuito a formare, ad alimentare e a vivere quell’American Dream che nutre ancora tutte le certezze e tutte le velleità della cultura statunitense. Che, in realtà, ha dimostrato di essere più produttiva se si stacca completamente da quella europea e trova soluzioni più originali rispetto a quando si mette in gara con il Vecchio continente. Ecco perché questa mostra in due puntate piacerà moltissimo per i suoi contenuti iconografici, ma a uno sguardo più attento rischia di apparire come la ricerca di una legittimazione che, come tale, mette chi la richiede in condizioni di riconosciuta inferiorità. Un approccio di cui non si comprende la ragione visto che, come insegnano anche la storia dell’arte e della letteratura, le origini della moda americana non sono culturalmente emotive come quelle che nacquero a Versailles, ma appartengono alla cultura della praticità, come dimostrano invece sia i pionieri con i loro jeans sia, molti secoli dopo, i designer dello sportswear.

ENFATIZZATA dall’emozione della ripresa mondiale, annunciata come «upcoming blockbuster» (e viste le premesse non si fa fatica a crederlo), così com’è stata concepita, la prossima mostra del Costume Institute del MET ha tutte le caratteristiche per diventare il fulcro (e lo spartiacque) delle discussioni identitarie che coinvolgeranno anche la moda da ora in avanti.

L’attore Mark Wahlberg, all’epoca rapper Marky Mark, nella foto di Herb Ritts per la pubblicità di Calvin Klein del 1992.

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Le origini della moda americana non sono culturalmente emotive ma appartengono alla sfera della praticità

Si vuole costruire un vocabolario delle qualità espressive dell’abbigliamento

La posta in gioco di questa impostazione è altissima: la prevalenza dell’immaginario fashion europeo che si è trasformato in una narrazione storico-artistica e di costume sociale viene messa in discussione da una pretesa aderenza della moda americana e dei designer statunitensi al più recente clima sociale e politico, in particolare riguardo alle questioni di inclusività e della fluidità di genere. «Credo che la moda americana stia attraversando un rinascimento e in particolare i giovani designer siano all’avanguardia nelle discussioni su diversità e inclusione, sostenibilità e trasparenza molto più che le loro controparti europee, forse con l’eccezione dei designer inglesi» dice il curatore del Costume Insititute Andrew Bolton. Che così si schiera dichiaratamente a favore di un metodo «anglosassone» teorizzato, vissuto e propagandato come alternativo e maggiormente aderente alla modernità rispetto a quello europeo, mettendo in moto un meccanismo di gara francamente poco comprensibile vista non solo la diversità di immaginazione tra Europa e Usa ma soprattutto la differenza dei sistemi industriale e distributivo, come sanno benissimo tutti i designer e le aziende americani che producono in Italia. Ma entriamo nel merito della mostra. «Nell’ultimo anno i legami con le nostre case sono diventati più emotivi, così come quelli con i nostri vestiti. Per la moda americana questo ha significato una maggiore enfasi sul sentimento piuttosto che sulla praticità. Ecco perché la prima parte della mostra stabilirà un vocabolario moderno basato sulle qualità espressive dell’abbigliamento» dice Bolton.

QUESTA IMPOSTAZIONE permette di usare i due atti della mostra del Met per stabilire un processo di emancipazione della moda americana e toglierle di dosso la patina dell’abbigliamento facile, pratico, senza pretese. Che in sé non ha nulla di male, anche perché nell’analisi della storicità è proprio questo l’aspetto più congeniale, più autentico e originale. Bolton continua dicendo che «per meglio esprimere l’impatto estetico e culturale della moda sugli aspetti storici della vita statunitense, nella prima parte saranno esposti esempi della moda del XX e XXI secolo: gli abiti dei primi designer di abbigliamento sportivo americano insieme ai lavori di un gruppo eterogeneo di designer contemporanei scelti per illustrare l’enfasi mutevole della moda americana definita da sentimenti come paura, gioia, comfort, ansia ma anche benessere e solitudine, felicità, appartenenza, auto rappresentazione». Un percorso che il curatore definisce «un vocabolario moderno basato sulle qualità espressive dell’abbigliamento», una cosa che in verità gli europei fanno

Una vetrina al Nike Innovation Summit del 2017 a Los Angeles con le divise delle più popolari squadre di basket americane.

IMA GES TY GET

Il vero tema della mostra è l’identità americana, un dibattito molto attuale

AMY AL da secoli e che gli americani conoscono talmente bene da averlo adottato soprattutto nell’epoca storica di maggiore espansione della loro società, quell’età dorata in cui la letteratura descriveva uomini e donne che per esprimere il proprio stato sociale usavano abiti che arrivavano proprio dall’Europa, soprattutto da quella Parigi che Wharton aveva scelto come città d’origine di Ellen Olenska e Vidal di Emma Schuyler.

È PROPRIO Madame Olenska che ne L’età dell’innocenza chiede all’amato Newland Archer se «a New York la moda ha una considerazione così elevata» ed è il newyorkese Newland che le risponde «certo, tra coloro che non hanno nulla di più serio da considerare», ammettendo che l’importazione del glamour francese della Belle époque ha finito per formare anche i caratteri della società americana di quegli anni. Ed ecco perché anche la mostra del Met, nella sua ricerca di origini e autolegittimazioni, facendo un cammino a ritroso, nella seconda parte (che però aprirà il 5 maggio 2022 e conviverà con la prima fino alla chiusura) espone un’antologia di abiti americani dal 1670 al 1915. E qui si scopre il ruolo della curatela di Bolton: approdare al problema che crea l’attualità negli Usa, e cioè il tema dell’identità americana. Che, a dire il vero, era già stata analizzata nel 1998 con American Ingenuity: Sportswear 1930s-1970s, una mostra voluta dall’allora curatore del Costume Institute Richard Martin per raccontare quella moda che si era staccata sia dalla visione dei costumisti di Hollywood sia dall’europeismo glamorous di Charles James e ricercava un’autonomia espressiva con Bonnie Cashin, Tina Leser, Vera Maxwell, Claire McCardell, Clare Potter e Emily Wilkens, designer purtroppo rimaste sconosciute ai più (e che la mostra attuale non cita). E le sei stiliste non sono le sole dimenticate dalla storia, come dimostra la vicenda di Roy Halston oggi riportato alla cronaca da una serie televisiva che ha tralasciato tutto il suo processo creativo a vantaggio della spettacolarizzazione della vita personale e solo accennando alla sua caduta dovuta meno alla vita dissoluta e più alla mancanza di un sistema di filiera «all’europea» che non consente la formazione di quel «lessico della moda» che ora la mostra del Met vorrebbe tenere a battesimo. Quello che non si capisce dell’impostazione di questa mostra è perché per formare un lessico proprio ci sia bisogno di stabilire un terreno di scontro con l’Europa: un trucco che, in linea con le modalità del dibattito politico dei nostri tempi, consentirà di mantenere la ribalta mediatica a chi lo ha voluto.

Uno scatto della campagna Polo Ralph Lauren del 2010 che rappresenta l’immaginario della cultura wasp egemone in Usa.

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