STYLE MAGAZINE_SEPTEMBER ISSUE

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STYLE.CORRIERE.IT NUMERO 7/8 - LUGLIO/AGOSTO 2022

Il mensile del

All you need is fashion

Tendenze moda autunno-inverno

ABITI: LOUIS VUITTON

N° 7/8 luglio/agosto – Poste Italiane SpA – Sped. in a.p. – D.L. 353/03 conv. in L. 46/04, art. 1, comma 1, DCB Milano – Il 27 luglio con il Corriere della Sera 2 € (Style Magazine 0,50 € + Corriere della Sera 1,50 €). Non vendibile separatamente.









MODA

12 Contributors 15 Editoriale - La risposta non ce l’ho

56 Menstyle. New York. New faces

di Alessandro Calascibetta

di Luca Roscini - foto di Albert Watson

17 Artwork - Identità femminili di Alessandro Brunelli

19 Tech design - Protezione sartoriale di Luca Roscini - foto di Michele Gastl

Accessori dagli spunti british.

pag 108

ARGOMENTI

66 Fashion system. Vizi, virtù e normalità di Michele Ciavarella

FOTOGRAFIA

Qui mondo

72 Ron Galella. Un obbiettivo puntato sullo showbiz

20 Francia. Shopping Couture di Michele Ciavarella

Lifestyle

di Attilio Palmieri - foto di Ron Galella

di Fiorenza Bariatti 24 Francia. Il Café Alaïa

82 Menstyle. Formale grintoso

23 Capri. Un fiorire di Paisley all’Hotel Punta Tragara

MODA

di Giovanni de Ruvo - foto di Giorgio Codazzi

negli spazi dove nacque la sua moda di Michele Ciavarella

PERSONAGGI

92 Anna Wintour. Un mistero di nome Anna

CHECK

27 Tv. Qualcuno può rispondere?

di Diego Passoni

28 Libro. Un’analisi lucida fatta con amore di Michele Ciavarella

30 Photobook. Roller disco dance

Biografia non autorizzata della storica direttrice di Vogue.

pag 92

di Susanna Legrenzi di Enrico Rossi

di Fiorenza Bariatti

108 Menstyle. Tradizione contemporanea

di Luca Roscini

di Carlo Ortenzi - foto di Marco Gazza

36 Cinema. La donna dietro la rivoluzione di Valentina Ravizza

VISIONI

38 Musica. Vivaldi e il mix di Max

116 Surrealismo. La moda in forma d’arte

di Pier Andrea Canei

di Michele Ciavarella

REPORT

MODA

41 Autunno-inverno 2022-2023

di Valentina Ravizza

di Cristiano Seganfreddo - foto di Matthias Vriens

106 Style selection. Il «sapore» del Borgo

34 Mostra. Back to black

54 Style selection. Una Jeep tutta europea

COSTUME

98 Identità e comunità. In nome del logo

MODA

32 Podcast. Disastro fast fashion

a cura di Fiorenza Bariatti, Giovanni de Ruvo e Luca Roscini

di Michele Ciavarella

Basico, sobrio e primario.

pag 122

122 Menstyle. Essenzialmente

di Luca Roscini - foto di Letizia Ragno

DESIGN

132 Piero Fornasetti. L’acrobata della composizione di Susanna Legrenzi

CONTRIBUTI

136 Olivia Spinelli. Il cambiamento che non c’è stato di Alessandro Calascibetta

140 Il ruolo della moda

sommario

di Alessia Marcon

L’ULTIMA PAGINA

luglio/agosto 2022

142 di Jordan Bowen e Luca Marchetto

S T Y L E M AG A Z I N E

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Il mensile del

anno 18 n. 7/8 luglio/agosto - 27 luglio 2022

DIRETTORE RESPONSABILE

STYLE È PUBBLICATO DA RCS MEDIAGROUP S.P.A.

Alessandro Calascibetta ART DIRECTOR

FASHION DIRECTOR

Tiziano Grandi

Luca Roscini

PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO

Urbano Cairo

CONSIGLIERI:

CAPOREDATTORE

Fiorenza Bariatti

Michele Ciavarella

REDAZIONE

Pier Andrea Canei (vice caposervizio) Valentina Ravizza REDAZIONE WEB ABITI: Louis Vuitton

FOTO: Albert Watson

STYLING: Luca Roscini

Antonella Catena (caposervizio) coordinamento Cristina Pacei (vice caporedattore ad personam) lifestyle Angelica Pianarosa (collaboratrice) moda REDAZIONE GRAFICA

Laura Braggio, Giorgio Fadda Renzo Poli (vice caposervizio) PHOTO EDITOR

Chiara Righi FASHION EDITOR

Carlo Ortenzi (collaboratore) servizi speciali Giovanni de Ruvo (collaboratore) PRODUZIONI ATTUALITÀ E COORDINAMENTO MODA

Silvia Giudici

BEAUTY

Gioele Panedda (collaboratore)

cairo rcs medi a s. p. a .

Rosy Settanni

Sede operativa via Angelo Rizzoli 8 20132 Milano tel. 02-25841 fax 02-25846848 Vendite Estero 02.2584 6354/6951

UFFICIO DI PARIGI

Annalisa Gali PROGETTO GRAFICO

DISTRIBUZIONE IN ITALIA M-DIS Via Cazzaniga 1, 20132 Milano tel. 02 2582.1

Tiziano Grandi

Nicoletta Porta Chiara Pugliese COORDINAMENTO TECNICO: Emanuele Marini CENTRO SERVIZI FOTOGRAFICI E GUARDAROBA: Eleonora Caglio ADVERTISING MANAGER: BRAND MANAGER:

Luciano Fontana VICEDIRETTORE VICARIO

Barbara Stefanelli VICEDIRETTORI

Daniele Manca, Venanzio Postiglione, Fiorenza Sarzanini, Giampaolo Tucci

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HANNO INOLTRE COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Silvano Belloni (grafico), Giorgio Codazzi, Marco Gazza, Susanna Legrenzi, Alessia Marcon, Attilio Palmieri, Letizia Ragno, Cristiano Seganfreddo, Matthias Vriens, Albert Watson questo numero è stato chiuso in redazione martedì

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Alessandro Bompieri

– Sede sociale: via Angelo Rizzoli 8 20132 Milano – Redazione: via Angelo Rizzoli 8, 20132 Milano, tel. 02 2584.1, fax 02 25846810 – Stampa: ELCOGRAF S.p.A via Mondadori 15, 37131 Verona – Registrazione Tribunale di Milano n. 31 del 18/01/2005 – © 2014 RCS MediaGroup S.p.A. – Testi e foto © RCS MediaGroup S.p.A. possono essere ceduti a uso editoriale e commerciale. –Syndication – Press Service: www.syndication.rcs.it, press@rcs.it Responsabile del trattamento dei dati personali (D. Lgs. 196/2003): Alessandro Calascibetta.

CONCESSIONARIA PUBBLICITÀ

SEGRETERIA DI REDAZIONE E CASTING

DIRETTORE RESPONSABILE

DIRETTORE GENERALE NEWS:

INTERNATIONAL EDITIONS Maria Francesca Sereni, tel. +39 02 25844202 (mariafrancesca.sereni@rcs.it) Content Syndication: press@rcs.it Web: www.syndication.rcs.it

PRODUZIONI MODA

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MENSILE DISTRIBUITO CON IL

Federica Calmi, Carlo Cimbri, Benedetta Corazza, Alessandra Dalmonte, Diego Della Valle, Uberto Fornara, Veronica Gava, Stefania Petruccioli, Marco Pompignoli, Stefano Simontacchi, Marco Tronchetti Provera

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agosto

2022

ABBONAMENTI Per informazioni telefonare allo 02 63798520 (lun-ven, 7,00-18.30; sab-dom, 7,00-15,00). Poste Italiane S.p.A. – Sped. in a.p.–D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art.1, comma 1, DBC Milano. ARRETRATI Rivolgersi al proprio edicolante, oppure ad arretrati@rcs.it o al numero 02 25843604 comunicando via e-mail l’indirizzo e il numero richiesto. Il pagamento della copia, pari al doppio del prezzo di copertina deve essere effettuato su Iban IT 97 B 03069 09537 000015700117 BANCA INTESA - MILANO intestato a RCS MEDIAGROUP SPA.



CONTRIBUTORS Giorgio Codazzi Classe 1986, nasce in Brasile per poi trasferirsi in Italia ancora bambino. Inizia gli studi di moda a Milano e durante un corso sviluppa la passione per la fotografia che, pochi anni dopo, diventerà la sua professione. I suoi maestri sono Richard Avedon e Irvin Penn, soprattutto negli scatti di ritratti con luce naturale in studio. pag 82

Marco Gazza Fotografo specializzato in still life di accessori, vive e lavora a Milano. Collabora con marchi internazionali. Padre di tre figli – Sofia, Viola e Lucio Filippo – nel tempo libero si diletta disegnando, dipingendo e creando sculture astratte, frutto di una passione per l’arte e per i musei. pag 108

Cristiano Seganfreddo Innovatore e creativo, è stato docente di Estetica in Design della Moda al Politecnico di Milano e direttore Scientifico di Corriere Innovazione del Corriere della Sera. Presidente di 2031, il premio italiano per l’innovazione, ed editore di Flash Art, collabora come strategic advisor per l’Ethical Fashion Initiative delle Nazioni Unite. pag 98

Attilio Palmieri Attilio Palmieri (Napoli, 1987) è Dottore di Ricerca in film and media studies e si occupa di serialità televisiva in ambito accademico e critico. Appassionato di linguaggi digitali e social media, parla di cultura, sport, politica e attualità sulla carta, sul web, via podcast e su Instagram. pag 72

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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EDITORIALE

di Alessandro Calascibetta

La risposta non ce l’ho FORSE È TROPPO PRESTO per lo shopping dell’autunno/inverno? Per qualcuno no. E per nessuno è troppo presto farsi un’idea su cosa va di moda. Oddio l’ho scritta, nero su bianco, quella frase che detesto; soprattutto quando è posta sotto forma di domanda. E soprattutto se la domanda è rivolta a me! Se c’è ancora qualcuno che me lo chiede? No. E volete sapere come mai? Perché hanno capito che se già non sapevo rispondere ieri, figuriamoci oggi. Nella totale, onirica, spiazzante anarchia creativa attuale, manca quella chiarezza modello anni Novanta e primissimi Duemila, ossia, giusto per fare qualche esempio: grunge/animalier (Roberto Cavalli, Dolce&Gabbana); minimal-figo (Prada, Dior Homme by Slimane); pelle/rock (Costume National Homme, Versace); classico-romantico (Romeo Gigli, Paul Smith). Com’era tutto più semplice, no? Ma c’è un però: far parte di un gruppo che somigliava più a un clan che a una comunità, azzerava le differenze e, inoltre, l’individuo che non esibiva alcun segno di appartenenza si autoescludeva da una compagine sociale - è il caso di dirlo - preconfezionata. Oggi le prospettive tracciate dai fashion designer influiscono sulle nostre scelte a tale punto, in tale misura, che ognuno sceglie quello che lo rappresenta. Ciascuno di noi sceglie di essere ciò che vuole. Ciascuno di noi può, finalmente, essere chi vuole essere. Ma torniamo a quella imbarazzante, fastidiosa domanda di cui sopra: alla fine qualcosa rispondevo. Balbettavo, cercando tra i file della memoria, le uscite sui catwalk appena visti: «Torna il nero, anche nella pelle; e le lane grosse. Ah, c’è perfino il laminato» — «Il laminato? Per l’uomo? Ma davvero?» — «Sì, però ci sono anche tanto classico e accessori country!» (l’ultima era un cavallo di battaglia: serviva per rassicurare l’interlocutore, tanto il formale e l’outdoor english style ci sono sempre).

FOTO: LEONARDO BECHINI

Ebbene sì: mio malgrado ho risposto ancora. Perché se siete arrivati fin qui, e soprattutto se avete già sfogliato i servizi fotografici di questo numero, avrete compreso che quello che ho appena scritto è quello che «va di moda» oggi. Ma non chiedetemelo più. (alessandro.calascibetta@rcs.it) (Instagram @alecalascibetta)

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ARTWORK

di Alessandro Brunelli

© THANDIWE MURIU

CAMO36, 2022, di Thandiwe Muriu (Nairobi, 1990) Fotografia, 150x100 cm. Edizione di tre.

IDENTITÀ FEMMINILI

Colori ricchi e vivaci s’intrecciano con uno sguardo che racconta la complessità di un contesto in cui si trovano a vivere in Kenya giovani donne in cerca di futuro. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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DENIM MEETS SARTORIAL available at


TECH DESIGN

Protezione sartoriale Il settore dei caschi si adegua alla nuova mobilità urbana. E alla sua estetica. DI LUCA ROSCINI - FOTO DI MICHELE GASTL

MENTRE SI DISCUTE ancora in Parlamento sull’obbligatorietà del casco per i monopattini da città (alcuni comuni lo hanno già reso necessario per l’utilizzo di questo mezzo di spostamento) molte aziende del made in Italy, e non solo, si sono portate avanti creando caschi tanto utili quanto dall’aspetto ricercato. Tra queste Kep Italia, brand specializzato nella produzione di caschi da equitazione: da qui alla protezione applicabile ai mezzi di

trasporto urbani il passo è stato breve. Il risultato si chiama Cromo 2.0, mix di innovazione, tecnologia e design. Può essere personalizzato scegliendo tra più di 12 mila combinazioni, su richiesta o attraverso il configuratore online. Le sue omologazioni sia per e-bike, monopattino elettrico, skateboard e pattini a rotelle, permettono finalmente di sincronizzare estetica, funzionalità e, ovviamente, sicurezza. (•Prezzo: da 910 euro • kepitalia.com) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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QUI MONDO

Francia

Shopping Couture

Sembra una contraddizione in termini: un negozio per vendere i vestiti della Haute Couture. Eppure, grazie al vocabolario rinnovato della moda che sta scrivendo Demna, è successo: BALENCIAGA ha aperto una boutique made to measure al piano terra di quell’atelier in cui, dal 1937 al 1968, ha lavorato Cristóbal Balenciaga. (m.c.)

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FOTO: ANNIK WETTER

UN MIX DI ELEMENTI DECORATIVI TRA PASSATO E MECCANICA MODERNA

Il Couture Store è stato ripensato dallo stesso direttore creativo di Balenciaga, Demna, che ha voluto alle pareti lastre di vetro montate su strutture metalliche impercettibili. Oltre agli abiti, sono in vendita anche gli accessori e le candele. Anch’essi Couture, naturalmente. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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QUI MONDO LIFESTYLE

Hotel Punta Tragara a Capri: terrazza (a destra) e suite (sopra) usano tessuti del brand milanese. Sotto: Elsa Hosk, modella, ospite dell’experience Etro.

Capri

L’ISOLA È MONDANA E IL DRESS CODE DELL’HOTEL PUNTA TRAGARA È TUTTO UN FIORIRE DI PAISLEY DI FIORENZA BARIATTI

L’ARCHITETTURA È UN RIFUGIO dove «mettere al riparo corpo, cuore e pensiero». Così diceva Le Corbusier alle cui mani, unite a quelle di Emilio Enrico Vismara, si deve la villa a picco sul mare di Capri costruita negli anni Venti proprio per l’ingegnere lombardo. Una cinquantina di anni dopo Punta Tragara si trasforma in albergo (durante la Seconda guerra mondiale fu sede distaccata del comando americano e ospitò Dwight Eisenhower e Winston Churchill) via via fino a diventare l’esclusivo cinque stelle che è adesso. Feste esclusive, mondanità, personaggi del cinema e della cultura vanno e vengono tra i cocktail bar, i ristoranti e le terrazze; l’hotel è ancora quella villa che emerge come la «fioritura architettonica» descritta dall’architetto francese, e a sottolinearla è stato chiamato Etro che ha portato il Paisley, il celebre motivo simbolo del brand, sui tessuti usati per rivestire suite e terrazza. E i faraglioni sono lì, a guardare. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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QUI MONDO LIFESTYLE

Il cortile coperto del Café Alaïa; sopra la libreria; sotto un ritratto dello stilista franco-tunisino scomparso il 18 novembre 2017.

Francia

TAVOLI DI MANGIAROTTI E SEDIE DI BERTOIA PER IL CAFÉ ALAÏA. NEGLI SPAZI DOVE NACQUE LA SUA MODA NEL SETTEMBRE 2013 L’INSEGNA mitica di Azzedine Alaïa uscì dal confine Marais, dov’era nata, e si replicò anche nella parte più istituzionale della capitale francese, in un ristorante al 5 di Rue de Marignan. Alaïa e Carla Sozzani lo arredarono con i tavoli in marmo di Angelo Mangiarotti, che lo stilista aveva scoperto nella mostra alla Fondazione Sozzani, e le sedie di Harry Bertoia. Ora lo stesso arredo, con l’aggiunta delle lampade di Le Corbusier e la scultura Le seins di César, caratterizza gli ambienti (interni e cortile adiacenti alla già esistente libreria) del Café Alaïa aperto negli spazi della Fondation al 18 di rue de le Verrerie, il luogo dove tutto è nato. Qui è possibile fare anche il lunch e la cena che recuperano lo spirito informali di quelli famosi che il rimpianto stilista organizzava nella sua cucina, quasi sempre all’improvviso e con gli amici. Un posto in cui la moda convive con le altre espressioni creative in un gioioso lifestyle. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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FOTO: GILLES BENSIMON; SYLVIE DELPECH

DI MICHELE CIAVARELLA


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CHECK TV

ritratto della società british tra gli anni venti e trenta

Frankie (Lucy Boynton) e Bobby (Will Poultier), amici d’infanzia appena ritrovati dopo dieci anni, intraprendono un viaggio in Inghilterra per indagare su una strana morte. Su Sky e, in streaming, su Now.

Qualcuno può rispondere? «PERCHÉ NON L’HANNO CHIESTO AD EVANS?». ANCHE QUESTA STORIA DELLA PROLIFICA AGATHA CHRISTIE DIVENTA UNA SERIE ISTRUTTIVA.

© MAMMOTH SCREEN LTD

SI TRATTA di una sceneggiatura che

ha attinto a piene mani da un romanzo della amatissima Agatha Christie. Voluta, diretta e interpretata da Hugh Laurie (il mitico Dr. House) con un cast di altissimo livello tra cui Will Poulter ed Emma Thompson, la miniserie (su Sky e Now) segue la trama originale. Come nel romanzo, pubblicato dalla regina del genere crime nel 1934, tutto ha inizio con la frase pronunciata da uno sconosciuto prima di morire, le stesse parole che danno il titolo alla serie, ossia Perché non l’hanno chiesto a Evans?. Bobby, appena congedato dalla Royal Navy, s’imbatte in quest’uomo in fin di vita, gli sente pronunciare la frase e trova nella tasca dei suoi pantaloni la foto di una fanciulla di cui non conosce l’identità. Chi è lei? E chi è questo Evans? Assieme all’amica d’infanzia appena ritrovata, Frankie, Bobby decide di iniziare un’indagine per trovare l’assassino. Il quale, a sua volta, è già sulle loro tracce. Non anticipo nulla anche se, trattandosi di un romanzo bestseller (in Italia uscito

anche con il titolo Ritratto di ignota) non vale la regola del no spoiler. Di sicuro la trama ben ritmata e i bei dialoghi sono un pretesto per godersi una pièce recitata benissimo e in vero british (mettete i sottotitoli e sentite come suona bene l’inglese!) e soprattutto un valido motivo per tuffarsi in una ricostruzione di quella società, a cavallo tra i Venti e i Trenta, di quelle dimore padronali ricche di orpelli e arredi irresistibili, e di quel modo di vestire, in tutte le sue declinazioni, dal campestre all’urbano. UNA CONFERMA di come le produzioni inglesi abbiano trovato il modo di raccontarsi facendo una vera ricerca che ricostruisca nei dettagli i costumi di un tempo, che significa modi di vestire, certo, ma anche di parlare, camminare, sedere o stare in piedi, e soprattutto di un’idea di bello, giusto, lecito ed elegante, che si aveva in quel tempo, quando era quel luogo a essere il più rilevante. O come si dice oggi, influente.

DI DIEGO PASSONI

Le altre serie in uscita Signora Volpe

su Sky Il matrimonio in Umbria della nipote, finito con un delitto, è la ragione per cui Sylvia Fox, ex agente segreto inglese (l’attrice Emilia Fox) si mette a indagare, tra borghi antichi e vigneti. Giallo bucolico.

In nome del cielo

dal 27 luglio su Disney+ Una giovane madre viene trovata morta con la sua bambina in una devota comunità di mormoni, con molte tradizioni e altrettanti segreti. Da una storia tragicamente vera.

Surface

dal 29 luglio su Apple Tv+ Una donna ha perso la memoria, forse dopo un tentativo di suicidio. Thriller psicologico dove ci si dimentica anche dei propri segreti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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CHECK LIBRO

una mappa aperta sui percorsi possibili dell’evoluzione del sistema moda

Un’analisi lucida fatta con amore UNA SECONDA STESURA CHE CORRISPONDE A UN LAVORO DI VERIFICA SULLE TESI DELLA PRIMA EDIZIONE USCITA NEL 2015. DI MICHELE CIAVARELLA

È STATO SCRITTO DUE VOLTE in sette anni

analizza la natura trasversale della moda, l’impossibilità che un giorno il suo ruolo sociale ed estetico finisca, le problematiche che sollevano l’archivio e l’heritage dei marchi storici, il pericolo che una sua narrazione univoca provochi troppi stereotipi dei quali, invece, vorrebbe liberarsi. UN LIBRO CHE PROCEDE attraverso casi

concreti e ragionamenti teorici ma che ha un grandissimo sottotesto: è una lunga lettera d’amore che l’autrice scrive alla moda, troppe volte trattata male e con sufficienza proprio da chi, invece, la fa e la racconta e, quindi, dovrebbe preservarla dall’usura del significato: Frisa non ci sta al gioco riduttivo molto in voga nel regno del marketing e ne vanta un ruolo che è simile all’arte proprio perché ha quella capacità creativa che sconfina in molte discipline. Ed è per questo che la moda non può finire in quell’ambito in cui l’ha rinchiusa la definizione di «oggetto di lusso». Le forme della moda. Cultura, industria, mercato, comunicazione di Maria Luisa Frisa (il Mulino) è un’analisi sul significato di un sistema industriale che interroga la contemporaneità e richiede risposte dalla nostra cultura. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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FOTO: GLEN LUCHFORD

perché, si sa, Le forme della moda cambiano molto in fretta. Prima edizione nel 2015, seconda stesura nel 2022, sempre edito da il Mulino nella collana Farsi un’idea, il titolo del libro di Maria Luisa Frisa si riferisce alle tante possibili facce del sistema moda: la cultura, l’industria, il mercato e la comunicazione. Ora ritorna in libreria essenzialmente come punto di atterraggio della riflessione che l’autrice inizia a fare quando, nel 2020, cura la mostra Memos. A proposito della moda in questo millennio al Poldi Pezzoli di Milano. «Questo nuovo libro è una mappa aperta di percorsi possibili, forse i più evidenti rispetto a quella articolata complessità che sono appunto le forme della moda. Un lavoro di verifica, rispetto all’edizione precedente, che mi ha ancora una volta confermato come la moda sia soprattutto una disciplina che affronta la contemporaneità, la interroga e la definisce senza chiuderla. E, nel farlo, parla di noi, del nostro stare nel tempo» dice l’autrice. In otto capitoli (tra i quali, La moda e il tempo, Geografie della moda, Moda tra formazione e mondo del lavoro, Moda come sistema culturale) Frisa


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CHECK PHOTOBOOK

l’empire a brooklyn: la discoteca sulle rotelle è partita da qui

Roller disco dance IL DJ SOSTITUISCE L’ORGANISTA, LE LUCI DIVENTANO PARTE DELLO SHOW: BALLARE SUI PATTINI È UNA FESTA. DI SUSANNA LEGRENZI

ERA IL 1941 quando a New York apriva l’Empire Rollerdrome, la più celebre pista di pattinaggio su rotelle di tutti tempi, nata dalla trasformazione di un garage ripavimentato con un legno di acero «miracoloso». Vent’anni più tardi, uno dei pattinatori più famosi degli Usa, Bill Butler, ci scivolava in tuta argentea, mano nella mano, con una giovane Cher. Mentre nei Settanta, sempre l’Empire era la prima pista a sostituire l’organista, a cui fino ad allora era affidata la «colonna sonora», con un dj, dando il via a una storia epica capace di mettere insieme una comunità trasversale che ha trovato comunione nella felicità condivisa di infiniti giri su pista. Fino a quella notte di aprile del 2007, quando, dopo l’ultimo skate di gruppo, il dj Big Bob ha spento lo stereo e le luci per sempre. ORA CHE L’EMPIRE ROLLER DISCO è solo un ricordo − al suo posto è sorto un gigantesco self-storage − a raccontare quella pagina leggendaria è il libro Empire Roller Disco con gli scatti di Patrick D. Pagnano. Una raccolta mai pubblicata prima perché le immagini di «Pat», uno dei fotografi di strada più versatili, erano scomparse nel suo vasto archivio. Il progetto di Pagnano è nato una fredda notte d’inverno del 1980, quando, con

In pista. Scrive il fotografo «Pat» Patrick D. Pagnano: «L’entusiasmo e il senso di abbandono dei pattinatori sono stati la mia fonte di ispirazione».

Empire Roller Disco foto di Patrick D. Pagnano Anthology Editions 132 pagine 118 immagini in bianco e nero 28 euro

la sua Leica M3, si recò a Crown Heights trasformando l’Empire in un palcoscenico e i pattinatori in star. «Non ho mai pensato a me come a un artista» ha scritto. «Mi sento come un cittadino del mondo che dovrebbe comportarsi in modo responsabile e non isolarsi dalla realtà: attraverso la fotografia è proprio quello che faccio. Il successo della serie è stato possibile grazie all’esperienza maturata in molti anni di riprese in strada, che mi ha insegnato a catturare momenti importanti in modo intuitivo e rapido». A New York si pattina ancora. Ma quell’aurea magica e ribelle di questo microcosmo in una Brooklyn in profonda trasformazione è irripetibile. Non a caso ha ipnotizzato lo sguardo di «Pat». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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CHECK PODCAST

«solo moda sostenibile», ovvero riuso e riciclo

Disastro fast fashion VENTISEI CHILI DI PRODOTTI TESSILI: TANTO PESA OGNI ANNO IL VESTIRE DI CIASCUN EUROPEO. E LA METÀ FINISCE IN DISCARICA. DI ENRICO ROSSI

Silvia Gambi, giornalista, autrice del podcast Solo Moda Sostenibile, oggi anche magazine online, newsletter settimanale e piattaforma di contenuti di settore. Suo il documentario Stracci sul riciclo tessile a Prato.

di riciclo virtuoso, da tessuto a tessuto, richiede manodopera specializzata per un’attenta selezione. Spesso gli abiti non sono progettati per essere riciclati, perciò si parla di ecodesign». Le fibre, sempre più sintetiche, rappresentano il problema. «Il mix di materiali in un capo, il numero dei componenti, anche il filo o le colle con cui sono assemblati, sono ostacoli che rendono economicamente poco interessante il riciclo delle fibre» fa notare Gambi. A PRATO, però, la conoscenza ultracentenaria della lana ha permesso la produzione di milioni di metri di tessuto generando una ricchezza basata sull’economia circolare: «L’unico modo di produrre possibile, al quale dobbiamo adeguarci in fretta. La Commissione Europea sta mettendo a disposizione tante risorse per supportare questa transizione, perché non si può più immettere un prodotto sul mercato senza averlo progettato pensando al suo fine vita». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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GETTY IMAGES

DISCUTERE DI MODA significa considerare tutti gli aspetti che coinvolgono le materie prime impiegate nella filiera produttiva e la loro sostenibilità. La cultura tessile pone l’accento sul consumo di risorse naturali necessarie e sull’impatto ambientale che i nuovi capi di abbigliamento portano una volta messi sul mercato. Il podcast Solo Moda Sostenibile, ideato da Silvia Gambi, è un punto di riferimento per comprendere l’efficacia del riuso e del riciclo, ovvero le basi dell’economia circolare. «Nella moda c’è gran fermento. Ripensare la produzione in ottica di sostenibilità è diventata una sfida stimolante e sviluppa la ricerca». La consapevolezza dei consumatori è un obiettivo essenziale, perché gli «scarti» del fast fashion hanno portato a conseguenze disastrose. Ogni anno, in media, un cittadino europeo utilizza 26 chili di prodotti tessili e quasi la metà di questi vengono inceneriti in discarica. Il recupero degli abiti diventa una soluzione da cui partire, ma è un percorso pieno di problemi. «Un processo



CHECK MOSTRA

«la moda è barometro per misurare privilegi, potere, classe e libertà»

Back to black (fashion) ARCHETIPI DA SUPERARE E AVANGUARDIE DA APPLAUDIRE. IL FUTURO DELLA FOTOGRAFIA DI MODA RIPARTE DA QUI. DI LUCA ROSCINI

«TRASMETTERE LA BELLEZZA nera

è un atto di giustizia». Da questa affermazione nasce una riflessione importante, contemporanea e dolente, messa in atto da un gruppo di artisti accomunati dall’urgenza della comunicazione sulla realtà black applicata al mondo della moda e ai suoi mezzi di comunicazione. The New Black Vanguard, questo è il nome del movimento artistico, è un nuovo gruppo artistico globale di fotografi che scartano modelli di rappresentazione consolidati e celebrano la creatività nera come nuova frontiera d’indagine estetica. Il museo Fotografiska di Stoccolma, uno spazio interamente dedicato alla fotografia nato nella capitale svedese e poi approdato anche a New York, Miami, Berlino, Shanghai e Tallin, fino al 2 ottobre, espone una retrospettiva intensa e sorpendente in cui le immagini di questa nuova avanguardia appaiono forti testimonianze di una mutazione estetica in corso. La mostra, The New Black Vanguard: Photography between Art and

Sopra, la modella sudsudanese Adut Akech in uno scatto della fotografa Campbell Addy. Sotto, una fotografia scattata a Johannesburg dall’artista sudafricana Jamal Nxedlana nel 2019. In mostra fino al 2 ottobre.

Fashion, è curata da Antwaun Sergent (curatrice anche del libro edito da aperture) e presenta artisti come Campbell Addy, Dana Scrugs, Tyler Mitchell e Awol Erikzu; nomi di eccellenza ma sconosciuti ai più. L’OBIETTIVO È UNICO: scartare i vecchi

modi di rappresentare il corpo nero nel mondo della fotografia e della moda. «In ogni progetto e in tutto ciò che provo a fare c’è la volontà di educare lo spettatore. Non necessariamente educando solo lo spettatore nero o quello bianco, ma le persone in generale» afferma Campbell Addy. «La moda è sempre stata un barometro per misurare privilegi, potere, classe e libertà. Giocare con la moda è giocare con la propria rappresentazione nel mondo» continua la fotografa. I risultati di questo movimento, spesso creati in collaborazione con designer neri, sono una schietta stoccata allo status quo estetico epresentano nuovi orizzonti della fotografia come mezzo di indagine su arte, bellezza, moda, genere e potere. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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CHECK CINEMA

«gli abiti sono un’affermazione di chi siamo, o di chi vogliamo essere»

La donna dietro la rivoluzione LA VITA, LA FILOSOFIA E LA RIBELLIONE DI MARY QUANT NEL PRIMO DOCUFILM

«COCO CHANEL mi odiava… E posso capire

perché!». Inizia con questa citazione di Dame Mary Quant il primo docufilm dedicato alla vita dell’icona della moda e dello stile, troppo spesso ingiustamente etichettata «solo» come l’inventrice della minigonna. Finalmente Quant, diretto dalla regista inglese Sadie Frost e presentato in anteprima italiana al Festival Cinema d’iDEA – International Women’s Film Festival, dà il giusto risalto a una delle figure che più hanno influenzato non solo lo stile ma anche la cultura degli Swinging Sixties, grazie a una rivoluzione stilistica che ha sfidato le convenzioni con abiti irriverenti che andavano proprio nella direzione opposta del comandamento di madamoiselle Chanel secondo cui «La semplicità è la nota fondamentale di ogni vera eleganza». Per l’oggi 92enne Mary Quant invece «l’abito da donna è quello che ti fa notare, con cui ti senti sexy». Come tutti gli innovatori, la stilista ha saputo anticipare i tempi, quasi leggendo nel subconscio delle «real life people» degli anni

La modella e attrice Camilla Rutherford interpreta la fashion designer Mary Quant in alcune scene del docufilm Quant di Sadie Frost (foto sopra), uscito in Uk nel 2021.

Sessanta e Settanta, che, come lei stessa, non volevano sentirsi delle duchesse ma ballare la musica dei Beatles e poter correre per prendere l’autobus, cogliendo un’insoddisfazione che non erano ancora capaci di esprimere. Parola di altre icone ed esperti di moda come Kate Moss, Vivienne Westwood ed Edward Enninful, direttoredi Vogue UK ed editoriale europeo, ù le cui interviste, intervallate da fotografie ù in bianco e nero, ricostruzioni e filmati d’epoca, fanno luce su una figura poco realmente conosciuta oltre l’immaginario pop. Si scoprono così la formazione di Quant alla scuola d’arte, i suoi inizi come modista in una boutique di cappelli per le lady dell’alta società britannica («mi colpì quanto irrealistico, obsoleto e assurdo fosse il fatto che una persona potesse lavorare cinque giorni per fare un accessorio per una sola donna» racconta Quant), l’amore per l’aristocratico bohèmien Alexander Plunket Greene che, sin dall’apertura della prima boutique, Bazaar, nel 1955, fu l’uomo dietro la grande donna. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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FOTO: CHRIS LOPEZ

SULLA STILISTA CHE NON HA SOLO INVENTATO LA MINIGONNA. DI VALENTINA RAVIZZA



CHECK MUSICA

dal barocco veneziano alle sfilate parigine: elettronica e otto arpe

Vivaldi e il mix di Max RICHTER, COMPOSITORE CONTEMPORANEO, RIPRENDE UN FRAMMENTO DELLE «QUATTRO STAGIONI» PER IL MONDO FASHION. DI PIER ANDREA CANEI

musicale più acclamata, ma l’originale è del 1720: la Primavera di Antonio Vivaldi riadattata per la SS 2023 Men di Dior. Dietro al nuovo cimento, commissionato dal 42enne stilista britannico Kim Jones, c’è Max Richter, l’acclamato 56enne compositore britannico (nato in Germania). Il quale già nel 2012, «ripensò» le Quattro Stagioni del maestro del barocco veneziano, con l’album Recomposed pubblicato con la Deutsche Grammophon, mitologica etichetta classica: a suo dire per riscattare la sublime musica dalle versioni pop che infestano ascensori e centralini telefonici per restituirle spessore e freschezza. A INIZIO GIUGNO, Richter ha ricalibrato la sua reinvenzione con The new four seasons, album che mette insieme deep electronica e sottigliezze strumentali antiche in una successione di frammenti melodici rielaborati insieme alla britannica Chineke Orchestra e alla violinista statunitense Elena Urioste. Spring 1 (Levitation Mix), il singolo

basato sul remix creato ad hoc per la sfilata, riprende l’apertura della Primavera, spinge sui bassi e sull’elettronica e sostituisce gli archi vivaldiani con una cascata di otto arpe, sincronizzate sull’andante brioso del gran finale da sfilata. In proposito Richter dichiara che «le arpe accentuano quel suono angelico, elevato, che può essere allo stesso tempo una cosa assai seria e infondere una magnifica sensazione di leggerezza». Con Jones, aggiunge Richter, «abbiamo tanti interessi in comune e ci divertiamo sempre a collaborare» (in precedenza, tra l’altro, alle musiche per due diverse stagioni di Fendi). Il designer replica: «Questa musica evoca con estrema efficacia l’amore di Christian Dior per la vita in campagna e i giardini, filo conduttore di questa collezione, e si sposa ai colori ispirati da Duncan Grant, pittore inglese al centro del gruppo di Bloomsbury», storico cenacolo intellettuale londinese che rappresenta una grande passione comune. Insomma, tra fashion e Grammophon si vola alto; e questo remix di Max non stonerebbe neanche nei migliori ascensori di Shanghai. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il compositore britannico Max Richter e la cover di Spring 1 (Levitation Mix), tra elettronica e classica.

FOTO: WOLFGANG BORRS

ALLE SFILATE PARIGINE è stata la novità



Giannis Antetokounmpo

BREITLING BOUTIQUE CORSO MATTEOTTI 3

MILANO

OPENING SOON


REPORT

AUTUNNO-INVERNO 2022:

A CURA DI FIORENZA BARIATTI, GIOVANNI DE RUVO, LUCA ROSCINI

GRAFICHE GEOMETRICHE Dedicata a uno degli animali tra i più amati, il panda bianco e nero, la capsule si compra in autunno e si usa fino all’estate.

A

MARIANO DE MATTEIS piacciono

i panda e il fratello gemello, Walter, lo asseconda. Nasce così dai due designer di KNT, acronimo di Kiton New Textures, la capsule Panda Project dove campeggia il timido animale della famiglia degli orsi, la cui specie gigante è diventata simbolo degli animali in via di estinzione. «Si tratta di un nuovo concept per il nostro brand, che esce dagli schemi tradizionali delle collezioni stagionali e si avvicina a un progetto di design. L’obiettivo è farlo diventare un cult per una community internazionale che vuole distinguersi grazie a simboli di appartenenza trasversali, sempre apprezzando la qualità dei materiali e del design» spiega Mariano. Scomposto in triangoli, oppure richiamato con un disegno ispirato ai manga, oltre che su una micro-stampa monocolore su fondo bianco, la figura del panda compare quindi sull’intera capsule che riduce ai minimi termini il guardaroba, sintetizzandone i pezzi chiave: felpa, giubbino, overshirt a mezze maniche, shorts, pantalacci (pantaloni formali con coulisse in vita), T-shirt, accappatoio e telo in spugna, tutti proposti in tre colori (bianco, nero e rosso). In vendita a partire da ottobre.

Stile streetswear per felpe e giubbini della capsule Panda Project. Cui fa parte anche un telo in spugna (a destra).

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REPORT

CAPI IN FORMA (LETTERALMENTE) Un progetto senza pieghe né grinze.

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Pulitzer Jhumpa Lahiri sostiene che la copertina di un libro sia «l’abito con cui quel libro si presenta» (Il vestito dei libri, Guanda editore), figurarsi quanto conta davvero un abito davanti a un pubblico sconosciuto. Ora Marciano by Guess ha lavorato affinché quell’abito non si sgualcisca né prenda pieghe e grinze inattese. E lo fa grazie a una tecnologia, migliorata di recente, che dà vita al progetto Formal Performance Project, composto da sette pezzi chiave. Tra questi i capispalla e i pantaloni sono realizzati con tessuto comfort bistretch che non si stropiccia. Hanno caratteristiche antivento e di resistenza all’acqua la giacca con cappuccio staccabile, il giubbotto stile bomber e il piumino leggero con cappuccio. Completano la collezione i chinos e le maglie bianche o blu. A SCRITTRICE PREMIO

Tra le caratteristiche «tech»: cuciture rinforzate, tessuto extra stretch, finiture antivento e idrorepellenti.

Immersi nell’arte con Mr. Slowboy

Auguri Oliviero Milano ti celebra Ottant’anni celebrati con un’esposizione diffusa a Milano per 24 ore: lo scorso 28 febbraio, compleanno di Oliviero Toscani, centinaia di manifesti sono stati esposti sotto gli occhi di tutti. Oggi il comune ospita quelle immagini e altro (sono presenti i lavori fatti dagli anni Sessanta), a Palazzo Reale (fino al 25 settembre). Oliviero Toscani. Professione fotografo mette in primo piano una sua caratteristica, «quella di usare il mezzo pubblicitario senza mostrare il prodotto».

Una nuova «veste» più colorata e artistica rinnova veri miti come il G9.

Dopo essersi trasferito a Londra

e aver sviluppato una passione verso l’abbigliamento british, Mr. Slowboy, illustratore di moda, rinnova la sua arte sui capi di Baracuta. Ad esempio sporca di pennellate e spruzzi di colore il G9 Harrington jacket, uno dei capi più iconici e celebrati del menswear, su cui fa comparire lui stesso mentre abbraccia un tubetto di pittura, una camicia e un Bucket hat, dando vita a Slowboy x Baracuta.

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Primi anni Settanta, la campagna provocatoria dei jeans Jesus; slogan dell’agenzia Pirella Göttsch, foto di Toscani.

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REPORT

UNA QUESTIONE ETICA Materiali e lavorazioni a basso impatto.

« Dalle piume riciclate ai panni realizzati attraverso il parziale riuso di fibre, al patchwork per piumini, bomber, maglie, giacche camicie, caban e pantaloni.

L

del mio marchio è da sempre “sostenibile”: propongo abiti che durano e che possono essere indossati anche a distanza di anni (…). Un posizionamento sostenibile oggi è fondamentale. È una questione di etica prima ancora che di strategia». Firmato Giorgio Armani. E per Emporio Armani è anche, in questa stagione, una questione di colori, tessuti ed accessori. Ovvero: una scelta cromatica particolarmente «energetica» con i rosso, giallo, blu elettrico; una gamma dei tessuti che va dal crêpe di nylon riciclato traslucido a effetto tridimensionale ai cotoni organici, dal velluto alle felpe lavate, fino al jersey americano. «L’invito a non sprecare è riassunto nei patchwork realizzati con scarti dei materiali di produzione, riutilizzati per piumino, over shirt e pantaloni». A FILOSOFIA ALLA BASE

IL TIROCINIO DI UN GENIO A Parigi spinto da una femminista.

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NCHE I GENI fanno apprendistato: lo

documenta la mostra Alaïa avant Alaïa, fino al 22 ottobre alla Fondation Alaïa a Parigi, che con documenti d’archivio, fotografie, disegni inediti racconta il tempo che dagli anni Cinquanta, quando Azzedine Alaïa sta per lasciare Tunisi, arriva fino all’affermazione a Parigi nei primi anni Ottanta. Ne risulta un percorso atipico che non parte dalla scuola ma dal rapporto diretto con le donne. E proprio a loro il couturier deve tutta la sua storia, a partire dall’amica Habiba Menchari, femminista tunisina che nel 1956 lo spinge ad andare a Parigi e lo indirizza dalla figlia Leïla, mannequin da Guy Laroche. Sono anni eccitanti che racconta anche il catalogo (Rizzoli libri) con i testi di Laurence Benaïm, Emanuele Coccia e la direzione artistica di Carla Sozzani, presidente della Fondation.

Azzedine Alaïa prova un abito a una modella nei suoi primissimi anni a Parigi.

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REPORT

IPERCONTEMPORANEO Tagli puliti e forme morbide.

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M

ODULAZIONI DI COLORE,

sovrapposizioni misurate ma definitive, ritmo meticoloso di variazioni e contrasti apparentemente minimi che, invece, esaltano l’impatto grafico dell’insieme orientandolo verso un gioco assoluto di patchwork e sfumature». Dietro a queste parole si cela la collezione di Andrea Pompilio per Harmont&Blaine composta da micro check abbinati al corduroy casual. «La palette occupa un ruolo centrale: quintessenza della ricerca approfondita sulle possibili rese e gradazioni materiche, tra toni caldi ed estremamente freddi che sembrano quasi ghiacciarsi nelle temperature ad alta quota», ovvero: bordeaux, cammelli e blu stemperati dai grigi e dai verdi e accentuati dai toni acidi. Sono poi mutuati dai look degli sciatori anni Cinquanta le tute con cinture elastiche in vita.

Stratificazioni, patchwork e sfumature di blu su un total look.

Fit oversize senza distinzione di generi

Potato e la scarpa che ha sempre desiderato

Linee pulite, tagli sartoriali, colori dalle tonalità autunnali, volumi oversize e contemporanei senza distinzione di genere, questo il Dna di Philippe Model Paris, che dopo una storia di sneakers e dopo il successo della collezione prêt-à-porter, torna con la capsule di abbigliamento autunno-inverno 2022. Questa la logica evoluzione del brand; un total look in tessuti naturali e lavorazioni artigianali a completare le immancabili sneakers total white in pelle ultra leggera. Il prêt-à-porter Philippe Model Paris sarà in vendita da fine agosto nei multibrand e sul sito philippemodelparis.com.

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Disponibili in tre varianti di colore: nero o con due stampe ghepardate all-over.

Nato e cresciuto nel New Jersey,

Imran Potato, designer che vuole rivoluzionare la moda grazie all’umorismo, ha incontrato Vans. E il risultato è Vault by Vans x Imran Potato, ossia una riedizione di un modello fatto per gli skater degli anni Novanta. Oggi: design estremizzato, tomaie scamosciate all-over con cuciture a contrasto, un sidestripe 3D che sporge di lato e suole waffle con stampa «Potato».

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REPORT

MUTAZIONI IN CORSO Sradicare gli stereotipi dell’immagine per rifondare le regole dello stile attraverso una visione alternativa.

È

QUESTA LA FILOSOFIA DI INCOTEX,

brand di riferimento nel mondo dei pantaloni made in Italy, che dal prossimo autunno-inverno ha deciso di interpretare il significato di «sartoriale» non più come sinonimo di classico, ma come proposta «controcorrente» di stile. Come? Trasformando il modello «balloon fit» con doppia piega frontale in un capo ricercato proprio per quei dettagli che si possono rintracciare solo nei pantaloni che definiamo sartoriali. Questo modello, già presentato attraverso una capsule collection nella collezione primavera-estate, si distingue per comfort e fit contemporaneo (mai più pantaloni attillati ora è il momento dei tagli morbidi) dato anche dal materiale, un velluto cashmere a coste larghe in tonalità autunnali quali il verde brillante, il vinaccia, il bianco mai acceso. Questo modello del brand sarà poi in vendita (insieme agli altri della «famiglia»: Zanone, Glanshirt e Montedoro) nei vari store europei e anche nel nuovissimo spazio Slowear al 330 di Lafayette Street, nel cuore di Soho a New York; 280 mq fatti di soffitti in lamiera in stile newyorkese, colonne in ghisa e sei vetrine. Il tutto è completato da una lounge con bar e start tv collegata alla neonata Slowear Tv (il canale video del multibrand) e uno spazio beauty per trattamenti e con una selezione di marchi di cosmetica.

Linee confortevoli e taglio contemporaneo per i pantaloni sartoriali del brand. In vendita anche nel nuovo store (a sinistra) che nasce in un landmark building a New York.

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REPORT

MUSICA E CAPPELLI «Si può fare l’alba a parlare di cappelli o di musica. Canzoni e cappelli hanno cose in comune. Sono leggeri, restano in testa...» (Jova).

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RE CAPPELLI PENSATI e creati a sei mani, tre storie diverse». Due mani sono di Veronica Cornacchini, due di Matteo Gioli – entrambi designer di Superduper, brand di cappelli fondato 11 anni fa a Firenze – mentre le ultime due appartengono a Jovanotti. Insieme hanno realizzato tre modelli: Bougainville (da Louis-Antoine de Bougainville, esploratore) in feltro con due varianti di nastri (una stampa originale della Nigeria e un tessuto jacquard); Stevenson (come lo scrittore Robert), tricorno indossato dal cantante al BeachParty 2019; e Freya (da Stark, viaggiatrice e scrittrice), «cappello da viaggio» costellato di simboli e disegni marchiati a fuoco. Quindi, sei mani e tre storie: ecco il risultato del progetto Superduper feat Lorenzo Jova.

«

Matteo Gioli, Lorenzo Jova Cherubini e Veronica Cornacchini. Il cantante era già cliente di Superduper.

LUSSO DOUBLE Una lavorazione speciale per la nuova stagione.

O Le linee sartoriali del brand si uniscono a un tessuto speciale.

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GNI COSA HA UN NOME fatto su misura. La collezione di Brunello Cucinelli si chiama Crossroads, letteralmente «incrocio stradale», ed è composta da capi outerwear prodotti con lavorazioni double la cui caratteristica sta nel fatto che il tessuto impiegato è doppio, cioè composto da due tessuti gemelli uniti in fase di tessitura da sottili fili diffusi su tutta la superficie. E non è cosa facile poiché tutte le fasi previste per questa lavorazione così speciale sono svolte a mano, o con macchine operate a mano, e per produrre un singolo capo occorre un’intera giornata di lavoro di un esperto artigiano. Il risultato, però, parla da solo: un aspetto molto pulito all’esterno come all’interno. I colori previsti vanno dai beige, grigi e blu – gli «intramontabili neutri» come li definiscono a Solomeo – all’aranciocarota al rosso melograno, fino al verde lime.

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REPORT

FLASH BACK GENDERLESS Passato e futuro uniti senza generi.

figlio, qualora fosse nato femmina, nella canzone del 1980. Si chiama così anche la collezione di Silhouette il cui ambassador è la cantante inglese di origini kosovaro-albanesi Rita Ora. Futura Doc è appunto una collezione a tiratura limitata di soli 1964 pezzi, numero che richiama l’anno di fondazione del noto brand di occhiali, e che si rifà a un modello nato nove anni dopo e che, in anticipo rispetto ai tempi, era genderless o, come si diceva allora, unisex. Gli occhiali uniscono l’immaginario anni Settanta, quindi montatura molto ampia e avvolgente, e il glam da rock star di cui si fa portatrice orgogliosa Rita Ora, quindi dettagli preziosi in metallo e montatura leggera. Le prossime date della cantante? Il 31 luglio nel principato di Monaco, il 23 e il 27 agosto a Zurigo.

FOTO: ERIK MELVIN

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ER LUCIO DALLA era il nome di un ipotetico

Il modello che trae spunto da quello creato nel 1973 indossato da Rita Ora.

Dagli archivi il nuovo

Stratificazioni per l’inverno Cos’è il layering, termine

inglese ultimamente molto usato? Si tratta di una tecnica di styling che consiste nel sovrapporre più capi in maniera armonica e mai goffa. The Layered Look è anche uno dei focus di Boggi Milano per il prossimo inverno: vestirsi a strati (o «a cipolla» come si diceva una volta) permette non solo di proteggersi dal freddo e dagli sbalzi di temperatura ma anche di poter utilizzare insieme più elementi del guardaroba. Ovviamente con stile.

Dagli archivi Saucony torna nei colori originali la 3D Grid Hurricane.

Quanta storia ci si può aspettare

da un’azienda fondata nel 1898 in Pennsylvania? Parecchia, tanto che si dice che portare un paio di Saucony è come indossare «un pezzo di America», celebrata, in omaggio all’heritage del marchio, con la più recente linea di sneakers Saucony Originals. I modelli vengono via via ripresi fino alla 3D Grid Hurricane, icona del 1997 ma la nuova retro running combina la tecnologia Grid.

Abbinamenti proposti da Boggi Milano: gilet tecnico, T-shirt a maniche lunghe e pantaloni dello stesso colore.

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REPORT

PROVE DI UNISEX ALL’EUROPEA Una capsule collection anti cliché.

S Per questa collezione gender-neutral Alled-Martinez ha lavorato a stretto contatto con Carine Roitfeld e Hun Kim.

tanti elementi di stile quali l’estetica parigina, il gender-neutral, un punto di vista tutto spagnolo e un marchio che richiama la moda francese? La risposta è sì secondo il brand Karl Lagerfeld che ha affidato parte della sua prossima collezione al designer nato e cresciuto a Barcellona Archie M. Alled-Martinez. «Karl mi ha segnato profondamente. Questa collezione è un tributo a lui e dunque un tributo alla moda stessa. L’immagine di Karl era così vivida e netta e io volevo catturarne realmente la natura iconica. È un’ode a quegli anni in cui assorbivo tutto questo universo estetico» afferma Martinez. I capi sono tanto ironici quanto duttili: un guardaroba che si sincronizza con le nuove generazioni poco avvezze agli stereotipi d’immagine, fatto da maxi kilt e mini T-shirt con i nomi di Lagerfeld e di Alled-Martinez. I POSSONO MESCOLARE

STILE AD ALTA PROTEZIONE Sapore Made in Japan e funzionalità.

I

L COMPROMESSO TRA STILE E TECNICISMO

nell’abbigliamento, si sa, è quasi sempre dietro l’angolo. Difficilmente si riesce a indossare un capo che ci accompagni e che ci faccia sentire sempre adatti in ogni situazione. Hiroki, la giacca in tessuto GoreTex Infinium, dotata di isolante termico Primaloft e chiusura zip water repellent e wind proof a doppio cursore di People of Shibuya, presenta estreme prestazioni funzionali, ma la sua linea minimale e pulita ispirata al design giapponese la rende estremamente adatta davvero a molteplici utilizzi. Così come negli altri capi di collezione, il suo design conferisce all’outfit una linea gradevole, lineare, elegante e senza tempo con una versatilità perfetta sia per i grandi centri urbani sia per la vita outdoor.

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Anche la giacca Hiroki è rifinita con i dettagli catarifrangenti e polsini in costina elasticizzata.

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REPORT

LA FORZA RIVOLUZIONARIA DEL PASSATO IN VERSIONE PATCHWORK La giacca 4 Ganci continua il suo «viaggio»: in versione invernale con imbottitura in ovatta ed esterno in cotone lavato per creare effetti ottici.

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AROLA CHIAVE: assemblare, che significa recuperare, ricreare, trasformare una distonia estetica in un nuovo elemento armonico. Se ne è appropriata il marchio di outdoor Fay che, grazie anche a una visione di ecosostenibilità e a una passione per la ricerca e l’esplorazione, ha dato vita alla giacca 4 Ganci in versione patchwork, edizione limitata già presentata per la collezione primavera-estate realizzata con tessuti originali degli anni Ottanta provenienti dagli archivi dell’azienda marchigiana. Il «viaggio» del 4 Ganci, architrave dell’immaginario del marchio, partito dall’interesse per l’universo vintage e quello del workwear, continua anche per il prossimo autunno-inverno: i materiali della giacca non sono più gli scampoli dei primissimi 4 Ganci ma bensì tessuti nuovi provenienti dalla collezione in essere. Alessandro Squarzi,

La prima giacca 4 Ganci trae ispirazione da una foto di Bob Dylan degli anni Settanta.

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direttore creativo di Fay Archive, declina il capo in versione antifreddo: un’imbottitura di ovatta tecnica viene inserita all’interno di ogni giacca mentre i patch che ne compongono la parte esterna sono sempre in cotone lavato che, a seconda della nuance e della loro disposizione, creano un differente effetto ottico dal richiamo mimetico. «Il 4 Ganci di Fay Archive è un capo da possedere e da tramandare» afferma Squarzi, raccontando come l’ispirazione originaria sia arrivata dai magazzini del marchio dove sono conservati tutti i tessuti non utilizzati dagli anni Ottanta a oggi e da una foto di Bob Dylan, immortalato a Long Beach negli anni Settanta con un giaccone patchwork dal sapore hippie. A completare la collezione Archive anche il classico «orsetto», anch’esso in un patchwork asimmetrico, con cappuccio e in versione unisex.

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REPORT

PUGLIA CORTESE Un catalogo fuori dal comune.

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AROLA CHIAVE: GENTILEZZA. Ne è convinto lo scrittore americano George Saunders che nel libro L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza riporta un suo formidabile discorso ai neolaureati di un college spiegando, tra aneddotica e ironia, come e perché la gentilezza è l’unico strumento per vivere, e far vivere, in serenità. Lo stesso approccio, o meglio filosofia, è applicato da Latorre al proprio modo di interpretare non solo l’estetica maschile ma tutta la produzione dei singoli pezzi di abbigliamento. E il rispetto per il territorio è un fondamento di questa visione: l’azienda di Locorotondo, Bari, infatti, ha convertito la propria sede rendendola quasi del tutto autosufficiente a livello energetico. Latorre Roots è il nome della capsule collection dove la Puglia fa da scenografia a uomini (non modelli professionisti) che interpretano capispalla eleganti e sartoriali; gli stessi ritratti nelle immagini di catalogo: architetti, medici, designer che amano Latorre e si sentono rappresentati dal brand.

Della capsule Latorre Roots fanno parte anche le coppole sartoriali in cashmere riciclato.

INDOSSARE L’OCEANO L’outerwear dai valori irrinunciabili.

C L’expertise nella maglieria unita alle performance dell’outerwear: Save the Sea Hybrid Hoody.

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OME IN UNA DICHIARAZIONE D’AMORE,

la chiave d’ispirazione è il rispetto verso la natura e il rapporto in costante evoluzione e crescita con essa. Questo percorso di Paul&Shark è visibile anche in questa collezione. I capi si tingono del blu delle onde con interventi di tagli color block, la maglieria, un capo davvero importante per il brand, si rinnova. L’aggiunta di filati Re-Cashmere e Re-Wool, cosi come la tintura che riduce notevolmente il consumo d’acqua e diminuisce le emissioni di CO2, seguono una linea retta al servizio della sostenibilità con il minimo impatto ambientale. Tra questi, un capo degno di nota è Save the Sea Hybrid Hoodie, felpa con cappuccio in tessuto ricavato dalla conversione della plastica recuperata in mare, filato simbolo e icona dell’innovazione e della sostenibilità.

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REPORT

L’ARTE ANTICA DEL TATUAGGIO Centoundici giacche e tre disegni.

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ARDO, HA VISSUTO A LONDRA, si è trasferito

ad Urbino e ha poi raggiunto Milano dove ha aperto il suo studio; artista dallo stile inconfondibile, Pietro Sedda di mestiere fa il tatuatore (i suoi disegni @pietrosedda). Ma non solo sulle persone perché, ad esempio, ora lo si ritrova su una capsule collection firmata L.B.M. 1911. La griffe mantovana, infatti, per celebrare i suoi 111 anni di vita, ha affidato a Sedda il compito di dare una «mano» creativa e pop sulla giacca in cotone e cashmere, capo iconico del brand, con tre disegni esclusivi ispirati alla figura dei dioscuri intrecciati a soggetti marini. «È un progetto» raccontano «che si innesta nella tradizione di un’azienda che da sempre ama e promuove l’arte». Come è già stato per diversi progetti, dal Premio Lubiam alle collaborazioni con il Guggenheim di Venezia.

Il lancio della capsule è previsto il giorno 11-11-2022; la giacca «numero uno» verrà esposta in azienda.

Trentacinque anni fa

Coraggio anni Ottanta Nel 1986 Erci Perlman

è stato il primo americano a scalare le sei pareti Nord delle Alpi in una sola stagione indossando una giacca prototipo: era la Mountain Jacket di North Face che di lì a poco sarebbe stata lanciata sul mercato e diventato capo bestseller del marchio. Ora rivisitata e modificata anche nel nome, la Origins 86 Mountain jacket rappresenta l’eccellenza della protezione da vento e pioggia, soprattutto in alta quota.

Nata come luxury sneakers, la riedizione Untraditional aggiornata.

Dal 1986 non si è mai fermata

l’evoluzione delle Untraditional. Negli anni, questo classico targato Hogan pur restando radicato alla tradizione, si è sviluppato e innovato: oggi infatti viene realizzato in chiave sostenibile (Hogan-3R riciclare, riutilizzare, ridurre). Per l’autunnoinverno: stivaletti leggeri e stringate in canvas di cotone con interni in ecopelliccia (e suole a contrasto di colore).

La Origins 86 Mountain Jacket si presenta anche in tonalità fluo immaginate per le camminate in montagna.

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REPORT

BOUTIQUE MELTING POT La cultura svedese si unisce all’eleganza francese.

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ARIGI, 219 RUE SAINT-HONORÉ: apre lo store «monolitico» di Acne Studios. Monolitico perché per rivestire mura, pavimenti e colonne è stata utilizzata una pallida pietra calcarea ricavata da una vicina cava, chiamata Saint Maximin, già impiegata in varie costruzioni in città. Spiega Jonny Johansson, direttore creativo di Acne Studios: «Ho passato un po’ di tempo allo skatepark Rålis di Stoccolma, costruito sotto un ponte per evitare che le piste si bagnino e diventino scivolose... Volevo che lo store desse la sensazione di essere sotto un ponte. Mi piace l’idea di una società segreta, una sottocultura che esiste sotto gli archi…». La boutique, uno spazio di quasi 400 mq, si deve allo studio spagnolo d’architettura Arquitectura-G, luci dell’artista francese Benoit Lalloz, arredi del designer britannico Max Lamb.

Ad amplificare il grande spazio interno aiutano anche le vetrine a tutta altezza.

CAMBIARE SI PUÒ Con materiali sostenibili certificati.

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nel 2017 con una mentalità del 2030 e con la visione di trasformare l’industria con innovazioni green». A questa dichiarazione di intenti seguono collaborazioni che «funzionano». Ne è protagonista anche Geox con una capsule di sneakers realizzate utilizzando innovativi materiali sostenibili – riciclati, a base biologica e animal-free – forniti, appunto, dai produttori certificati selezionati da ACBC. Quindi: suole impermeabili e traspiranti in ReEva (un composto miscelato con gomme riciclate dalla post produzione), interni in ReCotton (ottenuto riciclando vecchi tessuti o scarti di produzione), e tomaie in FreeBio (realizzata con materiali riciclati e filler naturali). Ai designer di Geox il merito di aver «giocato» sui contrasti di texture e lucentezza e di aver inserito un sinuoso motivo laterale.

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Lacci sostenibili: in fibra di iuta riciclabile oppure in ReBotilia, materiale derivato da PET riciclato.

BBIAMO FONDATO ACBC

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Made in Italy - belvest.com


AUTO

STYLE SELECTION

Una Jeep tutta europea DI VALENTINA RAVIZZA

La Nuova Compass è sostenibile, efficiente e high-tech: dalla guida autonoma all’infotainment. Il plus? La tecnologia 4xe plug-in hybrid.

PROGETTATA PER PRAGMATICI SOGNATORI.

Quelli che si mettono al volante ogni giorno per spostarsi in città ma che nel weekend danno libero sfogo al proprio spirito off-road. È a loro che ha pensato Jeep nel lanciare la Nuova Compass, un SUV compatto 4x4, anzi 4xe, la tecnologia assicura prestazioni off road ed equilibrio ottimale tra efficienza, divertimento alla guida e attenzione per l’ambiente. La possibilità di una guida 100 per cento elettrica ne fa infatti il modello plug-in hybrid più venduto in Italia; Compass è disponibile anche nella nuova versione e-hybrid con cambio automatico a sette rapporti, che garantisce comfort di guida e una riduzione delle emissioni e dei consumi, o nella «tradizionale» motorizzazione diesel MultiJet 1.6 da 130 CV. L’alto tasso tecnologico della Nuova Compass coinvolge anche l’assistenza al volante: è infatti la prima Jeep in Europa a raggiungere

La Nuova Jeep Compass parte da 32.900 euro per la versione diesel 130 CV in allestimento Longitude. Disponibili formule innovative di acquisto e noleggio, anche in abbonamento.

il livello due di guida autonoma, grazie al Traffic Sign Recognition, che legge e interpreta i cartelli stradali, all’Intelligent Speed Assist, che mantiene automaticamente il veicolo entro i limiti di velocità, al Drowsy Driver Alert, che avverte il guidatore in caso di sonnolenza, all’Automatic Emergency Braking, che riconosce pedoni e ciclisti ed è in grado di frenare per evitare incidenti, e all’Highway Assist, che regola automaticamente velocità e traiettoria. Moderno e distintivo è anche il design, funzionale (le soluzioni portaoggetti sono passate da 2,8 a 7,2 litri), high-tech (notevole il touchscreen da 8,4/10,1” con sistema Uconnect5) e dalla forte linearità cui fanno da contrappunto le superfici scolpite e l’effetto tridimensionale della griglia a sette feritoie che enfatizzano il dinamismo del veicolo. Perché anche nell’80esimo anniversario del marchio vale il motto: «Go anywhere, do anything». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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I C O NCOLLEZIONE B A G2022 S CON IL PROSSIMO NUMERO DI

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E IN PIÙ IN REGALO L’OROSCOPO DELL’ESTATE DI NINA SEGATORI (OROSCOPO LETTERARIO®) RACCONTATO ATTRAVERSO 12 GRANDI DONNE DELLA MITOLOGIA

TERZA USCITA 30 AGOSTO

LE DUE POCHETTE


NEW YORK

NEW FACES

Dieci interpretazioni di stili per il prossimo autunno-inverno (dall’animalier ai cappotti oversize, dal formale reinventato al mood glam) viste attraverso le nuove generazioni americane. DI LUCA ROSCINI FOTO DI ALBERT WATSON


Cappotto doppiopetto, abito in lana e cotone spigato e boots, Bottega Veneta. Nella pagina a fianco: blusa in pizzo e pantaloni, Gucci.


Cappotto in pelle, crop top, pantaloni, occhiali da sole, cintura e boots in gomma, Balenciaga. Nella pagina a fianco: bomber lungo in renylon con dettagli in mohair, dolcevita in cotone, pantaloni e stivali in pelle, Prada.




Anorak di paillettes, Dsquared2. Nella pagina a fianco: cappotto in lana effetto bouclé con ricamo floreale, camicia in seta e pantaloni, Valentino; sneakers, Valentino Garavani.


Mantella in taffetà stampata, pantaloni in pile di cotone e lana e calze, Dior Men; sandali Dior by Birkenstock. Nella pagina a fianco: blouson in montone con motivo intarsio, camicia in velluto con zip, pantaloni in cashmere e boots in vitello, Giorgio Armani.



Cappotto doppiopetto in laminato increspato, maglia e pantaloni in jersey e stringate, Dolce&Gabbana. Nella pagina a fianco: giacca e pantaloni in lana e spilla fiore, Fendi. HA COLLABORATO: GIOVANNI DE RUVO; GROOMING: LUIS GUILLERMO USING ORIBE AND MAKEUP FOREVER

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ARGOMENTI

FASHION SYSTEM

VIZI, VIRTÙ E NORMALITÀ

La moda sta pagando il prezzo della sovraesposizione globale eppure mai come oggi è stata allineata alle tematiche sociali e politiche del mondo che la segue, la compra, la mitizza. Ma che a volte la contesta anche con molta violenza. di Michele Ciavarella

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ARGOMENTI

Antipatica

L’accusa è chiara: «La moda è diventata insopportabilmente presenzialista. Occupa continuamente spazi che non le appartengono, si infila ovunque possa trovare visibilità, si avvantaggia delle elaborazioni e degli spazi pensati e pagati da altri». Il sospetto generale è che, in effetti, la moda sia diventata un po’ invadente, almeno se la si giudica quando si rende protagonista inserendosi di prepotenza, ma con la magnanimità dei sovvenzionatori, negli spazi di settori creativi che non suoi. Da qui deriva l’antipatia che suscita in molti che non sopportano la sua presenza fuori dalle passerelle e dai negozi. Negli ultimi mesi due eventi italiani ma di portata internazionale hanno rafforzato questo (pre)giudizio: ad aprile l’inaugurazione della Biennale d’Arte di Venezia e a giugno il Salone del Mobile di Milano. Essendo il design ritenuto più affine alla moda di quanto possa essere l’arte, in quest’ultimo caso le critiche si sono concentrate soprattutto sul fatto che moltissimi brand della moda hanno approfittato della presenza degli addetti ai lavori internazionali del design per darsi una visibilità che, invece, al design non è permessa durante la Fashion Week. Quindi, un peccato veniale che ha scaricato l’antipatia in un sorriso compiacente: si sa, quelli della moda sono fatti così... Più severe sono state le critiche in occasione della Biennale di Venezia. Soprattutto a chi l’ha seguito sui social, in realtà i giorni inaugurali dell’importante appuntamento in Laguna sono obiettivamente sembrati più una Fashion Week senza passerelle e con tanti red carpet piuttosto che una kermesse dell’arte internazionale. E così, agli occhi profani (ma anche a molti di quelli più abituati agli sfavillii degli eventi fashion) è sembrato che più che sponsorizzare, aiutare o collaborare la moda in realtà «si è resa protagonista e ha fagocitato un’attenzione che era destinata all’arte». È un’analisi un po’ severa, a dire il vero, ma non del tutto negativa se, nelle intenzioni delle critiche, si vuole vedere un invito a una maggiore discrezione. In questa osservazione c’è insita anche la paura che la moda occupi sempre più spazi culturali perché negli ultimi anni si è convinta di non bastare più a se stessa, si avverte debole, quando non in grado, nell’affrontare l’analisi dei tempi in cui vive. E c’è anche chi si lamenta che gli studi stilistici siano diventati «case del popolo» in cui più che di tessuti, di tagli, di volumi e di silhouettes si parla di valori sociali, di politica e delle magnifiche sorti e progressive dei destini dell’umanità e, quindi, diventa antipatica perché vuole spiegare come va il mondo a chi si dichiara più esperto. Ma è pur vero che la moda non può vivere isolata dal mondo e quindi si è sempre mescolata alle tensioni positiÈ veramente arrivata la fine di quella fiera della vanità ve e negative che attraversano il mondo. che sono i mega eventi mondani della moda? Forse sì. E proprio perché si è arrivati Forse qualche anno fa qualcuno si scanalla consapevolezza che nella moda la vanità può funzionare quando non si condalizzava meno perché la moda occupafonde con la fiera. Due i casi segnaletici. Il festival di Coachella, di solito volano del va gli spazi della mondanità mentre oggi marketing delle borsette, non è andato secondo le aspettative (in Italia se n’è parlato entra nei templi sacri della creatività a per i Måneskin) gli uffici vendite dei marchi internazionali hanno storto il naso e si godere dei fari dell’Arte con la A maiuparla di «ultima edizione». Qualche settimana dopo anche il Met Gala organizzato scola. Ma poi, abbandonati i social e vida Anna Wintour come momento celebrativo del potere americano sulla moda ha sitata la Biennale d’Arte ci si accorge che avuto meno risonanza (e meno introiti, dicono i bene informati) degli altri anni. molte delle opere selezionate dalla cuForse perché l’evento, che parte con l’inaugurazione della mostra al Costume Instiratrice Cecilia Alemani e presentati nei tute del Met di New York, si è un po’ usurato perché a tutti è ormai noto il meccanipadiglioni trattano temi che la moda sta smo di «adesione pagata» per chiamata da parte della padrona di casa. affrontando già da molti anni, compresa Colpisce che questi eventi siano diventati l’espressione di un mondo l’inclusione, il gender, le etnie non che sembra appassito e sorpassato, manifestazioni di un rituale stanco che comunica eurocentriche, la parità di genere. esattamente quello che la moda, a parole e con i vestiti, dichiara di non volere più E quindi? Forse, è vero, una maggiore usare. Che c’entra la non inclusività del Met Gala e il marketing di Coachella (ma discrezione nei meccanismi della comuanche gli eventi di beneficenza della moda durante il festival del Cinema di Cannes) nicazione eviterebbe una sovraesposicon le dichiarazioni di inclusione, di parità, di democrazia alle quali la moda presta i zione che viene recepita come arrogante suoi megafoni? Non c’entrano niente ed è per questo che, dopo le foto di rito propae quindi suscita antipatia e che allontagandate su Instagram, il focus si spegne e tutto appare appannato e, peggio, inutile. na il dialogo con quegli ambienti della cultura ufficiale che sono sospettosi e tengono a distanza i tentativi di contaminazione che propone la moda.

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Vanitosa

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Cortocircuiti

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Sostenibilità

Stiamo rischiando di entrare in un susseguirsi di cortocircuiti in cui la moda, al pari di altre industrie e attività, appare come il collettore di contraddizioni. Uno dei casi più eclatanti riguarda proprio il tema della sostenibilità. Siamo tutti consapevoli che occorre cambiare il nostro stile di vita per cercare di preservare il pianeta. Ma quanto e che cosa siamo disposti a rinunciare personalmente? Si sa che uno dei maggiori problemi riguarda il consumo. Ci dicono che dobbiamo consumare meno e in modo più consapevole, di comprare pochi abiti nuovi e, ultima risorsa riparatrice, rivolgerci all’usato. Però, diminuendo il consumo diminuirà la produzione: siamo consapevoli che potrebbero venirsi a creare dei problemi di occupazione degli addetti nelle industrie tessili e in quelle della distribuzione? E quindi meno posti di lavoro per gli operai e per gli addetti alle vendite… Ma anche acquistare gli abiti online, che siano usati o nuovi, ha un costo sulla sostenibilità. C’è il diritto al recesso, per esempio, che mette lo stesso abito in viaggio almeno due volte. O la vendita dell’usato online che dal venditore arriva nell’hub dell’organizzatore per il controllo e poi viene spedito all’acquirente che, avendo diritto al recesso, potrebbe rispedirlo all’hub che lo rispedisce al venditore: quando inquinamento ha creato un pacco che contiene un valore di qualche decina di euro? Infine, ci si lamenta che le Fashion Week e le presentazioni delle Cruise Collections siano fonte di altissimo inquinamento: spostare così tante persone tra addetti delle Maison, giornalisti, buyers, presenzialisti di ogni genere costa un prezzo alto al pianeta. Ma il periodo dei lock down ci ha insegnato che molti lavoratori dell’indotto hanno perso il posto di lavoro e che, nonostante la ripresa, il livello di occupazione non si è ristabilito, nonostante tutti i fatturati del settore dell’abbigliamento abbiano superato i livelli pre-Covid. Ed ecco, in questi cortocircuiti concentrici ci stiamo avvitando in una situazione senza uscita perché, in realtà, non siamo in grado di concepire modelli alternativi che rischierebbero di privarci di molti comodità e prerogative con cui tutti, chi più chi meno, stiamo vivendo, dall’acquisto online al posto di lavoro.

Il tema non è soltanto urgente perché ne va di mezzo il pianeta ma anche perché potrebbe compromettere la credibilità di tutta la filiera del sistema del tessileabbigliamento. Se molte aziende hanno iniziato un percorso per raggiungere un’alta percentuale di sostenibilità (l’upcycling, soprattutto, e lo smaltimento degli scarti) quello che ancora manca è la cultura diffusa che porta a cambiare comportamenti contraddittori anche tra i consumatori che si dichiarano sensibili al problema. Si prenda i giovani della Gen Z: dobbiamo purtroppo constatare che le regole del marketing, con una convincente diffusione sui social network, stanno ingannando anche loro e li spingono a un consumo compulsivo grazie alla politica deiprezzi bassi del fast fashion e dell’ultra fast fashion. È balzata alle cronache la campagna del sito cinese Shein che in un contest molto seguito su TikTok ha reso virale l’atteggiamento di adolescenti che, non curanti del consumo non controllato, si vantano di comprare online a pochissimi euro (il prezzo degli abiti sul sito va dagli otto ai 20 euro, le offerte speciali che hanno nutrito il contest non superavano i quattro euro) chili e chili di T-shirt, canotte, pantaloni... Shein è un sito di vendita online fondato da un magnate dei big data e del linguaggio Seo che ha conquistato clienti in tutto il mondo fino a superare i 16 miliardi di dollari nel 2021, tanto che la sua capitalizzazione per la quotazione in borsa supera i 100 miliardi, più di H&M e Zara. È impressionante come il prezzo basso, propagandato come unico indice per stabilire quando «la moda è democratica», abbia fatto superare le attenzioni alla produzione e al consumo compatibile e al controllo sulla sicurezza dei lavoratori che producono tutto il fast fashion anche ora che i dati del disastro sono noti a tutti, ma non così pubblicizzati sui social network. Sappiamo, infatti, che entro il 2030 il consumo di abbigliamento crescerà del 63 per cento e che per produrre il fast fashion servono 350 milioni di barili all’anno di combustibili fossili: un oceano di petrolio. Come se non bastasse, sappiamo anche che la media del consumo di un cittadino europeo è di 26 kg di prodotti tessili, metà dei quali vengono inceneriti nelle discariche producendo una quantità altissima di inquinamento. Ormai è noto da tempo che il prezzo non è una discriminante per stabilire la sostenibilità o la democraticità della moda. Ma siamo sicuri che la politica commerciale di tutti quei grandi players del sistema che perseguono un innalzamento dei prezzi che viene percepito come immotivato possa aiutare a incrementare la cultura del loro senso di sostenibilità presso le nuove generazioni? È lecito esprimere forti dubbi. Tutto porta a credere, invece, che il profitto sia una grande benda sugli occhi che nasconde sostenibilità e sensibilità.

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ARGOMENTI

Innovazione

Nonostante tutti gli addetti ai lavori, e molto spesso anche la maggior parte dei consumatori, dichiarino la necessità che la moda cambi e si rinnovi, ogni volta che nella moda un designer o un direttore creativo si permette di cambiare radicalmente i riferimenti stilistici e di immagine in voga in quel momento sono proprio gli addetti ai lavori che lo accusano di essere un provocatore se non, addirittura, un cialtrone. Ma la storia della moda dice tutt’altro. Quando la principessa russa Olga Bariatinsky arrivò nell’atelier della Maison Worth per provare l’intero guardaroba preparato per lei da Paul Poiret, all’epoca primo assistente del mitico sarto, urlò «Orrore!» e svenne appena si vide allo specchio con un cappotto tagliato a kimono e senza il bustier interno che, allora, reggeva le forme degli abiti e di ogni altro capo di abbigliamento. La cosa provocò uno scandalo sproporzionato, la principessa minacciò di cambiare sarto e Poiret venne licenziato. Era il 1902 e l’anno dopo il maltrattato createur presentò la sua prima collezione di abiti senza corsetti: la storia lo ricorda come il sarto che liberò le donne dalla schiavitù del corsetto. Più avanti negli anni, quando presentò il suo tailleur in jersey, Coco Chanel venne accusata di voler vestire le donne ricche come segretarie e nel secondo dopoguerra Dior fu accusato di sprecare molto tessuto per le sue gonne a ruota; nel 1968 a Yves Saint Laurent augurarono la galera perché fece indossare alle ricche Mesdames francesi la blusa trasparente e loro si presentarono all’Opéra con il seno in vista come le femministe che bruciavano i reggiseni per strada (Saint Laurent e Pierre Bergé furono accusati dai loro colleghi del tempo di essere «gli assassini della moda» anche nel 1966 quando, con l’apertura della boutique Rive Gauche, resero popolare il prêt-à-porter). Con la stessa accusa sul nude look, qualche mese dopo due compassati signori come Rosita e Tai Missoni furono cacciati dalla Sala Bianca di Palazzo Pitti. Avvicinandoci a noi, Jean Paul Gaultier fu accusato di portare la moda della strada sulle passerelle paludate della moda francese, Gianni Versace perché vestiva le donne come prostitute (sic!) e Miuccia Prada perché le faceva «vestire da poverette» (sì, proprio così). Nel maggio scorso, dopo la sfilata a Castel del Monte per la collezione Cosmogonie, ad Alessandro Michele è stata lanciata via social l’accusa più ridicola: «Fa semSiamo veramente liberi di vestirci come ci pare e come tutti brare gli uomini delle donne lesbiche» i creatori di moda ci suggeriscono? A volte sembra di sì, ma nella sostanza è no: non (ma non hanno spiegato perché sarebbe siamo liberi. È periodica l’alzata di scudi dei «bontonisti» e degli esperti del galaun’offesa e quindi il perché dell’accusa). teo dell’abito. Abbiamo detto tante volte che l’abito comunica quello che siamo o Come si vede da questi meglio quello che noi vogliamo che gli altri sappiano di noi. Ma a quanto pare gli esempi, le accuse nascono da un sentialtri non vogliono saperci liberi. Ad esempio, è periodica la polemica tra presidi mento di nostalgia che lega chi le fa alle e studenti, soprattutto tra studentesse e presidi di entrambi i sessi, con accuse da sicurezze di un passato ritenuto sementrambe le parti: i primi accusano gli studenti di indossare abiti inadatti al conpre migliore del presente (figuriamoci testo scolastico, i secondi accusano i presidi di eccesso di controllo e spesso anche dell’imprevedibile futuro). E nonostandi sessismo, visto che le reprimende sono dirette soprattutto alle studentesse. te tutto, fa sempre effetto constatare che Ogni volta che succede, si scomodano addirittura finissimi intellettuali che l’innovazione spaventa anche il popolo commentano avvenimenti che, tutto sommato, andrebbero analizzati con magdella moda che, invece, dovrebbe essere gior cura e non sedendosi sul senso comune. Perché ogni volta per giustificare più preparato ad accettarla. l’equidistanza di giudizio i commentatori mettono in campo il tema del decoro, come se la scuola fosse rimasta l’unica bolla spaziale in cui questo arcaico sentiIn questo tema farei rientrare mento sociale debba rimanere sempre uguale a se stesso. anche lo stupore che afferra molti addetti ai lavori quando qualche marchio storico nomina alla guida della direzione creativa un nome non conosciuto o, comunque, che non appare nell’elenco dei big names o tra i favoriti del momento. Esempi? Quando Salvatore Ferragamo ha nominato Maximilian Davis nuovo direttore creativo molti hanno obiettato che si trattava di uno sconosciuto e si sono chiesti perché l’amministratore delegato, Marco Gobetti, come primo atto del suo insediamento avesse nominato un giovane designer 27enne che, dopo essersi laureato al London College of Fashion, ha lavorato da Grace Wales Bonner e Asai e con al suo attivo una sola sfilata nel 2020 con il suo brand. Lo stupore è direttamente proporzionale alla contraddizione: non ci si lamenta continuamente che le direzioni creative vengono affidate sempre agli stessi nomi conosciuti e che sarebbe ora di «fare largo ai giovani»?

L Libertà

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Autocensura

Oggi l’esposizione della moda è enorme. Anzi di più: è worldwide in tempo reale. Un’immagine, una sfilata, perfino una conferenza stampa o un comunicato aziendale arrivano a essere diffusi in tutto il globo terracqueo nello stesso momento in cui nascono e si diffondono. È a quel punto che si creano delle frizioni fra l’evento e il resto delle varie e numerose culture che vi assistono. Perché, se non si prendono tutte le precauzioni linguistiche e culturali del caso, si rischia sempre di offendere qualcuno. I casi sono molti e di varia intensità ma la reazione che si è sempre verificata è stata la messa nella gogna mediatica che, a quel punto, non conosce confini ma conosce benissimo il fenomeno degli haters e dell’hate speach che travolgono il malcapitato che spesso ha riflettuto soltanto poco sull’effetto del suo linguaggio. A causa di questo, molti ora lamentano che nell’aria della moda ci sia odore di autocensura. Il che può essere vero, visto che sono in tanti, designer o amministratori delegati, a trattenersi nell’esprimersi con la paura di essere «condannati» da qualcuno che riscontra un intento irrispettoso in quello che si fa e in quello che si dice. Per non parlare degli effetti della cancel culture attenta a ogni sfumatura che riguardi personaggi e episodi storici. Eppure, nella moda, come e più che in altri settori, c’è un’enorme attenzione a non colpire le sensibilità di culture differenti che hanno tutte la pari dignità di espressione e tutte affacciate sul grande osservartorio del mondo. Tempo fa, perfino Tom Ford, in un’intervista a The Guardian, dichiarava che la cancel culture inibisce la creatività perché ci si sente bloccati da una serie di regole ancora prima di iniziare. Il che può essere vero, ma è anche vero che un po’ di rispetto delle espressioni non specifiche della cultura occidentale potrebbe giovare anche alla nostra sensibilità. Molti si chiedono se non sia più possibile allora parlare di tendenze di moda etnica che, in quanto a trappole tese dai riferimenti culturali, ne ha da vendere. A ben vedere, però, la vera autocensura se la stanno facendo coloro per cui «allora non si può più dire niente», cioè quelli che non si esprimono per la paura di sbagliare quando invece la soluzione è nello studio delle culture degli altri che, di per sé, porta a rispettarle. Per cui questa sensazione di essere tutti contro tutti che molti lamentano non sembra altro se non la pretesa superiorità della cultura a cui appartiene chi si lamenta. E anche qui, la storia ci fa da guida. Anni fa, Karl Lagerfeld fece ricamare i versetti del Corano su un bustier di Chanel. Giorni dopo (quando videro le foto, perché allora la trasmissione non avveniva in tempo reale) le autorità religiose musulmane protestarono e pretesero la distruzione dell’indumento. Chanel agì subito e Lagerfeld si scusò ma la domanda rimase: perché non ha mai fatto ricamare l’ave Maria in tedesco con le lettere gotiche? Oggi Nella pretesa che la moda si renda normale, senza virtù abbiamo gli strumenti per fere senza difetti, una via d’uscita sarebbe riscoprire la coerenza. Partiamo con il grande marci un po’ prima e quindi perché tema della sostenibilità. Per fare in modo che non si possa accusare il settore di green dovremmo pensare a una censura? Cerwashing, si dovrebbe risolvere il problema dell’impatto ambientale provocato dalle to, i tempi sono strani: tra chi si lamenFashion Week. Certo, nessuno pretende l’annullamento dei viaggi da una capitale ta che gli studi stilistici sono diventati della moda all’altra. Ma una volta che si è a Milano, ad esempio, perché non organizcentro di elaborazione politica come le zare il calendario in modo che le location delle sfilate non costringano ad attraversare sezioni de partiti e chi gioca a costruila città per poi riportare tutti al punto di partenza per la sfilata successiva? Si dice: re la cultura del vittimismo all’inverso, ma gli stilisti e le aziende pretendono di sfilare negli spazi che scelgono all’ora che la moda sta vivendo un periodo molto decidono. Benissimo, ma allora perché tenere in piedi una organizzazione faticoso. E se, invece, provassimo a riche coordina il calendario se poi la si costringe al volere dei singoli? scoprire i valori di libertà e di rispetto, Forse il problema sta nella resistenza che tutti mostrano quando si deve ladi inclusione e di parità che la moda ha sciare il passato e sperimentare nuovi modelli. A pandemia conclamata, nell’aprile del 2020, tutti gli operatori si sono affrettati a dire che il sistema avrebbe dovuto sempre vantato? Certo, ci sarebbe bisocambiare, che il ritmo stesso della moda avrebbe dovuto rallentare, che le Fashion gno di più studio e di più attenzione: Week andavano riviste, che la produzione di abiti era sproporzionata rispetto al conin una parola, di rispetto. Quello che sumo per cui andava ripensato anche il sistema delle collezioni-precollezioni-cruiseporta non all’appropriazione culturale capsule-collaborazioni. E che una soluzione andava trovata anche per le sfilate stadegli altri ma alla valorizzazione delle gionali con un accorpamento di moda maschile e femminile e una concentrazione culture altrui. maggiore. Bene, appena c’è stato il «liberi tutti» tutto è magicamente tornato come prima. Con qualche appuntamento in più per recuperare quelli persi.

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Coerenza

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Nostalgia

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Omologazione

È un dibattito che va avanti da anni e che non si spegne, nonostante le pretese di modernità e della sua (supposta propaganda) su Instagram: sono molti a ritenere che «una volta la moda era più bella». È difficile essere d’accordo e sembra un discorso nostalgico di chi si rifugia nel passato per l’incapacità di leggere il presente, di capirne le dinamiche e di accettarne i cambiamenti. Da quando è nato, il sistema della moda che conosciamo oggi è un raccoglitore di segnali e di significati. Luigi XIV, il Re Sole che l’ha creato, inventando perfino la parola «mode» dal troncamento del suo motto «à la moderne», dell’innovazione continua fece il pilastro del suo lunghissimo regno. È per questo, quindi, che la moda o è innovazione o non esiste. Dire che la moda degli anni Venti, Trenta o Cinquanta, Settanta, Novanta era più bella di quella di oggi è mentire spudoratamente perché la moda racconta la cultura degli anni in cui nasce e non la muffa degli archivi. A chi non riconosce oggi il valore creativo di stilisti che non disegnano o di direttori creativi che non hanno mai preso un ago in mano, andrebbe risposto che non sempre nel passato chi tagliava e cuciva ha prodotto abiti belli. Gli esempi sarebbero tantissimi, ma basta scorrere le pagine di qualsiasi libro di Storia della moda per farsi una coscienza del cattivo gusto. E che dire, poi, degli abiti che – anche nel recente passato – trasformavano le donne in sculture viventi nel più offensivo non rispetto del corpo femminile, o degli uomini trasformati in manichini fisicamente inespressivi da abiti nati solo per sottolineare uno status sociale? Oggi i nostalgici, che hanno le immagini degli archivi impresse nella memoria, si lamentano ancora della poca corrispondenza fra gli abiti di alcuni marchi storici con quelle che vedono nelle pagine di libri in cui, in modo discutibile, si fa la storia attraverso le immaginette degli abiti del passato senza spiegare il contesto storico in cui sono nati. Eppure, la vantata modernità porterebbe a sostenere le ragioni di chi della moda aggiorna l’espressione, dei creativi che anziché di archivio parlano di progetti, dei divulgatori che spiegano il contesto culturale e non propagandano il loro gusto come l’unico possibile. Se avessero ragione i nostalgici, la moda sarebbe rimasta appannaggio di pochi e invece l’industria l’ha portata negli armadi di tutti (e il fast fashion è un problema a parte). Fortunatamente è cambiato anche il modo di concepire le collezioni e anziché alle referenze dei decenni passati i creativi si riferiscono alle interpretazioni del presente. Che sembra il processo più logico, oltreché moderno.

Dopo molti anni dal suo ritiro, qualche anno fa Sibilla, una stilista spagnola molto famosa negli anni Novanta, ha detto che non riconosceva più il settore in cui aveva avuto tanto successo né la creatività di questi anni perché l’immagine della moda che ne deriva «è formata per lo più da una ragazza che abbraccia una borsa» disse letteralmente. È stato un giudizio radicale che riguardava il protagonismo nelle foto pubblicitarie più degli accessori che degli abiti. A pensarci ora aveva soltanto anticipato quello che pensano in tanti in questi anni in cui l’immagine della moda appare omologata a un pensiero unico perché viene costruita quasi in solitaria attraverso un cortocircuito di competenze riunite in una sola persona. Designer che fanno gli stylist e/o i fotografi, stylist che disegnano le collezioni per le sfilate e le campagne pubblicitarie, fotografi che fanno i video makers, video makers che scattano le foto… Il risultato è la costruzione di una Torre di Babele in cui più che una confusione si produce un’omologazione del linguaggio. Le competenze si confondono e si elidono a vicenda, con la conseguenza che la comunicazione è appiattita su una sola visione, quella che rifiuta il confronto fra professionalità diverse. E invece, il confronto fra linguaggi comunicanti che usano parole diverse servirebbe a introdurre lo sguardo obliquo della contaminazione senza il quale si rischia di trasferire al consumatore soltanto l’immagine edulcorata del pensiero unico che la produce. Il percorso designer-stylist-fotografo o stylist-designer-merchandiser raccolto in una sola persona non fa altro che produrre un risultato omologato che corrisponde esattamente alle aspettative che l’autore ha del prodotto e che trasferisce acriticamente al consumatore. Senza sfumature, senza nessuna deviazione e perfino nell’assenza dell’aggiunta di un accento a quello che l’abito dice già da solo dal momento in cui nasce nella testa del suo autore.

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FOTOGRAFIA

UN OBBIETTIVO SPREGIUDICATO PUNTATO SULLO SHOWBIZ Ha inventato il mestiere del paparazzo nell’epoca in cui il mondo era privo di sistemi di sicurezza a orologeria e in cui le star non sapevano bene come rapportarsi ai nuovi avventurieri fotocamera-muniti: una mostra tratta da un libro celebra lo sguardo senza filtri di Ron Galella.

DI ATTILIO PALMIERI FOTO DI RON GALELLA

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E LE GUERRE, i regni e le rivoluzioni si studiano prevalentemente sui libri, la storia del costume si racconta anche e soprattutto a partire dalle immagini: come quella di Sophia Loren (che negli anni Sessanta aveva già abbandonato l’originario Sofia per la più esotica grafia d’arte) nella fotografia scattata da Ron Galella il 22 dicembre del 1965 all’Americana Hotel di New York, durante il party per la première de Il dottor Živago. Quella sera gli scatti fatti alla diva italiana furono tanti, ma a restare nella memoria

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fu quel gesto di Sophia, così spontaneo e tutto partenopeo, mentre si indica gli occhi per manifestare il suo apprezzamento nei confronti dello sguardo profondo e sensuale dell’attore egiziano Omar Sharif. È proprio quel gesticolare dell’attrice, frutto anche dell’infanzia trascorsa a Pozzuoli (Napoli), a restituire nello scatto il senso profondo della sua immagine divistica, fissando nell’immaginario collettivo non solo l’attrice e la donna, ma anche l’icona. UN’IMMAGINE che rivela l’unicità del talento di Galella (1931-2022), nato nel Bronx da padre italiano e ma-

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dre italoamericana, e formatosi professionalmente nel più ostile dei contesti: il suo sguardo, infatti, si definì durante la guerra di Corea, dove nel 1959 era impegnato per conto dell’esercito statunitense durante il servizio militare. È forse per via di quell’imprinting che nel corso della sua carriera è sembrato avere un bassissimo senso del pericolo, che gli ha permesso di inseguire dappertutto anche le celebrità più tutelate grazie ad accorgimenti tanto personali quanto efficaci, realizzando scatti che hanno segnato un’epoca. A distanza di anni, le fotografie di Galella costituiscono una testimo-


Gennaio 1976, autoscatto di Ron Galella nella sua casa a Yonkers, nello Stato di New York.

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GALELLA PROGETTAVA PEDINAMENTI BASATI SULLA CONOSCENZA DEI MOVIMENTI DELLE STAR

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Marzo 1974, John Lennon e Mick Jagger al Century Plaza Hotel di Los Angeles, alla seconda edizione del premio alla carriera dell’American Film Institute in onore dell’attore e ballerino James Cagney. Nella pagina a fianco: ottobre 1971, Jacqueline Kennedy attraversa Madison Avenue a New York.

FOTOGRAFIA

nianza più unica che rara dell’evoluzione del costume statunitense tra i Sessanta e gli Ottanta del Novecento, meticolosamente archiviate nella Villa Palladio a Montville, in New Jersey. Una parte di queste fotografie sarà protagonista di Ron Galella. Paparazzo Superstar, la mostra che si terrà a Palazzo Sarcinelli, a Conegliano (Treviso), dal 7 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023, interamente dedicata al fotografo scomparso il 30 aprile scorso all’età di 91 anni. Organizzato da Sime Books (che nel 2021 ha mandato in libreria 100 Iconic Photographs – A Retrospective by Ron Galella, l’ultimo libro del fotografo), e curato da Alberto

Damian, l’allestimento attraverserà l’opera del fotografo da più angolazioni e tramite sale tematiche, con uno spazio interamente dedicato a Jackie Kennedy. PROPRIO l’ex First Lady è stata una delle prede preferite del fotografo, nonché uno dei soggetti che meglio faceva emergere le peculiarità del suo lavoro. Quando si dice che Galella ha contribuito a definire un mestiere, quello del paparazzo, poi diventato tra i più famosi al mondo, s’intende proprio quel modo così personale di lavorare all’interno dello showbiz, che va dalla rete di relazioni che gli hanno consentito di entrare in

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luoghi altrimenti inaccessibili fino alla progettazione di metodi di pedinamento basati sulla conoscenza capillare dei movimenti delle star. Solo in un mondo privo di sistemi di sicurezza a orologeria e in cui le star non sapevano bene come rapportarsi a questi avventurieri obbiettivo-muniti che si avvicinavano furtivamente, assetati di immagini da vendere al miglior offerente, ha potuto prendere forma la passione di Galella per Jackie Kennedy. Lei diventò per lui una vera ossessione (con cui non sono mancati i diverbi, anche legali): la seguiva dappertutto e non a caso è proprio lei il soggetto di quella

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SI SPINGEVA FINO A METTERE IN GIOCO LA SUA INCOLUMITÀ PUR DI AVERE L’IMMAGINE GIUSTA

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Marzo 1991, Michael Jackson e Madonna al party per la 63esima edizione degli Academy Awards. Nella pagina a fianco: settembre 1980, David Bowie a New York in occasione della serata di apertura dello spettacolo teatrale The Elephant Man. S T Y L E M AG A Z I N E

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Novembre 1967, Paul Newman alla festa per la prima di Nick mano fredda. Dicembre 1965, Sophia Loren a un’altra prima, quella de Il Dottor Zivago. Ambedue a New York, all’Americana Hotel. Nella pagina a fianco: giugno 1974, Elvis Presley, tra le sue guardie del corpo, all’Hilton Hotel di Philadelphia, Pennsylvania.

FOTOGRAFIA

che ha sempre definito come la sua foto migliore, il celebre scatto di Jackie che attraversa una strada di New York con i capelli scompigliati dal vento. ALL’EPOCA non erano poche le celebrità a temere la spregiudicatezza dell’obbiettivo di Galella, fotografo che oggi rappresenta il simbolo di un tempo dorato e sepolto nel passato, unanimemente riconosciuto come uno dei primi e dei più famosi paparazzi della storia. Sì, proprio un paparazzo, quella parola che Federico Fellini coniò con La dolce vita, mettendo un timbro sulla fronte di tutti coloro che andavano a caccia di star da

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immortalare. Una definizione per molti dispregiativa, perché sinonimo di intrusione nello spazio altrui e a volte anche di violenza (oggi si direbbe stalking), ma che anno dopo anno sta vivendo un processo di rivalutazione grazie al valore storico e culturale sempre più alto delle opere di questi fotografi. La quantità dei personaggi che Galella ha pedinato e fotografato è eguagliata solo dal numero di mostre che gli sono state dedicate (e libri, tra cui The Photographs of Ron Galella 1965-1989 edito da Greybull, con l’introduzione di Tom Ford che l’ha fortemente voluto nell’epoca della sua direzione creativa

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da Gucci), trasformando il risultato delle sue furtive incursioni in opere d’arte, pezzi da museo che ci restituiscono una fotografia indispensabile del costume americano del Secondo Novecento. SONO GLI ANEDDOTI a spiegare il successo degli scatti di Galella ed è dalla selva di retroscena e dialoghi avvenuti dietro le quinte che emerge un approccio al lavoro nutrito in primis da un’immensa ironia, che per diversi decenni lo ha spinto a mettere in gioco persino la propria incolumità pur di catturare l’immagine giusta. Ne è testimonianza il famosissimo incidente


LE SUE FOTOGRAFIE TESTIMONIANO L’EVOLUZIONE DEL COSTUME AMERICANO

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IL SUO INTUITO STAVA NEL COGLIERE IL MOMENTO IN CUI IMMORTALARE LE STAR

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1974, il famoso scatto di Paul Schmulbach che riprende Marlon Brando e Ron Galella al Waldorf Astoria Hotel di New York. Nella pagina a fianco: agosto 1967, Sharon Tate mentre girava Rosemary’s baby.

FOTOGRAFIA

con Marlon Brando, che ha poi posto le fondamenta per una immagine iconica di Paul Schmulbach, in cui Galella figura insolitamente dall’altra parte dell’obbiettivo. Era il 12 giugno del 1973 e Brando si trovava a New York per registrare un programma televisivo con Dick Cavett; Galella passò i giorni precedenti a studiare i movimenti dell’attore de Il Padrino. Nel corso della giornata lo pedinò dappertutto finché alla sera, nei pressi di un ristorante di Chinatown, un Brando ormai esausto dell’insistenza del paparazzo gli sferrò un pugno al volto che provocò la rottura di diversi denti (ma anche un risarcimento di 40mila

dollari). Flashforward, un anno dopo: Brando tornò a New York per una conferenza stampa e Galella, memore dei trascorsi non proprio amichevoli, si presentò indossando un casco da football americano e si fece fotografare accanto all’attore, diventando così il protagonista di una delle immagini più iconiche del mondo dei paparazzi, pubblicata in doppia pagina su People. RON GALELLA è un fotografo impossibile da etichettare, un artista che preferiva il realismo ricco di vita dell’immagine improvvisata e spesso sfuocata alla finzione paralizzante della

posa, per quanto più precisa e controllata. Un avventuriero prima ancora che un professionista, un appassionato prima ancora che un esperto, un segugio come pochi in un momento storico in cui l’ingegno pagava molto più di oggi. Un uomo dallo sguardo peculiare e capace come pochi di cogliere il momento in cui immortalare le star, spesso l’unico a disposizione. E non è un caso se Andy Warhol nel 1979 disse: «Una buona foto deve ritrarre una persona famosa mentre fa qualcosa di non famoso. Il suo essere nel posto giusto al momento sbagliato. Ecco perché il mio fotografo preferito è Ron Galella». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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FORMALE

GRINTOSO Giacche e pantaloni in pelle ridisegnano i nuovi modi del classico. DI GIOVANNI DE RUVO FOTO DI GIORGIO CODAZZI


Giacca, Alessandro Gilles; camicia, Canali; cravatta, Bigi Cravatte Milano. Nella pagina a fianco: cappotto doppiopetto in lana, giacca, camicia e cravatta, Canali; pantaloni in pelle, AMI; boots, Barrett.


Giubbotto in pelle, Hermès; camicia, Xacus; pantaloni, PT Torino; cravatta e guanti, Corneliani; boots, Barrett.


Giacca in pelle, camicia e cravatta, Tagliatore.


Giacca in pelle, Paul Smith; abito, Brioni; camicia e cravatta Canali; occhiali da vista, Tom Ford Eyewear.


Trench, Herno; camicia, Xacus; pantaloni in pelle, AMI; cravatta, Corneliani; boots stringati, Church’s.


Giacca in pelle e maglia con zip in lana, Sandro Paris; abito doppiopetto, Belvest; camicia, Xacus; cravatta, Bigi Cravatte Milano.


Giacca in pelle con inserti in maglia, Lemaire; abito, camicia e cravatta, Canali; calze, Red; stringate, Church’s.


Cappotto doppiopetto, abito, camicia e cravatta, Corneliani.


Abito, Kiton; maglia in pelle, Adelbel; camicia, Canali; cravatta, Bigi Cravatte Milano; borsa, Hermès. GROOMING: GIOVANNI IOVINE @ GREENAPPLEITALIA

© RIPRODUZIONE RISERVATA


PERSONAGGI

UN MISTERO

La biografia non autorizzata di Anna Wintour, già bestseller negli Usa, tenta di umanizzare un mito creato dallo stesso sistema in cui detiene il potere da 34 anni.

DI NOME ANNA

Longeva e inscalfibile, ha superato tutte le crisi possibili dell’editoria e, a 72 anni, non parla mai di successione. DI MICHELE CIAVARELLA

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UANDO nella mattina del 9 novembre del 2016 ha saputo che Donald Trump era stato eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, Anna Wintour si è presentata in ufficio, dove aveva chiesto di far riunire tutti i suoi collaboratori, e di fronte a loro è scoppiata a piangere. Il suo giornale aveva sostenuto Hillary Clinton e per lei cadevano definitivamente tutte le speranze di cambiamento della società americana. E anche del suo lavoro: forse si vedeva ambasciatrice a Parigi come, pare, le avesse propo-

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sto Barack Obama. Momento di rara umanità finalmente svelato da Anna: The Biography di Amy Odell (Simon and Schuster, in inglese). PER TUTTI quelli che si chiedono da anni, o meglio da decenni, che cosa si nasconde dietro gli occhiali scuri e la frangia inamovibile del taglio di capelli, l’arrivo in libreria di questa biografia non autorizzata rappresenta molto più di una speranza, quasi il disvelamento del segreto dei segreti più custodito dopo quello pronunciato a Fatima dalla Madonna. Anche perché la stampa americana che si è affretta-

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ta a recensirlo prima che arrivasse in libreria ne ha lodato l’audace impresa, tanto che Andrew Morton, il famosissimo autore di Diana: la sua vera storia (Rizzoli) ha sintetizzato sul New York Times: «È un affascinante ritratto della riservata regina della moda. Il diavolo è nei dettagli», dove per «riservata» evidentemente si intende che non le si scuce mai una dichiarazione su di sé e sul suo sistema di potere nemmeno sotto tortura. Anna Wintour, attuale chief content editor e direttore artistico mondiale di Condé Nast, oltre ad aver conservato la direzione di Vogue, poltrona di immenso potere dove


Con una tiara in testa Anna Wintour si è presentata al Met Gala 2022 il cui tema era Gilded Age.

UNA BIOGRAFIA PER SCOPRIRE CHE COSA SI NASCONDE DIETRO UNA FRANGIA DI CAPELLI INAMOVIBILE S T Y L E M AG A Z I N E

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PERSONAGGI

Nella pagina a fianco, in senso orario: una Anna Wintour quarantenne fotografata da Ron Galella; a Milano, accompagnata dalla tennista Serena Williams, per assistere alle sfilate della primavera-estate 2017; a New York sette anni fa, seduta accanto alla collega Grace Coddington; con Donna Karan nel 1990.

è seduta ininterrottamente dal 1988, è sopravvissuta a ogni contrazione del fatturato pubblicitario, a qualsiasi calamità che ha colpito il mondo dell’editoria almeno dal 2001 in poi oltre alle tantissime maldicenze che le sono piombate addosso in questi ultimi 34 anni. E se non ha potuto scalfirla l’immagine al limite della capricciosa isterica che ne ha fatto Meryl Streep nel film Il diavolo veste Prada, che anzi ha rafforzato la sua posizione all’interno della casa editrice americana, nessun graffio alla sua aura è arrivato dalle pesanti accuse di body shaming (perfino Oprah Winfrey fu costretta a perdere dieci kg prima di essere sulla copertina di Vogue nel 1998) e di razzismo mal celato lanciate dal suo ex delfino André Leon Talley. E ancora quando è stata accusata di non rispettare la diversity all’interno del suo gruppo di lavoro, le è bastato scusarsi confessando di essere «una persona abitudinaria, che per lavorare ripiega sempre sulle stesse persone con cui lavora da sempre» come certifica anche l’autrice di questa biografia. IL FATTO È che, in realtà, questa nuova fatica della letteratura d’inchiesta compiuta da Odel, che quando lavorava al sito dell’edizione americana di Cosmopolitan aveva deliziato i lettori con i segreti del «dietro le quinte» delle sfilate newyorkesi con Tales from the Back Row, tende a umanizzare una figura resa mitica anche dalla percezione che ne ha la sua industria di riferimento e tutto il sistema della moda, tanto da far sembrare la sua vita quella di una normalissima ragazza inglese che riesce a diventare la persona più potente del

mondo dell’editoria patinata semplicemente credendo nella sua ambizione. E il racconto scorre così liscio che quasi quasi il lettore può credere che il romanzo di una vita di potere possa iniziare con il ritratto di una bambina dal carattere da maschiaccio con i capelli tagliati a caschetto che nella Londra degli anni Sessanta improvvisamente si innamora della moda, lascia la scuola per andare a lavorare in una boutique, poi riesce a entrare in un giornale di moda e alla fine si ritrova prima direttrice di Vogue e poi faro inamovibile del sistema editoriale della moda. DETTA COSÌ appare anche simpatica, se non fosse che perfino la stessa autrice, folgorata sulla strada del caschetto, mette in guardia il lettore scrivendo che «la capacità di Wintour di entrare in empatia con gli altri è dibattuta». Una valutazione cauta che non le impedisce di descrivere il terror panico che prende le assistenti che devono assicurarsi di farle trovare al suo arrivo in redazione, sulla scrivania bianca, il muffin al latte con i mirtilli che, però, lei non mangia mai. La stessa premura porta l’autrice ad assicurare che è solo l’attaccamento al lavoro che ha spinto Wintour a tornare in ufficio con i lividi ben visibili di un lifting nel 2000. Come pure è tornata al lavoro nel 2001, il giorno dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle, chiedendo al suo staff di seguirla, raccomandando però di portare con sé «anche le scarpe basse nel caso fosse stato necessario scendere per le scale». Prima di addentrasi nelle testimonianze, comunque, Odell fa un doveroso riassunto della vita di Anna Wintour,

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anche se non svela particolari inediti. Si sa, infatti, che Anna nasce a Hampstead, Londra, il 3 novembre 1949, figlia del giornalista Charles Wintour (che sarà il direttore dell’Evening Standard) e dell’americana Eleanor Trego Baker (i genitori divorziano nel 1979). Nel 1966 lascia la scuola privata ma non va all’università perché preferisce lavorare nel mitico negozio Biba. Esperienza fallimentare: allora, il padre le trova un posto come assistente nella rivista Harper’s and Queen e, scrive Odell, «Anna aveva già gli occhiali neri e la frangia». Offesa dal fatto che in cinque anni non ottiene alcuna promozione, si trasferisce a New York e trova un posto da Viva, un magazine femminile senza alcun senso del glamour edito dal fotografo Bob Guccione. Non era contenta di quel posto e, improvvisamente, si ritrova redattrice a Vogue, dove si fa un’idea precisa del sistema e riesce a tornare a Londra dove arriva, inaspettatamente, alla direzione dell’edizione inglese: ormai Condé Nast è la sua casa. Poi la corsa: ritorno a New York per dirigere House & Garden e nella maniera più inaspettata possibile riesce a soffiare da sotto il naso della pur potente Grace Mirabella la direzione di Vogue Usa. E siamo al fatidico 1988. DOPO DI CHE, questa biografia non autorizzata riporta 250 testimonianze. Dichiara Odel che Wintour non ha mai risposto alle richieste di intervista né le persone a lei vicine accettavano di essere intervistate. C’è voluto un anno e mezzo di ricerca e soltanto dopo aver trovato persone del passato lontanissimo che hanno rilasciato dichiarazioni su episodi conosciutissimi soprattutto dopo

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Anna Wintour accompagnata da Tom Ford a un Gala di beneficenza di Gucci al Metropolitan Museum of Art di New York nel 2003. Tutt’altro abito per una cena organizzata da Giorgio Armani nel 1990. Nella pagina a fianco: con i consueti occhiali scuri alla London Fashion Week nove anni fa.

aver scovato le lettere del padre conservate alla fondazione Arthur Schlesinger («dove ho scoperto che all’inizio Anna si stava per trasferire a San Francisco e non a New York, il che avrebbe cambiato il corso della storia») che l’autrice riceve dall’ufficio di Wintour un elenco di persone che avrebbe potuto contattare. Ci sono stilisti, Tom Ford e Tory Burch, collaboratori di una vita, Grace Coddington (mitica direttrice artistica) e Mark Holgate (il fashion news director), amiche storiche come la veterana della scena sociale di New York, Anne McNally. Dalle 250 persone intervistate, comunque, non si riesce a sapere nulla di inedito.

LA TENNISTA Serena Williams, ad esempio, assegna a Wintour perfino poteri taumaturgici («ero in crisi, ma dopo aver parlato con lei ho vinto Wimbledon») mentre Holgate svela che fu Anna a convincere Hugh Jackman ad accettare il ruolo in The Greatest Showman mentre Stephanie Winston Wolkoff, che per moltissime edizioni ha organizzato il Metropolitan Gala (il trionfo intergalattico annuale della manifestazione di potere mascherata da evento social-benefico di Wintour) confessa che se nel menu della cena del più atteso evento mondano della fashion community non si trovano piatti con

l’erba cipollina è perché «ad Anna non piace come tutti i cibi che hanno un odore e rimangono fra i denti». Pazzesco: come abbiamo fatto a vivere finora senza queste informazioni? Ma la letteratura d’inchiesta americana riserva sempre fondamentali sorprese: alla fine, l’amica di lunga data McNally, alla domanda su che cosa farà Anna quando avrà finito a Vogue risponde: «Sa che quando non farà più questo lavoro, la sua vita sarà diversa. E tutto quello che dice è che forse verrà pagata per tutti i consigli che dà invece di darli gratis come fa ora». Fantozzi avrebbe commentato: «Come è umana lei, signora Wintour». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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IL LIBRO CONTIENE LE TESTIMONIANZE DI 250 PERSONE MA NESSUNO RIVELA EPISODI INEDITI S T Y L E M AG A Z I N E

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COSTUME

IDENTITÀ E COMUNITÀ UNITI IN NOME DEL LOGO La logomania crea immagini sacre ricorrenti che corrispondono a infinite microcomunità, di ogni genere, fluide e spesso instabili, che si riconoscono in una sorta di fede estetica ed etica. In un incrocio di significati e fatturati.

DI CRISTIANO SEGANFREDDO FOTO DI MATTHIAS VRIENS

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Oggi «la marca sta al posto di Dio per svariati motivi e tutti eminentemente di natura semiotica» (Gianfranco Marrone)

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N PRINCIPIO ERA IL LOGO. E il logo era addosso a noi. E il logo ci vestiva. E il logo parlava di noi e con noi. E il logo appariva ovunque. Stampato sopra i nostri cuori o portato sopra le nostre teste». Il logo è la nostra epoca, come forse scriverebbero Bret Easton Ellis o Andy Warhol. Siamo certo immersi nell’antropocene − coronacene, ma nulla è più potente del logocene. Il logo è il verbo che modula, regola e gerarchizza le nostre azioni. Un mantra che ha poco di religioso, non avendo scritture millenarie a supporto, se non qualche post e alcune stories. Rileggevo stamattina un passaggio puntuale di monsignor Gianfranco Ravasi a commento dell’incipit dell’apostolo Giovanni che con il «Logos», invece, apre il suo Vangelo dove «la creazione avviene attraverso un atto divino che è parola». Quell’azione di potenza creatrice si è oggi mondanizzata e si è fatto Logotipo. Grafico, minimal o colorato, bizzarro o 3D, e pure NFT e Meta, quella scritta è sempre protetta, non da Dio, ma sicuramente dagli uffici legali di mezzo mondo. E il valore di un brand ne incrocia la sua diffusione. Dirimpettaia alla fabbrica del Duomo di Milano, una grande insegna luminosa di Gucci, dopo decenni di scritta Ray-Ban, fa competizione simbolica con la Madonnina dorata, nelle foto dei tanti turisti. Perché i loghi oggi sono immagini sacre ricorrenti che corrispondono a infinite microcomunità, di ogni genere, fluide e spesso instabili, che si riconoscono in una sorta di fede estetica ed etica, simboleggiata da quel condensato di

significati, diretti o indiretti, che si materializzano in un logo, appunto. «Parafrasando un celebre detto della controcultura americana potremmo ormai dire che “if you don’t come to logo, logo will come to you” (se non puoi andare dal logo, il logo viene da te), spiega Leonardo Caffo, filosofo e scrittore, a sua volta simbolo generazionale della rinascita della disciplina filosofica dentro al magma della società. Il rapporto tra identità, immagine e comunità è profondamente cambiato ed eccede nel contemporaneo qualsiasi possibilità di classificazione domandaofferta. Anche il fake, il tarocco, l’imitazione, risente della legge dell’appartenenza al logo inteso come racconto e narrazione di uno stile di vita possibile che ha preso il posto di ciò che una volta facevano libri, televisori, giornali arrotolati sotto l’ascella: essere parte di un’identità, di un marchio, significa orientare una forma di vita nella società dell’immagine. È una delle questioni più decisive da affrontare nella teoria human studies oggi». E COSÌ LE IMMAGINi di Matthias Vriens in questo servizio lo spiegano in modo inequivocabile, sotto il sole, a luce piena. «Amo Armani», «Ho bisogno di Calvin Klein», «Lavorerò per Burberry», «Voglio Jil Sander». Quasi un atto di volontà e di richiesta fisica di appartenenza, riesplosa in questi anni, nell’eterno corso e ricorso della moda, con una logomania irrefrenabile, a ogni latitudine. Con una variante. Il logo singolo non basta più. Non bastano più quattro

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If you don’t come to logo, logo will come to you Logomania: quasi un atto di volontà e di richiesta fisica di appartenenza Vogliamo loghi bulimici e con una doppia sicurezza etimologica, a scanso di equivoci



Collaborazioni tra loghi e tra community, ad allargare senso, consenso, vendite e soprattutto mercati di riferimento. Gli esempi sono tanti

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cuciture bianche su una T-shirt nera a creare la mitologia, vedi Margiela o l’interno a scacchi di un trench di Burberry. Vogliamo loghi aumentati e potenziati, quasi moltiplicati. Bulimici e con una doppia sicurezza etimologica, a scanso di equivoci. La doppia FF di Fendi si incontra con la medusa di Versace per diventare Fendace sulla direttrice Milano–Roma, Balenciaga si fa pattern e partner con Gucci, con Adidas al centro dell’equilibrio, mentre Louis Vuitton, oggi il brand a più alta capitalizzazione della moda, sforna il triplete con Nike e Virgil Abloh (indimenticabile creatore). Moncler si fa Genius e porta i grandi creativi a collaborare sotto lo stesso piumino. Logo su logo, creativo su creativo e, spesso per estremi, tra lusso e mass market, tra alto e basso, JW Anderson per Uniqlo come i mitici Karl Lagerfeld o Comme des Garçons per H&M. Collaborazioni tra loghi e tra community, ad allargare senso, consenso, vendite e soprattutto mercati di riferimento. Gli esempi sono tantissimi. Fino al punto di rottura rappresentato dalle T-shirt di Vetements con DHL, una sorta di non ritorno del concetto di marca. Le uniformi gialle, che popolano le nostre città, diventano quasi uniformi consapevoli per gli adepti del marchio di moda. Il logo sconfina nel territorio della vita normale, della quotidianità quasi anonima e incontra brand di servizio che nulla hanno a che vedere con gli immaginari della moda. Da allora può succedere di tutto e tutto è concesso. Un fenomeno che Silvia Venturini Fendi spiega così: «I giovani richiedono

una moda con molta personalizzazione che si concilia l’uso diffuso del logo perché esso è diventato un pattern». È infatti un sistema di riferimento in continuo movimento, non più sedimentato sulle sicurezze del proprio passato, tema centrale per i marchi storici, ma in continua evoluzione, alla ricerca del proprio senso nel presente. Che va rinnovato su ogni piattaforma, da Instagram e TikTok. E adesso anche nel Metaverso. «A mio avviso il logo rappresenta un tratto identitario, il primo e il più immediato. Un segno distintivo per chi si ritrova in uno stile che è estetica e quindi assonanza di valori molto più complessi che sono stati risolti nella semplicità simbolica» ci ricorda Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, che ha costruito negli ultimi anni una narrazione efficace dove il brand e il suo «Vlogo» è al centro di un discorso articolato tra arte, letteratura, musica, editoria indipendente, diritti e genere. OGGI «LA MARCA STA al posto di Dio per svariati motivi e tutti eminentemente di natura semiotica», ricorda Gianfranco Marrone ne Il discorso di marca (Laterza). E la semiotica evidentemente fa bene ai conti degli dei dell’Olimpo. Ma più semplicemente sembra farci star bene, visto il successo planetario. Sono passati più di 20 anni dal manifesto No Logo di Naomi Klein. Grande successo e lettura centrale per approfondire uno sguardo critico sulla politica delle multinazionali. Da allora però nulla è cambiato anzi: «Alla fine era il logo». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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M O DA STYLE SELECTION

Il «sapore» del Borgo DI FIORENZA BARIATTI

Accoglie i valori del brand, si chiama Sartoria Solomeo e segue i dettami propri del «capitalismo umanistico»: il servizio su misura firmato Brunello Cucinelli.

A 25 ANNI Brunello Cucinelli fonda una piccola impresa con «l’idea di colorare il cashmere» seguendo l’etica secondo cui il lavoro deve rispettare «la dignità morale ed economica dell’uomo». Succede a Solomeo, Perugia, un borgo che si trasforma anche in laboratorio di idee: s’inventano qui, e restano in pianta stabile, il Teatro, il Foro delle arti, la Biblioteca universale, la Scuola di artigianato contemporaneo per le Arti e i mestieri… Ci sono però pensieri, opportunità e manufatti che emigrano e trovano altre collocazioni. Come succede anche con Sartoria Solomeo, il servizio costume made che segue il gusto del brand: «Un incontro personale con l’arte del fatto su misura. La tradizione artigianale si lascia raccontare dai paradigmi dell’eleganza contemporanea per creare una nuova

storia, un’esperienza ritagliata e cucita sui tratti unici della persona». L’esclusività di un laboratorio sartoriale che nasce dal Borgo di Solomeo e arriva così nelle boutique di New York, Parigi, Shangai e ovunque nel mondo. Eppure qui non c’è il sapore british di Savile Row dato dalla classicità dei laboratori immutevoli, qui c’è un altro gusto, quello che nasce dalla convinzione «che l’abito sia un punto di contatto tra passato ed evoluzione», ovvero che la formulazione di un capo sia un fatto in grado di guardare alla tradizione sartoriale e, nello stesso tempo, di interpretare le nuove tendenze di stile. «Gli abiti per gentiluomini li fanno i sarti inglesi» disse con snobismo l’attore Clifton Webb negli anni Venti, cento anni dopo la Casa di moda di Solomeo crea abiti su misura. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Un abito realizzato in Sartoria Solomeo riporta l’eccellenza dei tessuti e della manifattura proprie di Brunello Cucinelli.

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Borsone weekend in cuoio e lana tartan, Hermès.

TRADIZIONE

CONTEMPORANEA Elementi complementari allo stile con spunti british. Iconico. DI CARLO ORTENZI FOTO DI MARCO GAZZA


Stringate in pelle, Salvatore Ferragamo.


Boots in pelle e cardigan in lambswool, Tod’s.


Stivali in cuoio con fibbie in metallo, Miu Miu.


Chelsea boots in nabuk, Brunello Cucinelli.


Zaino in cuoio e suède, Paul Smith.


Stivali in pelle stampata con dettagli in metallo, Moschino.


Stivali e tracolla in pelle, Jil Sander.

© RIPRODUZIONE RISERVATA


VISIONI

VESTIRE IL SURREALISMO. LA MODA IN FORMA D’ARTE

Al Musée des Arts Décoratifs di Parigi va in scena «Shocking! Les mondes surréalistes d’Elsa Schiaparelli», un’esposizione che arriva nel momento in cui si riaccende il dibattito sul valore artistico della moda. Con 520 pezzi tra i quali gli omaggi dei colleghi e del suo successore Daniel Roseberry.

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EGLI ANNI tra le due guerre, a Parigi una giovane «italienne», come la chiamava la già famosa Coco Chanel che non la sopportava, con alle spalle una vita che oggi definiremmo avventurosa, era riuscita a raccogliere intorno a sé un circolo di artisti dell’avanguardia con i quali, oltre a divertirsi, inventava immagini inconsuete che poi diventavano vestiti. Si chiamava Elsa Schiaparelli ed era destinata a entrare nella storia della moda. Quando, nel 1954, diede alle stampe la sua autobiografia, Shocking Life (oggi in italiano da Feltrinelli) si auto denunciò scrivendo: «Poter lavorare con artisti come Bébé Bérard, Jean Cocteau, Salvador Dalí, Vertès e Van Dongen, con fotografi come Hoyningen-Huene, Horst, Cecil Beaton e Man Ray è stato emozionante. Mi hanno aiutata, incoraggiata, ben oltre la realtà materiale e noiosa della realizzazione di un vestito da vendere». Elsa Schiaparelli fotografata nel suo abito con boa di struzzo da George Hoyningen-Huene per Vogue nel 1932. Accanto, l’opera di Marcel Vertès, Schiaparelli, 21 place Vendôme, 1953, collage e pittura su legno.

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© CONDÈ NAST ARCHIVE / CORBIS; SCHIAPARELLI ARCHIVES

DI MICHELE CIAVARELLA


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La sua moda si può capire se si studia la sua formazione e la sua vita: padre orientalista e zio egittologo, si sposa giovanissima con un teosofo con cui scappa a New York ma divorzia e alleva la figlia da single

PER COMPRENDERE la dirompenza di questa autrice che sapeva utilizzare le culture e le diversità del mondo dell’arte, del cinema, della fotografia e della grafica, occorre riassumere la sua vita. Figlia dell’orientalista Celestino, nipote di Giovanni (l’astronomo che scoprì i canali di Marte), cugina di Ernesto (l’egittologo che trovò la tomba di Nefertari), nel 1911 Elsa pubblica una raccolta di poesie, Arethusa: i sentimenti ardenti che esprime nei versi affascinano la critica ma scandalizzano la famiglia. Mandata in un collegio della Svizzera tedesca, Elsa comincia a viaggiare e a Londra si imbatte in un professore di Teosofia, il franco-polacco William de Wendt de Kerlor: fidanzamento immediato e matrimonio nel 1914. Altro scandalo, ma con lo scoppio della guerra i giovani sposi fuggono a New York. E qui comincia la storia che porterà Elsa alla moda: suo marito intreccia una «relazione torrida» con Isadora Duncan, lei divorzia prima che nasca la figlia Yvonne Maria Luisa Radha, detta Gogo (la madre dell’attrice Marisa Berenson), a cui impone il suo cognome e imposta la sua esistenza di «donna sola con figlia» in totale autonomia dagli uomini, anche perché il suo nuovo amore, un cantante italiano del Metropolitan, muore di meningite fulminante. Stremata dalla povertà, nel 1924 decide trasferirsi a Parigi su suggerimento di Gaby Picabia, la moglie del pittore. Ma in quella città effervescente, abitata dalle avanguardie artistiche di tutto il mondo, che cosa poteva fare una giovane inesperta come Elsa? «La mia ignoranza era assoluta e il mio coraggio, di conseguenza, enorme», scrive nella biografia. L’abito da sera in organza con l’aragosta dipinta, 1937, una delle più famose collaborazioni tra Elsa Schiaparelli e Salvador Dalí. Accanto, la foto di George Platt Lynes a Dalí del 1939 esposta in mostra.

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© PHILADELPHIA MUSEUM OF ART; ESTATE OF GEORGE PLATT LYNES

A questa couturière anomala, nata il 10 settembre 1890 a Roma e scomparsa il 13 novembre 1973 a Parigi, fino al 22 gennaio 2023 il Musée des Arts décoratifs dedica Shocking! Les mondes surréalistes d’Elsa Schiaparelli, una mostra con 520 pezzi, tra cui 272 vestiti e accessori oltre a quadri, sculture, gioielli, flaconi di profumo, citazioni che negli anni le hanno dedicato Yves Saint Laurent, Azzedine Alaïa, John Galliano, Christian Lacroix e lo stesso suo successore Daniel Roseberry, il designer americano che dal 2019 ne è il direttore creativo chiamato da Diego Della Valle, proprietario del marchio dal 2006.


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VISIONI

AVEVA CAPITO, però, che la moda avrebbe potuto rappresentare una possibilità e cercò lavoro negli atelier, senza successo. Finché chiese a una sua amica profuga armena, Aroosia Mikaëlian, di confezionarle un «ensamble» ideato da lei. Era un pullover nero con un fiocco bianco allo scollo da abbinare a una gonna in maglia per un appuntamento con i responsabili dei magazzini americani Strauss: voleva fare la buyer per loro, finì che le ordinarono 40 pezzi del completo. Nasce così la moda surrealista: i primi maglioni con i tatuaggi dello scheletro umano (lo rifarà Moschino negli anni Ottanta) e i costumi da bagno con piccoli pesci stampati. Ben presto arriveranno le collezioni: Stop, Look and Listen, Neoclassica, Farfalle, Il circo, Commedia dell’Arte. Nel 1936, quando per lei lavoravano circa 400 sarte, la sua frequentazione con i Surrealisti è un dato di fatto nella vita intellettuale della capitale francese: Salvador Dalí disegna per lei l’abito da sera con l’aragosta dipinta su organza, la borsa di velluto a forma di telefono e un tailleur costellato di vistose labbra rosse mentre lei crea un tailleur con le tasche a cassetti sporgenti, come la famosa Venere di Milo con cassetti, la scultura che Dalí fuse nel 1936; Jean Cocteau inventa delicati profili di donna che poi Lesage, grande ricamatore dell’epoca, trasferisce sugli abiti da sera; Elsa Triolet e il marito Louis Aragon creano per lei collane ispirate alle pastiglie di aspirina. E non solo: nel 1937 decide di lanciare il suo primo profumo. Per il design della boccetta pensa al busto di gesso di dimensioni naturali che Mae West le aveva spedito per farsi fare un vestito, lo affida alla scultrice Leanor Fini che plasma il famoso flacone (negli anni Novanta lo riprenderà Jean Paul Gaultier per imbottigliare la sua prima essenza). Un successo sfolgorante che si scontra con il nazismo: allo scoppio della guerra Elsa si rifugia a New York. Tornerà a Parigi nel 1945, ma trova un mondo cambiato che la spinge a chiudere la sua Maison nel 1954. In soli quasi 20 anni di attività aveva cambiato molti parametri della moda ma si arrese al nuovo, soprattutto a quello rappresentato da Saint Laurent che amava più di tutti. Sua nipote, Marisa Berenson, che viveva con lei dagli anni Sessanta, racconta che la sgridava continuamente quando la vedeva uscire: «Perché ti vesti con quella roba lì?». Leonor Fini e Fernand Guéry-Colas, boccetta del profumo Shocking, 1937, cristallo e vetro. Accanto, Elsa Schiaparelli, dettaglio del mantello Phoebus, 1937, con il ricamo del sole barocco di Versailles. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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© SCHIAPARELLI ARCHIVES, ADAGP, PARIS, 2022; VALÉRIE BELIN

Salvador Dalí, Elsa Triolet, Alberto Giacometti, Leonor Fini, Jean Cocteau disegnano i suoi abiti e lei trasforma la «Venere con i cassetti» in un tailleur. In soli 20 anni impone ai couturier l’approccio all’arte


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ESSENZIALMENTE Basico, sobrio e primario. Riduzione al minimo per un look soft. DI LUCA ROSCINI FOTO DI LETIZIA RAGNO


Cappotto in cashmere e pantaloni con pinces, Loro Piana. Nella pagina a fianco: maglia in lana e pantaloni, Brioni.


Cardigan in lana, Antony Morato; pantaloni, Celine; boots, Sonora.


Dolcevita in lana e cotone e pantaloni con pinces, OutFit Italy.


Maglia in lana e pantaloni, Pal Zileri.


Cappotto doppiopetto in lana, pantaloni, Massimo Alba; cintura, Celine.


Cappotto doppiopetto in lana, maglia, PIOMBO in OVS; boots, Sonora. Nella pagina a fianco: cappotto doppiopetto in lana, Eleventy.



Cappotto in lana, Alessandro Gilles; dolcevita, Impulso; pantaloni, Marni; cintura, Celine.


Maglione in lana, pantaloni over, Zegna. GROOMING: LORENZO ZAVATTA


DESIGN

L’ACROBATA DELLA COMPOSIZIONE

Indirizzo esclusivo per professionisti dell’interior design, l’atelier su Misura continua una sperimentazione partita negli anni Cinquanta che soltanto un eclettico come Piero Fornasetti poteva immaginare. DI SUSANNA LEGRENZI

diceva l’amico Gio Ponti, un acrobata della composizione. Inaugurato nel 2020, Fornasetti su Misura offre un servizio di custommade che trasforma i desideri in progetti unici, personalizzabili con i disegni, i temi, i dettagli, le texture di quel luogo delle meraviglie che è l’Archivio Piero Fornasetti. In numeri: oltre 13mila tra disegni, schizzi, oggetti e decorazioni. «PROGETTARE SU MISURA è una sperimentazione presente fin dagli anni Cinquanta» racconta Barnaba Fornasetti, Direttore artistico e custode dell’eredità di suo padre Piero. «Le collaborazioni con Gio Ponti erano, in fondo, una forma di creazioni bespoke, come la luxury suite del transatlantico Andrea Doria. Da allora abbiamo tenuto in vita un “approccio sartoriale” e abbiamo realizzato progetti di interni

per abitazioni, imbarcazioni e hotel. L’intento è “cucire addosso” a ciascun cliente un vero progetto decorativo, da un singolo mobile fino ad arrivare a un intero ambiente, in grado di trasmettere tutto ciò che il linguaggio fornasettiano racchiude: l’ironia, il sogno, l’invito costante all’immaginazione». Lo showroom di via Senato restituisce solo in parte le molteplici possibilità di quest’universo fatto di dettagli sorprendenti, nel segno, nei materiali, nell’ebanisteria, nei colori, nelle foglie oro e argento sempre finemente dipinte a mano. I designi dell’archivio, dai temi naturali ai paesaggi urbani, dalle macchine volanti alle chiavi segrete, si ricompongono in nuove variazioni che vanno ad avvolgere forme inedite, dando vita a un gioco di mondi immaginari, che sembra parafrasare un appunto pubblicato nel 1956 sulla ri-

Un’eccentrica suite al Mandarin Oriental di Milano. Tutta firmata Piero Fornasetti: sue le iconiche carte da parati Riflesso e Chiavi segrete, il tavolo Ultime notizie, la consolle Architettura, gli specchi comunicanti e altri, numerosi, elementi di design.

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FOTO: GEORGE APOSTOLIDIS

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RCHITETTURE, costellazioni, volti, mongolfiere, pesci… Nel centro di Milano, dove ha sede Fornasetti su Misura, si può scegliere di personalizzare un pannello, un paravento, una boiserie, un cabinet di sei metri. Oppure sognare più in grande come ha fatto L’Albereta Relais & Châteaux, nel cuore della Franciacorta, dove il tratto «fornasettiano» ha foderato un’intera piscina, realizzata con 600mila tessere in mosaico Bisazza. In un’immagine: il viso della cantante lirica Lina Cavalieri, la più celebre musa di Piero Fornasetti, che sembra affiorare dall’acqua, tra una cascata di petali. Le possibilità sono (quasi) infinite. Come lo è l’immaginazione di Fornasetti, pittore, stampatore, grafico, collezionista, stilista, artigiano; o, più semplicemente, come



DESIGN

«Vorrei costruire un museo Fornasetti, a misura di Fornasetti. Immagino di poter esporre tutto l’archivio e le riproduzioni di ambienti ed estetica: l’occasione per una totale libertà e fantasia»

vista Domus: «Forse anche Fornasetti, allestendo in casa sua le stanze piene di Fornasetti, deve essere stato preso da questa ossessione di comporre dei “fornasetti” coi “fornasetti”». Di recente Fornasetti su Misura ha introdotto anche una nuova possibilità di customizzazione mediante l’utilizzo del vetro. Il linguaggio visivo dell’atelier trova così spazio in nuove soluzioni: pannelli a muro, pareti divisorie, porte e cabine armadio. «Siamo maniacali nella decorazione e costantemente alla ricerca di superfici da

decorare» confida Barnaba Fornasetti. «Il vetro, proprio grazie alle sue caratteristiche, accoglie ed esalta i nostri decori, amplificando i giochi illusori e d’inganno prospettico: accostare la trasparenza al tratto grafico nero, giocare con strutture retro-illuminanti che esaltano la vivacità dei colori sono solo alcune delle possibilità di customizzazione che proponiamo. La porta a vetri all’interno degli ambienti, ad esempio, è un elemento degli interni che si presta parecchio alla decorazione. Anche mio padre aveva già sperimentato con

questo materiale ma limitandosi a tecniche come sabbiatura e acidatura. Oggi, con le possibilità esistenti si può andare anche oltre, riproducendo sulla lastra di vetro qualunque immagine». E se fosse Barnaba Fornasetti il cliente di Fornasetti su Misura, cosa chiederebbe? «Vorrei costruire un museo Fornasetti, a misura di Fornasetti. Immagino di poter esporre tutto l’archivio e le riproduzioni di ambienti ed estetica: l’occasione per una totale libertà e fantasia». La stessa che ha guidato il padre Piero: «Non voglio essere chiamato designer, io sono un rinascimentale europeo, senza tempo, senza stile, senza epoche».

FOTO: MATTEO IMBRIANI; ANNA POSITANO

A DARE SOSTANZA a questa short-bio oggi come ieri sono le collezioni per la tavola, le carte da parati, i mobili, a cui si sono aggiunte anche le collezioni di candele e fragranze. Oggetti unici senza tempo, senza stile, senza epoche. Senza limiti. Come ricorda il volto enigmatico di Lina Cavalieri declinato da Piero Fornasetti in oltre 500 versioni differenti. Del resto, «la fantasia chiama la fantasia» come affermava lui, inaugurando la sua immaginifica avventura con quel celebre foulard di seta, proposto alla Triennale di Milano, che catturerà l’attenzione di Gio Ponti.

Seicentomila tessere in mosaico Bisazza in 25 differenti gradazioni sfumature di rosa e azzurro compongono il fondo della piscina coperta de L’Albereta Relais & Châteaux in provincia di Brescia (sopra). Nella pagina a fianco: l’atelier Fornasetti su Misura a Milano. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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CONTRIBUTI

IL CAMBIAMENTO CHE NON C’È STATO DISPIACE DIRLO... MA ERA SOLO MARKETING

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ASHION CRITICS e opinionisti ci aggiornano continuamente a proposito dei presunti cambiamenti del sistema fashion. Sembra quasi che si vogliano (e ci vogliano) convincere. Ma mettendo a confronto il post con il pre pandemia, sorge spontanea una domanda: è davvero cambiato qualcosa? Ne parliamo con Olivia Spinelli (coordinamento e direzione creativa di IED Moda Milano) e con Alessia Marcon (studentessa al terzo anno di Fashion Design che fa parte del collettivo e-Satête) alla quale abbiamo chiesto di scrivere il suo punto di vista.

Olivia Spinelli, parlando di sostenibilità a che punto siamo? Dipende. Si è innescato un meccanismo grazie al quale ogni azienda che produce moda sente l’esigenza e l’obbligo di porre attenzione sull’aspetto della sostenibilità: una volta dichiarato non puoi fare un passo indietro. Ma prima di entrare

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in un’ottica sostenibile al cento per cento, cosa tra l’altro impraticabile, ci vogliono volontà, investimenti e controllo e i tempi e le risorse per garantire prodotti eco compatibili non sempre ci sono. La macchina è partita, ma sulle scadenze europee, secondo me, purtroppo ancora non ci siamo. A proposito di sostenibilità, in piena pandemia s’è fatto un gran parlare di moderare il ritmo di produzione e di presentazione delle collezioni…. Se uno si fosse addormentato nel 2019 e risvegliato oggi non avrebbe notato alcun cambiamento: la metamorfosi che molti auspicavano (e della quale si sono fatti portavoce) non c’è stata. Basterebbe pensare al numero di sfilate ready-to-wear, resort, alta moda: gli eventi si sono addirittura moltiplicati e, con loro, sono aumentati gli spostamenti, i viaggi, le trasferte di stampa, buyers e ospiti. Altro che rispetto per l’ambiente. Quindi era solo marketing. Sì, dispiace ammetterlo, ma era solo marketing. Guardi l’ultima Milano Fashion Week (giugno 2022): la foga è la stessa di prima, la cadenza delle

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FOTO: ELISA BONTEMPO

DI ALESSANDRO CALASCIBETTA


Olivia Spinelli, coordinatrice e direttrice creativa di IED Moda Milano.

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QUANDO SI FA PARTE DI UN GRANDE GRUPPO DEL LUSSO SI È OBBLIGATI A INCREMENTARE I FATTURATI E I CEO INFLUENZANO LA CREATIVITÀ

sfilate e delle presentazioni in calendario rischia suo malgrado di offuscare eventi come la sfilata di IED Moda Milano (Body Meets Body Meets Body), alla quale, infatti, ha partecipato poca stampa. Lo spazio per i giovani indipendenti non gode del supporto dei big player e dei grandi gruppi. Dispiace constatarlo, ma l’atteggiamento non è diverso dagli anni Ottanta. Mi piacerebbe che tutto fosse ritardato, rimodellato con una formula più inclusiva. Per assurdo: i marchi di moda più giovani sembrano ripercorrere il modus dei loro antenati. Lo sviluppo dello stile, di stagione in stagione, è coerente. Al contrario di ciò che succede altrove, dove non sempre la firma è riconoscibile. Da questo punto di vista, il fatto di non appartenere a grandi gruppi è una fortuna. Quando entri a far parte di una realtà economicamente potente, e quindi ingombrante, sei costantemente obbligato a incrementare i fatturati. In effetti succede che il Ceo si sostituisca al creativo imponendo una direzione estranea alla sensibilità del designer incaricato… Sì, con operazioni commerciali spalmate nell’anno e volte a immettere sul mercato in primis hype, e subito dopo merce. Per tornare alla sua osservazione, ad Armani, Dolce&Gabbana, Hermès – solo per citarne alcuni – questo non succede: vanno diritti per la loro strada. Perché sono proprietari del marchio. Si vocifera che in un futuro abbastanza prossimo, la figura del designer sia destinata a scomparire e che i top brand potrebbero affidare le creatività a figure estranee al mestiere come influencer, artisti e talenti dello spettacolo. Una strada peraltro già battuta ma, per adesso, de-

stinata solo alla creazione delle famose capsule collection. Pensa che sia possibile? Mi sento di escluderlo, sebbene oggi sia (quasi) indispensabile un’apertura verso piccole comunità provenienti da canali di comunicazione diversi come la musica e l’arte che — non conoscendo a fondo la materia — possono esprimersi, mi verrebbe da dire ingenuamente, ma diciamo liberamente. Dando vita a un interscambio esperienziale che in qualche caso ha portato a qualcosa di straordinario. Ma per fare questo lavoro ci vogliono tanto studio e talento. E un po’ di fortuna, che non guasta mai. A giugno ha sfilato il menswear. Si intravede un ritorno del formale; un formale moderno, certo. Le nuove generazioni, che rifiutano lo stereotipo del maschio in giacca e cravatta, si avvicineranno con uno spirito diverso allo stile classico/tradizionale? Secondo me c’è voglia di cose ben fatte, di capi che abbiano elementi e dettagli provenienti dalla sartoria; poi sono casting e styling che mischiano le carte: volti e portamenti che trasformano il rigore in scioltezza. Non c’è più quell’esigenza di un’eleganza coordinata. Pensi all’operazione Gucci con Adidas, la giacca è diventato un capo quasi sportivo; non rappresenta più il potere maschile. Viceversa, ad esempio al cinema o nelle serie tv, la giacca serve (ancora) per raffigurare l’immagine di una donna potente. Buffo, no? Voi non ne avete più bisogno, noi, a quanto pare, sì. Quanti sono gli studenti, ogni anno? Considerando solo i fashion designer che si diplomano, un centinaio. Però mi rendo conto che quelli che hanno un vero talento… ...Rimangono stritolati da un sistema che, alla fine, non è cambiato. Sì. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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FOTO: ROSDIANA CIARAVOLO/GETTY IMAGES FOR IED

CONTRIBUTI


Un look della collezione di Luca De Prà che ha sfilato al Body Meets Body Meets Body, il Graduate Fashion Show IED Milano dello scorso giugno.

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CONTRIBUTI

IL RUOLO DELLA MODA DI ALESSIA MARCON IN COLLABORAZIONE CON IL RESTO DEL COLLETTIVO E-SATÊTE

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URANTE LA PANDEMIA tutto era rallentato e la macchina della moda non è stata un’eccezione. Si respirava un’aria di cambiamento: sembrava che finalmente fosse chiaro a tutti l’insostenibilità della sovrapproduzione e dei ritmi frenetici della moda. I grandi marchi promettevano collezioni meno ampie, sfilate meno frequenti e dedizione alla sostenibilità. Eppure, le buone intenzioni sono svanite e si è tornati a produrre come nulla fosse successo. Forse si può incolpare l’euforia della fine della pandemia che ha incrementato la voglia di creare, di incontrarsi, di festeggiare. O forse stavamo cercando la speranza nel luogo sbagliato. In fondo, è veramente plausibile che i grandi brand rallentino la loro produzione a discapito della loro espansione? Anche se in molti casi sono stati fatti passi verso strategie produttive e commerciali più sostenibili, ciò non è abbastanza e risulta superficiale. Sostenibilità e grandi produzioni sono es-

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senzialmente antitetici poiché dietro a un grande marchio c’è sempre un’intenzione di generare e vendere più del necessario. Sostenibilità non significa solamente usare tessuti organici ed evitare la plastica, ma soprattutto combattere la sovrapproduzione. Per questa ragione, la vera sostenibilità e innovazione, almeno per ora, viene promossa solo da brand più piccoli con produzioni minori: operando in contesti più circoscritti, è più facile controllare la produzione e prendere azioni responsabili. C’È POI UN’ALTRA QUESTIONE che è quella dell’innovazione. Ancora una volta, sono i brand emergenti a vincere la partita. I grandi budget dei big player permettono sfilate spettacolari, ma il prodotto che poi viene venduto nei negozi non è altrettanto originale. I designer emergenti, invece, tendono a mantenere una certa coerenza tra sfilata e prodotto. In un mercato così saturo, l’unicità è il mezzo di sopravvivenza per un nuovo brand che altrimenti si perderebbe tra decine di marchi

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LE IMMAGINI IN QUESTA PAGINA SONO RIPRESE DAL VIDEO ANIMATION A CURA DI ANTONIO D’ADDIO - @CERULZ (ALUMNUS E DOCENTE IED)

I capi progettati da e-Satête per Il futuro visto da Milano sono in Marm\More, tessuto ottenuto con le polveri di marmo, e sono trasformabili (ad esempio la gonna, prima a sinistra, diventa una borsa a tracolla). Tutto il guardaroba è stato progettato con il software CLO3D che ha consentito dei render realistici, senza alcuno spreco di tessuto.


Le sei menti del collettivo e-Satête, ipotetico esagono creativo modellato sulla pianta di Milano, che hanno immaginato un guardaroba sostenibile che nasce da un design responsabile: Lorenzo Attanasio, 22 anni; Gaia Ceglie, 22 anni; Anna Maria Conocchioli, 20 anni; Susanna Cozzani, 21 anni; Alessia Marcon, 22 anni; Pietro Zanoletti, 21 anni.

simili. Per i grandi nomi della moda invece, dati i tempi incerti che stiamo vivendo, ricorrere ai basici o alla semplicità sembra essere la strategia. Dal punto di vista del profitto, una maglietta con il logo è sempre una certezza. CIÒ NON SIGNIFICA che i grandi brand non debbano muoversi nell’ambito della sostenibilità o che non possano essere innovativi, significa che hanno più strada da fare per uscire dal meccanismo serrato in cui sono. Come consumatori dobbiamo continuare a pretendere comportamenti responsabili in tutte le fasi del ciclo produttivo. L’incombenza della crisi climatica non ha il tempo per aspettare un cambio che potrebbe richiedere decenni. Per questa ragione, è fondamentale che i piccoli brand siano tutelati perché sono loro a promuovere il cambiamento. Nuovi brand e talenti vanno supportati sempre, ma ancora di più in seguito alla pandemia. Se un grande marchio può considerare l’emergenza sanitaria ed economica pressoché finita, lo

stesso non vale per i piccoli. Come studenti abbiamo sentito profondamente della mancanza di fisicità durante la nostra formazione, avvenuta in parte online. La moda è invece fatta per essere toccata, provata e vissuta e la tecnologia è uno strumento che possiamo usare a nostro favore (ad esempio il software CLO3D). Ma la moda non può diventare completamente digitale. Per quanto vorremmo farlo, non ci si può dimenticare della pandemia così facilmente. Anzi, è proprio ora il momento di affiancare brand e talenti emergenti ancor più di prima. eSatête è nato come «progetto ideale» per avanzare la proposta di come un brand debba muoversi in un contesto come quello di Milano oggi. Ciò significa che la nostra intenzione non è dare veramente luce al brand e-Satête, ma di prendere parte alla conversazione sul ruolo della moda oggi. Per questa ragione, abbiamo realizzato una pagina Instagram (@e.satete) del progetto così da trasmettere il nostro messaggio a un pubblico nazionale e internazionale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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L ’ U LT I M A P A R O L A

di Jordan Bowen e Luca Marchetto / JordanLuca

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