STYLE MAGAZINE 7/8 ENGLISH VERSION

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STYLE.CORRIERE.IT NUMERO 7/8 - LUGLIO/AGOSTO 2020

Il mensile del

«I NUOTATORI» racconto di Ivan Cotroneo

ATTITUDINE NEO MINIMAL foto di Max Vadukul

Daniel Radcliffe - André Leon Talley Mario Testino - Carla Sozzani Meret Oppenheim - Laura Adriani Matteo Oscar Giuggioli Alberto Boubakar Malanchino - Tito Merello

Generazioni ABITI: DOLCE&GABBANA E CANALI

N° 7-8 luglio-agosto – Poste Italiane SpA – Sped. in a.p. – D.L. 353/03 conv. in L. 46/04, art. 1, comma 1, DCB Milano – Il 15 luglio con il Corriere della Sera 2 € (Style Magazine 0,50 € + Corriere della Sera 1,50 €). Non vendibile separatamente. Nei giorni successivi a richiesta con il Corriere della Sera, Style Magazine 2 € + prezzo del quotidiano.










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sommario

luglio/agosto 2020

17 Editoriale - Il luogo dell’anima di Alessandro Calascibetta e Ivan Cotroneo

18 Contributors

QUI MONDO

26 Non-luoghi. Spazi dislocati di Michele Ciavarella

30 Parma. Realtà aumentata

di Michele Ciavarella

CHECK

35 Tv. I costumi delle diversità di Michele Ciavarella e Giacomo Fasola

Scarica Spreaker e ascolta gratuitamente il podcast del racconto I nuotatori di Ivan Cotroneo registrato da Alessio Boni.

36 Photobook. Praticamente una mostra di Susanna Legrenzi

37 Libro. Giacche, gilet e tailleur di Paolo Beltramin


Giacche slim per silhouette allungate. E nero dominante. La moda per il prossimo autunno-inverno.

pag 162

PORTFOLIO

80 Daniel Radcliffe. «Così ho superato la mia dipendenza dal successo» di Giovanna Grassi - foto di Charlie Gray

ICONE

88 André Leon Talley. Una vita in trincea tra party e chiffon di Michele Ciavarella

ARTE

94 Meret Oppenheim. Quando il corpo è un’opera vivente di Martina Corgnati

INTERVISTA

98 Mario Testino. Ciao è un saluto che celebra la vita. E l’Italia di Beatrice Zamponi

INCONTRI

105 Carla Sozzani. Una ragazza che sta crescendo di Michele Ciavarella

IL RACCONTO 111 I nuotatori 38 Musica. Ballando nel fashion world di Pier Andrea Canei

REPORT

41 Fashion news

MODA

62 Il guardaroba assoluto di Angelica Pianarosa - foto di Marco Gazza

72 Lo sbaglio. Black al sole di Giorgio Re

74 Style selection. Modern Tailoring di Luca Roscini - foto di Pier Nicola Bruno

76 Ho capito che ti amo di Fiorenza Bariatti

79 Tono su tono

di Luca Roscini - foto di Pier Nicola Bruno

di Ivan Cotroneo - illustrazioni di Tito Merello

MODA

162 Attitudine neo minimal di Luca Roscini - foto di Max Vadukul

LAST PAGE

174 (Ri)progettare il futuro di Michele Ciavarella


STYLE Il mensile del

magazine

anno 16 n. 7-8 luglio-agosto - 15 luglio 2020

STYLE.CORRIERE.IT NUMERO 7/8 - LUGLIO/AGOSTO 2020

Il mensile del

STYLE È PUBBLICATO DA RCS MEDIAGROUP S.P.A.

DIRETTORE RESPONSABILE

Alessandro Calascibetta

«I NUOTATORI» racconto di Ivan Cotroneo

ATTITUDINE NEO MINIMAL

ART DIRECTOR

FASHION DIRECTOR

Tiziano Grandi

Luca Roscini

Michele Ciavarella

foto di Max Vadukul

Daniel Radcliffe - André Leon Talley Mario Testino - Carla Sozzani Meret Oppenheim - Laura Adriani Matteo Oscar Giuggioli Alberto Boubakar Malanchino - Tito Merello

Generazioni ABITI: DOLCE&GABBANA E CANALI

Max Vadukul STYLIST: Luca Roscini ABITI: (lei) Dolce&Gabbana, (lui) Dolce&Gabbana, (lui) Canali FOTO:

REDAZIONE

Pier Andrea Canei (vice caposervizio) Giacomo Fasola (vice caposervizio e coordinamento web) Valentina Ravizza REDAZIONE GRAFICA

Laura Braggio Giorgio Fadda PHOTO EDITOR

Chiara Righi PRODUZIONI ATTUALITÀ E COORDINAMENTO MODA

Silvia Giudici PRODUZIONI MODA

Alessandra Bernabei MODA

Giovanni de Ruvo, Angelica Pianarosa (collaboratori) BEAUTY

Gioele Panedda (collaboratore) Rosy Settanni WEB

Davide Blasigh, Alberto Brigidini (collaboratori) UFFICIO DI PARIGI

PROGETTO GRAFICO

Tiziano Grandi

Nicoletta Porta Chiara Pugliese COORDINAMENTO TECNICO: Emanuele Marini ADVERTISING MANAGER: BRAND MANAGER:

MENSILE DISTRIBUITO CON IL

VICEDIRETTORE VICARIO

Barbara Stefanelli

HANNO INOLTRE COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Silvano Belloni, Pier Nicola Bruno, Martina Corgnati, Ivan Cotroneo, Simone Gazza, Giovanna Grassi, Charlie Gray, Tito Merello, Giorgio Re, Max Vadukul, Beatrice Zamponi

VICEDIRETTORI

Daniele Manca, Venanzio Postiglione, Giampaolo Tucci

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questo numero è stato chiuso in redazione martedì

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DIRETTORE GENERALE NEWS:

Alessandro Bompieri

– Sede sociale: via Angelo Rizzoli 8 20132 Milano – Redazione: via Angelo Rizzoli 8, 20132 Milano, tel. 02 2584.1, fax 02 25846810 – Stampa: ELCOGRAF S.p.A via Mondadori 15, 37131 Verona – Registrazione Tribunale di Milano n. 31 del 18/01/2005 – © 2014 RCS MediaGroup S.p.A. – Testi e foto © RCS MediaGroup S.p.A. possono essere ceduti a uso editoriale e commerciale. –Syndication – Press Service: www.syndication.rcs.it, press@rcs.it Responsabile del trattamento dei dati personali (D. Lgs. 196/2003): Alessandro Calascibetta.

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INTERNATIONAL EDITIONS Maria Francesca Sereni, tel. +39 02 25844202 (mariafrancesca.sereni@rcs.it) Content Syndication: press@rcs.it Web: www.syndication.rcs.it

SEGRETERIA DI REDAZIONE E CASTING

DIRETTORE RESPONSABILE

Urbano Cairo CONSIGLIERI:

CAPOREDATTORE

Fiorenza Bariatti

PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO

30

giugno

2020

DISTRIBUZIONE IN ITALIA M-DIS Via Cazzaniga 1, 20132 Milano tel. 02 2582.1 ABBONAMENTI Per informazioni telefonare allo 02 63798520 (lun-ven, 7,00-18.30; sab-dom, 7,00-15,00). Poste Italiane S.p.A. – Sped. in a.p.–D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art.1, comma 1, DBC Milano. ARRETRATI Rivolgersi al proprio edicolante, oppure ad arretrati@rcs.it o al numero 02 25843604 comunicando via e-mail l’indirizzo e il numero richiesto. Il pagamento della copia, pari al doppio del prezzo di copertina deve essere effettuato su Iban IT 97 B 03069 09537 000015700117 BANCA INTESA - MILANO intestato a RCS MEDIAGROUP SPA.


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EDITORIALE

di Alessandro Calascibetta e Ivan Cotroneo

Il luogo dell’anima

P

PER MARCO il luogo dell’anima è la Villa Blu. È qui, nella casa di villeggiatura nella quale ha trascorso le sue vacanze di bambino e adesso di ragazzo, che torna per allontanarsi da una realtà che non gli somiglia; è qui che nascono e muoiono le sue fantasie. È qui che, in una verità parallela, Marco si sente accettato, compreso e desiderato. Marco è il protagonista de I nuotatori, il racconto che Ivan Cotroneo ha scritto per questo numero di Style Magazine.

FOTO: LEONARDO BECHINI, SARA PETRAGLIA

PER ALESSANDRO il luogo dell’anima è la Villa Bianca. È qui, nella casa di villeggiatura nella quale ha trascorso le sue vacanze da bambino e poi da adolescente, che è tornato qualche tempo fa, da adulto, mosso dal desiderio di trovare tracce di sé. Era lì che nascevano e morivano le sue fantasie. Era lì che, in una verità parallela, Alessandro si sentiva accettato, compreso e benvoluto. Forse anche desiderato. Alessandro è quello che ha chiesto a Ivan di scrivere il racconto per questo numero di Style Magazine.

PER IVAN il luogo dell’anima è il Foglio Bianco. È lì che si è sempre rifugiato, prima da bambino, quando era un foglio fisico di un quaderno scolastico a righe o una pagina da infilare in una Olivetti recuperata in casa, poi quando è diventato un foglio virtuale, lo schermo di un computer e una tastiera. È in quel luogo che si è sempre nascosto, e anche esposto, e ha cercato di parlare con gli altri di quello che gli succedeva, delle cose che gli piaceva raccontare, soprattutto è attraverso quel foglio che ha cercato di comunicare tutto quello che a voce non riusciva a esprimere: desideri, dolori, ansie, pensieri, cose che lo facevano sorridere, qualche tentativo di felicità. Ivan è quello che ha detto sì ad Alessandro, e lo ringrazia molto, per avergli permesso di passare ancora un po’ di tempo con i fantasmi della sua fantasia e della sua testa, lì nel suo posto preferito. (alessandro.calascibetta@rcs.it)

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CONTRIBUTORS

FOTO: FRANCO ORIGLIA / GETTY IMAGES

scrittore, sceneggiatore, regista, traduttore e autore. anche del racconto scritto per style

Ivan Cotroneo Napoletano, inizia le sue lunghe collaborazioni con il cinema con il regista Pappi Corsicato, per il quale scrive un episodio del film collettivo I vesuviani e la sceneggiatura di Chimera. Con il passare del tempo Cotroneo affronta diverse sfide professionali grazie alle quali è diventato traduttore (per molti libri Bompiani cominciando con il Budda delle periferie di Hanif Kureishi), scrittore, sceneggiatore, regista

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e autore. L’esordio nella scrittura è datato 1999 con una raccolta di citazioni intitolata Il piccolo libro della rabbia. Reagire ai soprusi e vivere felici; seguono, tra i tanti, Cronaca di un disamore, La kryptonite nella borsa, Un bacio. L’ultimo volume, in libreria dallo scorso luglio è 14 giorni. Una storia d’amore, La nave di Teseo. Per il cinema lavora come sceneggiatore, ad esempio di Paz!, con il quale ha portato sul grande schermo i personaggi creati da Andrea Pazienza, e, insieme a Ferzan Özpetek, di Mine vaganti grazie al quale ha vinto il Globo d’Oro 2010, i premi Suso Cecchi D’Amico e Tonino Guerra ed è stato candidato al David

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di Donatello e al Nastro d’argento 2010. Come regista, invece, inizia nel 2011 con il film La kryptonite nella borsa tratto dall’omonimo suo romanzo; per poi realizzare Il Natale della mamma imperfetta (2013, sua anche la serie web Una mamma imperfetta) e Un bacio (2016). Dopo diversi successi televisivi (tra i tanti: Un posto tranquillo, Tutti pazzi per amore, È arrivata la felicità, Mentre ero via) ha creato e diretto La compagnia del Cigno la cui seconda stagione è ora in lavorazione. pag 111



CONTRIBUTORS

Tito Merello Spagnolo, trascorre la prima parte della sua vita ad Algeciras, in Andalusia, e lì, dopo alcuni anni a Siviglia durante i quali termina gli studi in Architettura, torna a stabilirvisi unendo il suo lavoro di architetto alla passione per l’illustrazione. Il disegno è sempre stato una costante della sua vita, da quando sin da piccolo, circondato dai pennarelli e dalle matite colorate, giocava con i fratelli a disegnare tutto ciò che gli passava per la mente, finché anni dopo imparò diverse tecniche, a scuola o grazie a maestri come Antonio Miguel González e all’amico Gonzalo Rodríguez. Negli ultimi anni ha scambiato gli acquerelli e la matita con l’illustrazione digitale, partecipando a varie mostre e ricevendo incarichi come

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«cerco di trovare un linguaggio con cui interpretare la realtà che mi interessa» illustratore per il cinema, i documentari e l’editoria. «Definire il mio lavoro da una prospettiva artistica non è facile, perché in realtà non credo affatto di essere un artista» spiega. «Mi concentro sull’estetica, cercando di trovare un linguaggio con cui interpretare la realtà che mi interessa. La ricerca di riferimenti è quasi altrettanto importante del disegno stesso. Per questo non sarò mai abbastanza grato agli artisti le cui opere mi servono d’ispirazione. Ho sempre disegnato, da che ho memoria. Vado a periodi però, perché talvolta ho bisogno di disintossicarmi e di prendere una certa distanza per mettere le cose in prospettiva e riposarmi.

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Cerco di conciliare i vari incarichi, sempre più numerosi mano a mano che cresce la mia visibilità sui social, con il mio lavoro di architetto, che al giorno d’oggi è ancora ciò a cui dedico la maggior parte del tempo. Il bello del disegno è che mi costringe a sperimentare sempre nuovi modi di esprimermi. Mi obbliga a uscire dalla mia comfort zone». pag 111



CONTRIBUTORS

«prendere la realtà e trasformarla in arte, questo è saper fare il fotografo»

Max Vadukul Madre Teresa, Salman Rushdie, Mick Jagger, Nicole Kidman, Cate Blanchett, Julia Roberts, Aretha Franklin, Leonardo DiCaprio, James Brown, Brad Pitt, Al Gore, Roger Federer, Ai Weiwei, Tom Hanks. Sono solo alcuni dei personaggi pubblici, che spaziano dallo spettacolo alla politica, dalla religione alla musica, ritratti da Max Vadukul. Nasce da famiglia indiana a Nairobi, in Kenya, e inizia la sua esperienze come

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fotografo da autodidatta. Da lì si trasferisce a Londra, a Parigi, a New York e dal 2019 a Milano dove si è stabilito con la moglie Nicoletta Santoro, fashion editor di fama internazionale. Divenuto celebre nel mondo della fotografia per i suoi ritratti in bianco e nero applicati a vari campi che vanno dalla moda al reportage, negli anni Novanta entra come secondo fotografo (dopo Richard Avedon) nello staff del New Yorker Magazine. Nel 2000 il canale televisivo National Geographic ha realizzato un documentario sulla sua vita e la professione di fotografo dopo l’esperienza in Africa. Importante il rapporto di Vadukul con la musica poiché è stato uno dei

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fotografi di punta della rivista Rolling Stone oltre a scattare le cover di molti album tra cui Bridges to Babylon dei Rolling Stones, B’Day di Beyoncé e Memory Almost Full di Paul McCartney. Tante le campagne realizzate per brand di moda: da Yohji Yamamoto a Chloé, da Giorgio Armani a Comme des Garçons e Romeo Gigli. Lui stesso definisce il suo stile come «prendere la realtà e trasformarla in arte», in una sorta di reportage artistico che permette di fissare volti e personaggi attraverso immagini ironiche, oneste e inaspettate. pag 162


Antonio Dikele Distefano for Pineider

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CONTRIBUTORS

Laura Adriani Ancora ragazza esordisce nella miniserie televisiva Caravaggio e continua la sua esperienza sul piccolo schermo partecipando alla serie per ragazzi Viky Tv con il ruolo di Viky fino ad arrivare al fianco di Elena Sofia Ricci in Che Dio ci aiuti 5. Ma la sua presenza nelle serie passa anche da I Cesaroni a Provaci ancora prof!, da Squadra Mobile a Solo per amore. Nel frattempo lavora anche per il cinema: Il colore nascosto delle cose (con la regia di Silvio Soldini, 2017), Non c’è più religione (di Luca Miniero, 2016), Questi giorni (di Giuseppe Piccioni, 2016), Infernet (di Giuseppe Ferlito, 2016). pag 162

Matteo Oscar Giuggioli Non ha ancora 20 anni eppure ha già recitato ne Gli sdraiati, film di Francesca Archibugi tratto dall’omonimo libro di Michele Serra, e in Succede, teen movie diretto dalla regista Francesca Mazzoleni e ripreso dal romanzo di Sofia Viscardi, in cui Giuggioli interpreta uno dei protagonisti. Per la televisione ha lavorato negli episodi della quinta serie di Un passo dal cielo. pag 162

Alberto Boubakar Malanchino Dopo la formazione accademica inizia a lavorare come attore di prosa e sempre a teatro, al milanese Franco Parenti, porta il monologo Verso Sankara nel 2018. Diverse sono le sue partecipazioni a programmi, serie e sitcom in tv, da La strada di casa a Crozza nel Paese delle meraviglie, da Camera Café a Don Matteo fino ai recenti Summertime per Netflix e Doc. Nelle tue mani per la Rai. Al cinema ha ultimamente interpretato Elvis nel film Easy Living – La vita facile, scritto e diretto dai fratelli Miyakawa. pag 162

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Ida, Ida, Ida!, una lavanderia a gettoni con sirene, è l’opera di Olivia Erlanger preparata per la mostra No Space, Just a Place al Daelim Museum di Seul.

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SPIRITO CREATIVO E MATERIA S’INCONTRANO PER RACCONTARE STORIE ALTERATE. MA REALI

QUI MONDO

Non-luoghi

Spazi dislocati

Lavanderie a gettone che accolgono le sirene in conversazione sul genere sessuale, scale che si trasformano in manifesti di denuncia, video proiezioni che fanno vivere figure irreali in spazi reali. È l’ETEROTOPIA del futuro. (michele ciavarella)

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In senso orario: Party on the Caps di Meriem Bennani (un video in cui si raccontano paesaggi urbani terrestri popolati da extraterrestri), Notes on Gesture di Martine Syms, Covers di Kang Seung Lee per la mostra No Space, Just a Place curata da Myriam Ben Salah su progetto di Alessandro Michele.

IL FUTURO SARÀ NARRATO NEI LUOGHI CHE SI ADATTANO ALLE ESIGENZE DI CHI LI VIVE

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dopo il 1980) si sono ritrovati con i non-luoghi già storicizzati: outlet e aeroporti erano cioè già parte della vita sociale diffusa e integrati con i palazzi e le chiese barocchi, liberty, modernisti e stili successivi dei centri storici. IL RITORNO DELL’ETEROTOPIA. Ed ecco spiegato il motivo per cui, arrivando la Generazione Z (i nati dopo il 2000), il concetto appare superato e la ricerca si dirige verso la trasformazione di quei non-luoghi in «spazi connessi ad altri che sospendono e neutralizzano i rapporti che designano», recuperando il concetto di «Eterotopia» che il filosofo Michel Foucault aveva abbozzato nel 1966 in Les mots et les choses (Gallimard), nella speranza di convincere i responsabili dei modelli sociali che non necessariamente un luogo deve corrispondere a quello per cui è stato pensato ma adattarsi a chi lo vive. Nasce da qui il progetto di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, per No Space, Just a Place la mostra d’arte concepita per il Daelim Museum di Seul e curata da Myriam Ben Salah che ha selezionato opere in grado di trasformare gli spazi in luoghi «che sviluppano una nuova prospettiva dello “stare insieme” in modo che si creino inedite modalità di relazione ma anche riflessioni sulla narrazione del futuro».

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COURTESY OF GUCCI

N

EL BEL MEZZO dell’insorgere del movimento neo-minimalista contro il postmoderno, nel 1992 la definizione di non-luogo arriva improvvisa a ridefinire i rapporti sociali. In quell’anno, infatti, in Francia esce il libro dell’etnologo, antropologo e filosofo Marc Augé Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (Seuil; in Italia dieci anni dopo l’ha pubblicato Elèuthera ma il termine era stato dichiarato neologismo nel 2003) che ne dà una definizione precisa: i non-luoghi sono quegli spazi costruiti per un fine specifico (trasporto, commercio, tempo libero) capaci di creare rapporti insoliti tra gli individui (aeroporti e stazioni ferroviarie, outlet e centri commerciali, sale d’aspetto e campi profughi). Per la loro caratteristica questi posti sembrano contrapporsi ai luoghi storici che la «surmodernità» non riesce a integrare in sé e per questo li confina nel campo della «curiosità» (ad esempio, nel vecchio mondo tutte le antichità monumentali e architettoniche). La definizione, arrivata quando il concetto era già una realtà, ha cambiato molto velocemente la percezione sociale degli individui tanto che, diventati adolescenti, i nativi digitali (i nati



QUI MONDO

Parma

Realtà aumentata

Il surrealismo di Piero Fornasetti contamina il COMPLESSO MONUMENTALE DELLA PILOTTA per raccontare un immaginario che trasforma il nostro presente. Nell’anno in cui la città emiliana diventa Capitale italiana della Cultura. (michele ciavarella)

Fornasetti Theatrum Mundi, l’allestimento nel Teatro Farnese del Complesso Monumentale della Pilotta.

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OCCHI E VISO DI LINA CAVALIERI INVADONO IL TEATRO E IL SERPENTE SI SROTOLA SULLA SCALINATA

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Il serpente tentatore, che di solito decora vassoi, piatti e vasi, per mettersi in mostra nel Fornasetti Theatrum Mundi si srotola lungo lo scalone principale del Complesso Monumentale della Pilotta a Parma.

CREATIVO ECLETTICO, PIERO FORNASETTI È L’UNICO SURREALISTA ITALIANO A COSTRUIRE UN IMMAGINARIO SCENICO

e di suggestioni culturali: il serpente tentatore dell’Eden si srotola nella scalinata, l’occhio e il viso di Lina Cavalieri invadono il teatro, gli archi, le volte. Architetture contaminate dagli oggetti stranianti che con un intervento surrealista raccontano variabili possibili di realtà modificate. Come le antiche teste romane, non sculture ma volumi che scompongono la linearità di una libreria. Questo mondo virtuale espresso quando ancora si chiamava «immaginifico» e prima che la realtà aumentata diventasse un argomento di discussione, è lo stile Fornasetti che ha inventato il modo di rafforzare il reale con l’utilizzo di quell’elemento magico che proviene non dall’alchimia ma dal teatro, dalla sua struttura fisica e dall’immaginario scenico. Fornasetti Theatrum Mundi è il titolo della mostra che occupa gli spazi e l’architettura della Pilotta a Parma (fino al 14 febbraio 2021) in una continua invasione che coinvolge il Teatro Farnese, i Voltoni del Guazzatoio, la Galleria Petitot della Biblioteca Palatina e i Saloni ottocenteschi del Complesso Monumentale e che si pone

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come il sunto ideale di Rivitalizzazioni del Contemporaneo, il tema che guida tutte le manifestazioni di «Parma 2020+21, Capitale italiana della Cultura». È ALTAMENTE SIGNIFICATIVO che a raccontare un tema centrale del contemporaneo, cioè la sua trasformazione, sia il lavoro di Piero Fornasetti (19131988), figura poliedrica ed eclettica della creatività italiana, indefinibile sia nell’artigianato sia nell’arte, non assegnabile a correnti e movimenti ma sicuramente l’unico surrealista italiano. Tanto più importante perché il suo estro è fortunatamente arrivato alla fruizione di molte persone comuni (spesso trasformatesi in collezionisti) perché anziché sulle tele e nelle statue chiuse nei musei, nelle gallerie pubbliche e private, è atterrato su piatti, vasi, mobili, tappeti: oggetti di uso quotidiano che hanno la capacità di trasformare il percepito personale di chi li utilizza. La mostra è curata da Barnaba Fornasetti, figlio di Piero e direttore artistico dell’Atelier milanese, Valeria Manzi, presidentessa dell’Associazione Fornasetti Cult, e Simone Verde, direttore del Complesso della Pilotta.

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FOTO: COSIMO FILIPPINI

U

NA RETE DI RIMANDI iconografici


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CAR R E R A 2 2 9 / S



CHECK TV

i ball diventarono uno strumento di riscatto sociale

Indya Moore, attrice e modella transgender, in Pose interpreta Angel Evangelista.

I costumi delle diversità LA TERZA STAGIONE DI «POSE» È IN ARRIVO CON LA SUA CARICA DI CONTENUTI CONTRO LE DISCRIMINAZIONI ETNICHE E DI GENERE IL POTERE DELLA rappresentazione attraverso gli abiti è la narrazione dirompente insita nella moda che fa dei suoi stessi riti uno strumento di comunicazione. Soprattutto negli ultimi anni la moda ha prestato il proprio megafono ai temi dell’inclusione delle diversità, da quelli espressi dalla tematica di genere a quelli sulle scelte sessuali fino alla convinzione dell’assoluta uguaglianza dell’appartenenza etnica. Nei riti e nei miti della moda e nei suoi argomenti di narrazione si specchia Pose, la serie tv di Netflix che ha fatto della diversità la sua bandiera. Non solo perché ha il record di attrici trangender nel cast (più di 50), ma perché racconta la diversità in tutte le sue forme. Ambientata a New York tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, Pose mette al centro gli strati più emarginati della società dell’epoca: gay e trans provenienti dalle classi più disagiate, soprattutto dalle comunità ispaniche e afroamericane. Un mix di identità sessuali ed etnie davvero inedito per la tv. Ispirata al documentario Paris is Burning di Jennie

DI MICHELE CIAVARELLA E GIACOMO FASOLA

Livingstone del 1990, la serie racconta la «ball culture», cioè le competizioni nella comunità Lgbt che, divisa in «house» (famiglie), si sfidava in messe in scena che, attraverso un meccanismo del tutto simile alle sfilate, replicavano i mondi dai quali le minoranze erano escluse: per esempio «royalty», in cui si indossavano corone e mantelli regali, oppure «executive realness», con costumi ispirati ai completi dei businessman di Wall Street. A cavallo fra gli Ottanta e i Novanta, per molti nel mondo Lgbt i ball diventarono uno strumento di riscatto sociale. Pose ricostruisce questo fenomeno culturale e lo inquadra nel suo contesto di riferimento, evidenziandone i risvolti nella cronaca attuale. LE RIPRESE della terza stagione sono

Il guardaroba di «Pose» Nella serie gli abiti rivestono grande importanza. Sia per le tante scene dedicate ai ball, sia perché sono il primo veicolo di espressione dell’identità. «Abbiamo visitato i migliori negozi vintage degli Stati Uniti» hanno spiegato i costume designer. «Volevamo essere il più realistici possibile. Abbiamo comprato molte cose usate e non abbiamo mai speso più di 30 dollari per un pezzo, perché i personaggi non l’avrebbero fatto...».

state bloccate dall’epidemia Covid-19 ma un folto numero di fan è già pronto a seguire le storie dei nuovi protagonisti, dopo quelle di Angel e Blanca delle prime stagioni, in cui si è parlato anche dell’Hiv e del modo in cui la malattia colpì la comunità Lgbt.

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CHECK PHOTOBOOK

«non ho mai fotografato qualcosa che non potesse rispondermi»

Praticamente una mostra POTREBBERO ESSERE UNA GALLERIA DI STAR LE OLTRE 400 PAGINE DELL’ULTIMO VOLUME CHE RACCOGLIE LE FOTO DI GREG GORMAN. DI SUSANNA LEGRENZI

il suo ritratto preferito aveva risposto «quello di Andy Warhol», protagonista di una campagna pubblicitaria di culto negli anni Ottanta per il brand losangelino l.a.Eyeworks per la quale Greg Gorman aveva messo in fila una notevolissima squadra di volti super noti, da Jodie Foster a Boy George. Se chiudete gli occhi e provate a ricordare un’immagine del leggendario artefice della Pop Art probabilmente state pensando allo stesso scatto: Andy, asciutto e levigato, zazzera bianco luna, sguardo nascosto da un paio di occhiali da sole, maglione dolcevita e chiodo in pelle nera. Ora basterà associarci un nome, quello dell’autore: una leggenda nello star-system hollywoodiano e non solo.

Nato in Missouri nel 1949, Greg Gorman ha trovato la sua strada nel 1968 con un primo ritratto a Jimi Hendrix, scattato durante un concerto a Kansas City. Sopra: Jodie Foster (1999), Antonio Banderas (1994), David Bowie (1987).

A RICOMPORNE in un unico immenso

album 50 e più anni di carriera è una monumentale monografia, in uscita per teNeues , intitolata Greg Gorman: It’s Not About Me. Oltre 400 pagine, in cui sfilano amici di lunga data come Grace Jones e Leonardo DiCaprio, campagne di lancio di cult movie

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It’s Not About Me foto di Greg Gorman testi di Greg Gorman, David Fulton, Matthias Harder, Elton John, John Waters teNeues, 80 euro

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come Tootsie con Dustin Hoffman o Scarface con Al Pacino. Nel volume sono raccolti numerosi ritratti, a colori e in bianco e nero, mai pubblicati prima e altri iconici come quello di Michael Jackson con un aracnide sul volto, immagini che abbiamo visto sulle copertine dei cd (mitica quella per Sound + Vision di David Bowie) o sulle pagine di magazine internazionali, Life ad esempio. Il primo scatto presente nel libro? Il ritratto di Alfred Hitchcock fotografato a Los Angeles nel 1970. Il più recente? Il volto segnato di Robert Wagner nel 2020. Sfogliare tutto quello che sta in mezzo è un po’ come perdersi nella verità delle cose: «Le persone sono persone» afferma Gorman. E qui, forse, si racchiude tutto il suo gigantesco talento. «Non ho mai voluto fotografare qualcosa che non potesse rispondermi» ipse dixit.

© GREGG GORMAN

TEMPO FA a chi gli aveva chiesto quale fosse


CHECK LIBRO

dalle culotte di robespierre ai completi della merkel

Giacche, gilet e tailleur CAMBIO DI REGIME, LOTTA DI CLASSE. MA LO STILE LO DETTA CHI COMANDA. DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE A OGGI, NEL SAGGIO «MODA E POTERE» DI PAOLO BELTRAMIN

GETTY IMAGES

ABITI E PENSIERI diversi: Robespierre veste in stile anglosassone, non senza riferimenti aristocratici, retaggio dell’ancien régime, quali parrucca e culotte, che ne fanno un campione di eleganza e rigore (avrà mica avuto tendenze assolutistiche?); Marat è trasandato, indossa una giubba scura con i revers in pelliccia di leopardo, ha i capelli unti e senza parrucca e porta la camicia slacciata proprio come i suoi fan (da bravo capopopolo, oggi sfoggerebbe una felpa, magari «Paris 6eme»). Dalla Rivoluzione francese, alba della democrazia moderna, alla nostra era post-ideologica, nulla è cambiato: l’abito non farà il monaco, ma di sicuro fa l’uomo politico. Una faccenda seria, come il rigoroso saggio della sociologa Maria Cristina Marchetti, intitolato Moda e politica (Meltemi editore). Tra analisi, aneddoti, irruzioni nei guardaroba dei potenti il libro racconta come si è evoluto nei secoli il modo di vestirsi

Moda e politica, e relativi fenomeni, sotto la lente della sociologia. Un rigoroso studio di Maria Cristina Marchetti, docente alla Sapienza di Roma, dipartimento di Scienze politiche. In alto: Angela Merkel con il suo stile rigoroso.

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(e auto-rappresentarsi) di chi comanda. Nell’Ottocento è di moda la lotta di classe, tute blu versus colletti bianchi. Osserva Friedrich Engels, ne La condizione dei lavoratori in Inghilterra: «L’abito di fustagno è divenuto il costume tipico degli operai, soprannominati fustian jackets, in contrapposto ai signori» chiamati broadcloth come i loro panni in lana. UN SECOLO DOPO ecco il gessato prediletto

dai gangster e da Churchill; ma anche il lungi, l’abito tradizionale indiano di Gandhi (che fece sbottare sir Winston: «È solo un fachiro mezzo nudo»); le inquietanti divise in voga nei regimi militari; la sobrietà in doppiopetto di Alcide De Gasperi; le camicie a fiori della protesta; l’eskimo e il bomber; i jeans, a illuderci di avere tutti lo stesso stile, e la minigonna a dimostrare il contrario. Fino ai tailleur severi di Frau Merkel e alla pochette di Giuseppe Conte. Tutto è politica, come in Destra - sinistra di Giorgio Gaber: «Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po’ di destra. Ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate è da scemi più che di sinistra».

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CHECK MUSICA

«ho una bandiera arcobaleno e indosso solo un paio d’ali»

Ballando nel fashion world ARTEFICE DI SOUND DA SFILATA E DELL’ALBUM CHE FA IMPAZZIRE I BALLROOM: POPULOUS VA FORTISSIMO. MA INVITA TUTTI A RALLENTARE. DI PIER ANDREA CANEI

«SENTIVO MIA MADRE urlare “morirai

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(unico artista italiano coinvolto nel progetto #GucciGig, e autore di playlist nell’account Spotify della Maison) e altri addentellati da sound designer per sfilate (Vivienne Westwood, Isabel Marant) e architetture (la torre newyorkese per lo studio Zaha Hadid, l’altoatesino Messner Mountain Museum). Populous, sopra, firma l’album W, la cui cover è una grande festa raffigurata da Nicola Napoli (artista digitale che da Berlino celebra il mondo queer).

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UN PORTFOLIO di attività di tutto rispetto

per un producer di vera avanguardia e levatura internazionale: e chi lo ferma più? A ben vedere è lo stesso Populous (in sintonia con le dichiarazioni post-pandemiche di Giorgio Armani e Alessandro Michele) a volersi dare una calmata quanto basta: «Che una buona fetta della produzione fashion sia dettata esclusivamente dai ritmi ipercinetici dell’oggi penso fosse chiaro a tutti. E vale anche per la musica: la digitalizzazione ha generato un sovraffollamento di produzioni. A me piace pensare che in futuro ci sarà più respiro, nella moda come nella musica. Meno cose ma fatte meglio». Come le cose che fa lui, in pratica.

FOTO: MARTINA LOIOLA

povero sotto un ponte” per via dei troppi soldi spesi, a sua detta, in scarpe e vestiti. Poi, a un certo punto, i brand hanno incominciato prima a regalarmi i loro prodotti, e dopo pure a pagarmi per usare la mia musica». E che musica: concentrata, ora, nell’esplosivo album W, firmato Populous, alias Andrea Mangia. Che per il Dj e produttore di suoni leccese è «un party utopico per essere invitati al quale avremmo fatto quasiasi cosa». Pezzi dance sfrenati ma coerenti, ritmi dall’universo mondo, le ombre danzanti di Grace Jones e Missy Elliott, di Amanda Lear e Myss Keta (ah, no: lei, cointestataria del singolo House of Keta, e altre «ragazze di Porta Venezia» ci sono veramente), tra spasimi di house sciamanica, cumbia elettronica, vogueing e peripezie per la scena ballroom (accogliere senza pregiudizi). Un sound attualissimo ed eclettico, che trasuda fashion da ogni extension: non stupisce che nel curriculum di Populous figurino collaborazioni con Gucci




REPORT

A CURA DI FIORENZA BARIATTI E LUCA ROSCINI

BASKET IN EDIZIONE LIMITATA La collaborazione tra la maison Dior e il brand sportivo Jordan dà vita a una linea di abbigliamento streetwear d'eccellenza, disegnata per diventare cult.

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che, se si pensa e si ha successo come una squadra, i riconoscimenti individuali verranno da sé. Il talento fa vincere le partite, l’intelligenza e il lavoro di squadra fanno vincere un campionato». Chissà che non sia stata questa frase pronunciata da Michael Jordan, reduce dal documentario The last dance di Netflix, a far immaginare una collaborazione tra Dior, una delle storiche maison di moda francesi e il brand sportivo cult Jordan. Tutto è iniziato a Miami durante la sfilata uomo per l’inverno 2020-2021 durante la quale Dior e il suo direttore creativo del menswear Kim Jones hanno lanciato una collaborazione con Jordan presentando le sneakers Air Jordan 1 High OG Dior: made in Italy, con dettagli realizzati a mano e l’inconfondibile baffo interpretato con il motivo Dior Oblique. Insomma create già come un oggetto di culto (del resto nascono già in edizione limitata) queste sneakers suggellano quel matrimonio, che fino a qualche anno fa sembrava bizzarro ma ormai è diventato comune, tra il mondo streetwear e quello luxury. Da questo connubio è nata anche una capsule collection, la Air Dior, che racconta lo sportswear attraverso la lingua dell’expertise del brand francese: una collezione che viene definita «moderna e incarnazione di una libertà creativa», ispirata al campione di basket Michael Jordan e all’America degli anni Ottanta del boom dell’abbigliamento sportivo, di tute, di sneakers e del fitness come strumento di emancipazione e di realizzazione personale.

Il modello Air Jordan 1 High OG Dior, in edizione limitata.

Due look della collezione Air Dior: doppia interpretazione street dell'expertise unica della maison francese.

FOTO : BRETT LLOYD FOR DIOR

FOTO: VALENTIN HENNEQUIN

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REDO PROFONDAMENTE

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REPORT

NORMALE STRAORDINARIO La scelta di Paul&Shark è quella di rivedere i codici del proprio immaginario e aggiornarli dal punto di vista delle performance e dell’attenzione all’ambiente.

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IMPORTANZA di tornare alle origini. Ricostruire l’avvenire guardando indietro fieri del proprio passato. Un po’ come i ricordi di una vacanza estiva della famiglia Ramsey e di una gita raccontata da Virginia Woolf nel romanzo Al faro, pubblicato nel 1927. Stavolta però la gita viene fatta e raccontata, non solo attraverso immagini ma anche con capi di abbigliamento straordinariamente normali, da Paul&Shark, marchio made in Italy che ha da sempre un legame diretto con il mare, il vento e lo sport della vela. È con questa collezione autunno-inverno che si vuole tornale ai codici del proprio Dna mescolati con elementi innovativi. Si ritorna a raccontare un’immagine tanto comune quanto sincera grazie a capi quali giacche tecniche, maglie alla marinière, piumini leggerissimi, accessori la cui utilità diventa esigenza primaria. Spicca il capospalla base della mitologia del marinaio: il peacoat. Nato come cappotto dei lupi di mare olandesi, diventato poi capo culto grazie anche al cinema (lo indossa Gregory Peck in Moby Dick ma anche Jack Nicholson in L’ultima corvé), ora diventa chiave di volta della collezione di Paul&Shark, prodotto per la prima volta in eco-wool, cioè in lana riciclata, e trattato con una tecnologia che lo rende completamente idrorepellente. La scelta di ecosostenibilità continua anche grazie ad alcune fibre ottenute da bottiglie di plastica raccolte nei mari che, una volta lavorate, garantiscono isolamento termico, impermeabilità e protezione dal vento. Perfetti per le gite al faro, d’autunno.

L’elevata tecnologia dei materiali assicura una perfetta impermeabilità. Il peacoat, capo essenziale del guardaroba maschile, è per la prima volta in lana riciclata.

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REPORT

LA LUNGA STORIA DEL G9 Il bomber icona del british menswear.

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U LORD FRASER,

capoclan dei Lovat (quelli, per intenderci, dei romanzi Outlander di Diana Gabaldon), a concedere ai fratelli Miller il tartan di famiglia: sfondo rosso con over check bianchi, verdi e blu. E furono poi quegli stessi fratelli, assidui giocatori di golf, a volere una giacca che fosse perfetta per il green. Così, unendo le due storie, nacque il modello Baracuta G9, fatto per soddisfare lo stile (Fraser tartan per la fodera interna) e l’utilità (la profondità delle tasche, ad esempio, serve a contenere due palline). Questo succedeva nel 1940 e oggi, in tema di archive celebration, il posto d’onore va proprio al giubbino G9 proposto in montone scamosciato e suède, in velluto a coste strette o molto larghe, con imbottitura Thermore Ecodown in cinque differenti colorazioni. Ed eccolo qui il G9, passato indenne attraverso i decenni (lo portavano Elvis Presley e Frank Sinatra), nella storia del cinema e della tv (Ryan O’Neal lo indossa nel serial Peyton Place) e nelle culture giovanili (fra cui mod, punk, skinhead).

Tra i nuovi modelli del «vecchio» G9, quelli in cashmere e lana o nell’unione di lane inglesi accoppiate con materiali tecnici.

Tre punti (e basta)

Parigi chiama Atene

La prima e la seconda

Già dal suo nome s’intuisce che la volontà dei creativi che l’hanno realizzata è di trasformarla in un pezzo che diventi classico. Si chiama infatti Antigona Soft la borsa over che per la prima volta dal suo debutto nella collezione femminile diventa accessorio di punta della linea maschile di Givenchy. Disponibile in pelle nera, bianca e rossa intrecciata, con stampa a catena o nella versione in vitello nera, la borsa Antigona Soft fa dei volumi una delle sue chiavi distintive.

linea fuse insieme: ecco come Bikkembergs riesce a presentare un guardaroba completo fatto di pezzi ibridi che sanno rispondere alle tre parole chiave (dynamic, notorious, attitude) all’origine del marchio. Il direttore creativo Lee Wood, infatti, ha attinto dall’archivio storico focalizzandosi sul dettaglio grafico dei «tre punti» e trasformandolo nell’elemento decorativo della collezione in varie forme (applicazioni di tessuti, creste ricamate, maglieria jacquard e stampe serigrafiche).

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La versione in pelle intracciata con tracolla removibile.

«Concentriamo gli sforzi in un’unica linea che unisce sport e formale» racconta Wood.

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distribuito da cale.it

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REPORT

L’OGGETTO DEL DESIDERIO DIVENTA TASCABILE Il lancio della nuova Dsquared App permette un’esperienza interattiva di qualità e la possibilità di acquistare capi e accessori. Da mostrare sui social.

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in questo momento storico la cultura digitale si divide in cyberottimisti e oppositori della rivoluzione digitale ormai affermata. A credere nella possibilità di realizzare i nostri desideri sotto ogni forma e soprattutto con ogni strumento sono i due gemelli che hanno fatto della positività la firma estetica della loro storia. Canadesi di nascita, Dean e Dan Caten hanno fondato nel 1996 Dsquared2, brand che continua a ricercare nuovi metodi per raccontare i suoi codici a cavallo tra streetwear e sartorialità made in Italy con influenze che rimandano all’alta montagna e allo stile cowboy intriso di spirito sexy e solarità. L’occhio al futuro è ora pensato grazie al lancio di una nuova applicazione, la Dsquared App, che permette un’esperienza totale e immersiva nell’universo del brand. Un accesso facile a tutte le categorie merceologiche, dal ready to wear agli accessori, dall’eyewear al beachwear, dall’underwear alla moda bimbo: tutto è riportato in un canale tanto glamour quanto accessibile. I look preferiti possono essere salvati nell’app e condivisi con gli amici sui propri account social, le boutique più vicine vengono segnalate tramite la funzione di geolocalizzazione e inoltre è possibile prenotare nello store scelto i pezzi selezionati così da poterli provare senza perdite di tempo. Ma l’esperienza va oltre lo shopping: progetti speciali, video esclusivi e immagini interattive fanno parte di questo nuovo universo digitale tascabile. NCORA DI PIÙ

Sopra un total look della collezione maschile per il prossimo autunno-inverno.

Alcune delle immagini che potranno essere fruibili sulla nuova app del brand.

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REPORT

UNA TRAMA IMPORTANTE L’antica tradizione del cappotto Latorre.

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N CAPPOTTO è

quel che rende l’umile e timido Akakij Akakievic «visibile al mondo» (ne Il cappotto di Nikolaj Gogol). E il cappotto è anche l’elemento distintivo della collezione Latorre, brand che, per il prossimo inverno, l’ha disegnato monopetto con tre bottoni, collo con revers, sfoderato e dal fit asciutto attenuando la severa austerità tipica di questo capo. Si possono descrivere le trame che ha scelto l’ex piccolo laboratorio artigianale di Locorotondo – che qui in provincia di Bari è rimasto dagli anni Sessanta anche se ora ben altre sono le sue dimensioni –, ossia check, pied-de-poule e micro fantasie; si possono vedere i colori (dai toni del marrone, al tortora, al beige e al sabbia), più difficile è invece intuire, senza toccarle, le texture ottenute lavorando lane, filati di cotone, jersey e cashmere puro. «Come se una piacevole compagna di vita avesse acconsentito a percorrere al suo fianco la strada della vita: e questa compagna non era altro che quello stesso cappotto…» come scrive Gogol.

Cashmere e lana finissima: fit morbido e spalle naturali.

Valori identificativi

Green friendly

Con il nome #wecare

Nella fabbrica di Hand Picked ci sono i pannelli solari, si ricicla l’acqua usata, all’industria automobilistica va il tessuto di scarto e la pietra pomice viene riciclata. In più: nella collezione neo-tech nature il brand ha realizzato un pacchetto eco di cinquetasche in denim che si caratterizza per l’uso di tessuti, lavaggi e accessori sostenibili.

arriva in OVS l’ultimo programma d’innovazione sostenibile che tocca tutte le dimensioni aziendali, dal prodotto al negozio, alle persone. Ultralight Ecofriendly è la nuova linea di piumini realizzati in collaborazione con l’azienda chimica Dupont, il che ha permesso di usare una particolare imbottitura in un innovativo poliestere. In più c’è Eco Valore: una carta d’identità con indicazioni sul fornitore, i consumi, le emissioni CO2 e l’indice di riciclabilità.

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Persino la salpa è eco compatibile: ottenuta dagli scarti delle mele essiccate, polverizzate e poi compattate.

L’imbottitura? È composta dal poliestere ottenuto dal glucosio fermentato e dalla lavorazione dei semi di mais.

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REPORT

VIAGGIO SCANDINAVO ESSENZIALE Parte dalle isole Lofoten l’immagine della nuova collezione di Fay Archive: linee asciutte, tessuti naturali e colori che rispecchiano quelli della natura del profondo Nord.

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i luoghi dove è possibile vedere il sole a mezzanotte e le aurore boreali, partecipare a un festival jazz, sciare, visitare un museo di storia vichinga, imbattersi nelle orche marine e soprattutto godersi il paesaggio nordico nel suo più assoluto impatto. Le norvegesi isole Lofoten sono da sempre parte dell’immaginario dei paesi scandinavi più prossimi al circolo polare artico e proprio a questo luogo continua a ispirarsi il progetto Fay Archive, eleborazione dei capi della tradizione dell’outdoor americano uniti allo stile e al know-how italiano. Alessandro Squarzi, designer di questa collezione, ha sviluppato per l’autunno-inverno le caratteristiche di materiali come il panno, la lana e i tessuti naturali esaltandone le loro unicità in capi con linee pulite, esssenziali e senza tempo. Tutti i pezzi, infatti, fanno riferimento a una semplicità di fondo che spinge lo stile maschile a una ricerca di formule d’immagine ridotte a un incontro tra estetica e praticità ai limiti dell’utility. Anche i colori stessi traggono spunto dalle isole del Nord grazie a cromie che vanno dai toni naturali del sabbia al verde militare al blu navy, tutti colori che rimandano agli elementi naturali determinanti di quel paesaggio. L’iconico 4 Ganci, capo simbolo del brand e fulcro della collezione Fay Archive, viene questa volta realizzato in compatta cordura di cotone con dettagli in crosta (o montone) sul colletto e sui polsini, chiuso dai ganci in metallo galvanizzato e abbinato a un giubbotto interno in pile bouclé e tessuto tecnico. ON SONO MOLTI

L’iconico 4 Ganci nei colori del sabbia e del blu navy si arricchisce di dettagli come il colletto in montone e l’interno staccabile.

Dettagli in crosta sul capospalla 4 Ganci di Fay Archive.

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IL PROGETTO DIVENTA VERDE Slogan ecologici e codici di eco-moda

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UESTI CAPI hanno fatto la storia del costume: T-shirt, felpe ma anche capispalla e accessori hanno deciso di schierarsi inserendo una frase che suona come una presa di posizione: da Katharine Hamnett a Dior passando per Vivienne Westwood. Ora anche il marchio made in Italy Brooksfield ha deciso di prendere posizione sul tema della sostenibilità ambientale. E lo fa attraverso una serie di maglie in lana sulle quali sono ricamati messaggi che invitano a godere della natura e dei luoghi che ci stanno quotidianamente intorno. Lo spirito green è rappresentato anche dal resto della collezione che, oltre a un’estetica british fatta di check, tartan e silhouette slim anni Sessanta, ritorna all’essenzialità con polo, maglieria e pantaloni realizzati in materiali organici e certificati in colori naturali. E se le polo vengono vendute in una busta in carta ricilata, la maglieria è in un filato prodotto in Italia tinto con coloranti non solo eco ma addirittura edibili.

Una delle maglie Brooksfield con messaggi green che si unisce alla capsule collection eco-friendly.

Visioni giapponesi

A piedi verso il futuro

La versatilità dei capispalla è un tema che è stato affrontato da quasi tutti i brand di outwear che hanno analizzato tenuta termica, impermeabilità e sostenibilità. Ora People of Shibuya, marchio made in Italy fondato nel 2014 ispirato al design giapponese, si cimenta nella possibilità di avere un capo a taglia variabile: ecco Haneda, capospalla capace di offrire una taglia in più o in meno a seconda del layering, cioè eliminando o aggiungendo uno strato interno del capospalla.

I materiali stessi richiamano una visione di futuro che va oltre all’estetica. È infatti in neoprene termoforato la tomaia del modello Interaction, ultimo nato del brand Hogan per il prossimo autunno-inverno. Come il resto della collezione l’ispirazione parte da un’idea di smart city dove le città del futuro alternano piste ciclabili a skyline d’avanguardia, mobilità nuova e architettura green. Così il know-how del marchio made in Italy diventa strumento per l’accesso al futuro.

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Il modello Interaction di Hogan dai volumi ultralight. Il modello Haneda con interno in Thermore e doppia zip anti-acqua.

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AVANGUARDIE ORIENTALI INDISPENSABILI Innovazione e tradizione per i capi di Lardini by Yosuke Aizawa, collezione del brand made in Italy in collaborazione con il designer giapponese.

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che fanno da perfetta scenografia a capi di abbigliamento che sembrano essere stati creati apposta per essere indossati lì. Sembra questo il caso delle strade di Tokyo e dei suoi incroci luminosissimi e caotici e della collezione di Lardini disegnata insieme al designer giapponese Yosuke Aizawa. Frutto della passione per l’oriente della storica azienda marchigiana (e viceversa Giappone e Corea del Sud sono da sempre amanti del made in Italy e di Lardini) che si trasforma stavolta in otto capispalla e tre paia di sneakers che rappresentano il frutto dell’incontro tra la sartorialità propria del brand e l’estetica tecnologicamente essenziale e asciutta del designer orientale. Tradizione e innovazione danno vita, tra gli altri capi, a un bomber, a una field jacket, a un parka con cappuccio, a un cappotto e a una giacca monopetto. Ma oltre al design dalle silhouette inaspettate sono le fibre e i tessuti a fare la differenza: nylon, flanelle e lane stretch, waterproof, in due o tre strati e con cuciture interne termonastrate. Del resto Yosuke Aizawa ha dimostrato il suo spirito innovativo grazie al marchio White Mountaineering che lo ha reso uno dei designer più interessanti del panorama della moda maschile e che, grazie a Lardini, è riuscito nel progetto di sposare sartorialità e tech giapponese. I SONO LUOGHI

A sinistra parka con cappuccio davanti alla Tokyo Tower.

A destra uno dei capispalla della linea Lardini by Yosuke Aizawa fotografato per le strade della capitale giapponese.

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REPORT

IMBOTTITI SOSTENIBILI Outwear: pop ed ecologico.

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ARE UNA NUVOLA l’imbottitura, ecosostenibile, che Geox Respira utilizza per ben il 70 per cento dei suoi capi. Anche per le giacche idrorepellenti e antivento. Fuori colori pop in voga negli anni Ottanta: rosso, giallo, blu e bianco, ma anche grigio ferro e corda. Dentro, praticamente una morbida nube, chiamata EcologicWarm, in fibra sintetica derivata da materiale plastico riciclato che, grazie alle tecnologie brevettate, garantisce traspirabilità, impermeabilità e termoregolazione (come avviene anche con l’altro materiale utilizzato nel capo, l’XDown, composto di piume rigenerate provenienti da articoli usati). Non a caso il marchio aderisce al Fashion Pact, una coalizione di aziende del settore tessile e della moda, il cui obiettivo è «fermare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e proteggere l’ambiente attraverso una gestione più sostenibile della produzione». Anche con le nuvole si può.

Talenti e passioni Per raccontare i suoi prodotti (e valori) Pineider ha formato una squadra di comunicatori. Enrico Dal Buono, Amina Marazzi Gandolfi e Antonio Dikele Distefano sono i tre talenti «prescelti» (giornalisti e scrittori gli uomini, fotografa la donna) che, attraverso web, canali social e campagne pubblicitarie, dimostrano l’importanza del saper (e voler) scrivere a mano, «aiutati» dalla pelletteria, dalla carta e dagli strumenti di scrittura di pregio dello storico brand fiorentino, a cavallo tra heritage e modernità.

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I capispalla hanno accessori funzionali staccabili come le bretelle interne e si caratterizzano per finiture super lucide, dettagli a contrasto e fantasie camouflage riflettenti.

Non più solo pantaloni Myths recycled wool,

Enrico Dal Buono, scrittore e giornalista: «Non faccio altro che annotare pensieri. Pineider mi aiuta a lanciare l’inchiostro oltre il ridicolo».

La lana riciclata mantiene le stesse caratteristiche di quella tradizionale.

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ovvero lana (molto ben) riciclata; grazie all’eliminazione di quei passaggi produttivi che risultano inquinanti, alla riduzione della materia prima e pure degli scarti di lavorazione. Ma, soprattutto, Myths ha utilizzato questo nuovo tessuto per realizzare un abito informale composto da due modelli di pantaloni (check e gessato) e una over shirt. E questa è la prima volta che il brand, noto per la sua expertise sui pantaloni, lavora anche sul total look.


ELITE DRAGONFLY

più

leggero

dell′aria

HP consiglia Windows 10 Pro per le aziende. hp.com/go/elitedragonfly


REPORT

DAI CORPI AI PAESAGGI: È SARTORIA D’ARTE Le belle sinergie si trasformano in abiti preziosi: così l’autunno-inverno di Alexander McQueen «mette in campo» due grandi artisti e le loro suggestioni.

A

LEXANDER MCQUEEN ha

richiamato a sé grandi artisti. Il primo è uno scultore noto per le sue iconiche figure sdraiate in bronzo, quell’Henry Moore tra i più quotati artisti moderni britannici (Reclining Figure: Festival è stato venduto a più di 24 milioni di sterline). Grazie alla Henry Moore Foundation che sostiene artisti contemporanei, la griffe può riprodurre la Three-Quarter Figure del 1928 su abiti e cappotti. Quindi, a proposito di preziose rarità, ecco le giacche e i soprabiti da sera, realizzati su misura, che «brillano di marcature astratte, minerali in metallo fuso e ricami di lingotti d’argento ingegnerizzati». Termini che raccontano processi di lavorazione complessi perché, ad esempio, il disegno sul tessuto deve combaciare in ogni parte, dai revers della giacca al suo fondo fino ai pantaloni per poi essere rilavorato su computer e riassemblato e, infine, ricamato. «La connessione tra i vestiti» spiega Sarah Burton, direttrice creativa, «nasce dal tempo impiegato per realizzarli. Mi interessava la chiarezza e ridimensionare le cose all’essenza dei capi. Adoro avere tempo per stare insieme, per incontrarsi e parlare, per riconnettersi con il mondo». E il dialogo si risolve anche in una seconda collaborazione, questa volta con il pittore Howard Tangye. Il quale lascia le sue figure abbozzate per le Highlands scozzesi: un richiamo forte che diventa un soprabito sartoriale disegnato con un cardo nero a inchiostro e ricamato con filo di lingotti d’argento martellato. E, certo, anche questa è arte (da indossare).

Soprabito doppiopetto color avorio e pantaloni stampati. A destra: lo studio di Howard Tangye.

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Giacca da smoking trompe-l’œil doublerevers sopra i pantaloni dello smoking.





IL GUARDAROBA

ASSOLUTO Essenziali, iconici, timeless: elementi maschili necessariamente di rigore.

DI ANGELICA PIANAROSA FOTO DI MARCO GAZZA

Weekender in pelle, Louis Vuitton.


Camicia in cotone, Xacus.


Stringate in vitello spazzolato, Barrett.


Cravatte in seta, Hermès.


Portafogli e portatessere in pelle, Fendi.


Giacca in cotone cerato, Barbour.


Pantaloni in velluto a coste, Incotex.


Maglia in lana idrorepellente, Impulso.


Giacca in cotone 4 Ganci, Fay Archive.


Sneakers scamosciate con inserti in nylon, Saucony Originals.


Protagonista negli anni Sessanta della Swinging London, l’attore Michael Caine era soprannominato «Mister cool» come afferma lui stesso parlando del docufilm My generation (2017).

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AL SOLE Più predicato che praticato, un singolare diktat del ben vestire vieterebbe l’abbinamento tra look da giorno e calzature di colore nero. E, invece, si fa. 72

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DI GIORGIO RE


Icone: Marcello Mastroianni nel 1968 e, a sinistra, Benedict Cumberbatch e Martin Freeman nella serie tv Sherlock (2010).

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NA CALZANTE (attributo scelto non casualmente) precisazione: in quanto a stile i diktat, con buona pace di tutti, si sono estinti da decenni e anche quando godevano di buona salute valevano ciò che valevano. In altre parole: venivano ampiamente, e in modo più che disinvolto, disattesi. Perché esiste il libero arbitro e perché uomini e donne hanno sempre saputo e voluto trasporre la propria identità in ciò che indossavano. Dunque pare che le scarpe nere non possano proprio andare d’accordo con l’abbigliamento da giorno. Chiediamocelo apertamente: chi e quando ha mai tenuto presente questa regola (e regola, in questo caso, è un termine impegnativo). Vogliamo partire dall’Olimpo per spaziare qua e là tra epoche, personaggi, mode? Il duca di Windsor ha sfoggiato con disinvoltura mocassini in pelli pregiate o stringate in vitello lucido abbinati a completi o spezzati da giorno, talora sdrammatizzando con disinvolte calze a righe. L’IRRAGGIUNGIBILE E INIMITABILE, insuperabile/insuperato Cary Grant, che, con talento e presenza, ha segnato il non plus ultra dell’eleganza senza tempo, si è fatto immortalare in impeccabili completi grigi da giorno abbinati a calzature fin troppo nere. È chiaro: è quasi scontato che queste, stringate o chiuse dalle fibbie laterali o con i morsetti metallici frontali, giochino più facilmente di rimando con il formale. Ma le eccezioni sono tutt’altro che tali. Lo spettacolare Paul Newman indossa black loafer con una camicia bianca e pantaloni più che comodi; lo stesso dicasi per il «divo

Sempre uguale, in ogni film e protagonista, il look di 007. Anche quando tocca a Daniel Craig interpretarlo in Skyfall (2012).

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proletario» britannico Michael Caine, che spesso sceglie il cardigan, non la giacca, per combinarlo con i mocassini scuri. Del resto, il nero sarà pure il colore supremo dell’aplomb e dell’establishment ma di certo è anche il colore della normalità (termine non sempre nobilitante). Cerchiamo di essere ragionevoli, di basarci sul buon senso e sulla consapevolezza della realtà: il nero, altra espressione non proprio originale ma inconfutabile, «va sempre bene e si combina con tutto». Restiamo ancora con i piedi per terra e domandiamoci: sino a non troppi decenni fa la stragrande maggioranza degli uomini possedeva un unico paio di scarpe «buone». E di quale colore avrebbero mai potuto essere? Infine, il nero è anche il colore della ribellione. Sarà un caso che Elvis Presley ancheggiasse davanti alle telecamere in blouson, pantaloni e calzature nere? Ultima domanda, per concludere: qualcuno ha mai visto gli stivaletti dei Beatles – correttamente: i Chelsea boots – in un colore che non fosse il nero? Pensiamoci.

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M O DA

STYLE SELECTION

Modern Tailoring Il direttore artistico di Ermenegildo Zegna rivaluta l’espressione della personalità e cambia le regole dell’eleganza formale. TESTO E STYLING DI LUCA ROSCINI - FOTO DI PIER NICOLA BRUNO

«CON IL MODERN TAILORING Zegna ho

voluto ridefinire i canoni del classico in chiave contemporanea fondendo la tradizione e i valori fondamentali, come la cura per i dettagli, l’esperienza artigianale e la preziosità dei tessuti, con la personalità, i desideri e le esigenze degli uomini di oggi». È questa la visione del futuro del direttore artistico Alessandro Sartori che con la linea Modern Tailoring si spinge oltre il perimetro del formale. Quanto è moderno il tailoring? Il tailoring nella sua accezione più ampia fa riferimento allo stile dell’uomo che per certi versi definisce anche la sua attitudine. Ho cercato

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di creare un guardaroba moderno inclusivo e cross generazionale in cui gli accenni sportswear potessero contaminare il classico sartoriale attraverso forme decostruite ma precise e materiali sperimentali leggeri. Qual è il futuro dell’eleganza formale? Il futuro fonderà sempre di più la tradizione sartoriale con l’innovazione tecnologica. Il nostro obiettivo è parlare anche alle nuove generazioni con un linguaggio di stile nuovo. La nostra interpretazione di questa grammatica si fonda su abbinamenti monocromatici dove tailoring, maglieria, sportswear e accessori sono coordinati tra loro attraverso nuance più chiare e più scure

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GROOMING: ROMAN GASSER @ W-MMANAGEMENT

Abito e camicia della linea Modern Tailoring di Ermenegildo Zegna disegnata da Alessandro Sartori (nella pagina accanto).

di uno stesso colore di fondo. Lei parla di «lessico sartoriale»: quali sono le parole chiave e quale l’avverbio? Le parole chiave sono creatività, bellezza e sostenibilità! Mentre l’avverbio è #UseTheExisting che traduce tutto questo in un progetto a cui tengo molto e che ha come obiettivo, attraverso il riciclo ma anche il riutilizzo degli scarti, di realizzare il sogno di arrivare a «zero waste». Qual è il pezzo del guardaroba formale maschile che ci si porterà dietro per il futuro? Sicuramente la giacca a un petto e mezzo nella versione a due o tre bottoni da indossare con pantaloni carrot fit stretti sul fondo.

E quello che si lascerà al passato? Più che lasciare mi piace recuperare dal passato partendo proprio dalle rigide regole della tradizione sartoriale e sovvertendole. Ad esempio nella collezione autunno-inverno ho trasformato il classico blazer in una morbida vestaglia con cintura e ho reso il gilet formale un passe-partout da indossare con o senza l’abito: in Zegna ho il privilegio di sperimentare a tutti i livelli, dalla mischia di fibre fino alle forme sartoriali più evolute, rimescolando e ibridando le categorie per spingermi oltre i confini convenzionali. Il suo adagio preferito? «Che cosa è la fantasia se non il sogno di sognare?».

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DI FIORENZA BARIATTI

«Amore» è ancora la parola più bella da scrivere (a mano).

SUL PRIMO NUMERO di Style firmato

da Alessandro Calascibetta, il suo editoriale recitava: «Solo la scrittura a mano garantisce l’identità di chi scrive». Ugualmente Zaim Kamal, Creative Director Montblanc International, racconta che è proprio di uno strumento di scrittura che si ha bisogno «per lasciare un “segno”, catturare un pensiero, trascrivere idee e creare ricordi». Vero esperto nel campo, dal momento che da più di un secolo sta rivoluzionando la cultura della scrittura, per Montblanc mettere su carta pensieri e sentimenti può migliorare la salute fisica e mentale, schiarire le idee, ridurre lo stress e «persino rafforzare il sistema immunitario». Istruzioni per l’uso: scegliere un posto tranquillo, qualche respiro profondo e scrivere per 15 o 30 minuti, senza preoccuparsi di farlo con una calligrafia leggibile. Né di ponderare sul significato delle parole: mente e spirito prenderanno così

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il volo. E le nuove generazioni, ben più avvezze al computer? «Mostriamo loro la differenza che c’è tra il tenere traccia di qualcosa in modo manuale o digitale» spiega Kamal. «Solo così capiranno il significato della scrittura a mano, dell’emozione tattile di tracciare una linea e di come rappresenti un continuum tra i nostri pensieri e la carta confluendo naturalmente. Di come crea un legame non solo con noi stessi, ma con tutti coloro attraverso le cui mani il foglio è passato. Come un’eco emozionale». E la parola più bella da scrivere resta ancora «amore; in ogni lingua e in ogni possibile forma di espressione». Da tracciare, perché no, con una stilografica sempre «pronta»: racconta Kamal che «una volta, a Milano, in un bar a tarda sera, per schizzare un disegno su carta ho usato il Martini come inchiostro». Perché tutte le idee vanno «trasmesse». Meglio se a mano.

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Secondo recenti studi condotti da Montblanc «creare forme calligrafiche con l’inchiostro sulla carta ha una componente di disegno che aiuta a comprendere l’armonia e l’equilibrio visivo di lettere e caratteri».

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Cappotto decostruito in jersey di puro cammello, gilet doppiopetto, dolcevita in lana merinos e chinos in cotone smerigliato, Corneliani.

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Tono su tono Il comfort assoluto è un’esigenza di Corneliani che, attraverso lane pregiate e l’omogeneità delle cromie, ridefinisce il suo percorso stilistico. TESTO E STYLING DI LUCA ROSCINI - FOTO DI PIER NICOLA BRUNO

LE VERE RIVOLUZIONI per essere tali hanno sempre bisogno di attingere al passato e riflettere con intelligenza sul proprio percorso. La riflessione di Corneliani, marchio tra i più importanti ambasciatori dello stile maschile sartoriale e non, è tanto innovativa quanto semplice: riportare all’essenzialità i codici dello stile dell’uomo contemporaneo, conscio che la vera innovazione è fatta da materiali, vestibilità e sostenibilità della filiera. Più che un solo capo c’è un total look che incarna questo nuovo spirito di cui è permeata la collezione autunno-inverno nella quale sono riassunti alcuni dei pezzi chiave del guardaroba

quali il dolcevita, il gilet, il cappotto e i pantaloni in cotone con pinces. Un vero compendio di eleganza uniformato da quello che è uno dei colori tra i più legati all’universo timeless: il color cammello. AD ACCOMPAGNARE questo look chiave

della collezione ci sono poi tre linee: la Travel Tech, caratterizzata da praticità e senso urbano, la Corneliani Adaptive, un excursus sul capo più iconico cioè la giacca, e infine la Cirle, progetto ecosostenibile dove tutti i capi sono accomunati dall’uso esclusivo di fibre naturali e organiche nel pieno rispetto dell’ambiente.

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DANIEL RADCLIFFE «COSÌ HO SUPERATO LA MIA DIPENDENZA DAL SUCCESSO» DI GIOVANNA GRASSI FOTO DI CHARLIE GRAY

Daniel Radcliffe, 31 anni il prossimo 23 luglio, dopo essere diventato una star globale interpretando Harry Potter per ben otto film si è dato al teatro e al cinema indipendente. abito e maglia, louis vuitton

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ON MI SONO mai chiesto che cosa sarebbe stata la mia vita se non fossi stato scelto per il ruolo di Harry Potter quando avevo dieci anni. Ho convissuto con il senso della magia, ho sempre sentito la responsabilità di interpretare un personaggio che aveva incantato il mondo. L’enorme successo mi ha dato molto e mi ha chiesto altrettanto. Poi, però, ho continuato a lavorare per essere l’attore che avrei voluto diventare» dice Daniel Radcliffe, che a 31 anni (il 23 luglio) si è finalmente liberato dall’immagine del maghetto con gli occhiali e preferisce parlare degli impegni a Broadway e dei suoi film coraggiosi e indipendenti che puntualmente vengono presentati al Sundance Film Festival (a partire da Giovani ribelli - Kill Your Darlings, del 2013, in cui ha impersonato il poeta Allen Ginsberg, padre della Beat Generation) e lo hanno aiutato a mettere a fuoco la sua identità. Nel suo ultimo successo Guns Akimbo, presentato al Toronto International Film Festival (disponibile in streaming su Amazon Prime Video), lo vediamo nei panni di uno sviluppatore di videogiochi che si ritrova con due pistole avvitate chirurgicamente alle mani; il prossimo (non ancora uscito in Italia), Escape from Pretoria, è la storia vera di alcuni attivisti anti-apartheid incarcerati che progettano un piano di fuga. Nonostante le soddisfazioni che gli sta dando la serie Miracle Workers, basata sul romanzo What in God’s name di Simon Rich, la cui seconda stagione è in arrivo prossimamente in Italia, è il teatro ad averlo aiutato davvero «a ritrovare un autentico equilibrio, anche una sana forma di mascolinità», tanto da non aver esitato, appena maggiorenne, ad apparire nudo sul palcoscenico nel dramma Equus. «Ho lavorato molto su me stesso, sia sul piano psicologico sia su quello vocale, per diventare un bravo attore teatrale». Personalità complessa e riservata, Radcliffe si entusiasma parlando di libri. «Amo molto i film che entrano nell’universo umano e letterario degli scrittori» spiega, pur ammettendo di non essere stato un bravo studente: «Divagavo, sfuggivo alle regole… Ma leggere è sempre stata una mia passione». Da quando, a dieci anni, interpretò David Copperfield in una miniserie per la Bbc e lesse il romanzo di Charles Dickens e anche tutto il possibile sul suo autore, alla sfida di portare Finale di partita di Samuel Beckett sul palcoscenico del prestigioso Old Vic di Londra all’inizio di quest’anno. Fino all’audiolibro di Harry Potter e la pietra filosofale che ha registrato durante il lockdown insieme ad altre star come Dakota Fanning, David Beckham e Eddie Redmayne. «Le nostre letture saranno utilissime alle nuove leve per imparare a conoscere il bambino

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Prossimamente Radcliffe sarà protagonista di Escape from Pretoria, ambientato nel Sudafrica dell’apartheid. abito e camicia, boss

che ha accompagnato l’infanzia della mia generazione. Progetti come questo testimoniano l’importanza delle biblioteche, anche online, in tutto il mondo. Insegnare ai ragazzi l’amore per la lettura è fondamentale, saranno loro gli uomini di domani». Dopotutto i romanzi di J. K. Rowling hanno contribuito non poco a plasmare il suo carattere: «Mi hanno insegnato a superare le avversità. La vita di Harry non è mai stata facile, è un sopravvissuto» dice. «Non mi dispiacerebbe un giorno interpretare suo padre James Potter, sarebbe divertente». La scelta di vivere tra due mondi, la nativa Inghilterra e gli Stati Uniti (da anni ha un appartamento nel West Village newyorkese), riflette una personalità multiforme, di cui non è semplice tracciare un profilo: tra i tanti suoi interessi, ad esempio, c’è la passione per la musica (sin da ragazzino ha studiato e suonato il basso) e per la poesia, di cui

«USCIRE DALLA CONDIZIONE DI BABY STAR RICHIEDE UN LAVORO MOLTO DURO E LIBERARSI DI UN RUOLO È ARDUO MA NECESSARIO»

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«UN ATTORE RIPROPONE VITE SCRITTE DA ALTRI, UN AUTORE CREA STORIE, PERSONAGGI. IO AVREI VOLUTO ESSERE UN POETA»

L’ultimo successo di Radcliffe s’intitola Guns Akimbo (disponibile in streaming su Amazon Prime Video). È la storia di uno sviluppatore di videogiochi che si ritrova con due pistole avvitate chirurgicamente alle mani.

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è anche autore con il nom de plume Jacob Gershon. Politicamente impegnato, si è schierato con i liberal-democratici e i laburisti, ha tenuto discorsi contro l’omofobia e ha collaborato con associazioni che lavorano per la prevenzione dei suicidi tra gli adolescenti. Radcliffe ora non si racconta facilmente, né lo ha fatto in passato. Non è mai stato un presenzialista né un personaggio mondano, non gli è mai interessato essere alla moda. Non è un fanatico dei social media, anzi la ricerca della privacy è sempre stata una regola per lui, e persino la sua lunga relazione con l’attrice americana Erin Darke conosciuta nel 2012 sul set di Giovani ribelli - Kill Your Darlings è sempre stata vissuta nell’ombra dei riflettori. Da allora i due non si sono più lasciati, ma mai hanno pubblicizzato il loro legame e, quando il lavoro li ha portati lontani uno dall’altro, Skype e Facetime li hanno quotidianamente avvicinati.

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A SAPUTO amministrare con parsimonia il suo patrimonio stellare e non ha ostentato più del necessario i suoi successi, riuscendo a mantenere un basso profilo persino quando ha conquistato la sua stella sulla Hollywood Walk of Fame. «La legittima vanità maschile ha un peso specifico nella società contemporanea e anche nell’economia del mondo fashion che cerca continuamente nuove icone» afferma, «ma preferisco optare sempre per il pudore. Se mi espongo pubblicamente, con amici di una vita come Emma Watson e Rupert Grint, è sempre per qualche causa sociale e umanitaria non certo per i red carpet». E cita l’impegno per la Read ossia l’associazione britannica dei librai indipendenti: «Sono tempi duri, molte librerie sono state costrette alla chiusura». E torna sul tema della lettura ammettendo: «Sono un attore professionista, ma avrei voluto essere prima di tutto uno scrittore, o meglio un poeta. Un attore ripropone vite, scenari, personalità scritte da altri, un autore crea storie, personaggi, un poeta coglie le emozioni e le trasmette». Sia la passione per la scrittura sia quella per la recitazione per Radcliffe sono un’eredità di famiglia. Figlio unico, è cresciuto con una formazione cosmopolita: «Mia madre Marcia Jeannine Gresham, ebrea, è nata in Sudafrica e cresciuta nell’Essex, in Gran Bretagna, mentre mio padre, Alan George Radcliffe, è un uomo dell’Irlanda del Nord, cresciuto in una famiglia molto working class di religione protestante». Entrambi avevano iniziato da bambini a recitare, ma poi le loro strade si sono allontanate dal mondo dello spettacolo: «Papà è diventato uno stimato agente letterario, mam-

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Attesissima in Italia è la seconda stagione di Miracle Workers, la serie basata sul romanzo What in God’s name di Simon Rich, in cui Radcliffe interpreta un angelo. abito e camicia, gucci

ma un’agente di casting e produttrice». Sono stati i suoi genitori ad aiutarlo a mettere da parte il gratificante ma faticoso retaggio della popolarità di Harry Potter e a superare i periodi in cui la notorietà, immensa e globale, lo aveva pericolosamente avvicinato all’alcol: «Non è semplice ritrovarsi all’improvviso al centro di un impero fatto di film, videogiochi, parchi a tema e sempre nuovi business e uscire dalla condizione di baby star richiede un durissimo lavoro. Il successo di un ruolo crea una dipendenza, liberarsene è arduo ma necessario. Spesso rischi di perdere l’equilibrio, di cadere in qualche dipendenza come difesa, per la fatica di essere sempre all’altezza delle aspettative». Chi sono oggi i suoi modelli? «Per me hanno un valore tutte le persone che lavorano per rendere il mondo migliore e per creare connessioni con gli altri».

«LA LEGITTIMA VANITÀ MASCHILE HA UN PESO SPECIFICO NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA CHE CERCA CONTINUAMENTE NUOVE ICONE»

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ANDRÉ LEON TALLEY«LA MODA SONO IO». UNA VITA IN TRINCEA TRA PARTY E CHIFFON DI MICHELE CIAVARELLA

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OTENTE, caparbio e controverso: 50 anni di moda e 70 anni di vita sono valsi ad André Leon Talley un’enorme riconoscibilità che trova una definizione in questi tre aggettivi. Ci sarebbe da aggiungerne un quarto: combattente. Perché è il primo afro-americano ad acquisire una posizione rilevante nel mondo della moda. Infatti, prima di diventare a 20 anni «l’assistente preferito» (la definizione è sua) di Diana Vreeland all’epoca in cui la divina dirigeva il Costume Institute del Metropolitan Museum di New York e prima di trasformarsi in un’icona del giornalismo di moda, il più riconoscibile protagonista della redazione di Vogue Usa ha tracciato una strada inedita ai suoi tempi: è stato il primo afro-americano di potere nel sistema della moda (ancora oggi, sono pochi gli afro-americano di potere tra cui Edward Enninful, il direttore di Vogue UK). La carriera di Talley ha un andamento veloce e atipico e si svolge tutta nei giornali reputati più cool. La Vreeland lo raccomanda ad Andy Warhol che, nel 1974, lo assume a Interview come receptionist ma dopo pochi mesi gli offre di intervistare Karl Lagerfeld e ne diventa amico. Sarà un caso ma qualche mese dopo John Fairchild lo chiama come redattore a Women’s Wear Daily dove la sua carriera è fulminate: entra come redattore e in poco tempo diventa direttore dell’uffi-


AndrÊ Leon Talley al Met Gala del 2007 dedicato alla mostra Poiret: King of Fashion. La cappa in faille di seta di Chanel fu disegnata per lui da Karl Lagerfeld e s’ispira a quella indossata da Merle Oberon nel film La primula rossa del 1934.

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Nel 1979 con Diana Ross allo Studio 54 di New York. «Ci andavo quattro notti alla settimana anche se la mattina dopo alle 9 ero in redazione al WWD. Ero all’apice della mia bellezza giovanile».

cio di corrispondenza europeo da Parigi. Nel 1983 arriva a Vogue diretto da Grace Mirabella come Fashion News Director, carica che tiene fino al 1988 quando Anna Wintour diventa direttore e gli cede il suo posto di Creative Director. Nel 1995 torna a Parigi come corrispondente di W ma tre anni dopo è di nuovo a Vogue come Editor at Large e ci resta fino al 2013 quando assume per un anno la direzione dell’edizione russa di Numéro. Anni intensi in cui raffina il suo fiuto speciale nel diventare amico di personaggi con dosi elevate di allure e di potere (Lagerferld, Yves Saint Laurent, Pierre Bergé, Paloma Picasso, Diane von Fürstenberg, Lee Radziwill e fra tantissimi altri la stessa Wintour) che l’hanno accompagnano nella costruzione di un percorso che, senza dubbio, è quello di un uomo che ha esercitato la propria influenza nella moda per oltre mezzo

L’amicizia tra Lagerfeld e Saint Laurent finì bruscamente a metà degli anni Settanta ma Talley fu uno dei pochi che poteva frequentare entrambi, come Paloma Picasso.

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secolo. È questo il racconto di sé che Talley fa in The Chiffon Trenches (Penguin), «le trincee di chiffon», il libro di memorie nato sulla scia del documentario The Gospel According to André (diretto da Kate Novack, presentato al Toronto Film Festival nel 2016 e ora disponibile su Amazon Prime). Aiutato dal genere «memoire», ALT (il suo acronimo) traccia una linea retta che dai sogni dell’infanzia arriva alla sua versione di «american dream realizzato», quello di vivere una vita in cui nulla di quello che accade è brutto. Ed è in questa sua concezione di altissimo way of life che spesso il libro appare più il racconto del proprio ego, sempre direttamente proporzionale con la sua altezza, che quello della sua vita. Fino a confondere spesso la sua persona con gli eventi a cui partecipa, la moda con il suo gusto e il fashion world con se stesso. E così la sua vita scorre tra momenti di intenso sentimentalismo, soprattutto quando si riferisce alle sue origini, qualche focus su momenti ironici e (pochi) autoironici della sua carriera, tante verità romanzate come succede nei romanzi storici e troppe normalità artificiali confuse con inviti in località da sogno e viaggi in jet privati, regali e prebende esclusive, pretese di ringraziamenti che se non arrivano cancellano amicizie di lunga data. E sempre all’ombra di persone potenti (la nonna viene sostituita da Vreeland che viene sostituita da Lagerfeld che viene affiancato a Wintour) e alla perenne ricerca di riconoscimenti alla sua personalità resi espliciti da costosi regali. E da una vera, grande ossessione: Vogue e, di conseguenza,

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GETTY IMAGES, IPA

Sotto, nel 1978 con Yves Saint Laurent a un party a Parigi e nel 1979 con Karl Lagerfeld nel backstage della sfilata di Chloé.


la moda. Ecco alcuni dei punti salienti che costellano queste lunghe «trincee di chiffon».

© DUSTIN PITTMAN, COURTESY OF MAGNOLIA PICTURES

L’inizio. «Sono nato in un ospedale alla periferia del quartiere di Georgetown a Washington D.C. Due mesi dopo, come succedeva in ogni famiglia del Sud, i miei genitori mi portarono a vivere con mia nonna in North Carolina. E mentre loro lavoravano nella capitale, io chiamavo lei mamma». Vogue. «Il mio rifugio preferito era la biblioteca. A 12 anni il mio mondo era diventato le pagine patinate di Vogue dove ho conosciuto Truman Capote, Gloria Vanderbilt... Sognavo di incontrare Naomi Sims e Pat Cleveland e vivere quella stessa vita dove le cose brutte non succedono mai. Avevo la cameretta 1978: per il matrimonio con Rafael López-Sanchez Talley consigliò Paloma Picasso di farsi fare l’abito da giorno da Yves Saint Laurent e quello da sera da Karl Lagerfeld.

tappezzata con le pagine della rivista di moda più influente del mondo anche se a me, un ragazzino cresciuto nel Sud segregazionista, l’idea che un uomo di colore potesse avere qualsiasi tipo di ruolo nel mondo della moda sembrava impossibile».

Attitude. «Ero un fashion addicted nell’abbigliamento e nell’aspetto. Avrei voluto usare anche il trucco kabuki come quello di Diana Vreeland e prima di andare a scuola impomatavo i capelli con l’ultimo prodotto di Estée Lauder». Vreeland. «Diana Vreeland stava preparando la mostra Romantic and Glamourous Hollywood Design al Costume Insititute e assumeva assistenti volontari. Il padre di una mia amica mi ha scritto una lettera di presentazione e sono stato assunto senza stipendio. Non m’importava. Stavo per lavorare con la più importante imperatrice della moda e per iniziare il mio apprendistato da sogno». Karl. «Era già uno dei più infuenti creatori di moda francese (all’epoca da Chloé, ndr) e prima di incontrarlo (per un’intervista da pubblicare su Interview, ndr) ho letto tutto su di lui. Abbiamo parlato dello

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2007, il Front Row a una sfilata di Carolina Herrera a New York: da sinistra, Hamish Bowles, Anna Wintour e André Leon Talley.

2011, Talley con Grace Coddington, Creative director di Vogue Usa, a una sfilata di John Galliano a Parigi.

stile e della cultura del Settecento francese. A un certo punto mi disse: “La moda è divertente e non va presa troppo sul serio”. Poi mi chiese di seguirlo in camera da letto, aprì uno dei suoi bauli Goyard e mi regalò delle camicie in crêpe de Chine fatte a mano da Hilditch & Key (sartoria inglese con sede anche a Parigi in rue de Rivoli, ndr). Le ho indossate per anni come un distintivo d’onore».

avevo sognato e non osavo credere di essere arrivato in una posizione in cui il colore della mia pelle non era importante. Quello che importava era che mi reputassero intelligente».

Parigi. «Ho lasciato New York con 13 valigie. WWD aveva affittato per me un meraviglioso duplex all’hotel Lennox in rue de l’Université, a soli tre minuti dal lussuoso appartamento di Karl nel famoso palazzo Pozzo di Borgo. [...] Mi svegliavo al mattino e potevo parlare al telefono con Betty Catroux o con Karl. Il mio cuore batteva con euforia. Questo era quello che

Obesità. «Ero molto ingrassato a Durham (nei sei mesi passati a casa dopo la morte della nonna, ndr) e ho continuato ad abbuffarmi anche al mio ritorno a New York. I miei vestiti denunciavano esattamente quanto fossi diventato grasso e gli sguardi di Anna Wintour non passavano inosservati. Mi chiese di andare in palestra e si offrì di pagarla: quindi, non era un suggerimento ma un’imposizione. [...] Penso che a quel tempo il mio peso abbia ostacolato la mia carriera».

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Maldicenze «Visto che stavamo spesso insieme, la gente si chiedeva cosa trovasse Lagerfeld in me e molti pensavano che fossi il suo amante. Non lo sono mai stato. Ma siccome sono un uomo nero molti credono che si possa essere interessati solo ai miei genitali. [...] Dopo una mia bellissima recensione di una sfilata di Givenchy hanno messo in giro la

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Nel 2018 Wintour gli ha tolto la conduzione delle interviste con le celebrity sul red carpet del Met Gala: un «trauma» che ha provocato la fine di una lunga amicizia.

Razzismo. «Anche se sono stati fatti passi da gigante, sono consapevole che un uomo di colore debba ancora lavorare mille volte di più per vivere il sogno americano. [...] Il razzismo si muove sotto l’epidermide come un vincolo. Fa parte del tessuto della nostra esistenza».


voce che rubavo gli schizzi originali di Yves (Saint Laurent, ndr) e li vendevo a Hubert (de Givenchy, ndr). Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Ecco, questo è il tipo di razzismo che ho vissuto nella moda: colpi bassi che i bianchi sferrano contro le persone di colore».

Wintour. «Oggi mi piacerebbe che dicesse qualcosa di umano e sincero su di me (l’amicizia 30ennale si è interrotta bruscamente due anni fa, ndr). Mi sono rimaste enormi cicatrici emotive e psicologiche dal mio rapporto con questa donna imponente e influente, che può sedere vicino alla regina d’Inghilterra con la sua uniforme di occhiali scuri e la perfetta pettinatura ritagliata alla Louise Brooks che incornicia la sua faccia enigmatica da Monna Lisa. Ma chi è veramente? Adora i suoi due figli e sono sicuro che sarà la Nel 1989: Liz Tilberis (Vogue UK), Bob Colacello e Daniela Morera (Interview), Franca Sozzani (Vogue Italia), Irene Silvagni e Colombe Pringle (Vogue Paris), Anna Wintour e André Leon Talley (Vogue Usa).

migliore nonna possibile. Ma sono così tante le persone che hanno lavorato per lei e che si ritrovano con enormi ferite sentimentali. Donne e uomini, designer, fotografi, stilisti. L’elenco è infinito».

Best Dressed: Donne. Anna Wintour: «Ma solo quando veste Chanel Haute Couture». Annette de la Renta: «Nei suoi armadi ci sono collezioni intere di Yves Saint Laurent». Bianca Jagger: «Si è sposata in Yves Saint Laurent e gli altri suoi abiti sono di Norma Kamali, Christian Dior by Marc Bohan e Valentino». Diana Vreeland: «Vestiva Balenciaga per andare in ufficio e i suoi gioielli preferiti erano quelli falsi di Kenneth Jay Lane, tranne un serpente smaltato di Bulgari». Rihanna: «Ha trasformato il suo stile in un impero della moda. È l’anima dell’Africa moderna». Best Dressed: Uomini. Tom Ford: «Ha decine di semplici abiti neri con giacca monopetto che indossa con la camicia bianca e scarpe nere con la punta». Marc Jacobs: «Veste abiti eleganti e borse da donna di Chanel e Hermès che mischia con sneakers bianche e pellicce vintage di Prada con le quali si è presentato anche al funerale di Lee Radzwill». Will Smith: «Ha lo stesso impatto di Cary Grand ed è sempre elegante anche quando indossa T-shirt e berretto. Ma è il più bell’esemplare di Hollywood quando indossa abito e cravatta neri».

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ARTE

QUANDO IL CORPO È UN’OPERA VIVENTE DI MARTINA CORGNATI

Desideri segreti, gusto impeccabile, un pizzico di provocazione e una grande ironia sono gli ingredienti necessari per Meret Oppenheim. Tra abiti, gioielli, maschere e tazzine in pelliccia.

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Meret Oppenheim ritratta da Claude Lê Anh. Da giovane ha anche posato, da bellissima qual era, in alcuni mitici servizi fotografici; memorabile, per esempio, nella serie La mode au Congo di Man Ray (1937): in giacca e cravatta e con una cuffietta di perline in testa.

FOTO: CLAUDE LÊ-ANH, PARIS

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UTTI CONOSCIAMO Déjeuneur en Fourrure, lo straniante capolavoro di Meret Oppenheim che consiste in una tazza da tè, completa di piattino e cucchiaino, completamente rivestita in pelliccia di gazzella cinese. Pochi sanno però che l’ispirazione per questa icona del surrealismo arriva dagli accessori di moda che in quel momento la giovanissima artista elaborava per Elsa Schiaparelli, la più eccentrica fra i couturier a Parigi: un largo bracciale rotondo rivestito in pelliccia e anche dei guanti pelosi privi delle dita, le quali quindi sarebbero uscite, pure ed eleganti, da una mano villosa. Meret Oppenheim (1913-1985), astro luminoso della galassia surrealista e interprete leggendaria dell’arte al femminile del Novecento, amava la moda, il suo mondo, gli accessori, gli abiti e i gioielli non meno delle opere d’arte propriamente dette. Dietro al culto per la moda c’è una nuova idea del corpo come opera d’arte, coltivata non solo da lei ma da parecchi fra i suoi amici: a cominciare da Marcel Duchamp, che si fa fotografare in vesti femminili inventando un «personaggio-opera» dal nome conturbante Rrose Sélavy (che quando pronunciato suona come «l’amore è la vita»). Oppure Leonor Fini, gran signora celebre per i suoi quadri, le toilette stravaganti ed eccessive e lo stile di vita straordinariamente libero, con la quale Meret intreccia un’amicizia lunga, intensa e fervida, dove la comune passione per abiti, maschere e travestimenti ha una parte non secondaria: «Cara Meret, fammi dei guanti tutti rossi dentro, neri sul lato e un grande cuore nero al centro…» le scrive Leonor negli anni


SERVE UNA LEGGE SUL LATTE: PER PROTESTA SI VESTE DA MUCCA S T Y L E M AG A Z I N E

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OC AC RH TE IELLO

LIBERA E CREATIVA Meret Oppenheim (1913-1985), nata a Berlino, approda a Parigi 20enne ed entra presto nel movimento surrealista. Dopo il tempo difficilissimo della guerra ritrova la sua forza creativa verso la metà degli anni Cinquanta. Nel 1967 espone al Moderna Museet di Stoccolma, invitata da Pontus Hultén; nel 1974 vince il Premio della Città di Basilea. Nel 1982 partecipa a Documenta di Kassel insieme a Joseph Beuys. Partecipa a grandi mostre e collabora con i critici più importanti; inoltre è un mito del femminismo, che la considera una pioniera dalla leggendaria libertà personale e dall’irresistibile originalità creativa, «faro» per tutte le donne. Nel 2021-22 Meret Oppenheim sarà al centro di una ambiziosa mostra retrospettiva itinerante al Museo di Berna, alla Menil Collection di Houston e al MoMA di New York.

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FOTO: HANS-JÖRG WALTER, COURTESY GEMS AND LADDERS

Gems and Ladders realizza «gioielli d’arte» progettati da artisti contemporanei. Tra questi: il bracciale rifinito in pelliccia di gattopardo americano, disegnato da Meret Oppenheim nel 1936.


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DUE MANI LEGATE DIVENTANO UNA CINTURA Trenta. Purtroppo di questi guanti, che forse Oppenheim aveva realizzato, resta solo un disegno. Sono invece stati confezionati quegli altri, bellissimi, che l’artista prepara nel 1985 come «multiplo d’artista» per il quarto numero della rivista svizzera Parkett, in capretto scamosciato azzurro, l’intrico delle vene e dei capillari disegnato in leggero rilievo, come un arbusto dai rami sempre più sottili. La creatività di Meret Oppenheim interpreta il corpo, lo esplora nei suoi dettagli, nelle sue pieghe, nelle sue insospettabili analogie: et… voilà, così nasce l’oggetto. L’orecchio, per esempio, con quella piccola nicchia invitante ben collocata fra il trago e l’antitrago, proprio sopra il lobo sensuale e delicato, non è il posto perfetto per farci un piccolo nido che diventa un originale orecchino? Oppure per mettere in precario equilibrio i due piatti di una Bilancia, il segno zodiacale di Meret? E il collo, che l’artista vuole lungo e affusolato, sostiene un’inquietante doppia catena, collegata da lunghi e ben spolpati ossicini d’oro e una morbida, ma implacabile, bocca femminile al centro, insospettabile ma probabile autrice del «fiero pasto». O, ancora, con un tocco leggermente perverso, due mani legate, incrociate una sull’altra, la corda intorno ai polsi, diventano un’imprevedibile cintura. Desideri segreti, gusto impeccabile, un pizzico di provocazione e una grande ironia sono gli ingredienti necessari per interventi come questi che Meret Oppenheim si è divertita a immaginare anche negli anni difficilissimi della Seconda guerra mondiale, trascorsi in una specie di lungo lockdown a Basilea fra il terrore che i nazisti invadessero la Svizzera e il sospetto dei suoi vicini che non apprezzavano la presenza di una giovane donna, artista internazionale, autrice di opere bizzarre e incomprensibili; una spia forse? In una di quelle giornate interminabili, Meret scrive a Leonor, confinata in Francia: «… Qui l’unica occasione per sfoggiare l’abito da sera è di andare in uno dei due o tre ristoranti dove ci sono balli pubblici…». Forse sta parlando di quell’abito a larghe pieghe rigide che lascia nude le spalle, si allarga sul petto fra spumeggianti bolle e fascia busto e gambe, che aveva dipinto proprio nel 1944. Per fortuna, gli anni a venire saranno via via più tolleranti e, oltre a oggetti straordinari, come i bottoni in forma di piatto e coperto da cucire su un tessuto pesante nero, Meret Oppenheim progetta e realizza una serie di maschere per l’amato e sfrenato

In alto: le opere di Meret Oppenheim sono state oggetto di varie retrospettive. Notevole questa, del 2014, a Villeneuved’Ascq in Francia. Era esposta anche Souvenir du déjeuner en fourrure, la fotografia della famosa opera realizzata nel 1936; allora la «tazza rivestita in pelliccia», esposta alla Mostra dell’oggetto surrealista alla Galerie Ratton, venne acquistata dal direttore del MoMA di New York, Alfred Barr jr. I guanti in capretto scamosciato su cui l’artista ha disegnato, in leggero rilievo, vene e capillari; qui in mostra presso Ucca Center for Contemporary Art nel 2012.

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carnevale di Basilea. E nel 1951 si veste da «mucca pastorizzata» per protestare contro la mancanza di una legge federale sulla pastorizzazione del latte, e vince il gran premio. Un’altra volta si copre di corteccia d’albero per fingersi scorticata. Si tratta, appunto, di maschere, non di abiti, benché per l’artista il confine non fosse ben definito: che dire dell’abbondante cappotto fatto da innumerevoli striscioline di carta penzolanti e morbide come piume che Meret indossa in un servizio fotografico di Claude Lê Anh? Lei però non gioca a fare l’eccentrica ma si occupa di interpretare se stessa nel tempo e nel corpo che cambia. Invecchiando lei, che era stata una bellezza leggendaria, non finge di essere giovane: anzi, si taglia i capelli e si porta in giro rughe e pelle segnata da un’esistenza straordinaria; insomma, esibisce il suo volto con semplicità e strepitoso stile. Un’amica che la incontra a Roma nel 1982 la descrive come «fragile, forte e saggia… I capelli color argento tagliati corti sul cranio, come un ragazzo o un indiano». Ed è di questo momento, forse, uno degli ultimi gioielli; un orecchino (uno solo), una lunga goccia di vetro piena di liquido verde come un punto esclamativo. Perfetto su maglione morbido e pantaloni attillati. Perché quel che conta è essere sempre se stessi.

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I N T E R V I S TA

CIAO È UN SALUTO CHE CELEBRA LA VITA. E L’ITALIA DI BEATRICE ZAMPONI FOTO DI MARIO TESTINO

Q

UANDO HA INIZIATO a lavorare «ritrarre persone che ridevano non era considerato glamour. La modella doveva essere seria, dura e avere un’aria drammatica, un po’ scura. A me piaceva la luce, la vitalità, la gioia. C’è voluto del tempo per comprendere che il sorriso, la risata dovevano essere centrali nella mia fotografia; volevo realizzare scatti che celebrassero la vita. Come quello che ho scelto per la copertina del mio ultimo libro» racconta Mario Testino, uno dei più conosciuti fotografi di moda a livello mondiale, che con le sue immagini cariche di contagiosa e incontenibile energia ha raccontato il jet set internazionale dando l’illusione a chiunque guardi le sue foto di poter entrare nella vita intima dei suoi soggetti. Oggi il fotografo peruviano (è nato a Lima, Perù, da una famiglia di origini italiane) torna con un nuovo libro Ciao (Taschen), mettendo in primo piano il legame con il nostro Paese tra sofisticati ritratti, paesaggi mozzafiato, intrusioni in aristocratiche dimore, balli in maschera e scugnizzi napoletani. Sulla copertina Eva Herzigova sembra urlare il suo «ciao», il saluto confidenziale italiano diventato di uso internazionale, e nella gestualità sfacciata ricorda Anna Magnani: è un omaggio? Volevo che l’immagine della copertina rappresentasse tutto il calore che t’investe quando arrivi in Italia. È un Paese generoso, caldo, ac-

«Da voi si apprende attraverso i sensi» dice Mario Testino che con il suo ultimo 98

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Giovani giocano a carte sulla spiaggia di Amalfi nel 2002. Uno scatto che ben descrive il pensiero di Testino sull’Italia: «È un Paese generoso, caldo e accogliente».

libro rende omaggio al Paese che gli ha dato le origini e il successo. S T Y L E M AG A Z I N E

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La Galleria di Palazzo Colonna, Roma (2018). Da circa otto secoli è la residenza della famiglia che l’ha costruito nel XIV secolo.

cogliente. Il vostro cinema è stato per me di grande ispirazione: Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Vittorio De Sica. Lo stile fotografico del libro inizia come uno shooting di moda ma si chiude come un reportage fotogiornalistico: volevo che racchiudesse la verità della vita. È un tributo che mi è venuto naturale, un modo per dire grazie all’Italia per tutto ciò che mi ha dato, a cominciare dal passaporto senza il quale non avrei potuto viaggiare così liberamente nel mondo e fare la vita e la carriera che ho avuto. In che cosa si sente italiano? Le mie origini sono a Genova, ma istintivamente mi sento più legato al Sud del Paese, alla sua attitudine disinibita. Sono cresciuto in una famiglia in cui eravamo sei fratelli, il nonno con noi parlava italiano, avevo due zii con altrettanti figli e vivevamo praticamente tutti insieme. Gli anglosassoni a 18 anni si separano dalla loro casa, per noi latini i legami familiari rimangono fondamentali e imprescindibili: apparteniamo alla nostra comunità. È famoso per riuscire catturare le situazioni più intime ed esclusive. In Italia dove le è successo? Le famiglie della moda mi hanno aperto la loro vita intima completamente. L’immagine di Gianni Versace che urla felice dopo una sfilata è un momento molto privato. Allora il backstage era uno spazio off-

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limits, dove pochissimi erano ammessi. Anche con la famiglia Missoni il legame è molto stretto. Quando andavo alle loro sfilate Margherita veniva a sedersi sulle mie ginocchia... L’ho fotografata il giorno delle nozze mentre si preparava come avrei potuto fare con una sorella. C’è stato un momento in cui credevo che fotografare il nudo fosse arrivare al massimo dell’intimità con il soggetto, poi ho scoperto che i piccoli gesti posso essere altrettanto intimi. Come si vede nello scatto di Stefano (Gabbana, ndr) e Domenico (Dolce, ndr) mentre uno sistema la cravatta all’altro: è un momento di cura, di silenziosa attenzione. Entrare nel quotidiano delle persone è la vera esclusività. Il luogo italiano dalla bellezza più scioccante? Napoli e la sua drammaticità. I suoi contrasti mi affascinano profondamente e mi rispecchiano. Sono nato e cresciuto in Perù, un Paese dalle regole sociali ferree e dalle forti distanze tra classi e nella vita ho cercato di rompere questi schemi. Di Napoli amo proprio la libertà, la fluidità, la possibilità di coesistenza tra mondi diversi. Esiste un posto in Italia che potrebbe scegliere come casa? Sto pensando di trasferirmi per parte dell’anno in Sicilia, mi sono detto che per essere italiano fino in fondo devo viverci. Nell’introduzione scrive: «L’Italia è il Paese dell’apprendimento attraverso i sensi». Che cosa intende? Più che altrove, da voi si sperimenta la vita vivendo; anche andare a pranzo non è soltanto nutrirsi ma un’esperienza culinaria. L’Italia è un luogo dove ti senti bene e tutto te stesso partecipa e beneficia di questa positività, dove si vive secondo un’idea di tempo lento e di qualità in cui mi sono ritrovato.

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Il modello di origini catanesi Simone Susinna in un servizio fotografico a Ischia nel 2017.

La Piscina dei Mosaici realizzata nel 1937 da Costantino Costantini nel Palazzo delle Terme del Foro Italico di Roma (2001).


L’artista napoletana Betty Bee in una sua performance del 1997. Il Teatro Comunale di Siracusa-Ortigia (2018).

L’incontro tra le statue del Cristo risorto e della Madonna alla processione di Pasqua 2018 ad Avola (Siracusa).


Valentino tra le modelle nel 1995. Si riconoscono: Nadège, Elle Macpherson, Nadja Auermann, Claudia Schiffer e Yasmeen Ghauri.

Siamo stati tra i primi a offrirle commissioni importanti: negli anni Novanta è diventato molto noto grazie alle foto scattate per Gucci e con la lunga collaborazione con Versace; dal suo punto di vista, che cosa ha portato i brand italiani a sceglierla in quel momento? La vitalità che si respirava nelle mie immagini. Mi sono sempre ispirato a donne vere, mentre in quegli anni l’immagine femminile era molto costruita. Quando ho fotografato Madonna per Versace invece di ritrarla alla Marilyn Monroe, con trucco e costumi elaboratissimi, ho deciso di restituirne un’immagine semplice, acqua e sapone. Era la prima volta che appariva così. Quello scatto diventò un’icona.

Ciao contiene uno sguardo intimo sull’Italia con molte foto inedite e un testo di Alain Elkann: un’ode alla gente, alla moda, all’arte e al cibo italiani (Taschen, 254 pagine, 60 euro).

Nel libro c’è una foto in cui George Clooney sistema il cravattino dello smoking a Giorgio Armani mentre Julia Roberts ride... In quale contesto è stata scattata? Era un’edizione del Met Ball di New York. Ho fotografato quell’evento per molti anni: sapevo come gestire le celebrity perché molte le conosco personalmente. Quello scatto è un omaggio ad Armani, al suo carisma, all’impero che è riuscito a costruire. È un modo per celebrare l’eccellenza italiana. Ci sono anche le donne sarde in costume storico. Lei aveva cominciato a fotografare gli abiti tradizionali in Perù: è un nuovo progetto? E perché ha scelto la Sardegna? Sono partito da un primo nucleo di scatti fatti in Perù che nascevano dalla considerazione che la moda contemporanea si modifica di stagione in stagione, mentre quella popolare non cambia mai. Mi affascinava l’idea di un tempo statico come sinonimo di bellezza immutabile e ho deciso di intraprendere un viaggio in tutto il mondo. Sull’isola sono arrivato grazie ad Angela Missoni e sono stato conquistao dalla regalità delle donne sarde. Il libro si chiude con una bambina che alla fine di una maratona taglia il traguardo a braccia aperte. Qual è il suo prossimo? Proprio questo progetto sulle tradizioni popolari dal titolo A beautiful world. Il periodo della pandemia ci ha insegnato a guardarci dentro, a tenere caro ciò che costituisce la nostra memoria e la nostra identità. Il mio tentativo è restituire valore e dignità a queste importantissime usanze: ho passato la vita a fotografare personaggi noti e ora sento che sia giusto dare spazio a persone sconosciute che sono gli ultimi custodi di beni preziosissimi che non possiamo permetterci di perdere.

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Special thanks Cosimo Buccolieri & Simone Guidarelli

I NVESTI NELL’A MORE DONA ORA

www.thechildrenforpeace.org | #itsallaboutlove


INCONTRI

CHI È CARLA SOZZANI? «SONO UNA RAGAZZA CHE STA CRESCENDO»

FOTO: JAMES MOLLISON / CONTOUR BY GETTY IMAGES

DI MICHELE CIAVARELLA

U

NA DATA PRECISA: «Ho iniziato a lavorare nella moda il 4 novembre 1968. Era un lunedì». Se ci fosse chi ha ancora dubbi sulla capacità di Carla Sozzani di tenere le situazioni sotto controllo ora può farsene una ragione. Impressa nella memoria quella data di 52 anni fa racconta di quanta precisione (maniacale, da control freak, semplicemente scrupolosa?) è fatta la vita e il lavoro, spesso fuse una nell’altro, di una donna che nel suo lungo percorso professionale è stata tra le più note giornaliste di moda internazionali, musa di

Carla Sozzani, giornalista, creatrice, gallerista, fotografata da James Mollison per il New York Magazine nel 2011.

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INCONTRI

stilisti e di artisti, imprenditrice, direttrice di studi di fashion design, fashion buyer, curatrice e allestitrice di mostre (memorabile la sua collaborazione con Peter Greenaway per l’allestimento di Watching Water a Palazzo Fortuny durante la Biennale d’Arte di Venezia del 1993), gallerista d’arte, animatrice culturale attraverso due Fondazioni (la propria e quella di Azzedine Alaïa). Eclettiche ed enciclopediche attività che, come se fossero onde radio, emana dalla cabina di regia installata nel retro della Galleria Carla Sozzani che dal 1990 domina il piano alto del numero 10 di Corso Como a Milano in quello che è il «palazzo reale» composto da galleria, libreria, concept store, bar e ristorante di una Teodora della moda che non smentendosi mai è sempre riuscita a cambiare se stessa.

Carla Sozzani con Azzedine Alaïa a Parigi nel 2016 fotografati da Sylvie Delpech.

Franca e Carla Sozzani nel 1999 fotografate da Helmut Newton all’opening della mostra a lui dedicata nella galleria di 10 Corso Como.

Chi è Carla Sozzani, di quante persone è composta e quale di esse ama di più? Sono una ragazza che sta crescendo. Sembro tante persone diverse perché sono curiosa. E libera. Curiosità e libertà sono

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sempre legate e sono qualità che spingono all’esplorazione del nuovo. Io sono così. Quali sono gli inizi della ragazza prima di crescere? Studiavo alla Bocconi, il periodo era turbolento, era il Sessantotto, non ero politicamente coinvolta ma interruppi gli studi. Andai in Sardegna con un’amica, mio padre mi ingiunse di tornare a casa. Tornai ma non avevo nulla da fare: mia madre era amica dell’editrice di Chérie Moda, un gruppo di riviste specializzate che si occupava di tutto il settore, dal lavoro a maglia all’Alta Moda. Ho iniziato a fare la correttrice di bozze, ma subito dopo mi affidarono un servizio di moda per i bambini e poi mi inviarono a Roma a seguire le sfilate dell’Alta Moda. E così si arriva al 1979 e al suo ingresso in Condé Nast Italia… Per la direzione di tutti gli specializzati di Vogue (Bambini, Sposa, Pelle, Gioiello) e dove già dal 1973 lavorava mia sorella (Franca, poi diventata direttrice di Lei nel 1980, di Per Lui nel 1983 e di Vogue dal 1988 al 2016 e Direttrice editoriale dal 1994

© SYLVIE DELPECH COURTESY FONDAZIONE SOZ\ZANI

«Sembro tante persone diverse perché la curiosità mi spinge a esplorare il nuovo»


GETTY IMAGES

«Fin dagli inizi mischiavo i cartamodelli di Christian Lacroix con le foto di Guy Bourdin»

ndr). Lavorammo per un periodo nella stessa sede distaccata di via Ollearo in quello che veniva chiamato «Sozzani building» dove c’erano uffici, guardaroba e studi fotografici. Ma nel 1986 lascia gli incarichi italiani e per un anno è Editor at large per Vogue Usa finché assume la direzione dell’edizione italiana di Elle, rivista francese che la casa editrice Rizzoli porta in Italia. Perché abbandona Condé Nast? Perché sono curiosa e quella mi sembrava una sfida più libera. E così, provoca un cambiamento epocale: i periodici femminili così detti «da edicola» devono fare i conti con l’immagine, altissima, del suo mensile e prendere nota che la moda è un contenuto di informazione. Perché trasformare un femminile in un giornale di moda? Mi è sembrato meraviglioso poter unire tutta l’esperienza fatta a Vogue con quella di un giornale a larga diffusione. Era il mio metodo per fare i giornali. Del resto, fin dai tempi di Chérie Moda mischiavo i cartamodelli con le foto di Guy Bourdin.

A sinistra, sopra con Sarah Moon a una mostra alla galleria Alaïa a Parigi; sotto, con Paolo Roversi alla festa del lancio di Elle Italia il 29 giugno 1987. Carla Sozzani con l’archistar Peter Marino nel 2016.

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L’esperienza, che ancora tutti ricordano per la sua dirompenza, però dura poco… Tre numeri e mezzo. Ma è stata un’esperienza bellissima. E così abbandonò l’editoria per lavorare con Romeo Gigli, sul quale costruì un immaginario che diede il via a una nuova figura di creatore di moda, intellettuale e concettuale. Perché quella scelta? Perché questa è la mia vita: cambiare e sperimentare. Nascono così collezioni che rinnovano radicalmente la moda tra le quali «Teodora», quella con i gioielli in vetro di Murano, fu l’apice insuperato. Una visione estetica la cui evoluzione, alla rottura del sodalizio creativo con Gigli, si fa evidente più nelle sue nuove iniziative che in quelle del designer. Come mai? Non so se ho fatto questo e se le conseguenze siano state quelle che sta dicendo. Però posso assolutamente dire che non ho alcun rancore per quel periodo. Credo che il tempo abbia fatto chiarezza su tutta quella storia. Quali sono i momenti di moda decisivi che

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INCONTRI

hanno incrociato la sua carriera? Le sfilate della Sala Bianca a Palazzo Pitti a Firenze: duravano una settimana, noi giornalisti avevamo sempre lo stesso posto a sedere e gli stilisti sfilavano con 16 capi a testa. Poi Walter Albini, che portò la moda a Milano. Yves Saint Laurent mi ha aperto gli occhi su molte cose e l’incontro con Rei Kawakubo e la sua Comme des Garçons è stato fondamentale. Infine, Martin Margiela, l’autore dell’ultima rivoluzione nella moda (lo stilista belga debuttò con la sua linea nel 1988, ndr). Farebbe un progetto per rendere il sistema della moda più coerente con i nostri anni? Non credo che vada messo tutto in discussione perché ha un’importanza culturale e un rilievo sociale. Ma si ritrova con un grande difetto: impedisce l’espressione dell’autenticità così nessuno può più accorgersi se nel frattempo è nato un nuovo genio. Eppure oggi c’è bisogno di valorizzare la genialità e l’originalità. Che cosa si è inceppato? Uno dei nodi più grossi si è creato nel meccanismo dell’offerta e della

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A sinistra, in alto nel concept store 10 Corso Como nel 2000; sotto nella galleria per l’inaugurazione della mostra su Helmut Newton nel 2018. A destra, Livia Giuggioli (ex moglie di Colin Firth) tra Carla Sozzani e sua figlia Sara Sozzani Maino nel 2017.

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richiesta: tutti i grandi gruppi fanno arrivare la loro merce nei propri negozi come e quando vogliono. In un mercato diventato globale questo ha creato una situazione che non aiuta né la creatività né il mercato. Lei è il personaggio della moda italiana con più conoscenze e contatti internazionali. Come mai non ricopre un incarico istituzionale? Non lo so, me lo dica lei… Ma io di istituzionale sarei interessata soltanto a fare la responsabile del Museo della moda a Milano che vorrei impostare come se fosse un’Accademia di studio: apprendimento ed esposizione. Quanto manca una persona come Franca Sozzani alla moda italiana? Non so quanto manchi agli altri… So che a me manca molto mia sorella. Che cosa farà la prossima Carla? Dedicherò più tempo alla Fondation Azzedine Alaïa. Però, avendo usato sempre gli occhi e la testa per fare quello che ho fatto, a volte penso di non aver concluso nulla nella mia vita. Ho usato le mani soltanto quando ho progettato i libri. Mi piacerebbe usarle di più.

GETTY IMAGES, MONDADORI PORTFOLIO

«Di carica istituzionale vorrei soltanto quella di responsabile del Museo-Accademia della moda»


nobile di nascita, spumeggiante di natura www.maximilianspumanti.it



I nuotatori RACCONTO DI

DISEGNI DI

IVAN COTRONEO

TITO MERELLO

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«FORTE DEI MARMI ERA CASA, CON I PINI E GLI AGHI SOTTO I PIEDI, LA PISCINA UN PO’ VECCHIA E MALFUNZIONANTE E BELLISSIMA, LE IMPOSTE CHE CIGOLAVANO, IL CAPANNO CON LE DOCCE CHE TREMAVANO QUANDO L’ACQUA SCORREVA, E I VECCHI COSTUMI DI RICAMBIO, SLARGATI DALL’USO, NELLE CESTE DI VIMINI»

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E

ERA UNA DI QUELLE domeniche di metà autunno in cui le

persone che incroci non fanno altro che parlare di quello che

hanno combinato la sera prima. Il sabato, le uscite, soprattutto

quanto avevano bevuto, come e perché avevano esagerato, e con chi. Marco scese dal treno dopo avere ascoltato per ore un’infinità di conversazioni tutte uguali, ai cellulari e fra le poltrone

del vagone. Si era imposto di non infilarsi le cuffiette, di ascoltare quello che dicevano gli altri, di cercare di partecipare. Si era imposto una curiosità che non aveva, ma che il suo insegnante gli aveva detto essere necessaria. La sua osservazione del mondo

sembra limitarsi a uno sguardo superficiale, come se non riu-

scisse a interessarsi alla realtà. Come se addirittura non la riguardasse, e non riguardasse per niente la sua scrittura. Lasciò il treno con la sua sacca sulle spalle. Il cappotto, che era stato sempre troppo grande per lui, e che per questo motivo gli era sempre piaciuto, era aperto, e mentre scendeva i due gradini che lo portavano al marciapiede, il suo libro sciupato gli cadde dalla tasca. Non era un romanzo che stava leggendo, non veramente. Lo conosceva troppo bene per avere voglia di rileggerlo in quei giorni, ma portarselo dietro era stato come mettersi in tasca un talismano, un ricordo di quello che era successo, un augurio per quello che stava per succedere. Sulla copertina, l’immagine stilizzata di un uomo che si tuffava rimandava direttamente al titolo, Il nuotatore. Non aveva mai avuto il coraggio

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di vedere il film che ne avevano tratto. Sapeva che c’era Burt Lancaster, e sapeva che probabilmente non sarebbe bastato. Bisognerebbe lasciare le cose perfette così come sono. Una massima che aveva sempre apprezzato in teoria, e che nella pratica non aveva mai rispettato. Almeno fino a quella domenica, o così sperava.

Uscì dalla stazione e si incamminò verso casa per i viali semideserti. Aveva sempre considerato Villa Blu la sua casa, fin da bambino, anche se, a parte le estati, non aveva mai trascorso lì lunghi periodi. E però era stata la sua casa, molto più dell’appartamento

«ERA SOLO CON IL SUO COMPUTER, E LE STORIE CHE VOLEVA SCRIVERE» dei suoi genitori in cui era cresciuto, e sicuramente molto più del bilocale che aveva preso in affitto a Milano, dove viveva da solo, e ogni giorno combatteva una piccola lotta per mantenere quelle due stanze impersonali, fredde, senza nessuna traccia di vita. Gli piaceva immaginare di vivere in un albergo o in un residence. Non cucinava, si era inventato che non gli fosse consentito ospitare, puliva tutto in continuazione. Era solo con il suo computer, e le storie che voleva scrivere. Il bilocale era il suo foglio bianco, e fantasticava che quanto meno avesse riempito le due stanze, tanto più sarebbe riuscito a riempire le sue pagine. Non era stato

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Total look, Giorgio Armani



proprio così, doveva ammettere. Invece, Forte dei Marmi era casa, con i pini e gli aghi sotto i piedi, la piscina un po’ vecchia e malfunzionante e bellissima, le imposte che cigolavano, il capanno con le docce che tremavano quando l’acqua scorreva, e i vecchi costumi di ricambio, slargati dall’uso, nelle ceste di vimini. E le tante stanze, che avevano sempre avuto quell’odore di umido e ruggine, unito a un sentore sessuale che non riusciva a identificare, un misto di sudore maschile, umori del corpo, olio abbronzante, rose, sale marino e cloro. Quella era la sua casa. Lo era sempre stata, prima ancora

«LA PRIMA VOLTA CHE AVEVA DORMITO CON KAY E LOU, QUELL’AGOSTO» dell’ultima estate, prima ancora di Kay e Lou. Per questo, ad agosto Marco di tutto si era meravigliato, ma non del fatto che tutto fosse avvenuto lì. Era sempre stata la casa delle sue prime volte, la prima volta in cui aveva pianto di dolore cadendo dalla bicicletta e infilandosi il freno nel polpaccio, la prima volta in cui aveva conosciuto la morte, quella di suo nonno, la bombola di ossigeno e il cancro ai polmoni, la prima volta che si era masturbato chiuso nel bagno guardandosi riflesso nello specchio a tredici anni, la prima volta che aveva dormito con Kay e Lou, quell’agosto. Dormire insieme, quello lo ricordava

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come una prima volta, ancora più di quando aveva passato la lingua sulla pelle di entrambi. Kay e Lou sarebbero venuti. Era metà novembre, era la settimana del loro appuntamento, e lui era già arrivato. Il cancello arrugginito si aprì dietro la sua spinta, innescando il primo del milione di ricordi che lo raggiungevano ogni volta che tornava alla villa. Odori e suoni che lo riportavano indietro nel tempo, ma non come nei film. Non era come se facessero scattare delle immagini del passato, fotografate con una luce diversa, nostalgiche per obbligo o convenzione.

«ERA LA SETTIMANA DEL LORO APPUNTAMENTO, E LUI ERA ARRIVATO» Piuttosto era come se lo inchiodassero a un presente che si ripeteva, nel quale Marco era Marco, adesso, a 24 anni, ed era bambino e adolescente insieme, ed era anche il vecchio che sarebbe stato. E tutte quelle persone insieme erano raggiunte da rumori, e odori, e brividi di altre età che si incrociavano. Aveva voluto condividere questo con Kay e Lou, quando li aveva incontrati. Aveva voluto dargli qualcosa di sé, e l’unica cosa che pensava potesse essere alla loro altezza era Villa Blu, e tutto quello che c’era dentro, compresa la sua persona. Ne aveva fatto un pacco regalo, aveva aggiunto un fiocco come era lui, storto e un po’

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raffazzonato, e lo aveva offerto a loro. Kay e Lou erano troppo belli per lui. Quando pensava alla bellezza non pensava alla perfezione lunga e morbida dei loro corpi, quella solo più tardi la avrebbe conosciuta davvero. Pensava alla bellezza che gli era apparsa la prima volta sulla spiaggia, Kay con una maglietta grigia troppo grande per lui e tutta stropicciata sulle gambe nude e lunghe, Lou con dei pantaloncini di jeans, il pezzo di sopra di un bikini a fiori e un cappello che sembrava arrivare da un’altra epoca. Da dove era seduto, e cioè da sotto l’ombrellone del lido di famiglia – tutto da sempre era di

«EPPURE ERA IMPOSSIBILE NON GIRARE LO SGUARDO VERSO DI LORO» famiglia lì a Forte, cosicché la famiglia di Marco pur possedendo in effetti solo Villa Blu, era come se avesse anche un lido balneare, un bar, un ristorante, una pasticceria, e alla fine tutto il paese – non riusciva nemmeno a vederli bene. Eppure era impossibile non girare lo sguardo verso di loro, impossibile non sentire le loro risate, impossibile non indovinare le loro gambe intrecciate nell’acqua al largo, dopo che si erano tuffati così com’erano, vestiti. Solo i sandali e il cappello di Lou lasciato sulla sabbia. Il cappello. Lo aveva visto sollevarsi, piano, poi iniziare a volare via. Lo aveva afferrato. Quando Kay e Lou erano usciti dall’ac-

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Total look, Gucci

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qua, li stava aspettando sotto il suo ombrellone. Sollevò il cappello come una bandiera, Kay lo indicò a Lou, Lou lo vide, e lo raggiunse. Prima ancora di dirsi ciao, Lou prese quel cappello che veniva da un’altra epoca dalle mani di Marco e glielo mise in testa. «It suits you.» Ti sta bene, disse. Marco ringraziò, perché capì che non lo stava prendendo in giro. Kay arrivò subito dopo, buttandosi in ginocchio sulla sabbia, a gambe larghe, sollevando due piccole collinette di milioni di granelli grigi. Sorrise, e si accese una luce. Quando Kay sorrideva tutto intorno a lui diventava bianco.

«DORMITO, MANGIATO, BALLATO, FATTO L’AMORE, CANTATO, BEVUTO» Marco entrò nella casa e salì al primo piano. Lasciò la sacca in quella che era stata da sempre la sua stanza. Davanti alla finestra, il tronco del pino che una volta da bambino aveva cercato di usare per fuggire via, quando era in punizione per l’ennesima bugia. Poi si affacciò nella stanza grande, la stanza da letto che era stata dei suoi nonni. In quella avevano dormito loro tre. Dormito, mangiato, ballato, fatto l’amore, cantato, bevuto, e fatto l’amore di nuovo. Si avvicinò al letto spoglio, senza il coraggio di toccarlo. Guardò come sempre con fastidio la sua immagine riflessa nei tre specchi dell’armadio. Li avrebbe aspettati, pri-

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ma. Non voleva stendersi lì da solo. Desiderò sentire di nuovo in bocca il sapore dei corpi di entrambi, e si chiese per l’ennesima volta se lui per loro rappresentasse qualcosa, anche solo una piccolissima parte di quello che loro rappresentavano per lui. La risposta che solitamente si dava era come una mano che gli stringeva lo stomaco. Non era stato difficile convincerli a trasferirsi alla villa. Erano bastate una cena e qualche birra, era bastato sapere che erano in campeggio. Stavano girando l’Europa, erano finiti a Forte senza neanche sapere bene come, avevano questa abitudine di

«SI COMPORTAVANO COME SE IL MONDO NON AVESSE REGOLE» salire sui treni e poi capire dove sarebbero arrivati. Giuravano di non avere mai preso una multa, probabilmente mentivano, probabilmente no. Si comportavano come se il mondo non avesse regole e a Marco non era mai stato chiaro se di fatto il mondo si accordasse o meno al loro pensiero. Kay era di due anni più grande di lui, voleva fare il regista, aveva scherzato sul fatto che avrebbero potuto scrivere un film insieme. Lou sembrava non voler far niente tranne che esistere. Quello, e scattare fotografie. La sera a cena, Lou li aveva fatti sedere vicino, lui e Kay, continuava a dire “Closer, closer!” finché il volto rosso di sole di

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Marco non aveva toccato la pelle nera di Kay, guancia contro guancia. Solo così Lou era sembrata soddisfatta e aveva scattato la fotografia. Kay gli teneva la mano sull’avambraccio. Marco aveva fissato quella mano larga e scura sulla sua carne bianca, e gli era sembrato che stesse tutto accadendo a qualcun altro, che quel pezzo del suo corpo fosse staccato da lui e dalla sua vita. Gli era già successo, di osservarsi gambe e braccia e pensare che non appartenessero veramente a lui, ma mai come quella sera, in cui aveva sentito che era davvero così, che cominciava un tempo in cui fisicamente non sarebbe stato più suo, fino a quando quei

«AVEVA FISSATO QUELLA MANO LARGA E SCURA SULLA SUA CARNE BIANCA» due non lo avessero liberato. Avevano promesso di lasciare il campeggio il giorno dopo, e di raggiungerlo alla villa, e quella notte Marco non era riuscito a dormire. Era sceso in giardino e si era sdraiato sul bordo della piscina, in boxer e maglietta, un braccio immerso nell’acqua. Si sentiva debole, debole come qualcuno che desidera essere usato. Era una sensazione dolce che sembrava sciogliersi nelle giunture, ai gomiti, nelle ginocchia, giù nelle caviglie. La stessa sensazione che provava ora, nell’attesa. Immaginava che lo avrebbero chiamato sul cellulare una volta arrivati in stazione.

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Total look, Gabriele Pasini



Oppure invece no, avrebbe sentito cigolare il cancello e avrebbe chiuso gli occhi sorridendo, in attesa delle loro voci allegre che lo chiamavano dal giardino. Uscì dalla villa, voleva vedere il mare prima che facesse buio. Sarebbe stato bello ritrovarli lì, al ritorno, seduti in attesa sul bordo della piscina che non aveva fatto svuotare alla fine della stagione. La prima volta alla villa erano arrivati con le loro cose, poche e mischiate in un unico zaino, e con due grandi buste. Avevano comprato all’alimentari tutto quello che gli era passato per la testa. Quando Marco li vide entrare non pensò alla loro gene-

«ERANO ARRIVATI CON LE LORO COSE, POCHE E MISCHIATE IN UN UNICO ZAINO» rosità, ma a quello che poteva significare. Le buste dicevano che avrebbero potuto chiudersi nella villa, barricarsi fino a quando qualcuno della famiglia di Marco non fosse venuto a cacciarli. Avrebbero potuto resistere, magari mangiando poco, razionando viveri come sopravvissuti, fino a quando non fosse arrivato l’autunno. Sistemarono velocemente tutte le cose in cucina, i corpi che si sfioravano incrociandosi fra il vecchio tavolo, il frigorifero, la dispensa. Non vedevano l’ora di tuffarsi in piscina, erano sudati ed eccitati. Pochi minuti dopo si stavano già spogliando, e si lanciarono in acqua completamente nudi. Marco

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esitò, poi si sfilò i suoi pantaloncini blu cercando di non chiedersi cosa avrebbero pensato del suo corpo nudo, e li raggiunse. La spiaggia quella domenica sera era deserta. Faceva freddo, e neanche i pochi abitanti che Forte contava fuori stagione sembravano voler sfidare il vento. Al lido di famiglia, un ragazzo stava sistemando le cabine già smontate, chiudendo gli spifferi a un capanno con dei sacchetti di plastica pieni di sabbia. Il ragazzo lo salutò, si chiamava Andrea, e gli chiese come mai fosse tornato a Forte. Marco sollevò le spalle, «Ci passo qualche giorno.!» «A Villa Blu? Da solo? E’ venuto qualcuno a fare i lavori?»

«STENDERE LE LENZUOLA BIANCHE COME SE FOSSE UNA CERIMONIA» «Aspetto degli amici» rispose Marco, e gli ricordò di Kay e Lou, li aveva sicuramente visti con lui tre mesi prima. Andrea scosse la testa. «Io mi ricordo solo di te, che leggevi tutto il tempo sotto l’ombrellone. Di te mi ricordo bene» gli rispose con un sorriso. La notte la passò nella sua stanza. Il materasso era più scomodo, ma insisteva a non voler dormire nella stanza grande, non prima del loro arrivo. Aveva pensato di preparare il letto, di sistemare le lenzuola sul grande materasso spoglio, e poi si era detto che no, avrebbero dovuto farlo insieme, stendere le lenzuola bianche come se fosse una cerimonia privata. Era solo, nella sua stanza,

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Marco: total look, Impulso


al buio, come lo era stato la prima notte che Kay e Lou avevano dormito lì. Dal letto aveva sentito le loro risate, i loro sussurri soffocati nell’altra camera. Poi il rumore della vecchia rete del letto dei nonni che cigolava, e si era chiesto se non avesse commesso un errore colossale a invitarli lì. Si era sempre rifiutato di credere a quello che il nonno aveva sempre sostenuto, la sua grande lezione di vita: gli amici ti cercheranno per quello che hai, e non per quello che sei, non dimenticarlo, non farti illusioni. Non aveva mai voluto crederlo, eppure quella notte gli era sembrato insopportabilmente vero. Avrebbe trascorso le

«LUI AVEVA OFFERTO TUTTO, E LORO AVREBBERO PRESO QUEL CHE VOLEVANO» giornate successive a osservarli, a sentirli fare l’amore nell’altra stanza, lui aveva offerto tutto, e loro avrebbero preso solo quello che volevano. Il pensiero di essere usato lo rendeva triste e insieme appagato, come un brutto ragionamento che trova una sua stringente logica quando si avvera. Suo nonno aveva ragione. Che si aspettava? Gli bastava guardarsi allo specchio per darsi una risposta. Gli bastava sentire la sua voce che pareva esitante in confronto alle loro, per darsi una spiegazione. Pensava questo, quando nella penombra Kay comparve sulla porta della sua stanza, in mutande. Marco in quel momento si chiese assurda-

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mente: sceglie delle mutande bianche perché risaltino di più sul suo corpo nero? Mentre formulava nella sua testa questa idiozia, Kay gli sorrise, poi si fece serio e gli tese la mano. Marco si alzò dal letto, come se si sdoppiasse, lasciando sotto le lenzuola l’altro se stesso, il ragazzino timido e impaurito, l’adolescente solitario che in quella stanza qualche volta aveva voluto morire. La sua mano si unì a quella di Kay mentre andavano nell’altra stanza a raggiungere Lou. Il giorno dopo l’acqua della piscina sembrava più calda, e stanca come loro. Erano sempre nudi, Marco si era imposto di non

«AVEVANO GIÀ CHIUSO LA NOTTE PRIMA DENTRO IL LORO RAPPORTO» preoccuparsi che qualcuno potesse vederli dalle altre ville, o che la donna di servizio potesse arrivare con i suoi detersivi e i contenitori di plastica con le cose da mangiare. Kay aveva portato della frutta a bordo piscina e se la passavano mangiandola immersi nell’acqua. Parlarono pochissimo quel giorno. Gli occhi di Kay e Lou, quando si sfilavano gli occhiali da sole, erano stretti e lunghi come quelli dei gatti. Loro due avevano già chiuso la notte prima dentro il loro rapporto, qualcosa che era successo e fluiva fra loro tre come l’acqua dolce della piscina. Lui invece continuava a ripensarci. Kay che lo faceva sedere sul bordo del

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letto, e poi baciava Lou, che era già nuda fra le lenzuola. Lou che lo guardava mentre baciava Kay, e continuava a guardarlo mentre gli sfilava le mutande bianche, senza mai staccare gli occhi da quelli di Marco. E Marco che li osservava immobile, timoroso di qualsiasi cosa, incerto se quello spettacolo che gli stavano chiaramente offrendo fosse il loro modo di ripagarlo dell’ospitalità, indeciso se dovesse sentirsi offeso o riconoscente. Poi il braccio di Lou si era allungato verso di lui, lei aveva cominciato ad accarezzargli la coscia, le dita si erano infilate sotto il cotone azzurro dei boxer. Kay si era girato e lo aveva fatto rovesciare all’indietro

«LORO TRE AVEVANO FATTO QUALCOSA DI VIETATO E DI INNOCENTE» sul letto, sfilandogli in un unico movimento la maglietta bianca con la quale dormiva. Continuava a ripensare a quello che era successo, a come i loro corpi fossero scivolati l’uno su quello dell’altro, così spontaneamente da far pensare che si conoscessero da sempre. A come lui e Kay si fossero divisi le gambe di Lou e le avessero baciate e poi leccate per tutta la lunghezza. Avevano fatto qualcosa di vietato e di innocente. Avevano passato la notte a sfiorarsi, toccarsi, accarezzarsi, leccarsi, baciare pezzi del corpo e giocarci, e sembrava che non dovessero finire mai. Marco pensava di essersi addormentato mentre ancora le mani di

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Total look, Manuel Ritz.




Total look, Tagliatore

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Lou esploravano la piega fra le sue gambe e l’interno del ginocchio destro, e Kay gli accarezzava il petto con un gesto circolare, sempre uguale, intorno ai capezzoli e sopra. Il giorno dopo, in piscina – ecco la differenza che avrebbe ricordato per sempre – era evidente che tutto quello che a lui era parso straordinario, a loro invece era sembrato naturale. Era questo che sentiva mentre Kay lo raggiungeva alle spalle e prendendo un’albicocca si appoggiava con il corpo contro il suo. La naturalezza con cui i loro corpi si toccavano e restavano in contatto, morbidi, nell’acqua, per Kay doveva essere un gesto ovvio, una carezza sponta-

«QUEL CHE PER LUI ERA STRAORDINARIO, PER LORO INVECE ERA NATURALE» nea, appena prima di mordere l’albicocca, spolparla, sputare il nocciolo, tuffarsi di nuovo. Marco invece ne era turbato come se una vita straniera si aprisse davanti a lui. Era lento, intorpidito, confuso. Lou lo prese per il mento ridendo. Era inginocchiata sul bordo della piscina. “Ehi… non dimenticare di guardare anche me, ogni tanto,” gli disse in francese. Il giorno dopo, il lunedì, Marco fece colazione in uno dei pochi bar aperti sul lungomare a novembre. Vide passare Andrea che andava al lavoro in bicicletta e lo salutò con un gesto della mano. Andrea non lo vide, o forse aveva deciso di non rispondere al

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saluto. Provò a chiamare il numero di Lou, quello che aveva memorizzato. Il telefono era staccato, la voce di Lou gli chiedeva in francese di lasciare un messaggio e lui riagganciò. L’estate prima il francese era diventata la lingua segreta di Marco e Lou. Kay faceva finta di irritarsi e ingelosirsi, quando loro due parlavano in francese. Protestava, chiedeva loro di tornare subito all’inglese, e Lou non lo guardava nemmeno, continuando a rivolgersi a Marco. La mamma di Lou era francese, anche se viveva negli Stati Uniti, e Marco conosceva la lingua più per tradizione di famiglia che per averla studiata davvero. In fran-

«TORNÒ A CASA, PIOVIGGINAVA ED EBBE PAURA CHE NON SAREBBERO VENUTI» cese, mentre andavano via da una pizzeria dalla quale li avevano cacciati in malo modo perché facevano troppo chiasso, Lou gli aveva detto che era bello, e Marco non aveva voluto crederci. Poi, in un’altra occasione Kay gli aveva detto la stessa cosa, sussurrandogli all’orecchio, mentre facevano l’amore. E Marco a lui aveva deciso di credere, per una volta nella vita. C’era una canzone degli Smiths che parlava di lui, di come si sentiva in quel momento e di come si era sentito sempre. Tornò a casa che iniziava a far freddo e piovigginava, ed ebbe paura che non sarebbero venuti. Aggiunse una coperta al suo

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letto. Trovò una bottiglia aperta di crema di whisky che non gli piaceva e la bevve fino ad addormentarsi. Sapeva di avere bisogno di loro più di quanto loro avessero bisogno di lui, lo aveva sempre saputo. “Per favore, per favore aiutami ad avere quello che desidero questa volta. Dio sa che sarebbe la prima volta,” diceva la canzone. Le lenzuola umide sapevano solo di chiuso, nient’altro.

Nei giorni che avevano trascorso insieme, che erano stati cinque in tutto, Marco con una parte della sua mente aveva vigilato, sempre aspettando che tutto esplodesse all’improvviso. Che tut-

«PER FAVORE AIUTAMI AD AVERE QUELLO CHE DESIDERO QUESTA VOLTA» to si rivelasse falso. Che fuggissero con le poche cose di valore della casa, che gli facessero del male, che gli chiedessero dei soldi per quello che facevano con lui (Non sarebbe stato normale? Non poteva essere quello il modo in cui si sostenevano durante le vacanze? Magari la loro ricchezza, la ricchezza delle loro famiglie era inventata, ma allora come facevano a muoversi con così tanta disinvoltura, con la sicurezza che solo i ricchi sembrano avere?). In second’ordine, pensava che, anche ammettendo la loro buona fede, tutto sarebbe comunque finito male, che avrebbero litigato ferocemente a causa sua, che sarebbero andati via

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Total look, Ermenegildo Zegna XXX

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sentendo che metteva in pericolo il loro rapporto. Ma non era andata così, perché lui, felicemente e tristemente, non metteva in pericolo nulla, e sebbene lo desiderassero entrambi (questo era arrivato a dirselo, ci era riuscito, per quanto incredibile gli paresse), sembravano non considerarlo capace di costituire una minaccia di alcun tipo. Erano molto più forti loro. Se era stanco, Kay dormiva tranquillo nel letto, mentre Lou e Marco facevano l’amore, e pareva perfino sorridesse nel sonno. Al mattino si svegliava sempre prima di loro, e non si muoveva da uno di quegli incastri sempre diversi in cui riuscivano ad ad-

«PAURA DI SCOPRIRSI FUORI POSTO E DIVERSO IN MEZZO A LORO» dormentarsi. Aveva paura di sciupare tutto, paura di spostare una mano o un braccio e spezzare un incantesimo, paura anche di guardare nei tre specchi dell’armadio, e di scoprirsi fuori posto e diverso in mezzo a loro. Non riusciva a riaddormentarsi, non credeva a quello che stava succedendo. Non si era mai sentito così, le poche storie che aveva avuto con delle ragazze erano finite con la stessa assenza di trasporto con cui erano iniziate, e non si era mai avvicinato a un ragazzo perché gli sembrava troppo complicato, quasi inaffrontabile. Aspettava che si svegliassero per essere confortato del fatto che tutto

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stesse accadendo, e intanto viveva in un’atmosfera di sospensione, e torpore, e piacere, costantemente scandita dalla paura di una fine terribile e improvvisa.

Nemmeno il giorno della lunga passeggiata sulla spiaggia era riuscito a rompere quella magia. Avevano deciso di camminare sulla sabbia fino a contare sessantasei lidi diversi, e poi tornare. Era stata un’idea di Lou, straordinariamente simile a certe fissazioni che Marco aveva avuto da bambino, di cui però lei stessa si era stancata quasi subito. A quel punto Kay aveva insistito perché continuassero. Non avrebbe lasciato quell’impresa a metà,

«VIVEVA IN UN’ATMOSFERA DI SOSPENSIONE, E TORPORE, E PIACERE» non lo faceva mai. Portava a termine tutto, anche una sfida stupida come quella. Lou aveva protestato, Kay aveva ribattuto con insolita asprezza, e lei non aveva più parlato, continuando a camminare. Quando avevano raggiunto l’ultimo lido, Lou li aveva guardati con aria di sfida e di disprezzo, si era voltata e aveva cominciato a ritornare verso casa. Kay aveva sorriso a Marco e poi gli aveva preso la mano, mentre camminavano tenendosi tre passi dietro di lei. Marco aveva pensato agli amici dei suoi genitori, alle decine di conoscenti che avrebbe incrociato durante il suo cammino. Indeciso se sarebbero rimasti disgustati dal ve-

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derlo camminare mano nella mano con un ragazzo bellissimo e nero, o se lo avrebbero invidiato e avrebbero ripensato a lui quando quella notte si fossero rimessi a letto. A casa, quella sera, senza dire una parola, Lou aveva mostrato loro le piante dei suoi piedi, rovinati dalla sabbia e dalla lunga camminata. Kay allora aveva riempito la vecchia vasca, e insieme lui e Marco avevano accarezzato Lou, l’avevano lavata, asciugata, le avevano spalmato olii e creme su piedi e gambe, mettendola al centro del grande letto bianco. Alla fine Lou li aveva ringraziati, si era stesa in mezzo a loro, accarezzandoli

«LI AVEVA FATTI ECCITARE, POI SI ERA ALZATA, LI AVEVA FOTOGRAFATI» contemporaneamente, ripetendo come in uno specchio gli stessi gesti su di loro con la mano destra e quella sinistra, come quei ragazzini che Marco aveva sempre invidiato, che sapevano disegnare a specchio con entrambe le mani, tracciando la stessa immagine su due fogli diversi. Li aveva fatti eccitare, poi si era alzata, aveva preso la sua macchina fotografica e aveva iniziato a fotografarli chiedendogli di non coprirsi. Marco si era schermito, aveva vergogna, ma Kay gli aveva sorriso e lui aveva ceduto. Lou fotografava e dava istruzioni che sembravano ordini, diceva a Kay quali punti del corpo di Marco doveva esplorare, a Marco

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Toatal look, Etro



quali parti del corpo di Kay doveva baciare. Poi aveva chiesto a Kay di prendere Marco, e Kay aveva guardato Marco come per chiedergli il permesso. Marco aveva annuito, e Kay si era steso su di lui. Lou allora aveva messo giù la macchina fotografica, aveva accarezzato il volto di Marco. Lo baciava, gli baciava i capelli, mentre Kay si muoveva prima piano e poi più forte. Ogni volta che Marco sentiva dolore, la bocca di Lou si univa alla sua come per consolarlo. Dopo un po’ Lou aveva fatto sollevare Marco sulle braccia, e mentre Kay continuava, lei era scivolata sotto il corpo di Marco, aveva ripreso a baciarlo, poi con la mano lo

«VOLEVA RICORDARE CHE NON SI FOSSERO PIÙ STACCATI» aveva raggiunto e lo aveva accolto dentro di sé. Era difficile per Marco ricordare cosa fosse successo dopo. Per quanto assurdo, voleva ricordare che non si fossero più staccati, che si fossero addormentati così, come un corpo solo, umido e bagnato, le parti più dolci di loro che si rapprendevano sulle cosce, seccandosi in mezzo ai peli. Quando finalmente si era svegliato, aveva trovato ai piedi delle scale due buste con i contenitori di plastica pieni di cibo. La signora delle pulizie doveva essere arrivata a un certo punto, doveva essersi affacciata nella stanza dei nonni ed essere fuggita

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via. Marco sapeva che aveva considerato disgustoso quello che aveva visto, che sicuramente aveva pensato che lui avesse comprato i corpi di quei due ragazzi così belli. La compatì. Si svegliò di scatto il martedì mattina, convinto di avere sentito delle voci, ma dovevano arrivare da un sogno di cui non ricordava più niente, ma che in qualche modo lo aveva spaventato. Quando scrive, sembra che lei dia per scontato che la sua visione del mondo sia interessante per gli altri, ma, se anche fosse così, nelle sue pagine non ci offre nessuna chiave per conoscerla veramente, questa sua visione.

«RIACCESE IL TELEFONO, E VENNE SOMMERSO DA TELEFONATE E MESSAGGI» Si vestì, si infilò il cappotto e uscì dalla villa per raggiungere il lungomare, lasciando questa volta il cancello della villa aperto dietro di sé. Il barista gli servì il caffè senza dirgli una parola, Marco lo portò con sé al tavolino fuori. Guardava verso il marciapiede che correva lungo il litorale, in attesa che Andrea passasse per andare al lavoro, ma non lo vide. Riaccese il telefono, e venne sommerso da telefonate mancate e da messaggi. Nessuno di Lou, nessuno di Kay, nessuno da un numero sconosciuto. La dottoressa gli chiedeva di farsi sentire, aveva ricevuto un messaggio dai suoi genitori, erano allarmati. Si alzò infastidito,

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Lou: maglia, Jil Sander; Kay: total look, Saint Laurent by Anthony Vaccarello; Marco: total look,w Salvatore Ferragamo




stabilì che se avesse camminato mille passi, al ritorno alla villa li avrebbe trovati lì. Un uomo anziano era seduto a guardare le onde, su una panchina. Lo fissò come se lo stesse aspettando e Marco allora si sedette accanto a lui. Entrambi guardavano verso il mare, un peschereccio attraversava lentamente l’acqua ritornando in qualche porto. L’uomo parlò piano. «Li ho visti, sai? Kay e Lou. Sono arrivati la settimana scorsa, hanno fatto il bagno alla villa. Ma tu non c’eri, e sono ripartiti.» Marco fissava l’uomo in attesa di sapere qualcosa di più. Ma l’uomo si voltò di nuovo, e riprese a guardare il mare. «Lei chi

«MARCO FISSAVA L’UOMO IN ATTESA DI SAPERE QUALCOSA DI PIÙ» è? Perché sa queste cose?» gli chiese cercando di non sembrare aggressivo. L’uomo non gli rispose, né lo guardò. Marco rifece la domanda, con un tono più deciso, la voce più ferma. L’uomo si voltò verso di lui, infastidito, e si alzò, riprendendo a camminare da solo. Marco sentì di non avere la forza di seguirlo. L’ultima notte che Kay e Lou avevano passato alla villa, Marco non riusciva a dormire, si era alzato dal letto e si era seduto sulla poltrona di suo nonno. Li osservava mentre dormivano, i corpi vicini, non così tanto da abbracciarsi ma abbastanza da stare in contatto, i piedi uno sull’altro, la mano di Lou poggiata sulla

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Total look, Valentino

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pancia di Kay, appena più su della linea di peli che dall’ombelico portava al pube. Sapeva che dopo poche ore sarebbero partiti. Anche lui doveva tornare a Milano. Guardandoli decise che non poteva lasciarli andare via così, che avrebbe dovuto strappare loro la promessa di un ritorno, cercò a lungo le parole con le quali avrebbe formulato quella richiesta, perché non sembrasse troppo patetica e allo stesso tempo perché la prendessero sul serio. Ma le uniche parole che gli venivano erano ridicole, non avrebbe mai potuto dire che desiderava che non partissero più, che voleva solo rimanere con loro a Villa Blu

«ERANO LE LORO ULTIME ORE INSIEME. DOVEVANO PASSARLE VICINI» fino a che tutto intorno non fosse bruciato. Mentre li osservava, Lou aprì gli occhi, lo vide. Gli fece cenno di raggiungerli, gli sussurrò che quelle erano le loro ultime ore insieme, dovevano passarle vicini. Marco si alzò dalla poltrona e si distese in mezzo a loro. Lou lo abbracciò da dietro e Kay si voltò verso di lui, baciandolo leggermente sulla bocca senza aprire gli occhi, come se continuasse a dormire.

Ritornò alla villa con una sensazione di ansia crescente, il cancello gli sembrava si fosse spostato, gli pareva che fosse in una posizione diversa da come lo aveva lasciato. Chiamò i loro nomi,

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a voce sempre più alta. Ma non gli rispose nessuno, Kay e Lou non erano lì e forse era stato solo il vento a muovere il cancello. Cercò di tranquillizzarsi, non potevano essere arrivati e andati via, lo avrebbero aspettato, non era stato via così a lungo, non poteva essere. Riaccese il telefono e richiamò Lou, anche se si era giurato di non rifarlo. Questa volta non gli rispose la sua voce registrata in francese, ma un annuncio in inglese. Diceva che il numero era inesistente. Riprovò ancora. Fecero un ultimo bagno in piscina prima di partire. In acqua si tennero stretti, ancora una volta nudi, ma sembrava che il tem-

«LO AVEVANO LASCIATO SOLO. IL CANCELLO SI ERA RICHIUSO» po scivolasse via o anzi fosse già passato, e nessuno di loro ebbe il desiderio o sentì la necessità di fare altro se non starsi vicino. Poi a Marco sembrava che l’ora successiva fosse stata composta solo da frammenti: le loro voci concitate, raccogliere le cose, riempire lo zaino, ripartire, lui che trovava la forza di chiedere quell’appuntamento a novembre, qualcosa che passava negli occhi di Kay, Lou che gli rispondeva di sì, sicuramente, e gli lasciava il suo numero. Avevano insistito perché non li accompagnasse in stazione. Lo avevano lasciato da solo. Il cancello si era richiuso dietro di loro. Marco si era sentito perduto, era salito

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nella camera dei suoi nonni, era stato a lungo lì, davanti al letto ancora sfatto. Aveva preso le lenzuola in cui avevano dormito e fatto l’amore, le aveva portate con sé. In giardino aveva scavato un fosso e le aveva sepolte, poco lontano dal pino della sua finestra. Non riusciva più a resistere alla villa, mentre il martedì passava e iniziava a capire che non sarebbero più venuti. Uscì di nuovo, sperava di incontrare quel signore anziano, avrebbe voluto chiedergli cosa sapesse più di lui. Al lido vide di nuovo Andrea, stava per chiudere tutto. Lo accolse con un sorriso. «Sono contento

«REAGÌ COME SE NON CI CREDESSE, E LO SPINSE CONTRO LA PARETE DI LEGNO » che sei venuto» gli disse. «Ci speravo.» Marco rispose solo che stava cercando i suoi amici, Andrea reagì come se non ci credesse e lo spinse contro la parete di legno del capanno. Marco lo lasciò fare, gli lasciò fare tutto, si spogliava in parte seguendo i movimenti di Andrea, pensò per un momento che fosse assurdo tirarsi giù i pantaloni e tenersi addosso il cappotto. Ma non voleva reagire. Mentre Andrea si muoveva, lui seguiva senza volontà, pensando che forse così sarebbe riuscito a mandarli via. Se avesse lasciato che qualcun altro, che Andrea, si prendesse quello che aveva dato loro, gli stessi pezzi del suo corpo, gli stessi

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movimenti, forse sarebbe riuscito a cancellare e ripartire. Andò via mentre Andrea gli chiedeva quanti giorni ancora sarebbe rimasto, e se poteva andare a trovarlo alla villa, aveva sempre desiderato vederla dall’interno, voleva vedere le maioliche della famosa piscina, sapeva che ne erano rimaste poche, che negli anni ladri e ragazzi erano entrati a portarsi via quasi tutto, gli chiese come facesse a stare lì dentro con tutto che cadeva a pezzi, porte e finestre che non si chiudevano, era sicuro che non ci fosse neanche più l’energia elettrica. Come poteva dormirci? Marco non capiva cosa dicesse, avrebbe voluto rispondergli “perché è

«A OGNI PASSO SI DICEVA CHE NON SAREBBERO MAI PIÙ VENUTI» casa mia, e io non la vedo come la vedi tu,” ma non lo fece e andò via dal lido senza aggiungere altro. Tornò a casa che il pomeriggio era già iniziato, e a ogni passo si diceva che non sarebbero venuti, non sarebbero mai più venuti. Di nuovo, quando raggiunse i mille passi si fermò per riaccendere il telefono. I messaggi e le chiamate perse erano diventati sempre di più, ma nessuno arrivava da loro. Gli venne da piangere. Decise di chiamare la dottoressa, che lo aveva cercato sette volte e gli aveva lasciato dei messaggi che non aveva voglia di ascoltare. Gli rispose dopo tre squilli, e gli chiese subito dove

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fosse. Marco rispose meccanicamente. Era alla villa. Gli dispiaceva che i suoi genitori fossero in pensiero. Non ce l’aveva fatta a partecipare al matrimonio della sorella, domenica. Stava male solo al pensiero. Esitò solo quando la dottoressa gli chiese se fosse tornato alla villa per loro. Marco non rispose, ma la dottoressa sapeva tutto, e altre volte le parole di lei lo avevano aiutato, quelle e le medicine che gli aveva prescritto. Mentre decideva cosa rispondere, la dottoressa gli chiese di nuovo: «Sei lì con Kay e Lou?!» «No. Però li sto aspettando» rispose Marco. Ci fu un lungo silenzio. Ci fu un sospiro sconfitto di lei, o almeno così

«GLI DISSE CHE ERANO SOLO FIGURE DI UN RACCONTO D’INVENZIONE» era sembrato a Marco. Poi la dottoressa gli ricordò le cose che avrebbe dovuto sapere, che avrebbe dovuto ricordare e accettare, e lui le ascoltò con quella parte della testa che sempre si metteva in moto quando lei gli parlava, e non importava quanto dolce e comprensivo fosse il tono di lei, le parole erano sempre violente. Gli disse che Kay e Lou erano solo figure di un racconto di invenzione. Gli disse che doveva accettare la realtà. “Tu lo sai, vero Marco? Dimmi che lo sai.” Marco non rispose, e lei insisteva. Lui sapeva cosa avrebbe dovuto dirle a proposito della sua realtà. Ma non voleva, come poteva? Non ci credeva, non importava

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quante prove potevano portargli, le prove non dicono niente, la verità non dice niente, e come si permettevano di rimproverargli di non sapere scrivere della realtà solo perché loro volevano imporre i fatti e la logica delle loro vite? Ma la dottoressa insisteva, e lui rispose che sì, certo, lo sapeva, che quando diceva che era andato lì per loro intendeva solo dire che voleva rivedere i posti dove aveva ambientato il suo racconto di finzione. Racconto di finzione, che espressione assurda. Per chi mai erano finti, i suoi due amici? Certo non per lui. Sì, va bene, lo avrebbe detto. Lei aveva davvero bisogno di sentirselo dire? Ecco allora: Kay e Lou

«LEI SEMBRA NON AVERE ALCUN INTERESSE NELLA REALTÀ DEGLI ALTRI» non c’erano, non esistevano, non erano mai esistiti se non nelle sue pagine, se non in quel racconto a cui nessuno aveva creduto, nemmeno quando lo aveva messo sui fogli, nemmeno quando lo aveva fatto leggere, costretto perché faceva parte della terapia. Lei sembra non avere alcun interesse nella realtà degli altri, gli aveva detto il suo insegnante di scrittura davanti alla classe. Lui aveva ascoltato, perfino annuito, mentre avrebbe voluto dirgli, ma cosa ne sai lei della realtà, quale realtà, è reale questa stanza di sedie e computer e aria condizionata, è reale il tempo grigio fuori, sei reale tu? Se la tua realtà è questo spazio in cui non tro-

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vo posto, perché allora ci devo stare per forza? Perché? Invece aveva lasciato l’aula, e poi l’università, senza più tornarci, e poi c’era stata la crisi, e lo spavento della famiglia, e meno male che nonno non lo ha visto così, almeno questo, e poi la dottoressa, la stessa dottoressa che adesso continuava a insistere. E lui lo disse, e con il tono più convincente che riuscì a trovare, le spiegò che era stata una piccola fuga, che aveva avuto bisogno di rivederla, Villa Blu a pezzi che nessuno voleva comprare perché sarebbe costato troppo ristrutturarla, la villa saccheggiata, la casa in cui era stato solo un adolescente infelice, e il tempo desiderato in

«IL TEMPO IN CUI SI SAREBBE SENTITO AMATO E ACCOLTO NON ERA ARRIVATO» cui si sarebbe finalmente sentito amato e accolto non era mai arrivato se non nella sua immaginazione. E anche la sua immaginazione, ormai era chiaro, non riusciva a sostenerlo più, non bastava, perché altrimenti li avrebbe fatti arrivare davvero Kay e Lou, li avrebbe fatti tornare. La dottoressa sembrò rassicurata, ancora di più quando lui mentendo le disse che aveva continuato a prendere gli antidepressivi e le altre pillole, e avrebbe voluto urlarle addosso: non capisce, invece è chiaro che non l’ho fatto, come avrei potuto, come avrebbero fatto a tornare se io fossi stato lucido, non capisce che proprio da quello dipendeva tutto e

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Total look, Bottega Veneta


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che forse non è bastato sospendere per così pochi giorni, forse è proprio questo il motivo per cui non sono venuti, la sua testa ora vedeva la realtà, o almeno la realtà era più forte, ma quando si era deciso che questa doveva essere la fine? Ma non disse niente di questo alla dottoressa. Lei gli chiese di tornare a Milano con l’ultimo treno, lui rispose che l’avrebbe fatto. Lei si offrì di avvisare la famiglia. Lui ringraziò. Lei gli chiese di richiamare dal treno. Lui rispose di sì. Si sente bene? Lui rispose ancora di sì. Ritornare alla villa, rivedere Forte per come era davvero, tutto gli risultava ora insopportabile. La realtà era quella cosa che gli

«LA REALTÀ ERA QUELLA COSA FATTA DI GENTE CHE LO IGNORAVA» si muoveva intorno, fatta di gente che lo ignorava, che lo aveva sempre ignorato, a cui lui sembrava strano, gente che lo usava, volontariamente o involontariamente, ma sempre senza capirlo. Suo nonno aveva avuto ragione, e lì stava la condanna. In quell’insegnamento sbagliato eppure mai smentito, secondo il quale nessuno avrebbe potuto amarlo o volerlo per quello che era. Andrea aveva creduto che si fossero scambiati qualcosa poche ore prima, e come avrebbe potuto spiegargli che invece lui non c’era, in quel momento. Non aveva mai voluto piegarsi, aveva sempre cercato altri posti, e quando non c’erano se li era

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fabbricati da solo. “Sei pazzo, sei proprio pazzo,” glielo avevano detto mille volte da ragazzino, spesso sorridendo, spesso con un tono di compiaciuta esaltazione, come un complimento, come si dice a una persona che sa vedere cose belle dove non ci sono. Poi quando era cresciuto avevano smesso di dirglielo, anche in famiglia era diventata la parola da non pronunciare, insieme alle altre che potevano definirlo. I mondi che sapeva inventare da bambino avevano smesso di essere incantati, e avevano iniziato a fare paura a tutti. Forse era cominciato dalla morte di suo nonno, quando aveva continuato per mesi a dire a tutti che il

«I MONDI CHE SAPEVA INVENTARE AVEVANO SMESSO DI ESSERE INCANTATI» nonno stava benissimo, che era alla villa e si stava preparando per andare a giocare a tennis, e poi avrebbe fatto a gara con lui in piscina, a chi resisteva più a lungo sott’acqua, e vinceva sempre lui, certo anche se era vecchio e i suoi polmoni se li era mangiati il cancro. Suo nonno era ancora un leone, non era morto, e continuava a dirgli cose spiacevoli e vere, e tuttavia lui continuava ad amarlo. Era stato allora che sua madre aveva smesso di sorridere delle sue fantasie, e aveva cominciato a piangere. Anche ora che non piangeva quasi più, conservava sempre per lui una lacrima nascosta nell’angolo dell’occhio destro. Come avrebbe

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«NON ERA STATO DIFFICILE CONVINCERLI A TRASFERIRSI ALLA VILLA: UNA CENA» 158

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«NON VEDEVANO L’ORA DI TUFFARSI IN PISCINA, ERANO SUDATI ED ECCITATI» S T Y L E M AG A Z I N E

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potuto andare al matrimonio di sua sorella senza imbarazzare nessuno e se stesso per primo? Era quasi arrivato, poteva già vedere da lontano la villa, che stupidaggine continuare a chiamarla Villa Blu, quando di blu non aveva più niente e il colore delle mura e degli infissi era andato via con il tempo. Doveva partire, doveva tornare a Milano, non gli restavano più forze per difendere la sua realtà da quella degli altri.

Era quasi davanti casa quando incrociò l’uomo anziano. Lo vide venirgli incontro sorridendo, e Marco non capiva. «Hai visto? Sei

«NON GLI RESTAVANO PIÙ FORZE PER DIFENDERE LA SUA REALTÀ» contento ora? Forza, sbrigati… Non è educato farli aspettare!» Marco lo guardò mentre l’uomo lo superava. Continuò a camminare fino alla villa. Il cancello era spalancato, e non poteva essere stato il vento. La strada era deserta. Sapeva cosa fare. Spense il suo telefonino, lo lasciò in bella vista su un muretto. Qualcuno lo avrebbe preso e si sarebbe portato via la sua vita reale. Entrò chiudendosi il cancello alle spalle. Le voci di Kay e Lou lo raggiunsero mentre camminava, stavano chiamando il suo nome. Arrivò alla piscina. Erano lì, si erano già tuffati. L’acqua sembrava turchese, così brillante non l’aveva mai vista. Lou lo

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guardò con gli occhi che gli chiedevano scusa, Kay sorrise come faceva lui. Scusa se abbiamo fatto tardi. Smettila di parlargli in francese. Scusa, non riuscivamo ad arrivare. Ma non saremmo mai potuti mancare. Era la nostra promessa. Marco sorrise. Gli fecero cenno di raggiungerli. Lui si tolse il cappotto poi si lasciò cadere in acqua così com’era, vestito. Il freddo gli tolse il fiato, pensò che i polmoni gli si bloccassero. Quanto a lungo poteva resistere sott’acqua senza respirare? Suo nonno gli diceva sempre di più, molto di più, che poteva farcela. Ma quanto a lungo? Kay e Lou gli si avvicinarono e non ebbe più freddo. Non po-

«STAVANO PER DIVENTARE DI NUOVO UNA COSA SOLA, LIQUIDA E CALDA» teva averlo. Se loro erano nudi, e non lo sentivano, allora non avrebbe sentito freddo neanche lui. Cominciarono a baciarlo, a spogliarlo nell’acqua, ed era come se gli dicessero che doveva restare così com’era, che non doveva cambiare mai, che loro lo desideravano per quello. Stavano per fare di nuovo l’amore, stavano per diventare di nuovo una cosa sola, liquida e calda, che il mondo non avrebbe saputo mai vedere né capire. Era bellissimo, e si sentiva libero. Marco sorrise, mentre i suoi amici lo accoglievano con loro, dentro di loro, come nessun altro al

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mondo avrebbe mai potuto fare.

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Alberto: cappotto doppiopetto in lana, L.B.M.1911; camicia in cotone, Bottega Veneta; cravatta, Prada; pantaloni e boots, Marni. Matteo: abito doppiopetto in fresco di lana check, camicia in cotone, cravatta e stringate, Emporio Armani.

ATTITUDINE

NEO MINIMAL Silhouette allungate e forme essenziali interpretate da Laura Adriani, Matteo Oscar Giuggioli e Alberto Boubakar Malanchino, nuovi volti di cinema e tv.

DI LUCA ROSCINI FOTO DI MAX VADUKUL



Matteo: trench in tessuto tecnico, abito, camicia e cravatta, Dsquared2; cintura, Orciani.



Laura: trench in cotone, N°21; abito, Philosophy di Lorenzo Serafini. Matteo: giacca monopetto finestrata in lana e maglia, Etro. Alberto: cappotto in lana e camicia, Prada.


Laura: abito in seta ricamato, Etro. Nella pagina a fianco Alberto: cappotto in lana check, dolcevita in lana, pantaloni e cintura, Corneliani; stringate, Doucal’s. Laura: cappotto in lana, Boss; pantaloni e sandali, Philosophy di Lorenzo Serafini.



Alberto: giacca in lana, camicia e dolcevita, Ermenegildo Zegna XXX.



Matteo: cappotto in broccato stampato, maglia e pantaloni, Valentino. SI RINGRAZIA: AUTODEMOLIZIONI F.LLI DELVECCHIO (FRATELLIDELVECCHIO.COM) E DRIVING VINTAGE (DRIVINGVINTAGE.COM); HA COLLABORATO: GIOVANNI DE RUVO; MAKE UP: ARIANNA CAMPA @CLOSEUP USING DECIEM; HAIR: MARCO MINUNNO @W-MMANAGEMENT USING TIGI


Ugiae culparibus si simagnimusae quassitate di aut repudicil idem volorum re resto vel exce. Nella pagina a fianco: gescimillent adit eatur? Elicipid quam, qui del et quiassi maximpe.


L’ULTIMA USCITA

di Michele Ciavarella

(RI)PROGETTARE IL FUTURO

FOTO: MAX VADUKUL

Happy Times. È un’espressione che racchiude la speranza, l’ottimismo, la riuscita. Non è semplicemente «tempi felici» ma la scelta deliberata di ciò che è bello. È il momento in cui nella moda prevale l’innovazione. Cioè la rinascita. Ovvero il nuovo che nasce attraverso il progetto.

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STYLE

July-August 2020

ENGLISH TRANSLATION BY CECILIA BRAGHIN

EDITORIAL

- pag 17

The place of the soul

BY ALESSANDRO CALASCIBETTA AND IVAN COTRONEO

ACCORDING TO MARCO the place of the soul is the Blue Villa, his summer home. This is where he used to spend his childhood holidays and where he returns as a young adult to get away from a reality he doesn’t feel in tune with. This is where his daydreams take shape and die. This is where, in a parallel life, Marco feels accepted, understood and wanted. Marco is the main character of I nuotatori (The swimmers), the short story written by Ivan Cotroneo for this issue of Style Magazine. According TO ALESSANDRO the place of the soul is the White Villa. It is the summer house where he spent his holidays during childhood and teen years and where he has recently gone back to as an adult, driven by the desire to look for tracks of himself. This is the place where his daydreams took shape and died. This is where, in a parallel life, Alessandro felt accepted, understood and well-liked. Perhaps even wanted. Alessandro is the person who asked Ivan to write the short story for this issue of Style Magazine. ACCORDING TO IVAN the place of the soul is the White Page. This is where he has always found refuge: as a child, when it meant a white page from his school notebook or a piece a paper he could put through an old recovered Olivetti typewriter, and later, when it became a virtual page, a computer screen and a keyboard. This is the place where he used to hide but also tried to show himself, the place he exploited to talk to other people about what he was going through and to tell stories. Above

all, through this white piece of paper he managed to express what he couldn’t do in spoken words: dreams, sufferings, worries and thoughts, things that made him laugh, some attempts to achieve happiness. Ivan is the person who said yes to Alessandro and he is very grateful for having been given the opportunity to linger on the ghosts of his imagination, in his dearest place.

WORLD NEWS

- pag 26

Displaced Spaces

Launderettes welcoming vamps talking about sex, staircases that turn into denouncing posters, videos which give life to unreal characters in real spaces. This is the entropy of the future BY MICHELE CIAVARELLA

RIGHT IN THE MIDDLE of the rising of neo-minimalism against post-modernism, in 1992, the definition of a non-place abruptly redefined social ties. In that year, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (Seuil; it was published ten years later in Italy by Elèuthera but the term had been declared a neologism in 2003), the book written by the ethnologist, anthropologist and philosopher Marc Augé comes out in France and provides a precise definition. The non-places are spaces built for a specific purpose (public transport, retail or leisure)

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which enable people to establish unconventional relationships (airports, train stations, outlets and shopping centres, waiting rooms and refugee camps). In virtue of their specific features, these places appear in clear contrast with the historical places that the “sur-modernity” fails to encompass and tend to relegate to the realm of “curiosities” (for example, all the ancient monuments and architecture of the old world). The definition, which appeared at a time when the notion had already become a reality, has very rapidly changed people’s social perception. Once the digital-born generation (those born after 1980) turned into teenage-hood, they came across non-places which have found their place in history: in other words, outlets and airports have become integral to the overall social life and meshed with Baroque, Liberty, Modernist and later style palaces and churches situated in the town centres. THE RETURN OF THE ENTROPY This explains why, coming to the Z Generation (those born after 2000), the notion appears outdated and the research moves its steps towards the conversion of these non-places into “connected spaces that put on hold and neutralize the relationships they shape”. This refers to the concept of “heterotopy”, that the philosopher Michel Foucault outlined in 1966 in Les mots et les choses (Gallimard). He wanted to convince those involved in social models that a place does not necessarily have to match what it was originally meant for but rather adapt to the people who live in it. This is the premise of the project run by Alessandro Michele, Creative Director for Gucci, conceived for the art exhibition No Space, Just a Place held at the Daelim Museum in Seoul and curated by Myriam Ben Salah. He selected works of art capable of turning

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spaces into places “that develop a new perspective of the “being together” and generate unprecedented opportunities for establishing relationships but also thinking over the narrative of the future”.

WORLD NEWS

- pag 30

Augmented Reality

The Surrealism of Piero Fornasetti permeates the Pilotta Monumental Complex and illustrates an imaginary world transforming our present. The exhibition opens in Parma, nominated Italian Capital of Culture for the 2020-21 BY MICHELE CIAVARELLA

A network of iconographic references and cultural suggestions: the tantalizing snake of Eden crawls down the stairway, the eye and the face of Lina Cavalieri pervade the stage, the arches and the vaults. The architecture appears contaminated by the alienating objects and, undergoing a Surrealistic work, illustrates possible scenarios of modified realities. Like the ancient Roman heads, they act as volumes rather than sculptures, breaking the linearity of a bookcase. This virtual world described when it was defined “imaginative” and before augmented reality became a general topic of discussion is the Fornasetti style. He managed to strengthen reality by making use of the magic that comes from theatre rather than alchemy, its physical structure and scenic imaginary. Fornasetti Theatrum Mundi is the title of the exhibition displayed inside the majestic spaces of the Pilotta in Parma (open until 14th of February 2021), contaminating the Farnese

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Theatre, the Guazzatoio Vaults, the Petitot Gallery of the Palatina Library and the Nineteenth-century Halls of the Monumental Complex. It perfectly encapsulates the idea of Revitalizations of the Contemporary, the leading theme of all the events connected to “Parma 2020+21, Italian Capital of Culture”. It is very significant that a central issue of contemporary times, transformation, is illustrated by the works of Piero Fornasetti (1913-1988), multi-faceted and eclectic figure of the Italian artistic landscape, who remains indefinable both in the craftsmanship and in the artistic context, difficult to relate to any particular cultural movement but definitely the most genuine representative of Italian Surrealism. Indeed, his talent and work were luckily made available to a large numbers of people (who often became collectors). This is because he relied on dishes, vases, furniture and tapestry rather than paintings and sculpture that end up in private or public museums and galleries: daily life objects that can transform the individual perception of the user. The exhibition is curated by Barnaba Fornasetti, Piero’s son and Artistic Director of the Studio in Milan, Valeria Manzi, President of the Fornasetti Cult Association, and Simone Verde, Director of the Pilotta Complex. - pag 41

REPORT

intelligence and team work make you win the championship”. It was likely this sentence by Michael Jordan, just back from the documentary The last dance on Netflix, that paved the way to a collaboration between Dior, one of the historical French fashion houses, and the cult sports brand Jordan. It all started in Miami during the Fall Winter 2020-21 Men’s Fashion Show, when Dior and its menswear Creative Director Kim Jones launched a collaboration with Jordan presenting the Air Jordan 1 High OG Dior sneakers: made in Italy, featuring hand-made details and the unmistakable “swoosh” revisited with the Dior Oblique motif. Designed to become a cult object (by no chance they are made in a limited number), these sneakers seal a marriage between the luxury and the streetwear realms that would have been regarded as odd only a few years ago but has now become a solid reality. This collaboration has also given life to a capsule collection, the Air Dior, which develops sportswear through the language of the brand’s expertise. The collection is defined as “modern and encapsulating creative freedom”, inspired by the basketball champion Michael Jordan and America of the 1980s, which saw a boom of sportswear, sports suits, sneakers and fitness as a means of emancipation and personal expression.

Extraordinary Normality Paul&Shark choose to revisit the codes of their imaginary and update them as regards performance and sustainability

CURATED BY FIORENZA BARIATTI AND LUCA ROSCINI

Limited Edition Basket

The collaboration between the Dior fashion house and the sports brand Jordan gives life to a streetwear clothing line of excellence, bound to become a cult

“I strongly believe that, if you think and work as a team, individual recognition will eventually come. Talent makes you win the match,

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The importance of going back to your own roots. Reconstructing the future by looking back at your past with pride. A bit like the memories of a Ramsey family’s summer holiday or a trip described by Virginia Wolf in her novel To the lighthouse, published in 1927. This time, however, the journey is made and described by Paul&Shark, an Italian brand which has a close connection with the world of sea, wind and sailing. This coming Fall Winter Collection revisits the key codes of the brand and meshes them with


innovative elements. It presents a common yet honest image featuring technical jackets, marinière shirts, very light down jackets and accessories whose use becomes essential. A piece that stands out is the basic overcoat of the sailor’s wardrobe: the peacoat. Originally born as the Dutch sea dogs’ coat, it later became a cult object thanks to the cinema (Gregory Peck wears it in Moby Dick and Jack Nicholson in The Last Detail). Now it has become the key element of the Paul&Shark collection, made in eco-

wool (recycled wool) for the first time and specially treated to become totally waterproof. The search for sustainability also applies to some of the fibres obtained by plastic bottles recovered from the oceans, which are worked and made heat resistant, waterproof and windproof. Indeed, they are the perfect outfit for an autumn trip to a lighthouse.

The Long Story Of G9

The bomber – icon of the British Menswear First of all it was Lord Fraser, head of the Lovat clan (from the Outlander novels by Diana Gabaldon) who allowed the Miller brothers to wear the family tartan: white, green and blue over-check on a red background. Then the brothers, regular golf players, wanted a jacket that went well with the green. So, combining the two stories, the Baracuta G9 model was designed to meet style (Frasertartan for the lining) and usefulness (the deep pockets, for instance, are fit to collect two balls). This happened in 1940 but today, following a concern for archive celebration, the place of honour goes to the G9 jacket, made of sheepskin suede or narrow or very wide ribbed velvet,

and provided with a Thermore Ecodown filling of five different colours. Indeed, the G9 has gone through decades untouched (Elvis Presley and Frank Sinatra used to wear it) in the history of cinema and television (Ryan O’Neal wore it in the Peyton Place serial) and in the youth cultures (mod, punk, skinhead).

Three Issues (And Nothing Else)

The first and second lines blended: this is how Bikkembergs manage to present a complete wardrobe made up of hybrid pieces fulfilling the key words (dynamic, notorious and attitude) representing the company core values. The Creative Director Lee Wood drew ideas from the historical archives focussing on the graphic detail of the three issues and turning it into the ornamental pattern of the collection in different ways (fabric appliques, embroidered fringes, jacquard knitwear and screen prints).

with any means. Born in Canada, Dean and Dan Caten founded DSquared2 in 1996, a brand which has been constantly searching for ways of expressing its values straddling between streetwear and Italian tailoring, influenced by mountain hardwear and cowboy style and imbued with sensuality and cheerfulness. The eye on the future is now made possible through the launch of a new app. The Dsquared App allows a total and immersive experience into the brand universe. It provides an easy access to all the brand products, from the ready-to-wear to the accessories, from the eyewear to the beachwear, from the underwear to the children clothing: everything is available through a glamorous yet accessible channel. The favourite looks can be saved and shared with friends via the social media; the nearest shop can be identified through a Gps system

Paris Calls Athens

The name itself makes it clear the designers’ will to turn it into an evergreen. Antigona Soft is the name of the over bag that, for the first time since its debut in the Women’s Collection, becomes the leading accessory of the Givenchy Male Line. Available in black, white and red braided leather with chained prints or in black calfskin, the Antigona Soft bag plays with volumes as one of its distinctive feature.

The Object Of Desires Becomes Pocket-Sized

The launch of the new Dsquared App allows a quality interactive experience and enables users to buy clothes and accessories. To show off on social media In this very historical moment, the digital culture is divided between cyber-optimists and those who oppose the digital revolution which is inevitably taking place. The twin brothers who have turned positivism into the aesthetic goal of their story are among those who believe dreams can be made come true in any forms and

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and customers can also book an appointment at the most conveniently located store to go and try on clothes to save time. The experience goes even beyond shopping: this new pocketsized digital world includes special projects, exclusive videos and interactive images.

An Important Texture

The Ancient Tradition Of Latorre Coats A coat is what makes the humble and shy Akakij Akakievic “visible to the world” (in The Overcoat by Nikolaj Gogol). The coat is similarly the pivotal element of the Latorre Fall Winter Collection, designed as single-breasted with three buttons, revers-neck, unlined and slim fitted to reduce the stiffness typical of this garment. The textures chosen by the brand originally

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from Puglia - it started as a small artisan workshop in Locorotondo in the 1960s and gradually became a remarkable Italian fashion house include check, pied-de-poule and small-dimension patterns. The colours range from brown tones to taupe, beige and sand. The fabrics are not easy to identify without having the opportunity to touch them, as they are obtained by working wool, cotton, jersey and pure cashmere. “As if a pleasant partner agreed to walk along the path of life on your side: and this partner happens to be your coat”, said Gogol.

a museum of Viking history, come across killer whales and enjoy the stunning Nordic landscape. The Lofoten Islands provide the perfect imaginary of the Nordic regions and the project Fay Archive keeps drawing its inspiration from here, combining the American outdoor tradition with the Italian style and know-how. The designer of the Fall Winter Collection Alessandro Squarzi exploited materials such as hemp rag, wool and natural fabrics enhancing their unique features and turning them into garments of clear, essential and timeless shapes. All the male outfits feature a basic

Identifying Values

Known with the slogan #wecare, a program of sustainable innovation has been launched by OVS and concerns all different aspects of the industry: the product, the shop and the customers. Ultralight Ecofriendly is the new line of down jackets designed and made in collaboration with the chemical industry Dupont. This allowed the use of a special filling made of innovative polyester. In addition, there is Eco Value: an identity card providing information about the supplier, the cost of manufacture, the CO2 emissions and the recycling index.

Green Friendly

The Hand Picked firm is equipped with solar panels and a system for water reuse: it also gives the waste fabric to the automotive industry and recycles the pumice stone. Moreover, the neotech nature collection features an ecofriendly range of five pockets jeans, characterised by the exploitation of sustainable textiles, washing procedures and accessories.

Essential Nordic Journey

The new Fay Archive Collection draws its inspiration from the Lofoten Islands: slim shapes, natural fabrics and colours which reflect those from the nature of the Deep North There aren’t many places where people can see the midnight sun or the polar lights, join a jazz festival, ski, visit

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simplicity, aiming at a restrained repertoire of images, blending beauty and practicality and almost bordering utility. Colours are also drawn from those typical of the islands in northern Norway, ranging from the natural nuances of sand colour to army green and navy blue. The iconic 4 Ganci, the emblem of the brand and the key piece of Fay Archive, is made in close-knit Cordura cotton fabric with details in split leather (sheepskin) on the collar and wristbands. It is provided with galvanized metal clamps and coordinated with an inside jacket made of bouclé fleece and technical fabric.

The Project Goes Green Eco-friendly slogans and ecofashion codes

These garments have made the history of clothing: T-shirts, sweaters, outerwear and accessories that took a clear stand and included a sentence which made a point: starting from Katharine Hamnett and Vivienne Westwood and coming to Dior. Now it’s the time for Brooksfield to take a stand for environmental sustainability. The Italian brand decided to present a

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collection of woollen knitwear that bears embroidered messages encouraging people to enjoy nature and take care of our environment. The green spirit permeates the entire collection which, in addition to a British spirit that can be seen in the use of checks, tartan and slim silhouette typical of the 1070s, resumes the simplicity of polo neck, knitwear and trousers made of certified organic and naturally-dyed materials. The polo shirts are sold in a bag of recycled paper while the knitwear is wrapped in a fabric bag made in Italy using eco-friendly and edible dyes.

Japanese Visions

The versatility of outerwear is an issue which most brands specializing in this field have addressed, taking into account heat resistance, water resistance and sustainability. Now People of Shibuya, an Italian brand founded in 2014 and inspired by Japanese design, takes on the challenge of designing an outfit of variable size. This is Haneda, a jacket that can vary in size according to layering by adding or removing a layer of lining.

Walking Towards The Future

Materials themselves call for a vision of the future that goes beyond aesthetics. The new shoe upper of the Interaction model developed by Hogan for the Fall Winter Collection is made of heatperforated neoprene. Like the rest of the collection, it is inspired by an idea of smart future city featuring cycling paths and high-tech skylines, new mobility and green economy. Thus the knowhow of this Italian brand becomes a means of accessing the future.

Necessary Asian Avantgarde

Tradition and innovation describe the Lardini collection by Yosuke Aizawa, designed by the Italian brand in collaboration with the Japanese designer There are places that appear as the perfect set to show pieces of clothing, almost as if the outfits were made to be worn there. This is the case of the collection designed by Yosuke Aizawa


for Lardini, a brand from the Marche region, and the busy and glowing streets of Tokyo. The company’s passion for the Far East (Japan and South Korea have been equally fascinated by Italian fashion and by Lardini) permeates the collection featuring 8 outwear pieces and 3 pairs of sneakers that blend the tailoring quality of the Italian brand with the technically essential and slimfitting aesthetics of the Japanese designer. Tradition and innovation give life to a bomber, a field jacket, a hooded parka and single-breasted coat and jacket. In addition to the unusual shapes, the outfits feature unexpected fabrics and textures: nylon, waterproof and stretch flannel and wool, making two or three layers and with heat sealed lining seams. Indeed, Yosuke Aizawa showed his innovative spirit since his early works for White Mountaineering, a brand which has made him one of the most appealing designers of men’s fashion. Now, working for Lardini, he succeeded in blending Italian tailoring with Japanese fashion technology.

Eco-Friendly Padded Jackets

Pop and eco-friendly outwear The eco-friendly padding exploited by Geox Respira for 70% of its clothing is soft as a cloud. Even for the windproof and waterproof jackets. The outer colours are typical of the pop fashion of the 1980s: red, yellow, blue and white, iron grey and rope. The inside is called EcologicWarm and is made of synthetic fibre derived from recycled plastic which has undergone specific patented treatments. It guarantees water resistance and heat regulation (this is also achieved by using another material, XDown, a mixture of regenerated feathers from reused garments). The brand has joined the Fashion Pact, an

alliance of brands from the fashion and textile industry which aim to “stop global warming, restore biodiversity and protect the environment through an eco-friendly production system”. Even with clouds it can be done.

Talents And Passions

In order to illustrate its products (and values), Pineider has just built a team of communicators. Enrico Dal Buono, Amina Marazzi Gandolfi and Antonio Dikele Distefano are the three “selected” talents (Gandolfi is a photographer while the other two are journalists and writers). Though the web, social media and advertising campaigns, they want to stress the importance of learning (and willing) to write by hand, with the support of the leather goods, paper and refined writing tools typical of the historic Florentine brand, straddling between heritage and modernity.

No Longer Just Trousers

Myths recycled wool is a finely recycled wool which has undergone a production system that deliberately cuts out polluting steps and reduces the use of raw material and production waste. Myths exploited this new fabric to make a casual outfit featuring two models of trousers (check and pinstriped) and an over shirt. This is the first time that the brand, known for its expertise on trousers, deals with total look.

and evening overcoats “shine with abstract patterns, minerals made of melted metal and embroideries made of engineered silver”. These terms clearly illustrate the complex production systems because, for instance, the design on the fabric has to perfectly fit the space, on the jacket revers, its bottom as well as on the trousers, and then be reworked on the computer, reassembled and ultimately embroidered. “The connection among pieces of clothes”, explains Sarah Burton, Creative Director, “comes from the time spent to make them. I am concerned with clarity and I want to scale down clothes to essentiality. I love being with people, meeting and talking and feeling reconnected with the world”. A second collaboration has been undertaken with the painter Howard Tangye. He draws sketched figures across the Scottish Highlands: a strong reference that is translated into a tailoring overcoat featuring a black ink cardoon, embroidered with hammered silver thread. Indeed, this is also art (to be worn).

From Bodies To Landscapes: Artistic Tailoring

Smart synergies turn into precious clothes: the Fall Winter Collection by Alexander McQueen “brings into play” two big artists and their suggestions ALEXANDER MCQUEEN has gathered great artists. One is a sculptor known for his iconic bronze reclining figures, Henry Moore, one of the most highly valued British artists (Reclining Figure: Festival was sold for over 24 million pounds). Thanks to the Henry Moore Foundation that supports contemporary artists, the fashion house can reproduce the Three-Quarter Figure dated 1928 on cloths and coats. Like precious rarities, tailor-made jackets

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THE MISTAKE

- pag 72

Black In The Sun

A diktat, that is preached rather than practised, bans the use of daily outfit with black footwear. Nevertheless, people do that anyway BY GIORGIO RE

A fitting (a word chosen on purpose) explanation: as regards style, diktats died out decades ago, with all due respect, and even when they were in place they had a limited influence. In other words: they were widely and quite confidently ignored. This is because of free will and because men and women

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have always intended to display their identity through their outfits. So, the general understanding is that black footwear should not go with daily clothes. But let’s talk about it: who did really take notice of this rule (rule is a strict term in this context), and when? Shall we start from the time of the Olympus and stretch through ages, characters and fashion trends? The Duke of Windsor confidently wore moccasins made of refined leather or lace-up glossy calfskin loafers with daily suits or mismatched jackets and pants, occasionally downplaying the look with striped socks. The one-of-a-kind, unattainable and unparalleled Cary Grant, who marked the ultimate essence of timeless elegance with his talent and appearance, has often shown himself wearing impeccable daily grey suits combined with black footwear. Admittedly, those lace-up or side or front metal buckle loafers played a clear reference to formal wear. However, there are exceptions distant from this case. The amazing Paul Newman used to wear black loafers with white shirt and comfortable trousers. The same goes for the British “proletarian star” Michael Caine, who often prefers the cardigan to the jacket and combines it with black loafers. After all, black is certainly the colour of aplomb and establishment but it is also the colour of normality (a term that has a downside). Let’s try to be reasonable, to use common sense and be down-to-earth: black, according to a common but unquestionable understanding, “goes with everything and is appropriate to any circumstances”. Let’s stay grounded and ask ourselves: until few decades ago the vast majority of men used to have just one pair of “good” shoes. Which colour could they sensibly be? Finally, black is also the colour of rebellion. It is not by chance that Elvis Presley wiggled his hips in front of the camera wearing a blouson, trousers and black shoes, is it? One final question: has anyone seen anywhere the Beatles’ boots – so-called Chelsea boots – in a colour different from black? Let’s think it over.

VI

STYLE SELECTION

- pag 74

Modern Tailoring

The Artistic Director of Ermenegildo Zegna reconsiders the expression of personality and changes the codes of formal elegance TEXT AND STYLING BY LUCA ROSCINI PHOTO BY PIER NICOLA BRUNO

“With the Zegna MODERN TAILORING I wanted to redefine the codes of classical style in a contemporary perspective meshing the essential values of tradition, such as the attention for details, the artisan experience and the preciousness of fabrics, with the personality, desires and needs of today men”. This is the vision of the future according to the Artistic Director Alessandro Sartori, who goes beyond the border of formality with his Modern Tailoring line.

How modern is tailoring? Broadly speaking, tailoring refers to the style of a man in tune with his attitude. I tried to design an inclusive and cross-generation modern wardrobe, in which sportswear features contaminate the tailoring classic look, relying on deconstructed but clear shapes and light experimental materials. What is the future of formal elegance? In the future the tailoring tradition will blend with technological innovation. We want to speak to the new generations with a new language style. Our understanding of this grammar is based on tone on tone matches, in which tailoring, knitwear, sportswear and accessories are coordinated through lighter or darker nuances of the same background colour. You often talk about a “tailoring

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lexicon”: what are the key words and the adverb? The key words are creativity, beauty and sustainability! While the adverb is #UseTheExisting, which consists in a project I particularly care about and aims at reaching the dream target of “zero waste” by recycling and reusing waste material. Which piece of the formal male wardrobe will you take to the future? Undoubtedly the one-and-a-halfbreasted jacket, featuring two or three buttons, to be worn in combination with carrot fit trousers tight at the ankles. Which one will you leave behind? Rather than leaving behind I prefer to recover from the past, starting from the strict rules of the tailoring tradition and overturning them. For example, in the Fall Winter Collection I turned the classic blazer into a comfy belted vest and I intended the formal waistcoat as a passe-partout to be worn with or without a suit. At Zegna I have the unique opportunity to experiment at all levels, from the mixture of fibres to the most elaborate tailoring shapes, mixing and crossing categories to overcome conventional boundaries. What’s your favourite saying? What is imagination if not the dream of dreaming?

STYLE SELECTION

- pag 76

I Realized That I Love You

“Love” remains the most charming word to write (by hand) BY FIORENZA BARIATTI

ON THE FIRST ISSUE of Style, the editorial by Alessandro Calascibetta claimed: “Only hand-writing pledges the identity of the writer”. Zaim Kamal, Creative Director Montblanc International, similarly explains that a writing system is needed “in order to leave a mark, capture a thought, illustrate ideas and create memories”. A true specialist in the field, which has been revolutionising the culture of writing for over a century, Montblanc believes that putting thoughts and


feelings down on paper contributes to improve physical and mental health, clarify ideas, reduce stress and “even strengthen our immune system”. These are the operating instructions: choose a quiet place, take some deep breaths, then write for 15 to 30 minutes without worrying if the handwriting is unreadable. Do not dwell on the meaning of words: mind and spirt will eventually take off. What about the new generations, who are accustomed to computers? “We show them the difference between making a note manually or digitally”, explains Kamal. “Only doing so, they will understand the meaning of handwriting and appreciate the tactile emotion of drawing a line. This will make them aware of how this work naturally establishes a continuum between our thoughts and the paper and how it makes a connection not only with ourselves but also with the people who have handed down the piece of written paper. Like an emotional echo”. The most charming word to write remains “love: in any language and in any possible form of expression”. It can be drawn with a “ready to use” fountain pen – why not – explains Kamal who “one late evening, in a cafè in Milan, used Martini as ink to make a sketch on paper”. Because all ideas have to be “transmitted”. Ideally by hand.

Revolutions are truly authentic when they draw from the past and think deeply about their journey. The thought made by Corneliani, one of the most important brands specializing on male tailoring fashion, is innovative as well as simple: bringing the codes of contemporary male style back to essentiality, as true innovation is achieved through materials, wearability and sustainability of the production chain. Rather than a single outfit, a total look embodies the new spirit that permeates the Fall Winter Collection. It includes some key pieces of the male wardrobe such as the polo neck, the waistcoat, the coat and the cotton pleated trousers. A true collection of elegance, made even by the exploitation of one timeless colour: camel. Three different lines develop around this key look characterizing the Collection: the Travel Tech, featuring practicality and urban feeling; the Corneliani Adaptive, based on the most iconic piece, the jacket; and the Circle, an eco-friendly project which includes pieces exclusively made with natural and organic fabrics respecting the environment. - pag 80

PORTFOLIO

STYLE SELECTION

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Tone On Tone

The absolute comfort is a necessity for Corneliani, which redefines its stylistic path through refined wools and evenness of tones TEXT AND STYLING BY LUCA ROSCINI PHOTO BY PIER NICOLA BRUNO

Daniel Radcliffe “This Is How I Have Overcome My Addiction To Success” BY GIOVANNA GRASSI PHOTO BY CHARLIE GRAY

“I never asked myself what my life could have turned out if I hadn’t been selected for the Harry Potter role when I was 10. I lived with the power

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of magic; I have always felt the responsibility of interpreting a character who fascinated the entire world. The huge success has given me a lot but has equally demanded a lot. After that, I kept working to become the kind of actor I wanted to be”, says Daniel Radcliffe. Turning 31 on 23rd of July, he has finally left behind the stereotyped image of the little foureyed wizard and moves on speaking about his commitments in Broadway and his independent and daring movies that inevitably get selected for the Sundance Film Festival (starting from Young Rebels, Kill Your Darlings, released in 2013, in which he interpreted the poet Allen Ginsberg, father of the Beat Generation) and helped him putting his identity into focus. In his last hit Guns Akimbo, presented at the Toronto International Film Festival (available in streaming on Amazon

Prime Video), he plays the role of a videogame developer who ends up having two guns surgically bolted into his hands. The forthcoming movie (which hasn’t come out in Italy yet), Escape from Pretoria, is the true story of a group of jailed anti-apartheid activists who plan to escape. Despite the appreciation received for the series Miracle Workers, based on the novel by Simon Rich What in God’s name, a second season of which is coming out soon in Italy, it was working for the theatre that made him “find a genuine balance and a healthy expression of manhood”. This allowed him to feel confident about playing naked on the stage of the drama Equus, right after he turned 18. “I worked hard on myself, both on the psychological side and the vocal one, in order to become a good theatre actor”.

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A complex and discreet personality, Radcliffe goes passionate when he talks about books. “I love very much movies that penetrate the human and literary sphere of writers”, he explains, admitting he was not a clever student: “I used to wander off and elude rules.. But reading has always been one of my favourite passions”. Since when he played the role of David Copperfield in a BBC mini-series at 10 and read the novel by Charles Dickens and everything else he could find about the author to the challenging commitment of bringing Samuel Beckett’s End Game on the stage of the prestigious Old Vic in London at the beginning of this year. He recently contributed to the audiobook Harry Potter and the philosopher’s stone, which he recorded during the lockdown together with other stars such as Dakota Fanning, David Beckham and Eddie Redmayne. “Our readings will be useful to the young future generations and will get them to know the boy who accompanied the childhood of my generation. Projects like this show clearly how important libraries are, even those working online, all over the world. Teaching young people the love for reading is crucial, as they are going to be the adults of tomorrow”. After all, the novels by J.K. Rowling significantly contributed to shape his personality. “They taught me to overcome hardships. Harry’s life has never been easy, after all he is a survivor”, he says. “I wouldn’t mind, in the future, to have the opportunity to play the role of Harry’s father, James Potter: it would be fun”. The choice of living between two worlds, England and the States (he bought an apartment in the West Village in New York years ago) reflects his multifaceted personality, which is not easy to define: among his many interests, for instance, there is the love for music (he has been playing the bass since childhood) and poetry, which he composes himself under the nom de plume Jacob Gershon. Politically committed, he made a stand for the Liberal Democrats and the Labour, he held public talks on homophobia and

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collaborated with associations working to prevent teen suicide. Radcliffe does not talk about himself easily and never did. He has never been much of a joiner nor a worldly character and never cared about being cool. He is not a fan of social media, on the contrary the search for privacy has been his main concern and his long relationship with the American actress Erin Darke, met in 2012 on the set of Young Rebels – Kill Your Darlings, has always been kept off the spotlights. They have been together since then but they have never made their relationship public, so that when they are apart for work they stay connected with Skype and Facetime. He was able to manage wisely his huge fortune and has never overly displayed his success, keeping a low profile even when he earned a star on the Hollywood Walk of Fame. “The legitimate male vanity has a specific weight on contemporary society and in the economy of the fashion industry, constantly looking for new icons”, he says “but I always prefer to go for decency. If I publicly expose myself with old friends such as Emma Watson and Rupert Grint, it is only for a social or humanitarian purpose, not for a red carpet”. He mentions his commitment for Read, the British Association of Independent Librarians: “These are hard times, many bookshops were forced to shut down”. He then goes back to the issue of reading admitting: “I am a professional actor but I would have liked to be a writer, or even a poet. An actor performs lives, events and roles written by others, while an author creates stories and characters and a poet seizes the emotions and transmit them”. Both the passion for writing and that for acting were inherited by Radcliffe in the family. As an only child, he was brought up with a cosmopolitan education: “My mother Marcia Jeannine Gresham, Jewish, was born in South Africa and brought up in Essex (UK), while my father, Alan George Radcliffe comes from Northern Ireland and grew up in a protestant working class family”. They

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both did some acting when they were young, but they later left the show business: “My father has become an esteemed literary agent while my mother is a casting agent and producer”. They helped him getting away from the gratifying but overwhelming legacy of the Harry Potter success and overcoming the moments when his huge popularity had driven him to alcohol abuse. “It is not easy when you suddenly find yourself in the centre of an empire made of films, videogames, theme parks and incoming businesses; getting away from a baby star realm requires a very hard work. The success of a role generates an addiction, getting rid of which is immensely difficult but necessary. You often risk to lose balance, to fall into an addiction as a means of defence, paying the price for having to meet the expectations at all costs”. Who are your mentors today? “I believe all the people who work to make the world better and to facilitate relationships are worth of credit”.

ICON

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André Leon Talley «I am fashion» A life in the trenches between parties and chiffon BY MICHELE CIAVARELLA

INFLUENTIAL, stubborn and controversial: 50 years of fashion and 70 years of life earned André Leon Talley a great reputation which is encapsulated in these three words. Actually, a fourth one should be added: battler. This is because he was the first African American to gain a prominent position in the fashion world.


A member of staff of Vogue USA people couldn’t fail to notice and indisputably an iconic figure in fashion journalism, Talley paved an unprecedented way: he was the first African American to become so influential in the fashion industry. Talley’s career follows a blazing fast and unusual pattern and unfolds entirely in the context of the most popular newspapers. At 20 he became the “favourite assistant” of Diana Vreeland (in his own words), when she was the unrivalled Director of the Costume Institute at the Metropolitan Museum in New York. Mrs Vreeland recommended him to Andy Warhol who, in 1974, hired him as receptionist at Interview but, only a few months later, became friend and asked him to interview Karl Lagerfeld. Coincidentally or not he was soon after appointed by John Fairchild as editor at Women’s Wear Daily and here he skyrocketed. He started as editor and fairly quickly became the Director of the European Correspondent Bureau in Paris. In 1983 he made his first step into Vogue under the Directorship of Grace Mirabella as Fashion News Director, a position he held until 1988, when Anna Wintour became Director and appointed him Creative Director in her place. In 1995 he was once again in Paris as correspondent for W magazine but three years later he was back to Vogue acting as Editor at Large where he remained until 2013 when he took on the directorship of the Russian edition of Numéro for a year. These were rich and stimulating years during which he refined his flair for making friendship with powerful and alluring people (Lagerfeld, Yves Saint Laurent, Pierre Bergè, Paloma Picasso, Diana von Furstenberg, Lee Radziwill and eventually Anna Wintour). They accompanied him along his personal and professional path and contributed to make him a figure who undoubtedly left a mark in the fashion world for half a century. This is the story that Talley tells about himself in The Chiffon Trenches (Penguin), his book of memories written in the wake of the documentary The Gospel According to André (directed by Kate Novack, first screened at the Toronto Film Festival in 2016 and now available on Amazon

Prime). Relying on the “memoire” genre, ALT draws a straight line stretching from his childhood dreams to his “American dream come true”, the achievement of a life where nothing happens to go wrong. Because of this notion of outstanding way of life, the book often appears as the narrative of his ego, directly and unfailingly proportional to his greatness, rather than his life and eventually muddles the person with the events he is involved in, his fashion with his taste and the fashion world with himself. His life runs through moments of intense sentimentalism, particularly when he talks about his origins, some closeups on ironic episodes of his career (very little self-irony), many embellished truths, typical of historical novels, and too many artificial everyday routines muddled with invitations to dream-like places, travels on private jets, exclusive presents and benefits, expected appreciations that didn’t come and put a halt to life-long friendships. A life always lived in the shadow of important people (his grandmother is replaced by Vreeland, who is replaced by Lagerfeld, who is backed by Wintour) and in the never-ending search for personal acknowledgements made explicit by luxury gifts. And into the grip of an overwhelming obsession: Vogue, hence fashion. Here are some significant issues sprinkled onto these long “chiffon trenches” summerized from the book. THE BEGINNING «I was born in a hospital on the outskirts of Georgetown in Washington D.C. Two months later I was brought to live with my grandmother in South Carolina, which was what families from the South used to do. While my parents kept working in the capital city I started calling her mum». VOGUE «My favourite nest was the library. At 12, the glossy pages of Vogue magazine had become my world. This is where I came to know Truman Capote and Gloria Vanderbilt. I used to dream about meeting Naomi Sims and Pat Cleveland and living their kind of life in which bad things don’t happen.

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My bedroom was covered with pages taken from the most influential fashion magazines. However, having being brought up in the South, the idea that a black man could play a role in the fashion world seemed impossible to me». ATTITUDE «I was a fashion-addicted as regards my look and my wardrobe. I would have liked to use kabuki make-up like Diana Vreeland did and, before going to school, I used to apply the latest Estée Lauder wax product to my hair». VREELAND «Diana Vreeland was setting up the exhibition Romantic and Glamourous Hollywood Design at the Costume Institute and was looking for voluntary assistants. The father of a friend of mine wrote me a presentation letter and I was hired without a salary. But I didn’t care. I had the opportunity to work for the most influential empress of the fashion world and begin my dream-of-a-lifetime apprenticeship». KARL «He was one of the most influential creators of French fashion (working for Chloé). Before we met for an interview I had to publish on Interview, I read everything about him. We talked about the style and culture of Eighteenth Century France. I remember he told me: fashion is fun and should not be taken too seriously. Then he invited me to his bedroom, he opened one of his Goyard chests and gave me some crepe de Chine shirts handmade by Hilditch & Key (a British dressmaker who has a shop in Paris in rue de Rivoli). I wore them for years as a badge of honour». PARIS «I left New York carrying 13 suitcases. WWD rented for me a charming duplex at the Lenox Hotel in rue de l’Université, only three minutes away from Karl’s luxury apartment in the famous palace Pozzo di Borgo. I could wake up in the morning and talk over the phone with Betty Catroux or Karl. I felt on top of the world. This was all I ever wanted and I could not believe I had reached a position where the

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colour of my skin was irrelevant. What really mattered was that I was reputed smart». RACISM «Although we have made huge steps forward, I am aware a black man still has to work much harder to make his American dream come true. Racism often works from inside like a constraint. It belongs to the fabric of our existence». OBESITY «I really got fat while in Durham (during the six months I spent at home after my grandmother died) and I kept overeating when I went back to New York. My clothes made manifest how fat I had become and Anna Wintour looks didn’t go unnoticed. She suggested me to go to a health spa and offered to pay for it: that turned it into an obligation, not a suggestion. I think that my weight interfered with my career at that time». GOSSIPS «Since we often spent time together, people wondered how Lagerfeld felt about me and many thought I was his lover, but I never was. However, being a black man, I am aware of the common belief that people could be just interested in my genitals. After a successful review of a Givenchy fashion show, there was a rumour that I used to steel the original sketches by Yves (Saint Laurent) and sell them to Hubert (de Givenchy). There couldn’t be a worst cruelty far from truth. This was the sort of racism I suffered from in the fashion world: cheap shots inflicted by white men». WINTOUR «I wish she could say something sympathetic and honest about me today (the 30-years-old friendship ended abruptly two years ago). My relationship with this powerful and influential woman, who can sit next to the Queen of England wearing her iconic sunglasses and displaying the perfect Louise Brooks style haircut that frames her Mona Lisa-like enigmatic face left me with huge emotional and psychological scars. Who is she, really?

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She adores her sons and I am sure she will be the best possible grandmother. However, there are many people who worked for her and were eventually left with huge sentimental scars. Men, women, designers, photographers, fashion designers. The list is endless». BEST DRESSED: WOMEN Anna Wintour: «Only when she wears Chanel Haute Couture». Annette de la Renta: «Her wardrobe is full of Yves Saint Laurent complete collections». Bianca Jagger: «She got married in a Yves Saint Laurent dress while her other usual outfits are Norma Kamali, Christian Dior by Marc Bohan and Valentino». Diana Vreeland: «She used to wear Balenciaga for work and her favourite jewellery was the fake one created by Kenneth Jay Lane, with the exception of a Bulgari enamelled snake». Rihanna: «She managed to turn her style into a fashion business. She is the soul of modern Africa». BEST DRESSED: MEN Tom Ford: «He has dozens of plain black suits with single-breasted jackets, which he wears with a white shirt and pointed black shoes». Marc Jacobs: «He wears refined suits and bags by Chanel and Hermès, which he combines with white sneakers and Prada vintage furs. This is how he showed up at Lee Radziwill’s funeral». Will Smith: «He has the glamour of Cary Grant and he is always smart even when he wears a T-shirt and a hat. He is the best Hollywood figure in black-tie». - pag 94

ART

When The Body Is A Living Work Of Art

Secret desires, impeccable taste, a hint of provocation and a huge irony are the essential ingredients for clothes, jewellery, masks and furred cups according to Meret Oppenheim BY MARTINA CORGNATI

WE ALL KNOW Déjeuneur en Fourrure, the alienating masterpiece by Meret Oppenheim which consists

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in a cup of tea, with coordinated saucer and spoon, all covered with Chinese gazelle’s fur. Few people know, however, that the inspiration for this iconic work of Surrealism comes from the fashion accessories that the young artist used to design for Elsa Schiaparelli, the most eccentric couturier in Paris at that time: a large round bracelet covered with fur and fur gloves with elegant painted wooden fingers. Meret Oppenheim (1913-1985), a star of Surrealism and a legendary representative of female art of the Twentieth Century, was fond of fashion, accessories, clothes, jewellery as well as works of art. Her cult of fashion was backed by a new concept of the body as a work of art, developed by her as well as many other friends, including Marcel Duchamp, who had pictures taken of himself in female clothes “creating an opera character seductively named Rrose Sélavy (a name that sounds like “love is life” when pronounced). Meret established a close and heartfelt relationship with Leonor Fini, a great lady famous for her paintings, out-of-the-ordinary and excessive outfits and a very independent way of life, and shared with her the passion for clothing, masks and costumes. “Dear Meret, make me a pair of gloves red inside, black on the sides and with a big black heart in the centre…” Leonor wrote to her in the Thirties. Unfortunately, only the sketches of these gloves that Oppenheim likely realized for Leonor remain. She designed another wonderful pair in 1985, conceived as an “artist multiple” and sold together with the fourth issue of the Swiss Magazine Parkett: these gloves were made of sky blue suede goatskin and featured blood vessels and


capillaries designed in slight relief creating the effect of a branched tree. Meret Oppenheim’s creativity works around the body, explores its features, its folds and its unexpected similarities: the objects are the outcome of this analysis. The ear, for instance, featuring a small appealing niche well-placed between the tragus and the antitragus, just above the sensual and delicate lobe, becomes the perfect place to put a small nest acting as an unusual earring. It is also suitable to suspend two precariouslyheld scales of a Libra, Meret’s own star sign. As for the neck, which the artist envisages long and slender, she designs a disturbing double chain, made of long and thin golden bones stringed together and holding a soft but relentless female mouth in the centre, possibly accountable for the “strong meal”. Furthermore, another slightly fetish work consists of two hands placed one on top of the other and fastened with a rope around the wrist to make a surprising belt. Secret desires, impeccable taste, a hint of provocation and a great irony were the essential ingredients of works such as these, which Meret Oppenheim enjoyed designing even during the dramatic years of the Second World War, spent in a sort of lockdown in Basle, terrified that the Nazis could invade Switzerland and worried about the neighbours who were not happy about having a young international female artist, creator of odd and intelligible works, next door: could she be a spy? On one of those unending day, Meret wrote to Leonor, who was confined in France: “at the moment, if you wish to wear an evening gown you have to go to one of the few restaurants holding public balls”. Perhaps she was talking about the dress she painted in 1944, featuring large stiff folds that left the shoulders naked, widened around the breast creating sparkling bubbles and fastened tightly body and legs. In the following years, when the situation became less restraining, Meret Oppenheim designed and made a series of masks for the cherished, excessive Basle’s Carnival in addition to amazing objects such as the dish-

and lid-shaped buttons to be sewn into heavy black fabric. In 1951, she dressed up like a “pasteurized cow” to manifest against the lack of a Federal law on milk pasteurization and won the first price. On another occasion, she wore pieces of wooden bark pretending to be scraped. These were masks rather than clothes, despite the fact that there was not a clear distinction between the two in Oppenheim’s mind. What about the comfortable coat made by paper strips floating like feathers which Meret wore for a shooting done by Claude Lê Anh? She didn’t mean to appear as an eccentric; she was rather interested in representing herself showing the inevitable changes of body and time. Despite having been a legendary beauty, she didn’t care about hiding her white hair when she got old; on the opposite, she cut her hair and left her wrinkles and aged skin visible. She exhibited her face straightforwardly and with a great style. A friend who met her in Rome in 1982 described her as “fragile, strong and wise… The silvery hair cut short like a man or an Indian”. One of her last piece of jewellery probably dates back to this time: a single earring, an elongated drop of glass filled with green liquid, shaped like an exclamation mark. It went perfect with a comfy pullover and tight trousers. Because what matters in the end is to be true to oneself. - pag 98

INTERVIEW

Ciao Is A Greeting That Celebrates Life. And Italy BY BEATRICE ZAMPONI

When he began to work “portraying people smiling he wasn’t considered glamorous. The model had to have an austere, harsh, dramatic attitude. I liked light, vitality and joy. It took some time before people understood that smiling and laughing were central to my photography; I wanted to take shots that celebrated life, just like the one I chose for the cover of my last book”, says Testino, one of the

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best-known fashion photographers worldwide. His images full of contagious and overwhelming energy illustrated the international jet set and gave the people looking at them the impression to get a glimpse of the intimate lives of celebrities. The Peruvian photographer (he was born in Lima from a family of Italian origins) just released a new book, Ciao (Taschen), highlighting the close relationship with our country through sophisticated portraits, breathtaking landscapes, glimpses of aristocratic mansions, masked balls and Neapolitan streetwise children. On the cover Eva Herzigova appears as if crying out a Ciao, the confidential Italian greeting which has become internationally known, mimicking the gestures of Anna Magnani: is it an intended tribute? My intention was to select a cover image that well represented the

warmth you feel when you arrive in Italy. It is a welcoming, warm, generous country. Your cinema was a great inspiration for me: Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini and Vittorio De Sica. The photo album begins as a fashion shooting but ends as a photopress reportage: I aimed at encapsulating the truth of life. It is a tribute I made spontaneously, a way to thank Italy for what it has given me, beginning with my passport without which I could have not travelled so easily around the world, earned a living and made a career. In what way do you feel Italian? I am originally from Genoa, but instinctively I feel closer to Southern Italy, to my uninhibited attitude. I grew up in a large family with six children, my grandfather talked to us in Italian; I had two uncles with equally large families and we used

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to live all together. The Anglo-Saxon leave home at 18 while for the Latin people family ties remain essential and inescapable: we belong to our community. You are famous for your ability to capture the most intimate and exclusive moments. Where did you do that in Italy? The powerful families involved in the fashion industry allowed me into their private life. The image of Gianni Versace squealing with delight at the end of a show is a very private moment. In the past, the backstage was off-limits and very few people were admitted. My ties with the Missoni family are also very close. When I joined their shows, Margherita used to sit on my lap. I took a photo of her on the day of her wedding while she was getting dressed as a sister could have done. There was a time when I got persuaded that picturing the nude was the way to show the utmost intimacy of people but then I realized that small gestures can be equally intimate. As you can see in the photo picturing Stefano (Gabbana) and Domenico (Dolce), one tying the tie to the other: it illustrates a moment of care and silent attention. Having the opportunity to enter the daily life of people is the real exclusiveness. What is your most breathtaking image of Italian beauty? Naples and its dramatic look. Its contrasts deeply fascinate me and somehow reflect me. I was born and grew up in Peru, a country with strict social rules and clear class boundaries which I tried to get rid of in my later life. I love the freedom, the fluidity and the coexistence of different realms typical of Naples. Is there a place in Italy you would choose as your home? I am thinking of moving to Sicily for part of the year. I told myself that I need to live in Italy if I want to feel truly Italian. In the book introduction you wrote: “Italy is the country where you learn through your senses”. What do you mean? More than everywhere else, in Italy you experience life by living. Having

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lunch, for instance, is not only a matter of eating but also of experiencing your culinary tradition. Italy is a country where you feel at ease, where you join and benefit from this optimism; a place where you live according to an idea of slow time and quality I personally find myself in tune with. Italians were among the first to ask you to do important jobs: in the Nineties you became famous thanks to the photos taken for Gucci and for the long collaboration with Versace: why do you think Italian brands chose you at that time? The vitality that infused my pictures. I have always taken inspiration from real women, while in those years the female image was quite manufactured. When I took the picture of Madonna for Versace, instead of portraying her in a Marilyn Monroe style, with sophisticated outfit and makeup, I decided to go for a genuine image, pure and simple. It was the first time she was pictured that way and that image became an icon. The book includes a picture in which George Clooney ties the bow tie to Giorgio Armani’s dinner jacket, much to Julia Roberts’ amusement. When was it taken? It was in the occasion of a Met Ball in New York. I took pictures of that event for many years: I knew how to deal with celebrities because I personally knew many of them. That shot is a tribute to Armani, his personality and the empire he managed to build. Indeed, it is a way of celebrating Italian excellence. There are also pictures of Sardinian women in traditional costumes. You began taking pictures of traditional clothes in Peru: is it a new project? And why did you choose Sardinia? I set off from a group of pictures taken in Peru starting from the issue that contemporary fashion changes every season while popular costumes never change. I was fascinated by the idea of an unchanging time as a synonym of eternal beauty, so I decided to move on a journey around the world. I arrived in Sardinia thanks to Angela Missoni and I was seduced by the

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majesty of Sardinian women. The book ends with the picture of a girl who cuts the finish line of a marathon open arms. Which is going to be your next shot? My next project is on traditional costumes and is titled A beautiful world. The pandemic period taught us to look within ourselves, to value what represent our memories and our identity. I want to revive the value and dignity of these important traditions: I spent my life taking pictures of important people and now I feel it is the right moment to leave space for unknown people who act as the ultimate keepers of valuable treasures we cannot afford to lose.

PEOPLE

- pag 105

WHO IS CARLA SOZZANI? “I AM A GIRL GROWING UP” BY MICHELE CIAVARELLA

AN EXACT DATE: “I started working in the fashion industry on the 4th November 1968. It was a Monday”. If anyone were concerned about Carla Sozzani’s capacity to keep things under control, there is no room for doubt. This unforgettable date on her mind shows the faithfulness (maniac, control freak or simply scrupulous?) of the life and work, often inevitably interlaced, of this woman who has been one of the most influential international fashion journalists, a muse for designers and artists, an entrepreneur, a director of fashion design studios, a fashion buyer, an exhibition curator (a memorable collaboration was that with Peter Greenway for setting up Watching Water at the Fortuny Palace for the 1993 Venice Biennale), an art dealer


and a cultural entertainer for two Foundations (her own and that of Azzedine Alaïa). She has been directing these eclectic and encyclopedic works from the control room based in the back room of the Sozzani Gallery which has taken up the high floor of N. 10 Corso Como in Milan since 1990. This place is a sort of “Royal Palace” including a gallery, a library, a concept store, café and restaurant, the palace of a Teodora of fashion who has managed to continuously change her identity without denying herself. Who is really Carla Sozzani, how many facets make her and which one does she like the most? I am a girl growing up. I appear as having many different facets simply because I am curious and free. Curiosity and freedom are closely connected and are values that encourage people to explore new opportunities. This is my case. What about your beginning? I was attending Bocconi University during the troubled years of 1968; I wasn’t politically involved but I left university. I went to Sardinia with a friend while my father enjoined me to come back home. I went back but I had nothing to do: my mother was a friend of the editor of Chérie Moda, a group of specialized magazines dealing with all related topics, from knitting to High Fashion. I started working as copy editor, then they assigned me a review on children fashion and sent me to Rome to join the High Fashion shows. This brings you to 1979 and the beginning of your collaboration with Condé Nast Italy… Yes, I took on the directorship of all the Vogue specials (Children, Wedding, Leather and Jewellery), where my sister had been working since 1973 (Franca, who later became the director of Lei in 1980, Per Lui in 1983, Vogue from 1988 to 2016 and publishing director since 1994). We worked together for some time at the separate branch situated in via Ollearo, which was named “Sozzani building” and included offices, cloakrooms and photo labs. In 1986 you left the position

to become Editor At Large at Vogue USA for a year and then were appointed Director of the Italian edition of Elle, a French magazine that the Rizzoli publishing house brought to Italy. Why did you leave Condé Nast? Because I am curious and I thought that opportunity gave me more freedom. By doing so, you gave rise to a landmark change: the large distribution female magazines were forced to deal with the very refined image of your magazine and take into account that fashion had become an information topic. Why did you turn a female magazine into a fashion magazine? I thought it was a wonderful opportunity to combine the experience made at Vogue with that of a wide-circulation newspaper. I wanted to make a newspaper that way. Since the times I worked for Chérie Moda I used to mix paper patterns with the photos by Guy Bourdin. The experience, which was shocking as we all know, did not last long… Three issues and half one but it was an amazing experience. At this point you left the publishing industry to work for Romeo Gigli and contributed to build a new image of an intellectual and conceptual fashion designer. Why did you make this choice? Because this is my life: changing and experimenting. This gave rise to collections that completely renovated fashion such as “Teodora”, featuring glass jewellery from Murano, which earned the utmost success. An aesthetic vision that, after the breach of the creative partnership with Gigli, appeared more evident in your subsequent works rather than his. Why? I am not sure that I did that and I can’t really say that the consequences were those you just mentioned. However, I can certainly say I have no hard feelings about that time. I believe time has shed light on that story. What were the significant moments of fashion that had an impact on your career?

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The fashion shows held at the Sala Bianca inside the Pitti Palace in Florence: they used to last for a week; journalists had a fixed place to sit and designers had 16 outfits to walk down the catwalk. Secondly, Walter Albini who brought fashion to Milan. Yves Saint Laurent helped me open my eyes to many issues, and meeting Rei Kawakubo and his Comme des Garçons was also very important to me. And finally Martin Margiela, who made the last fashion revolution (the Belgian designer made his debut with his own line in 1988). Would you consider running a project to make the fashion system more consistent with our times? I don’t think the system should be questioned because it holds a cultural and social value. However, it has a huge downside: it prevents the expression of authenticity thus making it impossible to spot a new genius. Yet there is a strong need for promoting cleverness and originality today. What went wrong? One of the main problems comes from the demand offer system: all the big companies send their products to their shops at will. In the presently global market, this situation does not help creativity nor the market itself. You are the most knowledgeable and best-connected figure within the Italian fashion world. Why don’t you hold a seat of power? I don’t know. You tell me why…In case I would only be interested in being in charge of the Fashion Museum in Milan. I would like to organize it as an Academy combining learning and exhibitions. How much does Italian fashion feel the lack of a person like Franca Sozzani? I can’t say. All I can say is that I miss my sister a great deal. What is the next Carla going to do? I am going to invest more time into the Azzedine Alaïa Foundation. However, having used my eyes and mind to do what I have done so far, sometimes I feel as if I achieved nothing in life. I used my hands only to design books. I would like to use them more.

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STYLE July-August 2020

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