STYLE.CORRIERE.IT NUMERO 1 - GENNAIO 2021
Il mensile del
MAL D’AMORE Anche i maschi ne soffrono
MARCO BELINELLI «I’m back»
RITORNI
Il nuovo film di Leonardo Di Costanzo
MODA
Quel che resta dell’inverno
+
ANTEPRIMA P-E 21
DAVEED DIGGS «RACCONTO STORIE DI EMPATIA E CONVIVENZA. E CONTINUO A LOTTARE CONTRO LA DISCRIMINAZIONE»
Black rap matters ABITI: FAY ARCHIVE
N° 1 gennaio – Poste Italiane SpA – Sped. in a.p. – D.L. 353/03 conv. in L. 46/04, art. 1, comma 1, DCB Milano Il 13 gennaio con il Corriere della Sera 2 € (Style Magazine 0,50 € + Corriere della Sera 1,50 €). Non vendibile separatamente. Nei giorni successivi a richiesta con il Corriere della Sera, Style Magazine 2 € + prezzo del quotidiano.
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PREVISIONI A-I 21-22
Cappotti doppiopetto, trench marziali, dolcevita in lana, dettagli in pelle e accessori seventies.
pag 54
8 Contributors 11 Editoriale - Contro la diffidenza
di Alessandro Calascibetta
13 Almanacco - Remise en forme
di Andrea Bozzo
15 Graffio - Napule è
di Andrea Rossi
Qui mondo
16 Usa. Qualcuno ha detto Patria? di Pier Andrea Canei
Lifestyle di Fiorenza Bariatti
18 Svezia. L’ex banca dove nacque una sindrome di Luca Roscini
19 Repubblica Dominicana. Ritratto di donna in 35 mila tessere
CHECK
21 Tv. Lupin è tornato
di Giacomo Fasola
22 Photobook. Mimi Plumb nella terra di nessuno di Susanna Legrenzi
23 Libro. Paura e delirio? Nel condominio
di Paolo Beltramin
24 Mostra. Alighiero, mio fratello per scelta di Michele Ciavarella
25 Musica. Sveglia con i Clash! di Pier Andrea Canei
TIPS
KEYWORD: Convivenza
67 Auto. Sportiva da città
28 Daveed Diggs. «Perché non sono fiero di essere americano»
di Paolo Artemi - foto di Federico Miletto
68 Orologi. Alla ricerca delle proprie radici
di Valentina Ravizza - foto di Sofia Sanchez & Mauro Mongiello - styling di Fabio Immediato
di Diego Tamone
36 Oriana Fallaci e Shirley MacLaine. Due donne on the road
di Allan Bay - foto di Federico Miletto styling di Veronica Leali
40 Leonardo Di Costanzo. Tenere conto dell’altro
di Fiorenza Bariatti - foto di Gianni Fiorito
di Valentina Ravizza - foto di Federico Miletto styling di Veronica Leali
44 Cohousing. Tutti insieme sostenibilmente
76 Menswear. L’uomo delle nevi
di Pier Andrea Canei
di Cristina Manfredi - styling di Angelica Pianarosa
MODA/1
di Pier Andrea Canei
di Enrico Rossi
72 Cucino io. Fregula tradita 74 Drink. Alchimia torinese
84 Identikit. Yosuke Aizawa
48 Reference - Il parco con la metropoli intorno
86 Beauty. Take your time
54 Menstyle - Come a Central Park
88 Weekend a Cortina d’Ampezzo. Sci o no, sempre il top
di Enrico Dal Buono - foto di Bruce Davidson di Luca Roscini - foto di Giorgio Codazzi
di Gioele Panedda - foto di Michele Gastl
di Sara Porro
90 Weekend ad Alghero. Principesca fuga d’inverno
di Ornella D’Alessio
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S T Y L E M AG A Z I N E
sommario gennaio 2021
92 Viaggio in Italia Val d’Ayas, rivisitata di Stefano G. Pavesi
MODA/2
98 Style Selection. Uno stile fatto di inizi
di Luca Roscini - foto di Pier Nicola Bruno
100 Style Selection. Nuova vita al tessuto
di Fiorenza Bariatti
102 Incontri. Qualcosa deve cambiare
CULTURE
134 History repeating Il nemico è la bomba atomica
di Andrea Purgatori
139 Macromicro Perché non siamo competitivi
di Daniele Manca - infografica di Matteo Riva
142 Arte. Colpi di scena tra contraddizioni e conflitti
di Martina Corgnati
di Alessandro Calascibetta
146 Design. Senza confini
PREVIEW PRIMAVERA-ESTATE 2021
di Valentina Ravizza - illustrazione di Carla Indipendente
105 Designer e Maison. Mutazioni maschili in uno stile che cambia di Michele Ciavarella
PORTFOLIO
128 Marco Belinelli. Stati Uniti A/R: «Non cambierei nulla»
di Giacomo Fasola - foto di Ilaria Magliocchetti Lombi styling di Angelica Pianarosa
di Susanna Legrenzi
148 Scienza. L’origine della vita è nello spazio
150 Inchiesta Gli uomini e l’amore
di Edoardo Hensemberger
PREVIEW AUTUNNO-INVERNO 2021-2022 154 Anteprima. La moda che verrà
di Cristina Manfredi
STORYTELLING
178 La versione di Michael di Giuliana Matarrese
S T Y L E M AG A Z I N E
Pellicole scadute per ricreare i sogni di un bambino che tra i monti della Val d’Ayas si scoprì fotografo.
pag 92
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STYLE Il mensile del
magazine
anno 17 n. 1 gennaio - 13 gennaio 2021
STYLE.CORRIERE.IT NUMERO 1 - GENNAIO 2021
Il mensile del
STYLE È PUBBLICATO DA RCS MEDIAGROUP S.P.A.
DIRETTORE RESPONSABILE
Alessandro Calascibetta MAL D’AMORE Anche i maschi ne soffrono
MARCO BELINELLI «I’m back»
RITORNI
Il nuovo film di Leonardo Di Costanz
ART DIRECTOR
FASHION DIRECTOR
Tiziano Grandi
Luca Roscini
+
ANTEPRIMA P-E 21
+ PREVISIONI
DAVEED DIGGS
A-I 21-22
«RACCONTO STORIE DI EMPATIA E CONVIVENZA. E CONTINUO A LOTTARE CONTRO LA DISCRIMINAZIONE»
Black rap matters
CAPOREDATTORE
Fiorenza Bariatti
Michele Ciavarella
REDAZIONE
Pier Andrea Canei (vice caposervizio) Giacomo Fasola (vice caposervizio e coordinamento web) Valentina Ravizza REDAZIONE GRAFICA
ABITI: FAY ARCHIVE
FOTO: Sofia Sanchez
Laura Braggio Giorgio Fadda
STYLIST: Fabio Immediato
PHOTO EDITOR
& Mauro Mongiello ABITI: Fay Archive
Chiara Righi PRODUZIONI ATTUALITÀ E COORDINAMENTO MODA
Silvia Giudici PRODUZIONI MODA
Alessandra Bernabei MODA
Giovanni de Ruvo, Angelica Pianarosa (collaboratori) BEAUTY
Gioele Panedda (collaboratore) Rosy Settanni WEB
Davide Blasigh, Gaetano Moraca (collaboratori) UFFICIO DI PARIGI
PROGETTO GRAFICO
Tiziano Grandi
Nicoletta Porta Chiara Pugliese COORDINAMENTO TECNICO: Emanuele Marini BRAND MANAGER:
MENSILE DISTRIBUITO CON IL HANNO INOLTRE COLLABORATO A QUESTO NUMERO:
Barbara Stefanelli
Silvano Belloni, Pier Nicola Bruno, Ornella D’Alessio, Enrico Dal Buono, Giorgio Codazzi, Gianni Fiorito, Edoardo Hensemberger, Fabio Immediato, Ilaria Magliocchetti Lombi, Cristina Manfredi, Giuliana Matarrese, Mauro Mongiello, Stefano G. Pavesi, Sara Porro, Enrico Rossi, Sofia Sanchez
VICEDIRETTORI
Daniele Manca, Venanzio Postiglione, Giampaolo Tucci
questo numero è stato chiuso in redazione martedì
S T Y L E M AG A Z I N E
Alessandro Bompieri
– Sede sociale: via Angelo Rizzoli 8 20132 Milano – Redazione: via Angelo Rizzoli 8, 20132 Milano, tel. 02 2584.1, fax 02 25846810 – Stampa: ELCOGRAF S.p.A via Mondadori 15, 37131 Verona – Registrazione Tribunale di Milano n. 31 del 18/01/2005 – © 2014 RCS MediaGroup S.p.A. – Testi e foto © RCS MediaGroup S.p.A. possono essere ceduti a uso editoriale e commerciale. –Syndication – Press Service: www.syndication.rcs.it, press@rcs.it Responsabile del trattamento dei dati personali (D. Lgs. 196/2003): Alessandro Calascibetta.
CONCESSIONARIA PUBBLICITÀ
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Annalisa Gali
Luciano Fontana
Marilù Capparelli, Carlo Cimbri, Alessandra Dalmonte, Diego Della Valle, Uberto Fornara, Veronica Gava, Gaetano Miccichè, Stefania Petruccioli, Marco Pompignoli, Marco Tronchetti Provera
INTERNATIONAL EDITIONS Maria Francesca Sereni, tel. +39 02 25844202 (mariafrancesca.sereni@rcs.it) Content Syndication: press@rcs.it Web: www.syndication.rcs.it
SEGRETERIA DI REDAZIONE E CASTING
DIRETTORE RESPONSABILE
Urbano Cairo CONSIGLIERI:
MODA
Quel che resta dell’inverno
PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO
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dicembre
2020
ABBONAMENTI Per informazioni telefonare allo 02 63798520 (lun-ven, 7,00-18.30; sab-dom, 7,00-15,00). Poste Italiane S.p.A. – Sped. in a.p.–D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art.1, comma 1, DBC Milano. ARRETRATI Rivolgersi al proprio edicolante, oppure ad arretrati@rcs.it o al numero 02 25843604 comunicando via e-mail l’indirizzo e il numero richiesto. Il pagamento della copia, pari al doppio del prezzo di copertina deve essere effettuato su Iban IT 97 B 03069 09537 000015700117 BANCA INTESA - MILANO intestato a RCS MEDIAGROUP SPA.
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CONTRIBUTORS Francesca Acerboni Architetto e giornalista, scrive di progetti, interni, viaggi, lifestyle e design (Domus, ARK, Bauwelt). Organizza itinerari a tema tra ville, rifugi, centrali idroelettriche in Italia, Francia e Svizzera; ha curato libri su Patricia Urquiola, Matteo Thun, Kazuyo Komoda. Milanese di Porta Romana, cuore alpino, pedala per la città e cammina per valli e vette trentine. pag 44
Giorgio Codazzi Classe 1986, nasce in Brasile per poi trasferirsi in Italia ancora bambino. Da grande inizia gli studi di moda a Milano e durante un corso sviluppa la passione per la fotografia che, pochi anni dopo, diventerà professione. I suoi maestri sono Richard Avedon e Irvin Penn, soprattutto negli scatti di ritratti con luce naturale in studio. pag 54
Ornella D’Alessio Viaggiatrice genovese, dopo aver scorrazzato per il pianeta in oltre 100 Paesi, negli ultimi anni si è dedicata alle meraviglie italiane. Alghero e il Parco di Porto Conte fanno parte dei suoi luoghi del cuore, così come le piste ciclopedonali nate dal recupero delle ferrovie dimenticate. Ne ha raccontate 20 di tutt’Italia nell’ultimo libro, Vie verdi, appena uscito per i Tipi di Cinquesensi. pag 90
Giuliana Matarrese Pugliese di nascita e milanese d’adozione, è arrivata alla moda ascoltando David Bowie e il glam rock degli anni Settanta. Viaggiatrice seriale, ha lavorato per Icon, L’uomo Vogue e Glamour. Oggi scrive di moda e lifestyle, continuando a tenere, con un certo ottimismo, la valigia pronta. Da questo numero inizia la collaborazione con Style con la rubrica Storytelling. pag 178
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S T Y L E M AG A Z I N E
EDITORIALE
di Alessandro Calascibetta
Contro la diffidenza
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LA PANDEMIA ha rafforzato un sentimento, che definirlo tale pare un ossimoro, orribile: la diffidenza. Immaginate quanto è diventato potente, quanto si è corroborata la paura dell’altro oggi che ci avviciniamo con prudenza, che non ci abbracciamo più. La CONVIVENZA (da pag 27) era già difficile prima. Figuriamoci oggi. Eppure la convivenza «potrebbe essere una fonte di gioia» dice Leonardo Di Costanzo, regista illuminato che nel 2012 ha diretto un lungometraggio sul tema della coabitazione forzata, L’intervallo, definito da Paolo Mereghetti «un capolavoro». Nel suo prossimo film, del quale vi parliamo nell’intervista a pagina 40, Di Costanzo riprende il concetto con l’intento di evidenziare che «la specie più adatta non è la più forte e aggressiva, bensì quella che inventa forme attive di convivenza». Quando avremo superato la spallata Covid e le emergenze che ne derivano, compresa quella psicologica, dovremo riabilitare il significato di comunità. E di solidarietà.
FOTO: LEONARDO BECHINI
(alessandro.calascibetta@rcs.it) (Instagram @alecalascibetta)
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ALMANACCO
di Andrea Bozzo
Gennaio2021
remise en forme S T Y L E M AG A Z I N E
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For Everyday Journeys
See us at HOLUBAR.COM
IL GRAFFIO
di Andrea Rossi
«vissuto come un napoletano, morto come un russo»
Napule è
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Renato Caccioppoli: personalità scientifica dai molteplici interessi letterali, filosofici e musicali.
OPO UN ANNO difficile, tormentato e cattivo, perdonatemi se mi aggrappo a un libro, come un naufrago nel mare in tempesta, per ritrovare brandelli di umanità e lampi d’intelligenza. Il libro s’intitola Il gallo di Renato Caccioppoli e l’ha scritto per Colonnese, piccola e preziosa casa editrice napoletana, Jean-Noël Schifano, che sarebbe Gian-Natale, per metà francese e per metà siciliano, amante ricambiato di Napoli e della sua scintillante esistenza. Meraviglioso, arguto e spiazzante, racconta la storia, con testo a fronte in napoletano, di uno spirito libero e di una città delle meraviglie e del suo barocco. Una storia barocca per un’intelligenza barocca, laddove il barocco è esattezza delle forme. Una storia che ispirò il bellissimo film del 1992 Morte di un matematico napoletano di Mario Martone (foto in alto, l’attore Carlo Cecchi che lo interpreta). Renato Caccioppoli, nato a Napoli nel
1904 e scomparso suicida nel 1959, «vissuto come un napoletano, morto come un russo» scrive Schifano, era uno scienziato e molte altre cose ancora: professore geniale e nipote di Michail Bakunin, comunista irriverente e artista maledetto, bevitore esagerato e fumatore incallito, musicista e incantatore di anime. Il fascismo era per lui una metafora della stupidità, e lo stalinismo non fu da meno. Nel 1938 il regime aveva imposto per legge che nessuno potesse portare al guinzaglio cani di piccola taglia perché gesto da pederasti, come usava chiamare gli omosessuali. Più il cane era piccolo, più grande era la multa. E allora lui che fece? Indossò il suo impermeabile spiegazzato, uscì da palazzo Cellammare, dove viveva, e s’incamminò per la città con un gallo al guinzaglio, provocazione leggendaria e leggiadra. Come quando intonò La Marsigliese, lo stesso anno, davanti a un gruppo incredulo di nazisti e camicie nere che lo gonfiò di botte. Un libro necessario, oggi più che mai.
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LA MISSIONE: NON RETORICA TRUMPIANA MA VERE STORIE DI SOLDATI
La Global War Gallery, dedicata ai teatri della Seconda Guerra mondiale (con pezzi storici come il carro armato Sherman M4 chiamato «Cobra King»): tra le sale più grandi del NMUSA, realizzato dallo studio Skidmore, Owings & Merrill di Chicago.
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QUI MONDO
Virginia, USA
Qualcuno ha detto Patria?
© DAVE BURK / SOM
Il nuovo National Museum of the United States Army, a mezz’ora da Washington, nella cittadella militare di Fort Belvoir: si presenta come PORTA D’ACCESSO per conoscere le storie dei 30 milioni di americani che hanno servito nell’esercito. (p.a.c.)
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QUI MONDO LIFESTYLE
A metà tra uno spazio espositivo e un negozio. Nello store di Acne Studios nella piazza di Norrmalmstorg a Stoccolma, tavoli e mensole sono in marmo, così come pareti e colonne.
Svezia
UNO SPAZIO CHE SEMBRA UN TEMPIO: L’EX BANCA DOVE NACQUE UNA SINDROME DI LUCA ROSCINI
LA GENTILEZZA SALVERÀ IL MONDO. Deve essere quello che hanno pensato i telespettatori svedesi seguendo la diretta del sequestro di quattro impiegati di una banca nel centro di Stoccolma il 23 agosto del 1973. Prigionieri di Jan-Erik Olsson, che per sei giorni li tenne chiusi nel caveau dell’edificio, gli ostaggi svilupparono un’affezione per il rapitore (che si guadagnò la loro fiducia con gesti di gentilezza quasi amichevoli) che da allora venne definita Sindrome di Stoccolma, cioè la benevolenza verso i propri aguzzini. Oggi quel luogo è il flagship store di Acne Studios, brand svedese di casualwear di tendenza nato nel 1996, da poco ristrutturato riportando a vista i materiali originali della banca e rivelando pareti e colonne in marmo dal richiamo classico: quasi uno spazio espositivo, o meglio, secondo Jonny Johansson (foto a fianco), direttore creativo del marchio, «un tempio, un luogo che non appartiene a nessuno ma è di tutti». Anche della storia della psicanalisi.
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QUI MONDO LIFESTYLE
Audacity, il colorato mosaico artistico, grande quasi due metri per tre, accompagna i già ricchi e variegati arredi del ristorante Maraca (in basso, Ramón E. Jiménez Vicens).
Repubblica Dominicana
RITRATTO DI DONNA IN 35 MILA TESSERE TAGLIATE A MANO DA MAESTRI MOSAICISTI
FOTO: HAROLD LAMBERTUS
DI FIORENZA BARIATTI
SE SI PENSA a Santo Domingo vengono in mente spiagge interminabili e foreste di mangrovie; atmosfere mutate dall’eredità africana, spagnola e indigena che procedono a suon di merengue e bachata; profumi di caffè e di rum... Ecco il quadro – stereotipato ma invitante – in cui è inserito, in Zona Colonial, il ristorante Maraca, un locale dagli interni un po’ vintage e un po’ eccentrici con rivestimenti in tessuti colorati, lampadari come intrecci di opere d’arte, piante calate dai soffitti e, new entry, un grande mosaico frutto di una collaborazione a tre composta da un artista (Willy Gómez, in arte Willgom, art director da Leo Burnett, illustratore e street artist), un architetto (Ramón Emilio Jiménez Vicens, secondo il quale un progetto per avere un’identità deve usare diverse composizioni di elementi, creando un ambiente particolare e unico in ogni spazio) e Sicis (l’azienda di Ravenna che produce le tessere e realizza i mosaici con la tecnica artistica tradizionale). Ed ecco Audacity: il ritratto di donna composto da 35 mila tessere in vetro di Murano e vetrite.
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nobile di nascita, spumeggiante di natura www.maximilianspumanti.it
CHECK TV
trasformazioni incredibili che sullo schermo paiono realistiche
L’attore Omar Sy è Assane Diop nella serie Lupin, disponibile su Netflix.
Lupin è tornato LA STORIA DEL LADRO GENTILUOMO FA DA SFONDO ALLA NUOVA SERIE FRANCESE DI NETFLIX CON OMAR SY. DI GIACOMO FASOLA ARSENIO LUPIN, il geniale ladro
inventato da Maurice Leblanc nel 1905, ha ispirato nel corso del Novecento lungometraggi e fumetti, manga e serie tv. Ora Netflix ha riadattato quello stesso personaggio in chiave contemporanea: la serie si chiama Lupin, appunto, e il protagonista è l’attore francese Omar Sy, già premio César per Quasi Amici, il film di Olivier Nakache ed Éric Toledano. Assane Diop è un uomo affascinante e tormentato. Nel suo passato c’è una ferita mai rimarginata: quand’era ragazzo suo padre, immigrato dal Senegal, si è suicidato nel carcere dov’era rinchiuso per il furto di un collier di grande valore. Da un giorno all’altro si è ritrovato solo, con un libro dal titolo Arsenio Lupin, ladro gentiluomo come unica eredità. Venticinque anni dopo, quando ricompare il collier rubato che era costato la vita al padre, Assane ha completato la sua mutazione nel personaggio inventato da Leblanc. Vive a Parigi in un appartamento pieno di travestimenti, possiede doti da prestigiatore e conosce le arti marziali.
È colto, elegante, furbo e proprio come Lupin non ricorre mai alla violenza: un ladro gentiluomo, insomma, che è ancora convinto dell’innocenza del papà e vuole scoprire la verità per scagionarlo. PER RIUSCIRCI, Assane si finge prima
un addetto alle pulizie del Louvre e poi un ricchissimo uomo d’affari. Nel corso dei primi episodi lo vediamo scappare dalla polizia travestito da rider, sostituirsi a un criminale in prigione e fingersi tecnico informatico per rapire un poliziotto. Trasformazioni apparentemente incredibili che sullo schermo paiono realistiche. In questo senso, il gioco di Lupin è simile a quello de La casa di carta; è come se gli autori dicessero allo spettatore: «Ti sembra impossibile? Adesso ti facciamo vedere che è possibile e ti spieghiamo come». Fra i registi della serie c’è Louis Leterrier, già dietro Now you see me – I maghi del crimine. Ma se Lupin sta in piedi gran parte del merito va a Omar Sy, perfettamente a suo agio nel ruolo del ladro trasformista.
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Le altre serie in uscita American gods 3
su Amazon Prime Video Il terzo capitolo del fantasy basato sull’omonimo romanzo di Neil Gaiman. Con Ricky Whittle.
Baghdad central
dal 18 gennaio su Sky Atlantic e Now Tv Serie britannica ambientata in Iraq nel 2003, appena dopo la caduta di Saddam Hussein.
Losing Alice
dal 22 gennaio su Apple Tv+ Thriller noir su una regista ossessionata da una giovane sceneggiatrice. Una produzione israeliana.
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CHECK PHOTOBOOK
una fotografia generazionale di un’america lontana
Mimi Plumb nella terra di nessuno LA CALIFORNIA DEGLI ANNI SETTANTA VISTA DA UNA RAGAZZA. UN QUADRO DI «GIOVENTÙ SUBURBANA». DI SUSANNA LEGRENZI
CHE COSA ACCADE quando una fotografa
definita «una outsider di passaggio» decide dopo 30 anni di riaprire l’archivio per condividere la sua infanzia trascorsa nel cuore degli anni Settanta? A raccontarlo direttamente è lei: Mimi Plumb, documentarista americana, con casa e studio a Berkeley, California. «A 13 anni indossavamo jeans scoloriti, strappati alle ginocchia, magliette bianche aderenti, lunghi capelli lisci con la riga in mezzo. Vagavamo per il paesaggio suburbano nascondendoci negli angoli, fumando sigarette, cercando cose da fare». Pubblicato da Stanley/Barker, The White Sky è esattamente questo: un ritratto generazionale di un’America lontana, un intreccio di noia e stupore, adolescenti che guardano il mondo senza farne parte, corse in bicicletta in una no man’s land senza segni di riconoscimento, il tiro di una sigaretta sul davanzale di una finestra, case senza storie, auto rovesciate, rovine di un presente sgretolato insieme al grande sogno di una West Coast, fotografata con una distanza siderale dall’epica dei suoi anni d’oro. «Durante la mia infanzia, all’ombra del Monte Diablo, nel sobborgo di Walnut Creek, ho guardato dolci colline punteggiate da case e centri commerciali: per noi adolescenti erano le più tristi del mondo».
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«L’asprezza del paesaggio mi feriva gli occhi: basse colline marroni ricoperte di erba secca che mi graffiavano le caviglie, code di volpi impigliate nei calzini. Ho sempre cercato un posto dove nascondermi da questo cielo bianco» (Mimi Plumb).
The White Sky Mimi Plumb 136 pagine fotografie b/n Stanley/Barker 52 euro (in lingua inglese)
S T Y L E M AG A Z I N E
DAGLI ANNI SETTANTA Plumb ha esplorato argomenti che vanno dalle sue radici suburbane al movimento United Farm Workers, il sindacato per i lavoratori agricoli. Il suo primo libro, Landfall, First Photobook Award 2029 Paris Photo, è una raccolta di immagini degli anni Ottanta, che racchiudono le ansie di un mondo che gira fuori equilibrio. In The White Sky, invece, Plumb fa un passo indietro. Mette mano a vecchi negativi fotografici in bianco e nero per tornare nel punto dal quale è partita, portandoci per mano in un racconto intimo, spingendoci a chiedere a noi stessi chi siamo stati prima di ora, condividendo quelle emozioni che rendono l’adolescenza uno stato dell’anima universale.
CHECK LIBRO
come se
«il deserto dei tartari» fosse una miniserie alla david lynch
Paura e delirio? Nel condominio IN UN FUTURO CHE SEMBRA GIÀ ORA, PERSONE COME NOI IN LOTTA PER
FOTO: JEROME SESSINI / MAGNUM PHOTOS
LA SOPRAVVIVENZA: UN BEL FANTA-THRILLER A PORTE CHIUSE. DI PAOLO BELTRAMIN MICHEL FA IL CUSTODE in un palazzo di lusso, 40 appartamenti di 1.000 mq ciascuno dove in camera da letto capita di trovare appesa al muro una natura morta di Cézanne. In quale città è ambientata questa storia? Non si sa. Quando? Neanche, ma pian piano si capisce che siamo in un futuro prossimo e per niente rassicurante. Un giorno di prima mattina tutti i facoltosi inquilini (tranne uno, che vive in clausura al 37esimo piano) fanno le valigie e se ne vanno per non tornare mai più. Da cosa stanno scappando? Non si sa. Michel (protagonista-narratore) e il suo fidato collega Harry decidono comunque di rimanere al loro posto, asserragliati nel seminterrato dell’edificio, fedeli agli impegni presi con il datore di lavoro, una fantomatica Organizzazione della quale (a questo punto ormai ci si arriva da soli) nulla è dato sapere. Passano i giorni, i mesi, forse perfino gli anni: il nemico è alle porte ma non arriva mai, in un’atmosfera sospesa che sembra Il deserto dei Tartari in versione postmoderna, tipo miniserie diretta da David Lynch. Già tradotto in 12 lingue, Il guardiano del belga
fiammingo Peter Terrin arriva in Italia con l’aura (meritata) del piccolo romanzo di culto. «IL GENERE DISTOPICO l’ho sempre amato»,
ha raccontato l’autore: «Tutti ci chiediamo come reagiremmo in un futuro apocalittico, se dovessimo batterci per sopravvivere». Come capita nel romanzo: i protagonisti hanno una scorta di 2.250 cartucce nove mm, ma potrebbero non bastare; i viveri scarseggiano e anche la luce elettrica sta per spegnersi. La scrittura di questo fanta-thriller a porte chiuse è elegante, la suspence crescente, il ritmo (spezzato in 185 rapidissimi capitoli) serrato. Né noir romantico alla Raymond Chandler, né giallo scuola Agatha Christie dove tutti i tasselli del puzzle alla fine si ricompongono, ma lettura sorprendente, bizzarra, a tratti disturbante. Con un guardiano così, prendere sonno è un impresa. Dal 27 gennaio in libreria, Il guardiano di Peter Terrin, tradotto da Claudia Cozzi, pubblicato da Iperborea. Il libro, uscito nel 2014, ha vinto un premio EUPL (assegnati da federazioni librai, editori, autori UE).
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CHECK MOSTRA
«che cosa facevo prima di incontrarlo? nulla. sono nato con lui»
Alighiero, mio fratello per scelta LE OPERE DONATE A SALMAN ALI E UN LIBRO RACCONTANO IL RAPPORTO FAMILIARE TRA BOETTI E IL SUO ASSISTENTE.
LA MOSTRA IN PROGRAMMA a Milano,
Salman AliGhiero Boetti, da Tornabuoni Arte fino al 31 marzo, racconta una storia che si compone di amicizia, arte, eventi storici ed equilibri di geopolitica, di convivenza e scelte di vita. È il racconto della relazione fraterna tra due uomini, l’artista Alighiero Boetti che nel 1971 arriva a Kabul, Afghanistan, e sceglie come abitazione e studio quello che diventerà il famoso One Hotel, e Salman Ali, 23enne nato a Jaghori, che nella capitale del Paese di nascita trova lavoro nell’albergo che l’artista ha trasformato nell’esempio concreto del suo concetto artistico: come si può leggere nelle sue mappe, infatti, l’arte di Boetti si fonda sull’accoglienza dell’altro e si nutre di molteplicità, armonia e confronto tra mondi lontani e diversi. Esempio di coerenza tra espressione pubblica e vita privata, Boetti trasforma l’incontro con Ali in un’amicizia che negli anni diventerà una fratellanza. Tanto che nel 1973 l’artista, il più radicale tra i fondatori dell’Arte Povera tanto che se ne stacca perché ritiene che la pittura
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rappresenti una sorta di separazione dal mondo reale e tradisce gli ideali del Sessantotto, chiede al suo assistente afghano di seguirlo a Roma. Ali da allora vivrà per sempre accanto all’artista diventando un membro della famiglia Boetti: con lui, la moglie Anne Marie Sauzeau e i bambini, si occupa della casa e dello studio dove garantisce l’ordine perché «tutto andasse bene e che capo fosse tranquillo» come scrive nel libro dallo stesso titolo (Forma) che esce in occasione della mostra dove espone le opere che l’artista gli ha regalato. IL VOLUME METTE TUTTO in chiaro fin
dall’incipit: «Un giorno mio figlio mi ha domandato cosa facevo prima di aver incontrato Alighiero. Gli ho risposto: “Sono nato con Alighiero”. Perché è vero». Ed è in questa riconoscenza che non diventa mai sudditanza né complicità che questa storia, che si legge in un doppio livello nelle opere esposte e nelle 90 pagine di testi e foto del libro, trova il suo valore nella forma inedita di famiglia e fratellanza per scelta.
S T Y L E M AG A Z I N E
Sopra, Faccine colorate, Alighiero Boetti, 1979: intervento a mano su stampa serigrafica. Sotto, Boetti e Salman Ali nello studio di Trastevere, Roma, nel 1975.
© ALIGHIERO BOETTI BY SIAE 2020; FOTO: GIORGIO COLOMBO
DI MICHELE CIAVARELLA
CHECK MUSICA
quarant’anni, e riscoprirli (con un nuovo video)
Sveglia con i Clash! QUANDO GLI EROI DEL PUNK INGLESE INCONTRARONO L’HIP HOP A NEW YORK: RIECCO THE MAGNIFICENT SEVEN, PRIMO RAP BIANCO. DI PIER ANDREA CANEI
RING, RING, IT’S 7 AM! A dare la migliore sveglia agli anni Ottanta, con questo attacco del singolo The magnificent seven sono loro: The Clash. Quattro magnifici scappati di casa dell’Inghilterra thatcheriana. I quali, dopo aver infiammato la scena del 1979 con il doppio album London Calling, l’anno dopo rilanciano addirittura con il triplo Sandinista! Formidabile, caotico barrage di influenze punk, rock, reggae, black in 36 pezzi che la band aveva registrato tra Manchester, Londra, la capitale giamaicana Kingston (che frequentavano perché infatuati del reggae e da Lee «Scratch» Perry, famoso e fumoso mago della sala di registrazione), e a New York. Qui scoprono la nuova America: quella dello street style e dei ritmi del nascente hip hop, con le potenti megaradio portatili di allora, dette «Ghetto blaster» a diffondere per ogni dove, da Alphabet City al South Bronx, il boom di formazioni come Grandmaster Flash & The Furious Five o i Sugarhill Gang (la cui Rapper’s Delight, hit del 1979 con un’incisiva linea
di basso scippata da Good times, inno discomusic degli Chic, rappresenta il primo manifesto di quel nuovo modo black di scandire storie e rime che inizia a essere conosciuto come «rap»). L’AVVENTUROSO, indimenticato Joe
1981, i Clash sbarcano a New York; immagini ripescate in un video di Don Letts per i 40 anni di The magnificent seven, pezzo cult dall’album Sandinista!
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Strummer, cofondatore dei Clash, grande testa creativa e ruggito del rock da combattimento, si fissa sul nuovo genere: allora, in tutta fretta, durante le registrazioni di Sandinista!, si piazza in un cantuccio e di getto, tipo flusso di coscienza, butta giù il suo testo sardonico-satirico che racconta una giornata standard della massa indistinta che si alza e va al lavoro sotto un bombardamento di radio, news, pubblicità, autorità oppressive, consumismo pervasivo. Molto avanti sui tempi, The magnificent seven fece più strada nei club che in classifica; ma resta il primo «rap bianco» (primato conteso da Blondie con Rapture) e continua a funzionare benissimo sia come sveglia sia come perfetta fusione di generi.
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Milano. Collezione Primavera-Estate.
www.piscinecastiglione.it
KEYWORD DAVEED DIGGS
FOTO: FABIO CUTTICA / CONTRASTO
«Non sono fiero di un’America fondata sulla schiavitù»
FALLACI-MACLAINE
Due donne on the road tra cowboy e indiani, neri e razzisti
DI COSTANZO
Il più forte è chi inventa forme attive per convivere
COHOUSING
L’abitare collettivo è un tema di attualità perché è sostenibile
Convivenza Sao Paulo, Brasile, giugno 2014. Un vagone della metropolitana alla fermata Praça da Sé in un’epoca in cui gli assembramenti non erano vietati e il distanziamento sanitario non si chiamava «sociale».
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PERCHÉ NON SONO FIERO DI ESSERE
AMERICANO Daveed Diggs non usa mezzi termini contro «una società fondata sull’istituzione della schiavitù». Alla violenza di alcune proteste del movimento #BlackLivesMatter risponde con l’arte: «Dobbiamo raccontare storie che creino un maggiore spazio di empatia». Al cinema, a teatro e con il rapt DI VALENTINA RAVIZZA FOTO DI SOFIA SANCHEZ & MAURO MONGIELLO STYLING DI FABIO IMMEDIATO
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QUANDO LEGGERETE quest’intervista Daveed Diggs
si starà preparando a due eventi che ha a lungo atteso: il primo, professionale, è l’uscita della seconda stagione di Snowpiercer, la serie distopica (su Netflix dal 25 gennaio) ispirata all’omonimo film del regista coreano (premio Oscar 2019 per Parasite) Bong Joon-ho; il secondo, per il quale l’attore e rapper si è impegnato personalmente senza temere di esprimere opinioni forti, è il deciso cambio di rotta della politica statunitense, con l’insediamento del neo-presidente Joe Biden il 20 gennaio. Comincia a parlare di Snowpiercer, Diggs, raccontando come la lotta di classe a bordo del fantascientifico treno che corre all’infinito su una Terra ormai inabitabile si trasformerà in questi nuovi episodi in «una guerra fredda, una battaglia politica per i cuori e le menti della gente», e viene da chiedersi se non si stia riferendo anche all’America post-Trumpiana. «Chiudere l’umanità dentro 1.001 carrozze ci permette di osservare da vicino tutte le questioni macroscopiche che la nostra società, e il sistema di governo e di potere, stanno affrontando». Allo stesso modo la lotta del suo personaggio, Andre
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Prima che attore, sceneggiatore e produttore, Daveed Diggs si definisce un rapper: il suo ultimo album, uscito nel 2020 con i Clipping, s’intitola Vision of bodies being burned. abito, ermenegildo zegna xxx
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«Amo i progetti che offrono uno sguardo non convenzionale sulla storia. Anche i cosiddetti eroi, quelli a cui dedichiamo le statue, hanno commesso degli errori»
Layton, per i diritti del «Fondo», i reietti che sono riusciti a imbucarsi a bordo senza biglietto e ora vivono relegati ai limiti della sopravvivenza, non sembra distante da quella personale di Diggs per il movimento #BlackLivesMatter. Anche negli Usa la battaglia si sta spostando dalle strade alle stanze del potere? Le proteste hanno attirato molta attenzione, ma sono solo la parte più visibile della questione: a livello profondo ancora non c’è stato alcun cambiamento concreto per gli afro-americani. E parlo degli ultimi 100 anni. Anche per la parte di Paese che condivide lo stesso desiderio di creare una società più equa è assai difficile farlo davvero, perché l’intera economia è costruita sulla penalizzazione dei neri. Continuo a sperare in un cambiamento più deciso, ma in fondo sono rassegnato a un progresso lento. Da dove dovrebbe cominciare il cambiamento? Non so se ci sia un punto di partenza, il problema della discriminazione riguarda ogni aspetto della società. Quello che io cerco di fare è raccontare delle storie che riflettano l’esperienza delle persone che troppo raramente vengono rappresentate al cinema o in tv. Per creare un maggiore spazio di empatia. Ha dedicato a questo tutta la sua carriera: dal musical Hamilton, che rilegge in chiave moderna (e con un cast inclusivo come non se n’erano mai visti prima a Broadway) la nascita degli Stati Uniti, alla sitcom Black-ish, fino alla recente miniserie The Good Lord Bird - La storia di John Brown che porta alla luce l’episodio scatenante delle rivolte degli schiavi che sfociarono nella guerra di secessione americana. C’è una precisa scelta politica dietro questi ruoli? Diciamo che sono stato fortunato (ride). Quello che amo di questi progetti è che offrono uno sguardo non convenzionale sulla storia e permettono di riflettere su personaggi che siamo abituati
Dal 25 gennaio l’attore sarà protagonista della seconda stagione della serie thrillerdistopica Snowpiercer, (su Netflix). cappotto, ermenegildo zegna xxx
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a osannare, e magari di farli scendere dal piedistallo. Anche i cosiddetti eroi, quelli a cui dedichiamo le statue, hanno commesso degli errori. Penso a Thomas Jefferson che credeva al 100 per cento nell’istituzione della schiavitù: possiamo ammettere che si sbagliava pur continuando ad apprezzare altri suoi contributi al Paese. A proposito di statue, quelle di diversi personaggi controversi del passato sono state recentemente oggetto di una campagna iconoclasta. Non c’è il rischio che si sfoci in una damnatio memoriae? Sono totalmente a favore della rimozione dei monumenti ai generali confederati o ai colonizzatori, Cristoforo Colombo incluso, ma bisognerebbe andare oltre e chiedersi se abbia davvero senso dedicare una statua a qualcuno, interrogarsi su quale sia il valore dell’arte pubblica. Perché non dovremmo poterla cambiare per riflettere i tempi, sostituendo opere del passato con altre di artisti contemporanei che rappresentino meglio i valori in cui crediamo oggi? Lei a chi erigerebbe un monumento? Agli insegnanti che hanno lasciato un segno, agli eroi quotidiani che si impegnano per la comunità. Sarà che lei stesso è stato un professore supplente appena dopo la laurea alla prestigiosa Brown University? Stare in una classe mi andava un po’ stretto, ma credo molto nell’importanza dell’istruzione. Faccio ancora parte dei College Advising Corps, un’organizzazione che si batte per assicurare un migliore accesso all’educazione superiore per ragazzi provenienti da contesti economicamente svantaggiati. C’è qualcosa che quell’esperienza le ha lasciato? Insegnare, lavorare su un personaggio o scrivere una sceneggiatura in fondo sono la stessa cosa: si tratta di risolvere i problemi in modo creativo per suscitare una risposta emotiva. E l’ho imparato proprio dalla musica, dal rap, che per me è stato l’inizio di tutto.
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Diggs è ora impegnato come autore in Blindspotting, la serie tratta dall’omonimo film del 2018 di cui era stato autore e produttore oltre che attore. cappotto, felpa
con cappuccio e jeans, fay archive; boots, ermenegildo zegna
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«INSEGNARE, RECITARE O RAPPARE? SI TRATTA SOLO DI RISOLVERE I PROBLEMI IN MODO CREATIVO PER SUSCITARE UNA RISPOSTA EMOTIVA»
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«Abbiamo la pessima abitudine di politicizzare problemi che invece dovrebbero essere affrontati fidandosi solo della scienza. Dal cambiamento climatico al Covid»
Dalle barre (i «versi» del rap) è passato presto alla sceneggiatura: durante il lockdown ha trasformato il film del 2018 Blindspotting, di cui era già stato attore, autore e produttore, in una serie tv. Sì, la stiamo finendo di girare ora. Uno dei miei rimpianti riguardo al film era di non aver potuto dare abbastanza spazio al personaggio di Ashley (la moglie del co-protagonista, interpretata da Jasmine Cephas Jones, ndr), quindi sono partito proprio da lei. Rafael Casal e io siamo tra i pochi autori uomini ad aver scritto una serie che ruota tutta attorno a una protagonista femminile, e per non finire vittime dei nostri stessi pregiudizi ci siamo fatti aiutare da sceneggiatrici donne. La serie, come il film, è ambientata a Oakland, la città sull’altro lato della baia di San Francisco dove lei stesso è cresciuto e che ha indicato come incarnazione del senso di comunità. Cosa significa? C’è uno spirito, un’energia unica nella Bay Area che sembra fatta per nutrire gli artisti. A me piace chiamarla un «virtuosismo casuale»: sono cresciuto circondato da musicisti jazz incredibili, grandi scrittori e tante altre persone che sarebbero arrivate ai massimi livelli ciascuno nel suo campo, e questo mi ha insegnato a impegnarmi sempre al massimo. Ed è arrivato ad avere tra i suoi fan persino Barack Obama. L’industria dello spettacolo sta diventando più inclusiva? Oggi ci sono sempre più ruoli per attori neri, ma il problema è a monte: ci sono pochi sceneggiatori neri che scrivono i personaggi, e così finisci a recitare dei copioni che senti falsi perché non rispecchiano la tua esperienza. E questo è vero per i latinos, per il mondo queer, per le donne… Le femministe spesso incolpano le donne di essere le peggiori nemiche di loro stesse. Vale anche nella lotta contro le altre discriminazioni? Il problema è che spesso si tende a pensare le minoranze come a un gruppo compatto, come
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Per il doppio ruolo di Gilbert du Motier de La Fayette (nel primo atto) e Thomas Jefferson (nel secondo) in Hamilton, musical cult di Broadway, l’attore ha vinto un Tony Award e un Grammy. giacca e pantaloni, giorgio armani
ha collaborato:
mersi kasemi; grooming: tasha reiko brown
@the wall group; production:
peter mcclafferty
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se tutti i neri o le persone LGBTQ+ la pensassero allo stesso modo e invece chiaramente non è così. Ad esempio ci sono stati alcuni di loro che hanno votato per Donald Trump. Io personalmente continuo a credere che stare dalla parte di Trump significhi difendere il suprematismo bianco, e che condividere alcune sue posizioni sull’economia non sia una motivazione sufficiente per sostenerlo, ma capisco che non tutti gli afroamericani o tutti i democratici la pensino allo stesso modo… Quanto ci metterà la società americana a guarire da questi quattro anni di divisioni? Il fatto è che non sono solo quattro anni che la nostra società è spaccata, questa stagione politica ha solo peggiorato le cose. E temo che ci vorrà molto di più di uno o due mandati di presidenza Biden per costruire un’equa convivenza sociale, un’America in cui ciascun cittadino possa riconoscersi: questo sarà l’obiettivo di tutti i prossimi inquilini della Casa Bianca. Perché io stesso oggi non posso essere patriottico, non sono orgoglioso di essere americano. Al momento in cima all’agenda di Biden c’è sicuramente la lotta al cambiamento climatico. È una questione che le sta a cuore? Assolutamente sì, dovremmo esserne tutti preoccupati. I segnali sono evidenti – inondazioni, erosione delle coste, incendi –, purtroppo però in questo Paese abbiamo la pessima abitudine di politicizzare problemi che invece dovrebbero essere affrontati fidandosi soltanto della scienza. Persino nell’emergenza Covid-19 siamo riusciti a trasformare l’utilizzo della mascherina, che i medici ci dicono essere l’unico mezzo efficace, insieme al distanziamento, per contenere il contagio, in una scelta politica. Usciremo migliori da questa crisi? Dobbiamo! O ne usciamo migliori o non ne usciamo proprio. Diciamo però che sono cautamente ottimista: l’America ha sempre un’incredibile capacità di deludermi.
«LFERCHILIT ET ET QUE EATIA DES ENDANIH ILLABORES ATISTIA DIT ISTIS ALIQUAM QUI AUT EX ESSEQUI RE VEL IDEBIS E»
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DUE DONNE ON THE ROAD Sono trascorsi 55 anni dal viaggio di Oriana Fallaci e Shirley MacLaine alla scoperta di un Paese in cui convivevano nativi americani e cowboy, homeless e divi del cinema, neri e razzisti. Un’avventura che dice ancora tanto sull’America di oggi DI ENRICO ROSSI
Un pullman della Trailways, una delle più grandi aziende di trasporto Usa, negli anni Sessanta.
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Shirley MacLaine fotografata da Oriana Fallaci durante il viaggio negli Stati Uniti che fecero insieme nel 1965. L’attrice di Hollywood e la giornalista italiana si erano conosciute grazie a un’intervista (foto da collezione privata).
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CHE COSA UNISCE due persone più di un viaggio on the road attraverso la vastità del suolo americano? Un simbolo universale, quello del vagare in cerca di qualcosa, associato alla libertà. «L’America è vuota, almeno per un terzo della superficie, disabitata. E immersa nel silenzio» rifletteva Oriana Fallaci nel 1965, all’inizio dell’avventura in auto con Shirley MacLaine che ha raccontato nel libro Viaggio in America (Bur). Prima di partire, l’attrice le aveva detto: «Gli indiani del New Mexico, i cowboy del Texas e dell’Oklahoma: sono l’America. Le dive che prendono il sole sulle piscine turchesi e tengono alla porta la Cadillac con l’autista: sono l’America. I negri del Mississippi, i nuovi rivoluzionari che s’alzano in piedi
gridando il loro diritto a essere uguali: sono l’America. I membri del Ku Klux Klan che bruciano le croci dinanzi alle case dei negri e linciano i negri: sono l’America. (...) Ma l’America vera, intera, qual è? Non lo saprai mai e dopo questo viaggio lo potrai solo intuire. Comunque andiamo, proviamo». Erano due personalità molto decise quelle che si ritrovarono nello stesso abitacolo per un pellegrinaggio particolare, che aveva uno scopo ambizioso: decifrare gli Stati Uniti. La giornalista e l’attrice si erano conosciute per via di un’intervista che Fallaci realizzò a New York. Il progetto era viaggiare, in 15 giorni, dalla California alla Virginia, ripercorrendo all’inverso la strada degli antichi pionieri per cercare di capire la complessità degli
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Stati Uniti, di cogliere tutte le sfumature del Paese che da lì a pochi anni avrebbe conquistato la Luna. MacLaine era fermamente convinta che non fosse possibile: «L’America più la conosci, più diventi confusa. Non riuscirai mai a capirla fino in fondo, nemmeno io ci riesco, io che ci sono nata e ci vivo» ribadì quando si trovavano già sull’autostrada. Prima tappa: il deserto della Death Valley. Alla guida c’era l’attrice, all’apice del successo dopo aver sostituito Marilyn Monroe in due film (Irma la Dolce e La signora e i suoi mariti). Oriana Fallaci, dal canto suo, era conosciuta in tutto il mondo per i reportage pubblicati sulle pagine de L’Europeo e per aver vissuto diverse settimane a stretto contatto con gli astronauti
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Un’immagine del Colorado River che scorre nel Grand Canyon. Siamo nel Nord dell’Arizona e l’anno è il 1965, lo stesso in cui Oriana Fallaci e Shirley MacLaine attraversarono gli Stati Uniti in automobile.
(da quell’esperienza sarebbe nato il libro Se il Sole muore). Con loro c’era anche Lori, assistente personale di MacLaine, che le avrebbe accompagnate fino a Las Vegas; poi si sarebbe aggiunto l’amico svedese Björn.
IL BAGAGLIO era minimo: carte geografiche, lampade a pila, thermos pieni d’acqua ghiacciata, Rolleiflex, Leica... e una pistola. Con le debite differenze, la loro conquista del West doveva somigliare a quella dei cercatori d’oro, che per Shirley MacLaine rappresentavano dei veri eroi: «Gli ergastolani, i fuorilegge, gli avventurieri, i disperati senza nulla da perdere che continuarono ad andare avanti per raggiungere la California, cioè le miniere d’oro, avevano solo una bussola
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che indicava l’Ovest, pensando che fosse un luogo ospitale. Seppero quello che era quando giunsero dove noi giungeremo al tramonto, se tutto va bene». Nemmeno il tempo di finire il discorso e una gomma scoppiò, lasciando le tre passeggere davanti a una lapide commemorativa. La fortuna si presentò loro sotto forma di un camion giallo che le aiutò a rimettersi in strada. Arrivarono a Rhyolite, cittadina d’inizio Novecento che era stata abbandonata in fretta e furia dopo il crollo del valore dell’oro. L’unico abitante rimasto, un vecchio di nome Tommy Thompson, raccontò della fuga dei concittadini avvenuta in una sola notte. «Dimmi, Shirley: come si può?» chiese Oriana all’amica (i loro dialogi sono contenuti in Viaggio
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in America). La risposta dell’attrice fu: «Si può: se non serve più a nulla, se serve partire, andar via». Tappa successiva, le mille luci di Las Vegas. «Ecco ciò che muoveva i pionieri, ecco il sogno, ecco l’America. Con impazienza, siamo un Paese impaziente» disse MacLaine guidando a 190 miglia all’ora (in Nevada non c’erano limiti di velocità). Qui trovarono ragazze di tutti i tipi: chorus girl, pit girl, call girl, weekender girl, cocktail waitress. Nella Cappella del Buonaugurio, una tra le tante in cui si celebravano i matrimoni, MacLaine e Fallaci videro come funzionava l’amore in quella città. Per 15 dollari ci si poteva procurare un giudice e avere anche il riso gratis. La padrona della cappella, Norma Olson, si vantò
Vista notturna dei casinò di Las Vegas a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nella città del Nevada, Fallaci e MacLaine conobbero persone di tutti i tipi e andarono alla ricerca delle cappelle dove si celebravano i matrimoni.
di aver celebrato più di cinquemila cerimonie. L’organo iniziò a suonare la marcia nuziale; era tempo di proseguire in direzione New Mexico, sulle tracce del sentiero dei Navajo. Qui, davanti all’immensità del Grand Canyon, Shirley disse: «Questo è qualcosa che ci riscatta, che ci ripulisce dal nostro materialismo, dal nostro amore per il denaro. Non sono molte le cose per cui meritiamo d’essere applauditi, noi americani. Noi siamo giovani, senza la vostra finezza, il vostro cinismo, le vostre opere d’arte». I nativi americani, agli occhi dell’attrice, apparivano come dei traditori. «L’American Dream era muoversi, andare avanti, mischiarsi agli altri, cambiare, lottare. Il sogno che bruciava i pellegrini del Mayflower,
i pionieri del West, il sogno che brucia i neri quando reclamano i diritti civili, il sogno che brucia gli astronauti quando vanno sulla Luna, su Marte. E gli indiani invece restano lì, perché?». Fallaci le rispose: «Forse, Shirley, perché c’è una forma di orgoglio che si chiama silenzio, una forma di amore che si chiama rimpianto, una forma di grandezza che si chiama fedeltà. Fedeltà alle tradizioni, al passato».
L’AUTO IMBOCCÒ la Highway 66 in direzione Paris (Arkansas). In Texas ingaggiarono una gara di velocità con un’altra auto: furono fermate e arrestate dalla polizia. Proseguirono verso Sud, scoprendo un pianeta completamente diverso.
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La questione razziale qui era molto presente e Shirley MacLaine si recò da sola a Jackson per assistere ad alcune manifestazioni. Ad Atlanta raccontò all’amica di un attacco del Ku Klux Klan, con le tuniche bianche e i loro cappucci in seta. L’attrice era sconvolta e il viaggio terminò prima del previsto: niente Virginia, niente Washington. Tornarono a New York e lì, nella sua casa americana, Oriana ripensò a ciò che le aveva detto Shirley prima di partire. Il libro lo concluse scrivendo: «Forse non ho visto molto in queste due settimane, forse ho capito ancor meno, ma una cosa l’ho capita eccome: attraverso di lei. L’allucinante mistero che chiamano America ha ancora da insegnarci qualcosa: a disubbidire».
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Leonardo Di Costanzo ha realizzato documentari (A scuola, Cadenza d’inganno, Prove di Stato) e due film L’intervallo e L’intrusa, oltre al collettivo I ponti di Sarajevo. Ora sta ultimando quello girato in un carcere in Sardegna (dove sono state scattate queste fotografie).
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TENERE CONTO DELL’ALTRO «Potrebbe essere una fonte di gioia» se alla base della comunità mettiamo un fondamento: considerare sempre chi ha una visione diversa. Il regista Leonardo Di Costanzo racconta storie di chi si trova a convivere obbligatoriamente DI FIORENZA BARIATTI FOTO DI GIANNI FIORITO
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SCHIVO, SI SCHERMISCE dietro un lento
e misurato gesticolare: Leonardo Di Costanzo è un regista arrivato da anni di documentari, forse non del tutto abbandonati perché anche i suoi film di finzione descrivono storie e situazioni prese dalla realtà, soprattutto quella dei più deboli e «dimenticati». Ed è così che racconta di paure, mafia, camorra, buonismo, speranza, tolleranza e intolleranza, accoglienza ed emarginazione, pessimismo e ottimismo... Napoletano dal sorriso sincero che sovente si apre a una leggera risata, questo signore canuto spesso descrive forme di convivenze «forzate» e lo fa così bene che Paolo Mereghetti a proposito del suo primo lungometraggio, L’intervallo, sul Corriere della Sera scrisse «un film per cui vorrei scomodare la parola capolavoro». Qui i protagonisti sono due: un ragazzo remissivo e una coetanea che però si comporta da donna spregiudicata rinchiusi in un edificio abbandonato in un quartiere popolare napoletano. L’uno deve sorvegliare l’altra: lei è la prigioniera, lui è obbligato dal capo clan a fare da carceriere. Altra storia è L’intrusa: in un centro per minorenni, alternativa alle logiche mafiose del quartiere, entra la giovane moglie di un camorrista arrestato; esiste ancora quella solidarietà e condivisione che c’era prima? Chi va difeso tra il gruppo e colei che chiede di nascondersi? Ora Di Costanzo è alle prese con un film, ancora senza titolo, interpretato da Silvio Orlando e Toni Servillo, per
la prima volta insieme sul set per raccontare di un carcere in dismissione dove alcuni agenti e qualche detenuto aspettano di essere trasferiti altrove. «A poco a poco le regole, scritte e non, sembrano avere sempre meno senso, e quella degli uomini in attesa diventa una nuova, fragile, comunità». Attento osservatore delle forme di coesistenza, il regista le riporta prima di tutto nel microcosmo del suo attuale set cinematografico: «È un’esperienza forte perché in questa comunità (hanno girato in periodo di pandemia, ndr) giocano parti affettive sia in senso positivo sia negativo; ci si confronta con relazioni che nascono, simpatie, antipatie, ma per fortuna si è naturalmente portati ad aprirsi, ad andare verso l’altro. Come sempre i primi giorni sono i più difficili, all’inizio il gruppo non necessariamente funziona ma se c’è un problema lo si affronta, se ne parla, si risolve e si va avanti perché si è obbligati a incontrare, a parlare con persone anche se fuori da qui non lo si sarebbe fatto». Quindi qual è la parola d’ordine per stare insieme? «Tenere conto dell’altro». Semplice. D’altra parte siamo animali sociali e dobbiamo convivere con chi sta per strada come con il vicino di pianerottolo, con chi incontriamo dal negoziante come con il collega con cui dividiamo un lavoro e una stanza. «L’altro può essere diverso da me; ascoltare e tenere in conto quello che lui può darmi mi fa crescere, mi fa cambiare, scoprire cose nuove, anche di me, delle mie possibilità».
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«Nel carcere di Bollate, tra le Case di reclusione più “aperte”, la recidività è pari al due per cento a fronte di un generalizzato 60 per cento»
ESISTONO NUCLEI SOCIALI che si creano quasi sempre su un desiderio condiviso, quali sono le famiglie; come anche è una scelta personale quella di vivere nelle caserme, o, per vocazione, nelle comunità di religiosi. Ed è appunto il tema della convivenza, forzata e non, un importante argomento di discussione tra Di Costanzo e il suo produttore Carlo Cresto-Dina (fondatore e Ceo di tempesta). «Da tempo» spiega il regista «insieme riflettiamo sulle forme comunitarie partendo da autori che ci hanno colpito come Yuval Noah Harari, Rutger Bregman e Frans de Waal, i quali, in ambiti diversi (il primo divulgatore israeliano, il secondo storico olandese, il terzo primatologo olandese, ndr), indicano un modo alternativo d’intendere l’evoluzione della nostra specie. Noi Sapiens siamo sopravvissuti e abbiamo prosperato perché abbiamo inventato forme di cooperazione e soprattutto, dice de Waal, strategie di riconciliazione. Concetto che riprendo nel nuovo film. È come rovesciare il paradigma evolutivo corrente: la specie più “adatta” non è la più forte e aggressiva, ma quella che sa inventare forme attive di convivenza. Inoltre, secondo Bregman (Humankind: a Hopeful History, 2019) non è detto che il destino della comunità umana sia discendere verso la violenza e il sacrificio del capro espiatorio – qui chiamiamo in causa anche l’antropologo francese René Girard per il quale gli individui e le società scaricano responsabilità e colpe sugli outsider -; e, riferendomi al film, non è detto che 15 persone lasciate a se stesse in isolamento necessariamente degradino verso la sopraffazione del più forte, la soppressione dei deboli e l’adorazione del feticcio. Bregman argomenta che, al contrario, caratteristica della comunità sono la cooperazione e la solidarietà, dal momento che l’uomo ha trovato “modi di fare le cose“ insieme, aiutandosi». LA CONVIVENZA OBBLIGATA non è altro che un dispositivo drammaturgico. Il regista, racconta Di Costanzo, delimita un campo all’interno del quale mette dei personaggi a giocare la loro partita. Tutte le storie iniziano da un luogo, il punto centrale da cui parte l’azione, ed è sempre lì che si sviluppano una serie di relazioni e altre narrazioni che possono essere di ordine politico, morale, filosofico… «Quello che faccio io è trovare un centro in cui far convergere persone
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che hanno istanze diverse: dal loro incontro-scontro si sviluppa la trama». Il soggetto del film di cui sta ultimando le riprese? «L’idea mi è venuta leggendo libri sulla colpa, sulla punizione, sul recupero, sul rapporto che abbiamo con il male. Pensiamo che il male appartenga solo a chi è lontano da noi, come se, abbracciando la teoria di Cesare Lombroso, dovesse essere scritto nel corpo e nei comportamenti mentre di fatto appartiene a tutti, ma, ahimé, alcuni “oltrepassano il ponte”. E così ho deciso di addentrami in quei luoghi dove convivono coloro che hanno commesso reati e ho parlato con poliziotti, detenuti e direttori. Inaspettatamente parte dei direttori che io ho incontrato ritiene che le Case di reclusione dovrebbero essere luoghi più “aperti”, come, ad esempio, lo è il carcere di Bollate dove, attenzione, la recidività è pari al due per cento a fronte di un generalizzato 60 per cento».
DI COSTANZO HA GIRATO tutti i suoi film a Napoli (gli attori recitano in dialetto), tranne quest’ultimo ambientato in Sardegna; certo è che in tutte le storie compaiono figure che gravitano intorno al sociale perché rappresentano un punto di vista privilegiato per raccontare un quartiere, una città o una società in un determinato momento storico. «Il loro operare è spesso una continua sperimentazione di forme di convivenza e di socialità; in questi luoghi di frontiera, geografica ma anche culturale, i limiti, altrove rigidi, che separano il giusto dall’ingiusto, il permesso dall’interdetto, l’intollerabile dall’accoglienza, qui richiedono continui aggiustamenti e riposizionamenti». È proprio quando si vive in uno stato di costrizione che c’è un momento in cui scatta la solidarietà tra le persone e, attraverso l’esclusione di uno, si forma il gruppo» ribadisce Di Costanzo. «Con l’eliminazione scatta, automaticamente, la solidarietà tra chi non è stato escluso. La condivisione è necessaria, naturale, per riuscire a convivere perché fa parte dell’umano, altrimenti saremmo in uno “stato di guerra”. Credo nella diversità e credo nella necessità dell’ascolto, ritengo che sia necessario cercare di dare dignità all’altro, dignità al suo pensiero e cultura; alla base della convivenza mettiamo un fondamento: esiste un altro il quale ha una visione diversa e va ascoltato». Soprattutto perché «la convivenza può essere una fonte di gioia infinita».
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Tutti i lungometraggi di Leonardo Di Costanzo sono prodotti da tempesta di Carlo Cresto-Dina; l’ultimo film (distribuito da Vision Distribution) segue il protocollo green EcoMuvi, disciplinare europeo di sostenibilità ambientale per la produzione audiovisiva.
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Chengdu, Cina: il progetto dello Studio Zaha Hadid per Unicorn Island, in costruzione.
E ORA, COHOUSING: TUTTI INSIEME SOSTENIBILMENTE DI FRANCESCA ACERBONI
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© ZAHA HADID ARCHITECTS / RENDER BY NEGATIV
Torna in grande stile l’abitare collettivo, salvaguardando risorse, armonizzando esigenze, mettendo in comune spazi, servizi e attività. Tema di rilievo, che nel mondo post-pandemico diventa urgente: come abiteremo? Studi architettonici e designer da tutto il mondo sono all’opera. Il domani è già in cantiere
Innesto, quartiere in progetto nell’area ex Breda, Milano (studio Barreca & Lavarra).
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HOW WILL WE LIVE
together: come convivremo? Una questione politica, sociale, spaziale che la pandemia ha reso urgente è, guarda caso, anche il tema scelto per la Biennale di Architettura che apre il 22 maggio a Venezia: a formularlo così (peraltro rifacendosi a Roland Barthes) è il curatore Hashim Sarkis, libanese, architetto, professore al MIT di Boston. Il quale ha chiesto ai partecipanti di «immaginare degli spazi nei quali vivere generosamente insieme». Un mondo di possibilità da cui emerge prepotentemente la parola cohousing: mille forme, una tendenza. Quella di cercare «un nuovo modo di abitare collettivo dove gli abitanti mettono in comune spazi, servizi e attività. Così è possibile
ritrovare il senso smarrito della comunità» spiega Liat Rogel in Cohousing. L’arte di vivere insieme (ed. Altreconomia), una prima mappatura della situazione italiana. Di abitare innovativo parla anche Alessandra Coppa in Architetture del Futuro (24Ore Cultura, 2020), ricerca sui progetti di molti grandi nomi dell’architettura; per esempio Patricia Viel (dello studio Citterio Viel & Partners) prefigura una casa «flessibile e facilmente riconfigurabile, progettata sulla ibridazione delle funzioni». L’idea viene da lontano; nelle sue forme più attuali è sostenibile, economica, leggera sia per gli abitanti sia per l’ambiente urbano. Nel primo Ottocento, il filosofo utopista Charles Fourier teorizza il Falansterio, città-
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edificio che ospita un’intera collettività, e nel periodo vittoriano l’attivista e filantropa inglese Octavia Hill promuove interessanti idee di social housing. Ma è nella democratica Danimarca degli anni Sessanta che il cohousing prende piede come visione sociale e collettiva, da cui tutti traggono beneficio: gli abitanti e gli investitori, la città e l’ambiente. E in Italia? Il cohousing come modello abitativo, immobiliare, sociale si evolve soprattutto al Nord, ma è emergente anche tra Emilia e Toscana.
INCLUSIVO, condiviso, fondamentalmente adatto a tutti: studenti, giovani coppie, lavoratori fuori sede, anziani, famiglie con bambini. Gli spazi collettivi variano,
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KEYWORD - CONVIVENZA -
Vitae, progetto (2019) dello studio Carlo Ratti associati: un edificio con vigna sul tetto.
Nuove forme di abitare collettivo dove gli spazi verdi possono essere curati in forma partecipativa tra i vicini
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Sociale», con ufficio al piano terra, per seguire sia la comunità sia l’immobile. Spesso le nuove comunità possono anche darsi un obiettivo condiviso: per esempio la sostenibilità. A partire dalla lotta all’anidride carbonica (dal cantiere al ciclo di vita dei materiali) Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra – già architetti, con Stefano Boeri, del Bosco Verticale – hanno vinto il concorso internazionale Reinventing Cities 2018-19, progettando la rigenerazione dello scalo ferroviario Greco-Breda a Milano. I numeri parlano da soli, racconta Barreca: «Su 70 mila mq, l’area dell’ex scalo ferroviario, con 400 nuovi alloggi e altri 300 per studenti, Innesto sarà (dal 2024, secondo le previsioni) un quartiere residenziale dove
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sperimentare diverse forme di abitare; un terzo dell’area è destinato a orti didattici, produttivi e di quartiere organizzati intorno al Community Food Hub, luogo di aggregazione sul tema del cibo» (ossia, area ristoro e scuola di cucina). L’agricoltura diventa urbana, la mobilità è pedonale e smart: bici, roller, monopattino predominano.
L’ESPERIENZA del lockdown ha poi imposto una dimensione domestica forzata: studio e lavoro in casa, solitudine o sovraffollamento come estremi di un abitare non sempre felice né facile. App e device hanno semplificato la vita con relazioni virtuali alternative ai contatti umani e al mondo reale. Sempre a Milano, il Cohousing Rosina, in zona Niguarda, sarà pronto
© VITAE, MILANO – CARLO RATTI ASSOCIATI
dalla sala giochi al giardino per feste, all’orto urbano, dalla lavanderia al laboratorio fai-da-te. Tra le nuove esigenze: la possibilità di conciliare car sharing, spazi coworking, ed eventuali distanziamenti. Giordana Ferri, direttrice di Fondazione Housing Sociale, realtà che si caratterizza per soluzioni in affitto calmierato (dalla ricerca dell’immobile alla realizzazione del progetto e relativi finanziamenti) spiega che sempre più spesso, anziché dalla scelta di un singolo appartamento nel condominio dove i vicini sono perfetti sconosciuti, si parte dal gruppo di amici con cui costruire un vicinato ad hoc. Nel progetto di cohousing Quid - Quintiliano District, studiato per Milano da L22 Living, le 89 residenze saranno affiancate da un «Gestore
Tecla, abitazione in materiali di riciclo: progetto Mario Cucinella Architects.
© MARIO CUCINELLA ARCHITECTS
Invece di scegliere un appartamento in un condominio, si può partire da valori e progetti condivisi in un gruppo
nei prossimi mesi, Bianca Zirulia, partner di Auge Architetti e project manager spiega che «i cohouser hanno accettato di far della loro casa un’occasione di rigenerazione urbana: otto appartamenti con terrazzo, giardino e spazi comuni, ricavati dal magazzino dell’ex storica Tessitura Rosina». A BaseGaia, zona Parco Lambro, i residenti sono entrati a primavera, sperimentando nel lockdown il piacere e l’utilità della condivisione di vicinato. A Torino, il team di Homers coniuga qualità della vita e innovazione, riusando edifici storici abbandonati: dalla cascina in città, a un’ex fabbrica di cioccolato, a un’archeologia industriale inizio Novecento: l’intervento di via Buscalioni, mantenuta la facciata
in mattoni dell’ex laboratorio del marmo, è tutto contemporaneo; i cohousers hanno condiviso non solo giardino, wellness o lavanderia, ma anche tecnologie efficienti e, non ultimo, costi contenuti.
MA IL COHOUSING può anche essere declinato in chiave culturale. L’idea è venuta a Guenda Bernegger, filosofa svizzera innamorata dell’Italia e di uno stile di vita sharing. Qualche anno fa ha comprato, con altri sette amici, la secentesca casa della letterata Maria Corti in Valle Intelvi, venduta dall’Università di Pavia. Una coproprietà italo-svizzero-tedesca usata non solo come residenza, ma anche per promuovere attività culturali, mostre, letture. Le stanze si occupano
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a rotazione, le scelte sono condivise. Ma soprattutto c’è grande convivialità attorno alla tavolata sul terrazzo, e porte aperte alla comunità locale. Potrebbe essere un modello di cohousing da vacanza. Per tutto il resto tira le somme Cino Zucchi, professore del Politecnico a Milano, dove firma una quasi completata torre in cohousing a Cascina Merlata: «Radicamento e nomadismo, rigenerazione e riuso, domesticità e vita urbana cercano oggi equilibri che generano sfide progettuali. Nuovi uffici, case, città? Non possiamo buttare via edifici e quartieri. Dovremo tutti pensare a un’architettura più flessibile, di lunga durata; e a come far convivere città e ambiente. Facendo dell’innovazione tecnica uno strumento di azione responsabile per il pianeta».
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STORIA DEL PARCO PIÙ FAMOSO DEL MONDO. CON LA METROPOLI INTORNO 48
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Il «giardino dell’Eden» di New York, Central Park, rappresenta il tentativo umano di chiudere il tempo e lo spazio al di là della muraglia di alberi. Una zona franca dove non entrano le convenzioni e i pregiudizi. DI ENRICO DAL BUONO FOTO DI BRUCE DAVIDSON
Una coppia si bacia sulle sponde dell’Harlem Meer. Le foto del servizio sono del 1992.
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ACCONTARE LA STORIA di Central Park è un paradosso: questo spazio sembra concepito perché i cittadini possano prendersi una pausa dalla Storia. Cercate quanto volete. Troverete querce e salici, ciliegi e roseti, ma dell’albero della conoscenza il cui frutto condannò l’uomo all’esilio dall’eternità non c’è traccia; e saggiamente sono stati tenuti alla larga anche i serpenti. L’enorme parco al centro di Manhattan è il tentativo umano di chiudere il tempo al di là di una muraglia di alberi. La sua artificialità è evidente dalla forma. Hyde Park a Londra e il Bois de Boulogne di Parigi sono sbilenchi, mentre questo è un rettangolo perfetto, un’operazione geometrica, con area di 341 ettari. Nel giardino dell’Eden non si lavorava. Fuori da lì, «maledetto sia il suolo per causa tua, con dolore trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita» (Genesi 3,17). E anche per tutte le notti, a quanto pare, dato che qui stiamo parlando della città che non dorme mai. Central Park è una zona franca, dove le convenzioni della metropoli, le convenienze sessuali e sociali in voga, i pregiudizi delle rispettive epoche storiche sembrano fermarsi ai cancelli. Nel giardino, l’uomo può dimenticare di coprirsi come Adamo ed Eva con tuniche di pelle: può essere semplicemente se stesso. La mela è grande, sì, ma si gonfia fuori dal parco. Che è il suo grande picciolo. Dal 1856, quando Central Park fu aperto su progetto di Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, si può entrare e uscire dalla Storia più volte al giorno. Da una parte sei nella metropoli, con il suo bene e il suo male, con il suo sferragliare e i suoi clacson e la sua babe-
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Progettato da Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, il parco fu inaugurato nel 1856
Oltre che un polmone verde, Central Park è anche una gigantesca arena sportiva.
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le di lingue, dall’altra puoi distenderti nel silenzio fino a scordarti di avere assaggiato quel frutto là. Perché distesi si sta meglio: a leggere, a nascondersi dagli impegni, a contare i petali, a baciarsi, a dormicchiare. Scriveva Celine già nel 1932: «Figuratevi che era in piedi la loro città, assolutamente dritta. New York è una città in piedi. Ne avevamo già viste noi di città, sicuro, e anche belle, e di porti e di quelli anche famosi. Ma da noi, si sa, sono sdraiate le città, in riva al mare o sui fiumi, si allungano sul paesaggio, attendono il viaggiatore, mentre quella, l’americana, lei non sveniva, no, lei si teneva bella rigida, là, per niente stravaccata, rigida da far paura». Vero, ma Central Park è il riposo di quella città, è natura supina. A imitazione di Yahweh, sulla terra informe – lì dove c’erano cave e paludi e baracche – l’uomo ha piantato alberi da tutto il creato. E visto che le cose del mondo, i fiori e gli scoiattoli grigi e le 235 specie di uccelli e le carrozze e gli hot-dog, avevano già tutte un nome, l’uomo ha iniziato a nominare le panchine. Dal 1986 si possono adottare, le panchine. La no profit Central Park Conservancy permette di personalizzare le targhette sulle sedute: puoi scriverci il tuo nome in quattro font diversi per un massimo di 120 caratteri (più o meno un vecchio tweet). La Storia, almeno fuori da lì, corre alla svelta, e così l’operazione, che costava cinquemila dollari negli anni Ottanta, ora viene circa il doppio. Naturalmente oltre al proprio nome si possono inserire dediche a mariti e amanti, a cani e gatti, a politici e artisti, a vittime ed eroi. A oggi quest’idea ha fruttato decine di milioni di dollari per le casse dell’amministrazione.
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Dal 1986, chi vuole può adottare una panchina. Scriverci una dedica costa circa diecimila dollari
Estate, inverno, ancora estate: due giovani uomini, sullo sfondo lo skyline della Grande Mela.
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A volte il vento della Storia penetra tra le fronde di faggi e betulle e si solidifica in forme antropomorfe. Dopo il #MeToo e i suoi strascichi, nel 2020, centenario della concessione del diritto di voto alle donne americane, nel parco è stata innalzata la prima statua femminile. Quelle dedicate ai personaggi storici maschili erano già 23. Invece le donne immortalate nella pietra e nel metallo di Central Park, fino a pochi mesi fa, avevano vissuto soltanto nell’immaginazione di qualche scrittore, come la Alice di Lewis Carroll. Adesso ecco spuntare tre pioniere in bronzo dell’epopea femminista, a firma di Meredith Bergmann: Susan B. Anthony, Elizabeth Cady Stanton e Sojourner Truth (abolizionista nera aggiunta in seguito perché le prime due erano bianche). Se da un lato la Storia preme ai confini, dall’altro rimane l’antica tendenza del parco a svuotarsi degli orpelli del mondo, a destoricizzarsi. È una storia di sottrazioni: via il crimine, via le sigarette, via le auto. La grande pulizia è iniziata con il sindaco Rudolph Giuliani e la sua tolleranza zero che ha rimosso dal parco e dalla città che lo contiene le più evidenti manifestazioni della tensione sociale. Le quali, a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, avevano raggiunto un’acme ben rappresentata dalla recente serie Netflix When they see us. È il caso dei così detti «Central Park Five». Una sera di primavera del 1989, una trentina di ragazzi di Harlem entrarono nel parco da Nord: ne seguì un effetto domino di violenze, abusi, ingiustizie che coinvolsero cinque adolescenti, di orrori che avrebbero per un verso o per l’altro sconvolto la cittadinanza e l’America intera. Nel 1991 ci fu, tra Grande Mela e grande picciolo, il record di omicidi: 2.245. Ventiquattro anni dopo, nel 2015,
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«Le anitre dello stagno: dove vanno quando gela?» chiedeva il giovane Holden nel romanzo di J.D. Salinger
Una donna sfama i volatili che affollano il parco. A Central Park vivono 235 specie di uccelli.
MAGNUM PHOTOS
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The Economist ha inserito New York, con il suo parco più famoso, tra le prime dieci città più sicure del pianeta. La Storia viene spinta sempre più lontano, verso le periferie del mondo. La Storia, insieme alle sigarette. Secondo Antonio Monda, docente di cinema alla New York University, le cui finestre danno proprio sulle querce giapponesi del lato occidentale del parco, era già da un po’ che in città si vociferava: «Non si fuma in un polmone». Ed ecco le voci accontentate: dal 2011 non ci si può più accendere una sigaretta a Central Park, né negli altri 1.700 parchi metropolitani. Per volere dell’allora sindaco Michael Bloomberg, chi viene beccato a fumare paga 50 dollari di multa. E anche i gas di scarico sono stati ricacciati altrove: nel giugno 2018 le automobili sono state completamente bandite da Central Park. «Questo parco non fu costruito per le auto ma per le persone. Ci sarà un senso di pace e di sicurezza che non c’è mai stato prima» ha spiegato l’attuale sindaco, Bill De Blasio. Insomma, meglio tenere fermi con due mani tutti i 1.600 lampioni del parco: si sa mai spariscano pure quelli. «Sa le anitre che stanno in quello stagno vicino a Central Park South? Quel laghetto? Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela?» chiedeva all’autista il giovane Holden di J.D. Salinger. Già allora, alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, il parco affascinava per le sue tendenze centrifughe così inaspettate, quasi scandalose, in una città proverbialmente centripeta. L’occhio del ciclone, un vuoto verde nell’horror vacui del progresso trionfante, una pausa dove tornare piante quando là fuori stiamo diventando macchine.
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Quella di Central Park è una storia di sottrazioni: via il crimine, poi le sigarette e infine le automobili
Le rocce del parco newyorkese rappresentano un’ottima palestra per gli appassionati di bouldering.
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COME A
CENTRAL PARK Cappotti doppiopetto, trench marziali, dolcevita in lana, dettagli in pelle e accessori seventies. Pensando a «Kramer contro Kramer», film del 1979. DI LUCA ROSCINI FOTO DI GIORGIO CODAZZI
Trench in cotone, Bottega Veneta; dolcevita, Alpha Studio; pantaloni e mocassini, Gucci. Nella pagina a fianco: cappotto doppiopetto e dolcevita, Emporio Armani; occhiali da sole, Saint Laurent by Anthony Vaccarello.
Trench con inserti in velluto, Canali 1934; giacca check, Sandro; dolcevita, Ermenegildo Zegna XXX; pantaloni in pelle, Fendi. Nella pagina a fianco: eco-pelliccia e camicia in cotone spalmato, Louis Vuitton.
Cappotto over in velluto a coste, Dolce & Gabbana. Nella pagina a fianco: bomber in montone, Etro; dolcevita, Fendi; pantaloni, Tod’s; calze, Red; mocassini, Barrett.
Cappotto in lana doppiopetto, Hermès; giacca in pelle, Fendi; dolcevita e pantaloni, Tod’s; mocassini, Gucci. Nella pagina a fianco: peacoat in panno di lana e dolcevita, Dsquared2; pantaloni, Gucci; occhiali da sole, Saint Laurent by Anthony Vaccarello.
Giacca in suède, dolcevita jacquard e pantaloni in denim, Loro Piana. Nella pagina a fianco: spolverino in panno di lana, polo e dolcevita, Ermenegildo Zegna XXX; pantaloni in pelle, Fendi; mocassini, Tod’s; ombrello artigianale, Francesco Maglia Ombrelli. HA COLLABORATO: GIOVANNI DE RUVO; GROOMING: FRANCESCO AVOLIO @W-MMANAGEMENT USING RANDCOITALY
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Auto | SPORTIVA DA CITTÀ Pag 66
Orologi | IN CONTINUA EVOLUZIONE
Identikit | AIZAWA E LA PASSIONE PER LA MONTAGNA
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Food | LA FREGULA SARDA
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Beauty | IL RITUALE DELLA RASATURA
Drink | VERMOUTH: APERITIVO ALL’ITALIANA
Weekend | A CORTINA E AD ALGHERO Pag 88
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Menswear | VESTIRSI D’INVERNO Pag 76
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TIPS AUTO
Sportiva da cittĂ
La nuova i20 di Hyundai fonde design, prestazioni e consumi ridotti. DI PAOLO ARTEMI - FOTO DI FEDERICO MILETTO
Hyundai i20 con tecnologia mild-hybrid percorre oltre 20 chilometri con un litro di benzina.
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Doppio display
Per migliorare l’eleganza, l’estetica e il comfort visivo sono stati combinati il nuovo cruscotto digitale, che cambia colore e offre elementi a lancette, e un display a sfioro centrale per la multimedialità. occhiali da sole, ray-ban.
Luci full led
Le luci posteriori a led hanno una forma a zeta che da un lato si allunga sulla fiancata e dall’altro le unisce correndo lungo tutto il portellone.
LINEE TAGLIENTI E MUSO DAL DESIGN AGGRESSIVO
STYLING: GIOVANNI DE RUVO
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ON SOLO SUV COMPATTI. Il mercato offre ancora tanto spazio per le berline due volumi e cinque porte. Lo sa bene Hyundai che ha investito alla grande sulla nuova i20, modello che da anni raccoglie molti consensi in Europa. Una vettura fortunata che ha segnato il ritorno al mondiale rally nel 2014 e consentito alla Casa coreana di aggiudicarsi gli ultimi tre titoli. Il primo messaggio, strillato a caratteri cubitali, dice che Hyundai i20 lancia in Europa il nuovo linguaggio stilistico «Sensuous sportiness», la sportività sensuale. Un design ammiccante e cool, insomma, che si nota subito nel muso aggressivo con la calandra di notevoli dimensioni e nei chiaroscuri delineati dalle spigolosità attorno alle prese d’aria e ai fendinebbia. Le linee, soprattutto nella parte posteriore, sono taglienti e audaci, mentre le scalfature sulle fiancate ammiccano in maniera convincente alla clientela più giovane. La forma non mette in secondo piano il salto tecnologico, a cominciare dai motori. In particolare il tre cilindri 1.0 T-Gdi con sistema mild-hybrid a 48 volt, che garantisce divertimento alla guida e consumi ridotti (oltre 20 chilometri con un litro di verde). Si può accoppiare al cambio automatico robotizzato a sette rapporti, la soluzione più intelligente per districarsi nel traffico cittadino. Il sistema ibrido leggero Hyundai in fase di decelerazione e in frenata ricarica il pacco batterie agli ioni di litio, posizionato al posto della ruota di scorta, alimentando il propulsore elettrico
La nuova i20 offre una scelta di dieci tinte per la carrozzeria e il tetto.
Garanzia Hyundai: cinque anni di assistenza e controlli gratuiti.
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da 17 cavalli che agisce come un turbo in fase di spunto e accelerazione. Saliti in auto, si notano i due schermi da 10,25 pollici che fungono da quadro strumenti e display per il comparto infotainment. La connettività aiuta a godersi il viaggio e in modalità wireless si integrano gli smartphone e il pacchetto Blue Link. Una raffinatezza per gli audiofili è il super hi-fi Bose da otto altoparlanti. L’abitabilità a bordo è studiata con cura, soprattutto per i passeggeri dei posti posteriori, che beneficiano di sedute con spazio per le gambe e per la testa davvero inusuali sui modelli di questo segmento. Il baule della versione ibrida ha una capacità di 262 litri, quello delle i20 con motori tradizionali tocca i 351 litri. Una chicca? La cappelliera che si stacca e si fissa facilmente sullo schienale dei sedili posteriori. Modello fotografato. Hyundai i20 ibrida a benzina. Lunga 404, larga 178, alta 145 cm. Motori: 998 cc turbo benzina da 100 cv, elettrico da 17 cv. Trazione anteriore. Cambio manuale a sei marce. La i20 ibrida ConnectLine costa 19.150 euro.
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TIPS OROLOGI
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LASSICO O SPORTIVO, ORO O ACCIAIO, MECCANICO O CONNESSO. L’OROLOGERIA È IN CONTINUA EVOLUZIONE MA NON PERDE MAI DI VISTA LE SUE RADICI. FRA CREA-
ZIONI NUOVE DI ZECCA E RIEDIZIONI CHE CELEBRANO MODELLI STORICI O GRANDI IMPRESE DEL PASSATO. DI DIEGO TAMONE
Come immaginavamo il futuro negli anni Sessanta? Geometrie rigide, zero compromessi
Un modello speciale per il 140esimo anniversario di seiko. King Seiko, con cassa in acciaio da 38,1 mm e movimento meccanico, costa 3.400 euro.
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E LINEE SEGUONO le epoche, e a distanza di tempo ne conservano viva la memoria tenendo traccia di gusti estetici e tendenze. Seiko negli anni Sessanta disegnava forme inedite e non convenzionali perfettamente in accordo con un decennio di profondi cambiamenti (per il brand e non solo). Il futuro immaginato in quegli anni era fatto di direttrici tese, di tagli netti, di riflessi di luce. Di geometrie rigide e senza compromessi. Mentre la perfezione si affinava, il design diventava più sottile. Il King Seiko KSK, modello a suo modo rivoluzionario lanciato nel 1965, diventa il perfetto portavoce di questo nuovo linguaggio espressivo: da qualsiasi prospettiva lo si guardi è un rigoroso alternarsi di superfici piatte e spigoli sfaccettati, accentuati da una particolare lucidatura a specchio la cui tecnica (in giapponese si chiama Zaratsu) trova proprio a queste latitudini la più alta interpretazione artigianale. Quell’esecuzione viene rieditata oggi, in occasione del 140esimo anniversario della marca, in un King Seiko (3.400 euro, in tremila esemplari) fedele nell’essenza al suo illustre predecessore seppur calato nel presente grazie alla cassa in acciaio portata a 38,1 mm e al movimento meccanico, ora automatico e con datario.
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Se il carbonio è di recupero
In mare con Panerai.
Il quadrante del Luminor nasce dalla rigenerazione del carbonio di scarto dell’AC75 Luna Rossa.
Lo Speedmaster Silver Snoopy Award celebra le partnership con la Nasa e con i Peanuts.
© LUNAROSSA / CARLO BORLENGHI
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Nello spazio con Snoopy
AIA DI AUKLAND, Nuova Zelanda. La geolocalizzazione inviata dalla strumentazione di bordo porta qui. L’appuntamento è in calendario dal 15 gennaio al 24 febbraio ed è un evento sportivo è di assoluto livello: la Prada Cup, preludio all’America’s Cup. Panerai è official timekeeper delle regate di selezione e sponsor ufficiale di Luna Rossa, una posizione di privilegio che ha spinto il brand orologiero di origini fiorentine a sviluppare un modello ad hoc, profondamente permeato dello spirito del team italiano e del suo monoscafo AC75. Gli sfridi in fibra di carbonio ottenuti dalla lavorazione dei foil arms sono stati recuperati, riciclati e rigenerati per finire sul quadrante del Luminor Luna Rossa GMT – 42 mm (edizione limitata a 250 esemplari, 10.800 euro). La cassa è in titanio sabbiato, la lunetta in carbotech. È alimentato da un movimento automatico con funzione doppio fuso orario.
Omega e i fumetti.
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L FAMOSO BEAGLE con la tuta d’astronauta. Per Charles Monroe Schulz una simpatica variante sul tema, per gli amanti dei fumetti un’icona, per la Nasa una mascotte beneaugurante. Per gli appassionati di orologeria, infine, un richiamo irresistibile sin dal 2003, da quando cioè Snoopy fece la sua prima comparsa sul quadrante di uno Speedmaster omaggiando il legame inscindibile tra Omega e il personaggio dei Peanuts, risalente addirittura al 1970. Un anno da ricordare perché la Casa di Bienne entrò nella storia dopo aver ricevuto dall’ente spaziale americano il Silver Snoopy Award, un riconoscimento ottenuto per il ruolo cruciale ricoperto dai suoi cronografi nella missione Apollo XIII. L’evento viene celebrato oggi, a 50 anni di distanza, con lo Speedmaster Silver Snoopy Award (9.700 euro), referenza con cassa in acciaio da 42 mm e movimento a carica manuale amagnetico.
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La via svizzera allo smartwatch
Il connesso di Tissot.
T-Touch Connect Solar è alimentato dalla luce (sopra, The weather project di Olafur Eliasson).
Montecristo Open heart, con cassa da 44 mm in acciaio Pvd nero, costa 2.280 euro.
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Il movimento in primo piano
NA FONTE inesauribile di carica, l’antidoto naturale somministrato da Tissot al suo T-Touch per combattere la fame atavica di energia tipica dei dispositivi digitali: la luce. Proprio la luce è la chiave di volta di un modello lanciato nell’ormai lontano 1999 e oggi di importanza ancor più capitale per un orologio-strumento nel frattempo diventato smart. Il primo connesso di sempre per la marca elvetica, in tutto e per tutto Swiss Made e, soprattutto, al 100 per cento prodotto e assemblato in casa. Dalle celle solari fino al sistema operativo a basso consumo SwAlps compatibile con iOS, Android e Harmony. Il T-Touch Connect Solar (1.025 euro), prima ancora di essere «smart», è però imprescindibilmente «watch», con l’affissione di ore e minuti analogica e una cassa in titanio da 47 mm impermeabile fino a dieci atmosfere e dotata di lunetta in ceramica.
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Locman non nasconde nulla.
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GETTY IMAGES
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VELARE LA MECCANICA è un po’ come mettere a nudo l’essenza di un orologio, che dietro al paravento costituito dal quadrante ha sempre celato la sua componente qualificante. Ossia quel movimento che, da parte sua, è sempre stato chiamato a convivere con la «sindrome del batterista». Importante, addirittura fondamentale visto il suo ruolo cruciale nel tenere il tempo, ma sempre relegato alle spalle di qualcos’altro. Una prospettiva ribaltata da Locman, azienda orologiera italiana ma prima ancora elbana che il suo ultimo Montecristo (collezione storica del brand) lo ha battezzato Open heart proprio in virtù della sua intenzione di non nascondere nulla. Un’attitudine idealmente manifestata da un movimento cronografico automatico Swiss Made, visibile lato quadrante e lato fondello e racchiuso in una cassa da 44 mm in acciaio Pvd nero (in soli 350 esemplari, 2.280 euro).
La rivoluzione dell’acciaio
Un Tudor reinterpretato.
Un look d’ispirazione anni Settanta, proprio come il nuovo Royal con cassa da 41 mm.
L’Overseas Automatico full gold, con cassa da 41 mm e quadrante soleil, costa 51 mila euro.
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L’eleganza per tutta la giornata
FOTO: LAURENT HUMBERT
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ESTETICA tira agli anni Settanta, la decade che per l’orologeria sportiva ha segnato un punto di svolta. Grazie a materiali come l’acciaio, scontato oggi ma molto meno all’epoca, quando il permesso di varcare la soglia del lusso era concesso solo ai metalli nobili. Ma anche grazie al design, proprio in quegli anni capace di rimodellare, integrandole, le forme da sempre convenzionali di cassa e bracciale. Un’eredità di assoluto spessore reinterpretata da Tudor in epoca contemporanea nelle forme del suo nuovo Royal, collezione tanto inedita quanto articolata per dimensioni – è proposta in versione da 28, 34, 38 e 41 mm – e accostamenti. E che proprio in configurazione 41 mm in acciaio (2.200 euro) trova la sua massima espressione tecnico/estetica, anche grazie a un movimento meccanico a carica automatica con datario e indicazione supplementare del giorno della settimana.
Vacheron Constantin d’oro.
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ENDERE INDOSSABILE lungo tutto l’arco della giornata un orologio full gold, facendone di fatto un punto fermo attorno al quale ruotare il proprio outfit, richiede un’abilità che, prima ancora che un puro esercizio di stile, si configura piuttosto come un’autentica acrobazia. Prova eseguita senza sbavature da Vacheron Constantin, capace di trasmettere al suo Overseas Automatico (51 mila euro) la sorprendente arte del trasformismo. Seppur rigoroso nella meccanica di un movimento automatico di manifattura, rinuncia di buon grado al classico cliché dell’orologio d’oro elegante grazie a estese superfici spazzolate, al quadrante soleil rivestito di lacca traslucida blu protagonista della sua cassa da 41 mm e a quel camaleontismo assicurato dalla possibilità di sostituire facilmente il bracciale con più sportivi e spigliati cinturini in alligatore o in caucciù (entrambi forniti in dotazione).
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TIPS CUCINO IO
Fregula tradita
Un piatto sardo di terra, che si presta a mille reinterpretazioni. DI ALLAN BAY FOTO DI FEDERICO MILETTO - STYLING DI VERONICA LEALI
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POI IL DESTINO è intervenuto. Appunto qualche anno fa una signora sarda, Alessandra Guigoni, mi contattò. Aveva sviluppato un progetto per un libro di cucina e sapendo che io di mestiere faccio il packaging editoriale – ovvero sviluppo progetti di libri, non solo di cucina, non solo miei, che poi vendo agli editori – mi chiamò e iniziammo a collaborare, pur senza esserci mai visti prima. Alla fine il progetto non andò mai in porto (succede, solo uno su cinque, o anche meno, viene poi effettivamente piazzato) ma lei venne comunque a Milano per conoscermi. Ci incontrammo e dopo i soliti convene-
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voli lei mi regalò della fregula fatta da un artigiano bravissimo. Io la ringraziai, ma un po’ imbarazzato dovetti chiederle: «Ma come si cucina?». Lei rispose stupita: «Non l’hai mai assaggiata?» e io, sempre più imbarazzato, ammisi di no. «Allora domani te la cucino io». Recuperò da un bravo macellaio della salsiccia e il giorno dopo mi fece la versione che vi propongo qui sotto. Mi piacque e da allora, dire tutti i mesi è eccessivo, ma comunque spesso, la preparo. Ovviamente arricchendola di tutto, con creatività – io sono un traditore seriale delle ricette tradizionali – un po’ come fanno appunto i magrebini con il cous cous, che viene condito in infiniti modi. UNA PRECISAZIONE linguistica: nel 90 per cento dei libri dove viene citata si legge fregola, i sardi usano invece fregula. Resta la stessa cosa, ma attenzione all’origine della persona con cui state parlando…
FREGULA CON SALSICCIA Per 4 persone. Sbucciate e tritate finemente una cipolla bianca grossa (o due piccole) e stufatela con poca acqua per una decina di minuti, poi frullatela. Spellate e sbriciolate 200 grammi di salsiccia saporita. Rosolate la salsiccia sbriciolata per pochi minuti, poi versate nella casseruola 300 grammi di fregola, lasciatela insaporire,
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unitevi due bicchieri di brodo di pollo o vegetale e la cipolla e lasciate cuocere il tutto per circa 15/20 minuti, mescolando e unendo altro brodo bollente se necessario. A fine cottura dovrà risultare leggermente all’onda, ma senza essere brodosa. Quando la cottura sarà quasi ultimata, insaporite con 0,2 grammi
di ottimo zafferano e mescolate bene. Regolate di sale, spegnete il fuoco, mantecate con abbondante pecorino sardo grattugiato e impiattate. Variante: se volete fare colpo sui commensali, stufate lo zafferano per pochi minuti in un pentolino con il burro, poi aggiungetelo direttamente in tavola, appena prima di servire.
SI RINGRAZIA: COIN CASA (COINCASA.IT), PRETZIADA (PRETZIADA.COM), ARCARREDA (ARCARREDA.IT).
ER IMPARARE a conoscere un po’ quello strano mondo che è la cucina, la via è una sola: assaggiare e mangiare tutto e di tutto, sempre e comunque, quindi bisogna essere onnivori al 100 per cento. E poi leggere tanto, ma tanto, archiviando informazioni (avere una grande memoria aiuta). Questo detto, tutto non si può assaggiare: sono troppi gli ingredienti e i piatti non dico al mondo ma anche solo in Italia. Un esempio personale: la fregula (o fregola). Sapevo che esisteva perché ne avevo letto ma fino a pochi anni fa non l’avevo mai assaggiata. Anche perché, chiedo scusa, la mia conoscenza della Sardegna è sempre stata scarsa, ridotta a una toccata e fuga in barca e a una settimana a Carloforte, che però è un’exclave ligure. Addirittura fino a pochi anni fa c’era un’unica citazione di fregula nei 239,65 Gb di file sul mio computer: «Pasta di grano duro tipica della Sardegna. Ricorda il cous cous, anche se i suoi grani sono più grossi. Viene preparata impastando grano duro e acqua, da questo impasto si ricavano delle piccole palline che vengono fatte asciugare e precotte in forno». Seguiva una ricetta della «fregola stufata per quattro persone», con due cipolle tagliate a velo, abbondante pecorino grattugiato e olio, poi passata in forno in una casseruola di coccio. Ma temo che questa breve definizione non fosse corretta, e di sicuro i tempi di cottura (20 minuti) sono eccessivi, ma questo avevo…
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TIPS DRINK
Alchimia torinese DI VALENTINA RAVIZZA FOTO DI FEDERICO MILETTO - STYLING DI VERONICA LEALI
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È CHI ne fa risalire le origini alla ricetta del vino di Ippocrate aromatizzato con erbe alpine, che, esportata in Germania nel Cinquecento grazie al libro De’ Secreti, diede origine al Wermut. Chi ne ritrova tracce leggendarie in occulti esperimenti alchemici alla ricerca di corroboranti elisir che mantenessero la mente lucida anche dopo i più lauti banchetti. E chi più prosaicamente cita il «vinum absinthites» della Pharmacopea Taurinensis del 1763 e ricorda che a rendere famoso nel mondo quel vino moscato profumato di erbe e spezie, talmente amato dal duca Vittorio Amedeo III da renderlo l’aperitivo della corte dei Savoia, fu una piccola bottega sotto i portici di piazza Castello a Torino. Ciò che conta è che da allora il vermouth è divenuto un vero rito del bere italiano, passando disinvolto dai caffè della Belle Époque ai brindisi via zoom del lockdown. Merito di una ricetta complessa che parte da uve rinomate, come l’Erbaluce di Caluso e il Moscato D’Asti, e sposa le più varie botaniche, dalla vaniglia all’anice stellato, dal mandarino alla rosa selvatica, rendendolo già da solo un cocktail di sapori. E un prodotto vivo, che si evolve col tempo.
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Nobile
Il Vermouth Riserva Carlo Alberto nasce nel 1837; la bottiglia rappresenta il legame tra la sua città, Torino, e l’Art Nouveau.
Miscelare in una coppetta da Martini 4 cl di dry gin Gil Peated, 3 cl di Vermouth Riserva Carlo Alberto extra dry (che grazie all’aggiunta di Moscato d’Asti ha un sapore più delicato, che enfatizza l’armonia delle botaniche) e 2 cl di bitter Rouge White. Guarnire con una cipollina agrodolce. La ricetta è stata realizzata dal mixologist Mattia Pastori (Nonsolococktail) in collaborazione con Francesco Pierluigi (Drinkable).
SI RINGRAZIA: AGUSTINA BOTTONI (AGUSTINABOTTNI.COM), YALI GLASS (YALIGLASS.COM).
Uve piemontesi, botaniche e spezie: il vermouth è l’aperitivo all’italiana.
L’UOMO delle nevi
SI GODE LA VITA ALL’ARIA APERTA CON UN LOOK RILASSATO NEI MODI E A PROVA DI GELO GRAZIE A MATERIALI AD ALTA PERFORMANCE. DI CRISTINA MANFREDI STYLING DI ANGELICA PIANAROSA
TIPS MENSWEAR
Olimpici invernali portò alla ribalta almeno due interessanti scoperte. La prima era che noi italiani abbiamo una marcia in più anche in fatto di cerimonie inaugurali (vedere alla voce Marco Balich, firma di tanti altri show, tra cui nel 2014 le invernali di Sochi e due anni dopo le Olimpiadi a Rio de Janeiro). La seconda, che esisteva il curling. Inventato in Scozia durante il Medioevo e intorno alla metà del Cinquecento citato per la prima volta in uno scritto dell’abbazia di Paisley, era entrato ufficialmente nella lista delle discipline olimpiche a Nagano nel 1988. E 18 anni dopo a Pinerolo aveva fatto la sua comparsa il primo team azzurro. Dopo essersi esaltata per slalom e discese libere, hockey e salto dal trampolino, mezza Italia era rimasta ipnotizzata da squadre di giocatori educati, intenti a lanciare sul ghiaccio delle pietre di granito levigato di quasi 20 chili, a cui facilitavano la strada anticipandone la traiettoria con speciali scopettoni. Le stone, come si chiamano in gergo, scivolavano con precisione millimetrica e noi prendevamo coscienza che la stagione fredda aveva molto da offrire in termini di divertimento. Tra l’altro oggi il freddo sta diventando amico grazie a materiali performanti. Che vogliate farvi quattro passi nel bosco dietro casa, avvicinarvi al trail running e all’alpinismo, montare a cavallo in mezzo alla neve, spingere sui pedali di una fat bike o pattinare su un laghetto ghiacciato, ci sono due regole da tenere sempre a mente: non fatevi trascinare dall’entusiasmo e vestitevi adeguatamente. Qualcuno conosce già la storia di Nirmal Purja, l’alpinista nepalese che ha scalato in soli sette mesi i 14 ottomila metri concentrati tra Nepal, Cina
Per un’unica volta George Lazenby (nella pagina a fianco) ha interpretato James Bond (Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà, 1969) girando anche sulle Alpi Svizzere tra una fuga di notte sugli sci, un inseguimento nella tormenta di neve, una valanga e una romantica baita.
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e Pakistan: la sua è un’impresa che divide, alcuni lo accusano di avere snaturato il mondo delle ascensioni per l’utilizzo di ossigeno, tecnologie ed elicotteri necessari a spostarsi velocemente tra le varie montagne. Altri lo ammirano per la portata del gesto, tra i cui scopi c’è anche quello di dimostrare il valore dei climber del suo Paese, troppo spesso destinati a fare solo da spalla a ricche spedizioni occidentali. È di qualche settimana fa l’annuncio del nuovo obiettivo: raggiungere quest’inverno la vetta del K2, finora inviolata nei mesi più freddi per via dei venti gelidi e impetuosi come uragani. Se il suo coraggio vi affascina, potete emularlo con uno zaino Osprey di cui è ambassador, ma ricordatevi che non siete degli 007 in missione per conto di Sua Maestà: bandite le imprudenze sui sentieri di montagna. Potreste quindi decidervi a sperimentare un giro in bici a ruote larghe o una cavalcata in uno scenario innevato. A Livigno si noleggiano facilmente le fat bike, ovvero modelli dalle ruote in formato XL che garantiscono ottima presa anche sulla neve, con cui percorrere i 20 km di tracciato che si snodano intorno al paese. Oppure sul Monte Amiata, dove guide esperte sono a disposizione per farvi scoprire la magia dei boschi. Anche in questo caso, pruden-
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PER DIVERTIRSI (E PER VESTIRSI) LA STAGIONE INVERNALE OFFRE DAVVERO MOLTO A TUTTI
TORINO 2006. La 20esima edizione dei Giochi
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Bandite le imprudenze al freddo: soprattutto quando si sceglie un look
CIMA TOFANA DI MEZZO, 3.244 METRI. LA PAROLA D’ORDINE TRA 007 E UN INFORMATORE È: «LA NEVE QUEST’ANNO È MEGLIO A INNSBRUCK»
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SUPER PERFORMANTE IN MONTAGNA SIGNIFICA RESISTENZA TECNICA E TRASPIRABILITÀ
Le Dolomiti viste da Cortina d’Ampezzo fanno da sfondo a Solo per i tuoi occhi (1981), 12esimo film della saga di James Bond, interpretato da Roger Moore (sopra).
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za, specie per chi è alle prime armi; adatti sono la giacca e i pantaloni di Paul&Shark, entrambi rivestiti con la membrana Typhoon, che li rende impermeabili e resistenti ad acqua e vento. Mentre una news da intenditori arriva da Fieracavalli, la manifestazione che dal 1950 racconta l’universo dell’equitazione: nel Nord Italia si monta all’americana anche quando il termometro fila sotto zero. Una bella giacca a quadri country-chic, sopra a un maglione come quello a zip di Sebago in un morbido misto di lana e poliammide, efficace per restare asciutti, sarà il vostro alleato durante il trotto, ma con le dritte di Massimo Seppi, del ranch Maso Coflari in Trentino, vi costruirete un look pratico. «Per mantenervi caldi indossate l’intimo da sci sotto a un paio di jeans comodi. Mai uscire in passeggiata a cavallo senza guanti e mi raccomando niente suole a carrarmato, perché potrebbero impigliarsi nella staffa». Se invece l’eleganza è la vostra raison d’être, il pattinaggio sul ghiaccio è quel che fa per voi. Con le piste indoor
berretto, Sebago
cardigan e camicia, Mcs
piumino, Moorer; sciarpa, Loro Piana
camicia, Traiano Milano
pantaloni, Dondup
camicia, Guess Jeans
sneakers, Hogan
sneakers, Saucony Originals pantaloni, City Time marsupio, Bally
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giacca a vento, Paul&Shark
piumino, Geox Respira; gilet reversibile, Duvetica
passamontagna, Salvatore Ferragamo
occhiali da sole, Giorgio Armani Eyewear
maglione, Bikkembergs
pantaloni, Paul&Shark
zaino, Piquadro scarponcini, Geox Respira
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cappello, Giacchè 81
sciarpa, Barbour dolcevita, Dondup
maglione, Sebago
peacoat, Giacchè 81; gilet con zip, Sebago
piumino light, OVS
guanti, Dsquared2
pantaloni, PT Torino scarponcini, Igi&Co pantaloni, PIOMBO in OVS
sneakers, Panchic
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berretto, Paul&Shark mascherina, Moncler Lunettes
felpa, Le Coq Sportif
giacca a vento, Guess Jeans pantaloni, K-Way
dolcevita, Zanone
pantaloni da sci, Moncler Grenoble Collection - High Performance
scarpe da trail running, Salomon
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Materiali in più strati trattati con innovative tecnologie
EVERETT COLLECTION; FOTO STILL LIFE: FEDERICO MILETTO
IL FILM DI 007 È STATO IL PIÙ GRANDE EVENTO MAI FATTO A SÖLDEN. IL RISTORANTE A 3.048 METRI È DIVENTATO UN SET
CAPI NATI PER SCIATORI PROFESSIONISTI, STRATEGICI PER VINCERE IL FREDDO Sopra: Daniel Craig-James Bond (Spectre, 2015) sulle vette del Gaislachkogl in Tirolo; 15 giorni di riprese alla stazione intermedia, al ristorante Ice Q e in vetta, nel tunnel e sulla strada del ghiacciaio.
chiuse si può rivivere il fascino dei tempi andati a Gressoney St. Jean, dove si volteggia sull’acqua gelata del lago Gover con la maestosità del Monte Rosa di fronte. O in Alto Adige, piroettando intorno al campanile trecentesco di Curon che si staglia in mezzo al lago di Resia, indossando pantaloni Moncler Grenoble della collezione High Performance, nati per gli sciatori professionisti ma strategici per combattere acqua e gelo, grazie al materiale in triplo strato trattato con le tecnologia Gore-Tex. I più esperti potranno chiudere per un attimo gli occhi e attingere all’infinita grazia del due volte oro olimpico del pattinaggio di figura, il 27enne giapponese Yuzuru Hanyu, attesissimo a Stoccolma a marzo per i prossimi campionati del mondo, un’icona di charme nel suo settore. Fuori dalla pista: sneakers ultra leggere di Geox Respira 4x4 Levita, un modello slip-on con chiusura elastica e tecnologia Amphibiox, da unire ai pantaloni K-Way in Polartec, un tessuto super performante che garantisce resistenza tecnica e traspirabilità.
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TIPS IDENTIKIT
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TALIA, MONTAGNA, PASSIONE: IL DESIGNER GIAPPONESE, ALLIEVO DI JUNYA WATANABE, È FONDATORE DI UN BRAND DI OUTERWEAR D’AVANGUARDIA CHE È DIVENTATO UN CULT INTER-
NAZIONALE ANCHE A COLPI DI COLLABORAZIONI. QUI RACCONTA LA SUA PRIMA VOLTA PER UN MARCHIO DI SPORTSWEAR ITALIANO. DI PIER ANDREA CANEI
YOSUKE AIZAWA ESCURSIONI ESTREME, SCIATE fuoripista... Dall’uomo che ha fondato White Mountaineering ci si aspetterebbero epiche imprese alpine. È così, Yosuke Aizawa? Da bambino, fino al liceo, giocavo a hockey su ghiaccio. Mai stato un habitué della neve, ma poi ho iniziato a interessarmi agli sport invernali. Memorabili viaggi nel mondo delle montagne? In Giappone adoro le zone di Niseko e Tomamu nell’isola di Hokkaido. Negli Usa, le cime del Colorado. In Europa le Alpi svizzere intorno a Zermatt e, in Svezia, il paesaggio montano dalle parti di Kiruna. Luoghi d’ispirazione? Dal mio studio di Tokyo posso raggiungere la montagna ogni fine settimana. Dopotutto, è quello l’ambiente che più m’ispira. La recente collaborazione con Colmar, marchio italiano di gran tradizione alpina, è un bel passo per White Mountaineering. Mi ricordo di Colmar dai tempi in cui Alberto Tomba ne sfoggiava tute e giacconi. Anche se non scio, nella mia mente sono sempre i «king of snowwear». Così, quando mi è stata offerta la chance di avviare questa collaborazione, mi sono gasato e ne ho subito adottato i completi da snowboard. Tutta la squadra intorno al presidente Mario Colombo è appassionata sia sul fronte sportivo sia in sede di produzione: niente compromessi, si punta al meglio. È bello avere a che fare con loro, dialogare e lavorare insieme. Quando, e come, ha scoperto di voler diventare fashion designer? Il pensiero non mi aveva mai sfiorato la mente. Poi, da studente di Arte contemporanea all’università, mi è capitato di lavorare da Comme des Garçons. Mai studiato moda, sono autodidatta. Cosa ha imparato lavorando (sotto la guida di Junya Watanabe) alla Maison giapponese? Beh, direi tutto. Perché non ho mai lavorato per un’altra Casa al di fuori di Comme des Garçons prima della mia… Sono ormai 15 anni da che ha lanciato questo suo brand. Che cosa sente di aver realizzato? Mi sono potuto dedicare alle mie massime aspirazioni: essere originale, essere professionale, non cedere a mode e trend di passaggio e andare avanti ad accettare le sfide.
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TOKYO-MONZA, VIA PARIGI Capispalla, giacconi e felpe, accessori e borse: è iniziata curiosando tra i pezzi d’archivio della monzese Colmar la collaborazione di Yosuke Aizawa (sopra), designer giapponese classe 1977. Il quale, dopo avere studiato alla Tama Art University
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di Tokyo ed essersi formato alla corte di Junya Watanabe da Comme des Garçons, nel 2006 ha fondato il marchio White Mountaineering. L’idea: mixare abbigliamento tech e mood «lifestyle» da città. Espressione di un «genio dell’outerwear» (come viene definito
nell’ambiente) che si è affermato anche sulla scena internazionale: tra sfilate a Parigi e Milano, partecipazioni a Pitti Uomo, e, soprattutto, attraverso collaborazioni ad alta visibilità con marchi come Levi’s, Lardini, Saucony, Seiko.
Parka lunghi e giacconi waterproof caratterizzano la collaborazione, ricca di dettagli e tessuti tecnici.
Outdoor e città nella collezione autunno-inverno 2020-2021 White Mountaineering X Colmar A.G.E.
Il nome White Mountaineering richiama la filosofia del suo marchio. Come la riassume? Il concept di massima è: «Tutti i nostri capi sono pensati per stare all’aria aperta. Con tre criteri fondamentali. Primo, il design. Secondo, l’utilità. Terzo, la tecnologia». Con in più la creatività per fondere insieme questi elementi. Cercando di armonizzare al massimo l’abbigliamento outdoor con un’idea di stile urbano. Non è tanto un fatto di neve, ma un mix: «White» sta per la vita in città, «Mountaineering» per le attività nei grandi spazi aperti. Collaborare con brand famosi per lei si è sicuramente dimostrato un buon filone. Novità in vista? Una cosa che mi piace sempre tantissimo è disegnare uniformi (anche per il colosso automobilistico Toyota, ndr); adesso ne sto progettando una per un club di calcio giapponese. Unire performance e design per fare qualcosa di nuovo: il top sarebbe se con Colmar potessimo progettare l’abbigliamento degli Azzurri di sci!
Nelle collezioni Colmar la sigla A.G.E. («Advanced Garment Exploration») è usata per le linee «di ricerca».
«PRIMO, DESIGN. SECONDO, UTILITÀ. TERZO, TECNOLOGIA. E LA CREATIVITÀ PER COMBINARE IL TUTTO. IL MASSIMO SAREBBE DISEGNARE PER GLI AZZURRI DI SCI. ADORO LE UNIFORMI»
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Da Pitti alla Brianza, si può dire che la sua esperienza di lavoro con l’Italia è ricca. Come si trova? Splendidamente. Amo e rispetto il Paese, la sua gente, la storia, le sue imprese, specie nel campo della moda, e le sue tradizioni. In particolare, mi piace che in Italia la ricerca a cavallo tra moda e tecnologia sia così diffusa. Per questo non ho esitato davanti all’opportunità di lavorare con una realtà fortissima come Colmar. Ho sempre pensato che potrei trasferirmi qui. Infine, l’inevitabile domanda che ci si sarebbe tutti volentieri risparmiati: l’effetto pandemia sul mondo moda, stile, outerwear? Ovviamente tutto il sistema è travolto dalla pandemia; il senso stesso di fare moda si è ribaltato. Non è più tanto importante sforzarsi di essere eleganti; si cerca una maggiore funzionalità. Vorrei contribuire a tenere viva la sfida per trovare nuove direzioni nella moda. Per cui cerco di non concentrarmi sul lato negativo delle cose; in un modo o nell’altro, cambiare si può e si deve, comunque, sempre.
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Corredo per pelli sensibili
Set da bagno e portacandela in marmo, Valsecchi Marmi; crema da barba con estratti di baobab e caffè verde, L’Erbolario; set da rasatura e manicure, Czech & Speake.
TIPS BEAUTY
Take your time
La barba è un’arte perfezionata nei secoli, da non interpretare sbrigativamente. DI GIOELE PANEDDA - FOTO DI MICHELE GASTL
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NCHE SE LA MATTINA SI VA SEMPRE DI FRETTA, E CON UN FILO D’INSOFFERENZA CI SI COSPARGE IL MENTO DI SCHIUMA SPRAY PER POI PROCEDERE AD APPROSSIMATIVE RASATURE
BRUTALISTE, VALE LA PENA RALLENTARE. PERCHÉ PER REGALARSI NON SOLO UN ASPETTO MIGLIORE, MA ANCHE UN MOMENTO DI GRATIFICANTE CURA DI SÉ, BASTANO DUE MINUTI IN PIÙ, ALCUNI PRODOTTI DI QUALITÀ E QUALCHE SEMPLICE ACCORGIMENTO.
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dopobarba da globetrotter CZECH & SPEAKE: CUBA AFTERSHAVE
Dopobarba ispirato all’Avana: note di tabacco, rum e spezie rendono questa emulsione un viaggio olfattivo nell’isola di Cuba. Con oli essenziali naturali, dalle proprietà antisettiche e lenitive.
più Morbidi Con la gliCerina
Meno tagli Con l’olio
D.R. HARRIS, CREMA DA RASATURA
WOMO, OLIO PRE-RASATURA
Una crema con un’elevata proporzione di glicerina, ammorbidente e idratante. La lavorazione con pennello ne esalta al massimo i risultati; tuttavia può essere utilizzata anche massaggiandola sul viso con i polpastrelli.
Ne bastano poche gocce per facilitare lo scorrimento della lama aiutando significativamente a ridurre il rischio di tagli. Addolcisce il pelo rendendo la rasatura più semplice e rapida. Nutre e ammorbidisce la pelle.
SE NON CI SI AFFIDA AL BARBERSHOP, UNA RASATURA LENTA PUÒ DIVENTARE UN BEL RITUALE DOMESTICO
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IPERCORRERE le origini e la storia della barberia? Ivan Consolo, responsabile della Barberino’s Barber School di Milano (in via Tortona, zona di design e creatività), non si fa pregare: «I primi barbieri apparvero nell’Antica Roma: i così chiamati “tonsor” si occupavano di tagliare barbe e acconciature dei ceti più agiati. Veniva considerato un rito solenne e importante, che sanciva tra l’altro anche il passaggio dal periodo dell’adolescenza a quello di giovani adulti. I secoli successivi vedono poi la progressiva affermazione della figura del barbiere nella società italiana, all’interno della quale può di volta in volta svolgere anche funzioni di parrucchiere, consigliere, chirurgo, dentista, psicologo, estetista, fino ad arrivare alle parrucche incipriate dell’aristocrazia del Settecento. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, la bottega del barbiere diviene nuovamente un elemento importante per la comunità: gli uomini frequentano
Ideale usare un olio pre-rasatura, e applicare il sapone da barba con il pennello.
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i saloni per rilassarsi e scambiare notizie o pettegolezzi dal mondo, godendosi intanto il lusso della rasatura effettuata da una mano esperta». Oggi le barberie con i loro rituali sono tornate in auge, ma molti uomini continuano inevitabilmente a optare per una rasatura casalinga. Sempre più spesso ci si ritaglia momenti di benessere facendone un piccolo ma sfizioso cerimoniale. Quali accorgimenti fanno la differenza? Ancora Ivan Consolo: «Lavare il viso con acqua calda, in modo che i peli si ammorbidiscano e i pori della pelle si aprano; applicare poi un olio pre-rasatura alle zone da radere e massaggiare delicatamente. Insaponare con un sapone da barba, passaggio fondamentale per la rasatura perfetta. Al termine sciacquare il viso con acqua fredda e tamponare con un panno morbido. Infine, donare sollievo alla pelle con un balsamo dopobarba». Aumentando la sensazione di complessivo benessere che, insieme all’aspetto più fresco e giovane, è il fine ultimo di ogni buona rasatura.
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TIPS WEEKEND
Cortina d’Ampezzo (Bl)
Sci o no, è sempre il top
Lo charme e i cocktail della perla delle dolomiti: a livelli altissimi.
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A LUNEDÌ 8 FEBBRAIO a domenica 21 a Cortina d’Ampezzo si terranno i Mondiali di Sci Alpino del 2021, assaggio del piatto forte, le Olimpiadi Milano-Cortina previste nel 2026. È una buona occasione per visitare la Regina delle Dolomiti pur senza doversi fantozzianamente spacciare per «Azzurro di sci»; a lungo sinonimo di vacanze status symbol, Cortina rimane di fascia alta, ma il lusso non è più quello di una volta: anche qui la parola d’ordine è ormai «rigenerazione». Merito dei boschi di larice, delle rocce dolomitiche e dell’acqua quasi verde dei laghi. Vestiti caldi e con scarpe adeguate, anche in inverno dal paese si parte per passeggiate meravigliose, come quella che conduce al Rifugio Mietres, con vista
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Cabina rotante per una notte stellare: la Starlight room, sopra il rifugio Col Gallina.
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unica sulla conca ampezzana e sulle Tofane, dove è possibile fare la sauna o immergersi in una vasca d’acqua calda ricavata da una botte. Sulla via del ritorno si passa dalla malga che ospita El Brite de Larieto, agriturismo di infinito fascino, gestito dalla stessa proprietà del più elegante SanBrite in paese, il cui giovane chef, Riccardo Gaspari (fresco di stella Michelin), è l’immagine idealizzata del boscaiolo nordico. La famiglia possiede anche un piccolo caseificio, che produce formaggi a latte crudo da mucche che tornano dal pascolo montano, ciascuna seguendo il richiamo del proprio nome. Amanti dell’astronomia e coppie di buon affiatamento apprezzeranno la possibilità di trascorrere la notte nella Starlight Room, in alta quota, dove si arriva in motoslitta dal Rifugio Col Gallina: una camera
FOTO: GIUSEPPE GHEDINA
DI SARA PORRO
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MENO LUSSO, PIÙ RIGENERAZIONE: TRA MUCCHE E SAUNE
di charme che ruota sul suo asse per regalare una vista sempre differente, seguendo il movimento degli astri. Il giorno dopo (salvo nuove ordinanze) si scia (86 piste, 120 chilometri), si guardano le discese dei Mondiali (i neuroni specchio sono gli stessi, ci spiega la scienza) oppure si ozia in una delle alcove private che fiancheggiano la piscina coperta semi-olimpionica del resort Faloria, sovrastata da un grande lucernario che permette di ammirare il monte da cui prende il nome: chi ama il contrasto caldo/freddo caro ai finlandesi sceglierà la vasca idromassaggio climatizzata nel giardino esterno, dove si può stare anche mentre nevica. E la mondanità promessa? Niente paura: il lounge bar del più classico hotel della zona è sempre perfetto per fare people-watching bevendo un «Last Cocktail» (purea di pera, chiodi di garofano e prosecco, 18 euro) e assorbendo l’atmosfera jet-setter condensata nelle famose parole del «Dogui» in Vacanze di Natale dei Vanzina: «Via della Spiga-Hotel Cristallo di Cortina: due ore, 54 minuti e 27 secondi... Alboreto is nothing!».
Dove dormire
Ì Faloria Mountain
Spa Resort
loc. Zuel di Sopra 46 tel. 0436 2959 faloriasparesort.com doppia da 250 euro. Stile alpino chic, con spa superba
Ì Royal Hotel Cortina
via Stazione 2 tel. 0436 867045 hotelroyalcortina.it doppia da 150 euro. A gestione familiare, in centro, panoramico.
Dove mangiare Ì SanBrite
Dolomiti ampezzane: il lago di Federa sotto al Bacco di Mezzodì.
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via Alverà tel. 0436 863882 sanbrite.it prezzo medio: 75 euro Alta cucina bio di alta
montagna in ex fienile. Ingredienti locali.
Ì Chalet Tofane
via Lacedel 1 tel. 0436 863026 chalet-tofane.it Prezzo medio 40 euro L’anima bling bling di Cortina, sulle piste: aprés ski, champagne & oyster bar.
Info utili
Ì Turismo Cortina
dolomiti.org/it/cortina Ì Mondiali di Sci
cortina2021.com
Ì Rifugio Mietries
mietres.it
Ì Rifugio Col Gallina
rifugiocolgallina.com Prenotare qui la Starlight Room (700 euro a notte).
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TIPS WEEKEND
Alghero (Ss)
Principesca fuga d’inverno
Passeggiate nella natura, gite di mare, relax e bontà. In un clima unico. DI ORNELLA D’ALESSIO
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N QUELLE LIMPIDE e terse giornate invernali, che ad Alghero, nella costa Nordoccidentale della Sardegna, chiamano le secche di gennaio, il tepore del sole di mezzogiorno si fa sentire e il mare è calmo e piatto. Ore calde e luminose in cui è bello stare nella natura del Parco di Porto Conte, che i romani chiamavano Porto Nympheus. Abbandonati cappotti e giacconi si può decidere di esplorare l’area protetta dal mare a bordo di un veliero con lo skipper o di un maxi gommone. Si parte dal porto volgendo la prua verso le falesie di Punta Giglio, costeggiando le spiagge di San Giovanni e di Maria Pia, per avvistare i grifoni che nidificano a Punta Cristallo, scogliera a picco sul mare tra le isole Foradada e Piana. Con un po’ di fortuna capita anche di incontrare
Il promontorio di Capo Caccia con l’Isola di Foradada; da scoprire anche via mare.
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PERFETTA PER CAMMINARE l’Oasi di protezione faunistica Le Prigionette: nella macchia mediterranea, che qui profuma anche in inverno, è frequente l’incontro con daini, asinelli albini e cavalli selvatici. All’inizio del promontorio di Capo Caccia (dove è stata riavvistata, a una ventina d’anni dall’ultima volta, una coppia di falchi pescatori), parte l’Escala del Cabirol, 640 gradini per entrare nell’incanto della grotta di Nettuno: gallerie, stalattiti e stalagmiti, ai piedi delle pareti di roccia calcarea (fuori stagione aperta solo nelle belle
SIME
i delfini. Verso cala della Dragunara, dove l’acqua trasparente è perfetta per ammirare i fondali, si può anche pagaiare in kayak; questo tratto di costa è frequentatissimo, pure nella stagione fredda, dai sub.
ARCHIVIO FOTOGRAFICO M.A.S.E.
SENTIRSI SPIAGGIATI COME L’AUTORE DEL PICCOLO PRINCIPE
giornate). Doppiato il promontorio, l’altissima falesia digrada all’altezza della baia di Porto Ferro, delimitata da dune di sabbia rossa a ridosso del parco, dove si fanno escursioni a cavallo tra i sentieri nella pineta, con soste alle torri aragonesi e passaggio sul bagnasciuga. Si può raggiungere il lago di Baratz, l’unico naturale della Sardegna. Rientrando verso Alghero s’incontra la Torre Nuova, edificata nel 1572 dagli Aragonesi, che ospita il Museo di Antoine de Saint-Exupéry (MASE) per raccontare la storia della permanenza dell’autore de Il piccolo principe ad Alghero, nel 1944. In esposizione anche gli scatti che il fotoreporter John Phillips fece al pilota francese per Life, mai pubblicate sulla rivista. Sulla strada di ritorno si passa davanti al complesso nuragico di Palmavera, uno dei pochi vicino al mare. Per approfondirne la misteriosa storia c’è il Museo archeologico della città, in un palazzo storico vicino ai panoramici Bastioni, ottimi per un giro al crepuscolo; chi è in smart working può lavorare al Coworking Red Donkey, contemplando il tramonto sul promontorio di Capo Caccia.
Dove dormire Ì Hotel Catalunya
algherese; chef Cristiano Andreini.
Ì Agriturismo
via Catalogna 12 tel. 079 952602 pescedoroalghero.it prezzo medio 30 euro Pesce fresco; provare l’agliata algherese.
via Catalogna 24 tel. 079 953172 hotelcatalunya.it Doppia b&b da 100 euro Centrale. Colazione con vista sul golfo.
Sa Mandra
strada aeroporto civile 1 tel. 320 9687641 aziendasamandra.it Doppia b&b da 160 euro Nella macchia: camere, breakfast e cena.
Dove mangiare Ì Al Refettorio
Il MASE, Museo dedicato allo scrittore Antoine de SaintExupéry.
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vicolo Adami 47 tel. 079 9731126 prezzo medio 28 euro Tradizione catalano-
Ì Pesce d’Oro
Info utili Ì Acquatica
tel. 079 983199 aquaticasardegna.it Uscite in gommone (45 euro a persona) e a vela (120 euro, con pranzo a bordo).
Ì Exploralghero
tel. 079 942111 exploralghero.it Trekking guidati all’oasi faunistica (ingresso 3 euro).
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Val d’Ayas, rivisitata vista da Stefano G. Pavesi
PELLICOLE SCADUTE PER RICREARE I SOGNI DI UN BAMBINO CHE TRA I MONTI SI SCOPRÌ FOTOGRAFO
Val d’Ayas (Aosta), Brusson: la strada per Extrepieraz, poco prima del bosco di Goën. Nella foto a destra: il ponte della pista di fondo, sul torrente Évançon.
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Da Brusson, sulla strada per Estoul. Vista delle Dame di Challand, gruppo di montagne che separano la Val d’Ayas da quella di Gressoney.
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V I A G G I O I N I TA L I A
«TUTTO PER ME È INIZIATO QUI: LA PRIMA CAMERA OSCURA, LA PRIMA STAMPA, LA MAGIA»
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Brusson, nel cuore della Val d’Ayas: uno scorcio vicino al laghetto del comune (in una Polaroid ritoccata a mano dal fotografo). Qui sfocia l’Evançon, torrente che nella foto grande si vede accanto alla strada regionale 45 per Vollon; sullo sfondo, le Dame di Challand.
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A VAL D’AYAS è la seconda che s’incontra addentrandosi in Valle d’Aosta: «Luminosa, curata, poco piovosa». Un piccolo paradiso per Stefano G. Pavesi, milanese, classe 1967, fotografo (info: stefano pavesi.net) ritrattista e autore di reportage sociali e servizi dalle periferie italiane. Di più: per lui, quella valle a due ore da casa è un luogo formativo. «L’ho conosciuta con occhi di bambino, quando ogni cosa sembrava immensa, nel tempo dei giochi sfrenati e delle prime scoperte, delle canzoni con la chitarra e delle camminate in alta montagna. Ma quella valle è anche il luogo in cui tutto ha avuto inizio: la prima camera oscura e la stampa di una foglia. La scoperta della magia. D’estate andavo in colonia; quella estiva della Olivetti, una realtà educativa e ricreativa illuminata e all’avanguardia negli anni Settanta e Ottanta; un’esperienza indimenticabile». In più è diventata anche un luogo del cuore condiviso: «A distanza di 30 anni, quando ho incontrato mia moglie, ho scoperto che era solita trascorrervi le vacanze dell’infanzia; da allora una parte dell’estate la passiamo sempre qui, da appassionati camminatori a contatto con la natura». TORNARCI DA ADULTO per Pavesi è «un viaggio attraverso il tempo e la passione»; e dunque «raccontarla attraverso vecchie pellicole Polaroid, in voga negli anni Settanta è stata una scelta della mente e del cuore». I colori cangianti e le chiazze di luce «corrispondono ai ricordi e assicurano un collegamento quasi onirico tra passato e presente. La tecnica? Per me è sempre al servizio dell’emozione e la amplifica». E quindi vale tutto: «Pellicole Polaroid 45 o Sx-70 manipolate in digitale o a mano mentre l’emulsione reagiva con gli acidi». Alcune pellicole erano scadute, i sogni no. (p.a.c.)
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Antonio De Matteis, amministratore delegato di Kiton, con i figli Mariano e Walter. A destra: abito doppiopetto gessato, T-shirt e sneakers della collezione primavera-estate.
Uno stile fatto di inizi La tradizione sartoriale napoletana cambia e trasforma le regole del leisurewear. Kiton punta al comfort assoluto. TESTO E STYLING DI LUCA ROSCINI - FOTO DI PIER NICOLA BRUNO
«KITONISMO», ovvero diffondere l’eleganza in tutto il mondo secondo i valori di Kiton. È questo lo spirito del marchio napoletano che ha coniato il neologismo per sintetizzare la propria visione dello stile e dell’evoluzione della sartoria maschile. Evoluzione che segue delle regole tanto innovative quanto tradizionali; un metodo che si sintetizza nel guardare indietro per prendere ispirazione e sapienza manuale, utilizzare mezzi inaspettati per raggiungere una nuova immagine. Un esempio eccellente ne è la collezione primavera-estate di Kiton, azienda con sede ad Arzano in provincia di Napoli, che dal 1968 crea capi maschili (da alcuni anni affiancati anche dalla linea femminile) legati al concetto di alta sartoria partenopea; a tale proposito uno dei pezzi principali della collezione è la giacca in jersey di cashmere, rivoluzionata lavorando il tessuto su speciali telai di norma utilizzati per
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la produzione di calze così da assicurare elasticità solo in orizzontale, fondamentale per il benessere di chi la indossa, ma non in verticale, scongiurando così il rischio di deformazione del capo. Oltre a lanciare la giacca ultraleggera dal peso di 160 grammi di cotone e lino normalmente utilizzati per la camiceria, Kiton osserva il contemporaneo e modifica il concetto di classico, svincolandolo dal segmento del mondo maschile formale attraverso capi a metà tra homewear e leisure che diventano elementi importanti e innovativi della collezione affiancati da una selezione di pantaloni in denim prodotti utilizzando solo la più preziosa tela giapponese, ottenuta da antichi telai americani. La chiave di questa avanguardia sta in un adagio che amava ripetere il fondatore dell’azienda Ciro Paone e che riassume lo spirito del brand: «Kiton inizia dove gli altri si fermano».
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GROOMING: FRANCO CHESSA @FREELANCER AGENCY
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Nuova vita al tessuto Centodieci anni di storia: uno strumento digitale per presentare la collezione e un hashtag in cui credere.
«PIÙ CHE UN SEMPLICE progetto
#UseTheExisting è un mindset. L’obiettivo principale è rielaborare il sistema moda al fine di ridurre la nostra impronta ecologica. Stiamo tentando di riutilizzare le risorse con l’intento di azzerare lo scarto di ogni singolo materiale della catena di produzione. È una missione e una visione in cui stiamo investendo moltissimo. Questo è il principio alla base delle nostre ultime e future collezioni». A dirlo è Alessandro Sartori, direttore artistico. A farlo è Ermenegildo Zegna, 110 anni di storia festeggiati, per ora, con una video sfilata che ha avuto luogo all’interno dell’Oasi Zegna e negli spazi del lanificio, luoghi d’origine del marchio. Dietro a queste poche parole, sintetizzate con un chiaro #UseTheExisting, prendono forma le varie collezioni. Come quella della scorsa
«Nel rispetto di una profonda tradizione umanistica, crediamo che l’essere umano debba essere sempre collocato al centro, in armonia con la natura» (Alessandro Sartori).
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primavera-estate, 2020, composta per un quarto da capi ottenuti grazie al riuso di materie prime sia naturali sia sintetiche. Il che significa, come spiega chi la collezione l’ha vista, che gli abiti in fresco di lana sono cuciti con tessuti ricavati dagli scarti di altre lavorazioni (e stiamo parlando di grandi numeri poiché ben il 30 per cento delle materie prime utili al processo di produzione di un abito, ad esempio, viene scartato) i quali, una volta ritessuti, permettono il riutilizzo sostenibile dei materiali; come succede per le fibre sintetiche derivate dal riciclo delle bottiglie in plastica. E c’è di più: si «alza l’asticella» grazie al brand di Trivero in Piemonte. La nuova frontiera della sostenibilità arriva a non consumare le risorse bensì a riutilizzare quelle esistenti evitando lo smaltimento del non venduto. E, visto che
FOTO OASI ZEGNA: COURTESY OF ERMENEGILDO ZEGNA / WILLIAM DANIELS, MAN: COURTESY OF ERMENEGILDO ZEGNA / FRED STUCIN
DI FIORENZA BARIATTI
«GLI ELEMENTI NATURALI SI FONDONO IN UN’ARMONIA DINAMICA DOVE GLI ABITI DEFINISCONO NUOVE CATEGORIE E SOLUZIONI»
l’impegno verso il raggiungimento di una «produzione a rifiuti zero» da Zegna è una sorta di promessa-realtà, anche per la primavera-estate 2021 il protagonista è #UseTheExisting, che ha già raggiunto il 35 per cento della collezione in tessuti ottenuti, appunto, da scarti di tessuti o da capi smontati (una percentuale destinata ad aumentare). SHOPPING SOSTENIBILE: ecco un’altra parola
chiave. Che diventa anche la partecipazione a un ultimo progetto torinese, ossia il nuovo concept store del brand all’interno di Green Pea. «Sono orgoglioso di collaborare con Oscar Farinetti, che condivide con noi la stessa etica sostenibile. È una nostra responsabilità sfruttare il passato per costruire un presente e un futuro migliori» spiega l’a.d. Gildo Zegna. In pratica uno spazio di 200 mq
Dalla collezione primaveraestate 2021 Ermenegildo Zegna XXX: un look della video sfilata che ha avuto luogo nell’Oasi Zegna e nei locali del lanificio. In alto a destra: lo spazio Zegna all’interno di Green Pea.
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dove offrire una selezione dei prodotti più iconici, compresi gli abiti realizzati con tessuti #UseTheExisting. Un’ulteriore prova di responsabilità nei confronti della comunità e dell’ambiente. D’altra parte il brand stesso non fa che confermare quando scrive che «le azioni che compiamo oggi avranno conseguenze sul domani; per questo riutilizziamo e reinventiamo materiali esistenti. Questa mentalità incarna il nostro impegno duraturo per la sostenibilità. Ci prendiamo cura del mondo in cui viviamo continuando a utilizzare materiali esistenti e post-consumo per donare loro una seconda vita». E questo scritto, più che un manifesto, più che un obiettivo e un intento, è una collezione fatta di abiti in viscosa riciclata e seta, gilet in denim riciclato, pezzi che guardano l’upcycling.
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M O DA INCONTRI
La filiera, il merchandising, le fiere. È tutto da rifare. Intervista a Claudio Marenzi.
QUALCOSA DEVE CAMBIARE DI ALESSANDRO CALASCIBETTA
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IL NUMERO SPECIALE MODA primavera-estate 2021, che normalmente sarebbe stato questo, uscirà verso la metà del prossimo febbraio. In questa edizione l’80 per cento della moda pubblicata è ancora invernale. L’intervista a Claudio Marenzi, presidente e a.d. di Herno e presidente di Pitti Immagine, parte proprio da qui: da una scelta razionale e «trasgressiva» che come mi ha scritto Giorgio Armani «spero venga da molti seguita». Secondo Marenzi, «è un gesto di responsabilità. Ci sono dinamiche che seguono logiche finanziarie e che a loro volta i marchi subiscono: se sei costretto a vendere a giugno le prime uscite dell’inverno è normale andare in saldo prima di Natale. Da qui nasce l’esigenza di approntare collezioni intermedie; è un sistema schizofrenico che suggerisce di acquistare un cappotto a giugno o un costume da bagno a gennaio». Beh, c’è chi va in crociera. E gli appassionati di moda. E poi esistono anche capi senza stagione. Sì, in tutte le collezioni sono presenti look trans stagionali come il trench, il denim… E poi non bisogna dimenticare che i grandi fatturati si sviluppano con gli accessori. La distribuzione si è diversificata diventando terribilmente complicata: abbiamo dovuto accelerare e ora che
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è impossibile fare dietrofront, si possono studiare soluzioni che riducano lo stress, per esempio realizzando collezioni senza stagione, ma non è più possibile ritornare alle origini. La tua scelta, quella di essere più divulgativo verso il lettore, non fa una piega. Hai parlato dei saldi «prima di Natale». Alcune boutique cominciano i primi giorni di novembre… Ci sono due realtà: mono e multi brand. Nella prima c’è una varietà di prodotto tale per cui ha senso tenere l’inverno durante il periodo estivo e viceversa perché creatività, produzione e distribuzione hanno un dialogo diretto e continuo. La boutique multi marchio, invece, è costretta a proporre la stessa merce fino a che termina la stagione: ti dirò di più, succedono anche cose strane tipo clienti che esigono un look invernale a luglio e se per caso lo ritrovano a novembre ti dicono «ma il freddo non è ancora arrivato!». Sono reazioni e scelte arbitrarie che inducono uno stress allucinante a tutta l’intera filiera perché obbligano a lavorare sugli ordini più di un anno prima, senza perciò avere i dati della stagione in corso: gli esiti dell’andamento della stagione invernale li abbiamo a fine ottobre; ma seguendo la logica di questi ritmi a fine ottobre dovresti aver già ideato la collezione dell’inverno successivo. In altre parole, il sistema va sempre più incontro alle aziende maggiormente strutturate e sempre meno a quelle più piccole, che pur essendo rapide e flessibili sono legate alle boutique multi marchio. La speranza è di trovare soluzioni innovative che stravolgano le strategie tradizionali. Top brand e piccole realtà industriali: durante le settimane della moda i più piccoli sono fagocitati dai primi. In parte è logico che sia così, ma almeno hanno la chance di ritagliarsi uno spazio: soprattutto nelle fiere.
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Influencer ed esperti (sopra Anna Wintour, direttrice di Vogue) animano le giornate della moda a Milano. In basso: un trench Herno (nella pagina a fianco l’a.d. Claudio Marenzi) per la primavera-estate 2021.
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A Pitti Uomo c’è spazio per moltissimi espositori e in tempi normali l’evento dura cinque giorni. Ma durante la fashion week di Milano, oramai ridotta a pochi giorni, gli emergenti sono relegati tutti nell’ultimo giorno, in coda all’ultimo big; e le presentazioni rimangono schiacciate tra una sfilata e l’altra. Il tempo per andare da tutti non c’è. Già meglio a Parigi dove viceversa la settimana della moda è troppo lunga, ma almeno c’è più tempo per guardarsi intorno. I big sono sistemi autonomi; agli inizi, a Milano sfilavano tutti in Fiera e a Parigi nelle tensostrutture sistemate nel Jardin des Tuileries: oggi siamo alla totale individualità di comunicazione dei grandi marchi ed è ben difficile che chi non ha altrettanta solidità economica riesca a ottenere la stessa attenzione. Però, anche se in alcuni casi non resta che contendersi le briciole, le fiere e le fashion week restano un’occasione unica per essere notati: sarei molto più preoccupato se le realtà più piccole sparissero del tutto. L’indotto proviene in gran parte anche dalla coolness. A costo di rinunciare alla qualità pur di possedere un capo o un accessorio che «fa status»? Il meccanismo è sempre lo stesso dai tempi di Adamo. L’80 per cento del successo di un brand si fonda sulla magia della
«NON PARLATEMI DI INCLUSIVITÀ: È UN OSSIMORO. IL LUSSO NON È INCLUSIVO PER DEFINIZIONE»
comunicazione e dalla contemporaneità dei messaggi che trasmette. Però non parlatemi di inclusività: il lusso non è inclusivo per definizione. È un ossimoro. L’uso degli influencer – teoricamente persone come noi che indossano cose di lusso – è un tentativo di inclusione acrobatico ma ancora efficace. Ma la così detta «gente normale» in realtà è composta da un 50 per cento che non si può permettere di spendere cifre iperboliche mentre l’altra metà quando acquista un capo di lusso non ha bisogno e soprattutto non vuole esibirsi. Oggi è indispensabile mostrare trasparenza e tracciabilità: il consumatore è molto più attento di prima. A mio avviso assisteremo a uno sviluppo manifatturiero che seguirà processi di sostenibilità inediti. Sono certo che si tornerà a investire nell’industria della moda. I giornali, specializzati e non: qual è, oggi, il nostro peso? In questo scenario fatto di social e di influencer, intendo. Con l’influencer il rapporto è diverso: «Io ti do tu mi dai». Con la stampa invece deve esistere una comunità di intenti. È vero che vivete (anche) grazie alla pubblicità, ma sapessi quanto spesso offrite degli spunti: certe interpretazioni stilistiche sono così suggestive che ci aiutano ad aggiornare le nostre collezioni. Lo stesso accade con le boutique multi marchio. Quando le affinità sono in sintonia, il cerchio si chiude.
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LE MUTAZIONI ESSENZIALI DI UN UOMO ALLE PRESE CON UNO STILE CHE CAMBIA. IN PRIMAVERA Silhouette non aggressive, colori che calmano l’atmosfera, ricambio generazionale, remix di riferimenti. Una nuova sensibilità forma un linguaggio che usa parole inedite come «soft-tailoring». di Michele Ciavarella
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Abbinato ai pantaloni recita la formalità per cui è nato, da solo diventa un soprabito corto: il capospalla ibrido riserva molte sorprese di stile tra comfort e praticità
Il taglio delle maniche, metà a raglan e metà a martello, trasforma la vestibilità e lascia libertà di movimento per gestire accessori trasformisti: la borsa si lega in vita come se fosse un maglione
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Louis Vuitton Riutilizzare materiali e forme per costruire abiti capaci di liberare gli uomini dai riti dello stile che lo imprigionano in un ruolo: né formale né streetwear perché anche un completo giacca e pantaloni può raccontare lo stile delle strade contemporanee
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Materiali, forme, volumi e colori che calmano l’atmosfera: la moda maschile si rinnova con tatto Boss Gli occhielli metallici della vela invadono accessori e abiti con un effetto di tridimensionalitĂ
Dsquared2 Le subculture giovanili e i riferimenti all'aviazione militare, tute in nylon e giacche candide, top in pizzo e scarpe allacciate, tagli sartoriali e accessori techno: Dean e Dan Caten disegnano un uomo tra ribellione e raffinatezza
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Dior Men Riferimenti identitari riconoscibili: da qui riparte Kim Jones per mescolare i codici contemporanei La collaborazione con l'artista ghanese Amoako Boafo costruisce una collezione di pezzi unici
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Una generazione in cerca di fashion identity che pretende l’emancipazione creativa Celine Personalizzare: giacche con paillette e caschi da moto, capelli colorati e catene metalliche
Etro Una moda senza tempo, senza età , senza generazioni. E che lascia la porta aperta sul futuro Il classico paisley è stampato su accessori e camicie, da cravatte e giacche scendono ramage di fiori
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Paul Smith Il fascino del ricordo, le immagini delle cartoline postali, fotografie con i colori sbiaditi animano i tessuti, seersucker e lino. E una cascata di piccoli fiori muove le superfici degli abiti. Tagliati in sartoria anche se sono sportivi
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Un’espressione spensierata di leggerezza per rendere straordinaria la quotidianità Hermès Giacche e camicie nello stesso tessuto, maglieria con fili di cuoio, blouson leggeri in pelle di daino
Versace «Ho creato qualcosa di dirompente, in sintonia con quello che è cambiato in noi» Donatella Versace Il rinnovamento arriva da Trésor de la Mer, la stampa creata da Gianni nel 1992: immaginifica
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Giorgio Armani Nella rilettura autentica del suo stile, il Maestro inserisce un tocco di eccentricitĂ nella versione sensuale del rigore. Che sa essere esotico quando si trasferisce nelle stampe di una giacca o nella forma di una sacca
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Che cosa saremmo senza gli archivi? La linea Archive ce lo ricorda con lo storico «4 ganci» Fay La stagione, invece, si presta al versatile «Ognitempo»: tessuto gommato e nastri a contrasto
Brunello Cucinelli Il segreto del contemporaneo è saper gestire la sintesi che nasce dall’heritage e dall’innovazione Filati leggeri per la maglieria dalle superfici mosse, seta e lino per rendere preziose giacche e camicie
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Gucci «È una possibilità per portare a termine un percorso di interrogazione sul significato della moda» Alessandro Michele L’abito è di chi l’indossa, secondo le proprie modalità: in questa assoluta libertà nasce l’assoluta magia della scelta personale
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Un antidoto alla complicazione inutile: un’espressione unificata dello sport, del classico e del formale che cessano di essere stili separati collocati in mondi troppo diversi
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Canali 1934 Comfort e durata si muovono in uno spazio fluido delimitato da funzionalità e consapevolezza. Sartorialità e artigianalità firmano abiti e accessori che hanno in sé la grinta di chi esplora le chance di uno stile personale
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Gli abiti come sentimenti di uomini che vivono qui e ora: camicie in pizzo o in cotone con i plastron ricamati «à jour» per trasformare in realtà un’eguaglianza che appare possibile
Il suit con gli shorts e la giacca classica che può andare anche sopra i jeans, grandi shopping bag in pelle con il marchio impresso e sneakers: ma al primo posto resta sempre la propria identità
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Alexander McQueen Il bianco avorio di un completo sartoriale sporcato da una cintura nera e dai bottoni, il bomber addolcito dalle broche ricamate, la giacca doppiopetto alleggerita dalla viscosa. Rigenerare le idee attraverso il rinnovamento delle forme
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Si chiama Salon 01 ed è una collezione che racconta l’enfasi della sartoria lavorata a maglia Bottega Veneta Il riferimento alla domesticità arriva dall’artigianalità del «fatto a mano» degli anni Settanta
Emporio Armani Silhouette allungate e quasi svuotate dai volumi per costruire un’estetica valida per tutti La trasformazione della giacca in un capo interscambiabile e dei pantaloni in una tenuta comfort
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Salvatore Ferragamo
Per essere i costumi della vita reale, gli abiti devono esprimere contraddizioni: forme semplici e dettagli preziosi, pelle traforata e maglieria lavorata ai ferri. In un continuo rimando fra mondi affini, il maschile e il femminile
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Una visione rinnovata fatta di tattoo trasferiti su tessuto e grandi catene a G con strass al collo Givenchy Contrasti classici e radicali per pezzi sciolti che si combinano per rendersi desiderabili e appaganti
Moncler Outdoor: «2 Moncler 1952» allinea archetipi ibridi della storia del marchio con stampe e citazioni Sostenibilità: «Born to Protect» raccoglie giacche fatte solo con materiali eco-compatibili
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Kiton
La giacca in cotone e lino che pesa 160 gr concilia lo charme partenopeo e la libertĂ di movimento. Ăˆ l'essenza della storica tecnica sartoriale napoletana che sa trasferirsi anche nei capi piĂš sportivi, dalle felpe alle camicie stampate
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Tessuti e pelli pregiate, progetto, disegno e un prodotto finale che raccoglie i significati della qualità Tod’s Non piÚ sottocategorie di stile: giubbotti con bermuda, polo con pantaloni classici
Corneliani Rendere compatibile la vita attiva della cittĂ interconnessa con la tradizione maschile Giacche sottili e destrutturate, polo al posto delle camicie e pantaloni classici con cavigliere
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Dolce & Gabbana La citazione delle ceramiche di Gio Ponti per l'Hotel Parco dei Principi di Sorrento è il pretesto per narrare un’italianità senza confini creativi Volumi oversize, stampe geometriche e busti neoclassici servono per costruire una moda che lascia la parola al corpo
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Immaginazione e realtà, perché la seconda non si avvera senza la prima: così tutto diventa possibile Saint Laurent Un gioco di echi simultanei mette insieme passato e futuro, maglioni ampi, camicie stampate e gioielli
Fendi Il lino perché è un tessuto antico ed eclettico; il tombolo e il ricamo «à jour» perché sanno di famiglia Dettagli speciali nelle forme classiche, che si evolvono, delle giacche e dei giubbotti
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LO YOGA È ESEGUIRE OGNI AZIONE COME UN’OPERA D’ARTE.
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MARCO BELINELLI, STATI UNITI A/R «NON CAMBIEREI NULLA DI QUELLO CHE HO VISSUTO» È l’unico italiano ad aver trionfato nell’Nba, la mecca del basket. Ora è tornato nella sua Bologna: «Per vincere ancora». DI GIACOMO FASOLA FOTO DI ILARIA MAGLIOCCHETTI LOMBI STYLING DI ANGELICA PIANAROSA
Marco Belinelli, 34 anni, guardia della Virtus Bologna. Ha giocato 13 anni negli Stati Uniti e vinto un titolo con i San Antonio Spurs. cappotto, emporio armani;
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ELLA VITA (sportiva e non solo) di Marco Belinelli ci sono un prima e un dopo. Lo spartiacque ha una data precisa: il 15 giugno 2014. Quel giorno Belinelli vinse il titolo Nba, primo e unico italiano a riuscire nell’impresa, e scoppiò a piangere davanti alle telecamere. Nel video si vede Marco che dice: «Nessuno ha creduto in me in questi anni e… Alla fine ho vinto». Dentro quelle poche parole c’è la storia sua e di tutti quelli che nella vita ci hanno provato, hanno sofferto, hanno lottato e ce l’hanno fatta. «Fu una cosa spontanea: in una frazione di secondo mi erano passati in testa tutti i sacrifici che avevo fatto» ricorda oggi Belinelli. TREDICI ANNI E DIECI SQUADRE: Golden State Warriors, Toronto Raptors, New Orleans Hornets, Chicago Bulls, San Antonio Spurs, Sacramento Kings, Charlotte Hornets, Atlanta Hawks, Philadelphia 76ers, ancora San Antonio Spurs. La lunga avventura americana di Marco Belinelli, cominciata nel 2007, si è conclusa il 26 novembre scorso. «I’m back» ha scritto sui social, citando il dio del basket Michael Jordan. La notizia ha provocato un terremoto nella pallacanestro italiana: Beli aveva firmato per la Virtus, la squadra dov’era cresciuto, tornando a giocare a Bologna. È un cerchio che si chiude, il ritorno a casa del ragazzo di San Giovanni in Persiceto che ha conquistato l’America. Per entrare nel mondo di Belinelli bisogna partire proprio da questo comune della bassa bolognese che il 18 settembre celebra il «Beli Day». San Giovanni in Persiceto è il paese della sua famiglia: papà Daniele, mamma Iole che in tanti anni di Nba non si è persa una partita («si svegliava di notte e mi mandava un messaggino»), i fratelli maggiori Enrico e Umberto che hanno accompagnato tutta la carriera di Marco. È anche il paese di sua moglie Martina, sposata a settembre, e dei quattro amici storici («ognuno ha la sua vita, c’è chi ha i figli e chi vive a Milano, ma ci sentiamo spesso e su Whatsapp abbiamo un gruppo molto vivo»). Nelle interviste Belinelli parla spesso della famiglia: «Nei periodi più difficili mi hanno aiutato a non abbattermi, quando c’era il rischio di montarsi la testa sono stati bravi a farmi rimettere i piedi per terra» dice. Quanto a San Giovanni in Persiceto, per testimoniare la sua appartenenza si è fatto tutuare il cap 40017 sulla spalla sinistra. La storia sportiva di Marco comincia proprio alla Vis Persiceto per proseguire alla Virtus Bologna, con cui esordisce in Serie A ad appena 16 anni. Nella stagione successiva, dopo
Belinelli ha esordito in Serie A a 16 anni con la Virtus Bologna. Passato alla Fortitudo, ha vinto uno scudetto e una Supercoppa. Con la Nazionale ha disputato due Mondiali e cinque Europei.
il fallimento della società, passa alla Fortitudo, l’altra squadra di Bologna con cui vincerà due scudetti. Ecco perché lo scorso autunno, quando ha firmato per la Virtus, i tifosi avversari hanno gridato al tradimento. «Qualcuno ci è rimasto male» ammette: «Alla Fortitudo ho passato bei momenti, un professionista però deve darsi degli obiettivi e scegliere di conseguenza. E io avevo bisogno di un progetto nuovo e ambizioso come quello della Virtus». Ma torniamo agli inizi della carriera. Nel 2006 l’Italia partecipa ai Mondiali in Giappone e si trova nello stesso girone degli Stati Uniti. Contro un giovane LeBron James, Belinelli gioca quella che considera la partita più importante della sua vita e segna 25 punti; gli scout americani prendono nota. L’anno successivo arriverà la chiamata dell’Nba. Nel draft del 2007 i Golden State Warriors scelgono al numero 18 una guardia italiana di 21 anni che di nome
«I’M BACK» HA SCRITTO SUI SOCIAL NEL GIORNO DELLA FIRMA CON LA VIRTUS BOLOGNA. COME IL DIO DEL BASKET MICHAEL JORDAN
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fa Marco Belinelli. «Era la mia prima volta negli Stati Uniti, non c’ero mai stato neanche in viaggio» ricorda lui. «Con la mia ragazza, che ora è mia moglie, ci siamo guardati come a dire: ma dove siamo finiti? Per due giovani cresciuti a San Giovanni in Persiceto, trasferirsi nella parte più occidentale della California è un cambio radicale». Anche sul parquet gli inizi sono duri. Nei primi tre anni, a San Francisco e poi a Toronto, Belinelli fa tanta panchina e ha poche occasioni di mostrare il suo valore: «Avevo la sensazione di lavorare, lavorare, lavorare e non essere nemmeno preso in considerazione». Pure dalla stampa italiana, che lo mette in secondo piano rispetto agli altri due italiani d’America, Andrea Bargnani (prima scelta assoluta nel 2006) e Danilo Gallinari (sesta scelta nel 2008). Spiega Beli: «Non sono mai stato geloso di nessuno. L’ho presa come una sfida e ho deciso di far parlare il campo». E il campo ha detto che l’underdog, il perdente designato, un’etichetta che a Belinelli non dispiace, negli anni è riuscito a ritagliarsi il suo spazio. Non solo: ha conquistato un titolo con i San Antonio Spurs e ha vinto la gara del tiro da tre punti all’All Star Game 2014, due imprese che l’hanno collocato di diritto nella storia del basket italiano. L’ULTIMA STAGIONE È STATA LA PIÙ STRANA in assoluto. Prima il lockdown, poi il Black Lives Matter e la «bolla» di Orlando (per poter terminare la stagione, l’Nba ha chiuso giocatori e staff in tre hotel di Disney World). «Sembrava di stare in un film» ricorda Marco. «Il momento più duro l’abbiamo vissuto in primavera, quando hanno fermato il campionato e non si sapeva quando e se saremmo tornati a giocare. La bolla è stata un’esperienza emozionante ma anche difficile, perché non potevamo fare una vita normale. E nel frattempo era scoppiato il Black Lives Matter: ne ho parlato con diversi compagni di squadra afroamericani che in quel momento soffrivano tantissimo». Dopo 13 anni in giro per gli Usa, l’esperienza Nba di Belinelli si è conclusa senza rimpianti. «Un po’ di dispiacere è normale, ma quello che dovevo vincere l’ho vinto... Va bene così» assicura. «Non cambierei nulla di quello che ho fatto e che ho vissuto. Trasferirmi ogni anno o quasi non è stato semplice, perché ogni volta è come ripartire da capo: devi conoscere la città e costruire i rapporti con l’allenatore e i compagni. Credo però che mi abbia fatto crescere molto sia come giocatore sia come uomo». Certo: il Belinelli del 2007 non è lo stesso di oggi. Ma le motivazioni e i traguardi, garantisce lui, sono rimasti gli stessi. «È l’amore che ho per il basket che mi fa andare avanti a giocare. Ho ancora tanta voglia di dimostrare il mio valore e gli obiettivi sono sempre quelli: migliorarmi e vincere». Sarà per questo che alla Virtus ha scelto il numero 3, lo
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Nella sua carriera Nba ha giocato in nove franchigie diverse e vinto la gara del tiro da tre punti all’All Star Game. maglia e pantaloni,
canali 1934; orologio, gerald charles. palloni, nike
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si ringrazia: centro universitario
sportivo bologna, cubs.unibo.it
stesso che indossava con i San Antonio Spurs nell’anno del titolo. «Il 18 è stato il mio primo numero in Nba e il 3 mi ha regalato un anello. Non sono particolarmente legato ai numeri ma questi due per me hanno un valore particolare». E la Nazionale? «Non mi sono mai tirato indietro. Vincere qualcosa con la maglia azzurra è un grande sogno». Nella storia di Marco Belinelli c’è ancora un capitolo da scrivere, quello del futuro dopo il basket. Ma a 35 anni da compiere, dice Marco, non è ancora arrivato il momento di fare programmi a lungo termine: «Con Martina ci siamo detti che ci piacerebbe vivere tra l’Italia e Miami. Poi dovrò anche decidere che cosa fare... Ma ci penserò il più tardi possibile». Siccome però qualche punto fermo nella vita ci vuole, anche lui ne ha uno. «Porto la barba da quando sono un ragazzino e non penso proprio di tagliarla adesso. Non è un portafortuna: mi piace e basta».
IL LOCKDOWN, LA BOLLA DI ORLANDO E IL BLACK LIVES MATTER: «NELL’ULTIMA STAGIONE MI SEMBRAVA DI STARE IN UN FILM»
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IL NEMICO NUMERO UNO È
LA BOMBA ATOMICA L’attentato del 27 novembre 2020 contro il padre del programma nucleare iraniano sembra uscire dallo stesso copione che 40 anni fa portò al bombardamento della centrale nucleare irachena di Osirak e che prevede una sola scena: scacciare l’incubo che da 70 anni minaccia lo Stato di Israele. DI ANDREA PURGATORI
IL MAGGIORE ILAN RAMON non aveva ancora compiuto 27 anni, quando piombò col suo caccia F-16 sulla centrale nucleare irachena di Osirak (la Tammuz irachena), fatta innalzare da Saddam Hussein a Est di Baghdad. Erano le 14,35 del 7 giugno 1981 e Ramon era il più giovane tra i 14 piloti israeliani prescelti per sganciare le 16 bombe MK84 necessarie a distruggere l’impianto in modo irreversibile, così come aveva chiesto il primo ministro Menachem Begin. L’Operazione Babilonia (Mivtza Opera, in
ebraico) fu un successo militare ma non politico. In una risoluzione (la 36/27) l’Assemblea dell’Onu definì quel bombardamento un atto d’aggressione premeditato, intimando che non si ripetessero azioni simili. Ma dal punto di vista della strategia di autodifesa di Israele, che non ha mai accettato limitazioni dall’esterno al proprio operato (e meno che mai ha contemplato rivendicazioni ufficiali), quelle parole di condanna erano come se fossero state scritte sulla sabbia. Infatti, da allora il vento del deserto se le è
Benjamin Netanyahu, 71 anni, premier e leader del partito conservatore Likud, in quattro mandati (dal 1996 al 1999 e poi dal marzo 2009 a oggi) ha battuto il record di 13 anni di capo di governo detenuto da David Ben Gurion, fondatore dello Stato di Israele.
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FAKHRIZADEH È L’OTTAVA VITTIMA DEGLI ATTENTATI CHE DAL 2007 COLPISCONO SCIENZIATI E ALTI UFFICIALI LEGATI AL PROGETTO NUCLEARE IRANIANO
TRENTANOVE ANNI dopo il bombardamento di Osirak, necessaria e indirettamente annunciata ma al solito non rivendicata è stata anche l’eliminazione del padre del programma nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, colpito il 27 novembre 2020 in un agguato nella zona delle ville della nomenclatura di regime a 45 chilometri da Teheran. La storia si ripete, nel buio sulla dinamica e sui responsabili, secondo le tradizioni dello spionaggio con licenza di uccidere: forse un commando di 12 persone arrivato dall’estero con armi israeliane, secondo fonti del regime iraniano; forse una mitragliatrice manovrata da remoto piazzata su un pickup che poi è stato fatto esplodere, secondo altre ricostruzioni che eviterebbero ai servizi segreti degli ayatollah l’umiliazione di essersi fatti beffare dai killer sul proprio territorio. Ma i dettagli poco importano. Conta il fatto che Fakhrizadeh sia stato l’ultima vittima di un’escalation che dal 2007 ha visto eliminati otto tra scienziati e alti ufficiali legati al progetto nucleare iraniano che l’ex presidente Barak Obama era riuscito a contenere con quel negoziato che poi Donald Trump ha fatto saltare.
Il servizio segreto israeliano è stato fondato nel 1949. Molte operazioni sono svelate dal documentario Inside the Mossad (Netflix, 2017).
È BENE CHIARIRE subito che le impronte per incastrare il Mossad per l’esecuzione dello scienziato nucleare iraniano non sono state trovate e difficilmente lo saranno, alla faccia dei sospetti e degli indizi precisi che però conducono direttamente al governo israeliano. Indizi tutt’altro che evanescenti, visto che nel 2018 il primo ministro Benjamin Netanyahu convocò una conferenza stampa per mostrare al mondo il bottino preziosissimo che agenti
Nella pagina accanto, Benjamin Netanyahu parla all’American Israel Public Affairs Committee nel Washington Convention Center nel 2018.
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«NON C’È NULLA di cui Israele vada più orgoglioso che degli “omicidi mirati”, in realtà veri e propri delitti di Stato» ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy in un aspro commento pubblicato dal quotidiano Haaretz subito dopo l’uccisione dello scienziato iraniano. Ma l’opinione critica di qualche commentatore, pur stimato e seguito, al governo di Israele non fa alcun effetto. La strada è sempre stata quella. E quella per il momento rimane: azzoppare sul nascere e con ogni mezzo qualsiasi tentativo dei nemici di ottenere la micidiale bomba atomica. Anche se è quanto meno singolare che quell’incubo costante non si accompagni mai a un’operazione di trasparenza sul proprio arsenale domestico. Perché, pur non avendolo mai ammesso, Israele è l’unico Paese del Medio Oriente a possedere da molti decenni ordigni nucleari (oltre 200, comprese testate all’idrogeno e al neutrone, secondo una stima della Federation of American Scientists). Ne era certo a conoscenza anche il maggiore Ilan Ramon che bombardò Osirak nel 1981, il quale chissà quale opinione avrebbe oggi sull’escalation degli «omicidi mirati». Non lo sapremo mai: è morto nell’esplosione dello Shuttle Columbia il 1 febbraio 2003. Primo, e sfortunato, astronauta israeliano che in orbita seguiva le regole religiose, mangiava cibo kasher e parlava ogni giorno con il suo rabbino.
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del Mossad erano riusciti a trafugare da Teheran con un’operazione spericolata: cinquemila pagine di dati, progetti e soprattutto nomi segretissimi del programma nucleare iraniano. Ecco, da quelle pagine emergeva come Fakhrizadeh fosse il cervello che sovrintendeva alla realizzazione del sogno proibito dei nemici numero uno di Israele: ancora una volta, la bomba atomica. «Ricordatevi bene questo nome» disse Netanyahu. Nessuno lo ha dimenticato quando due anni più tardi quei misteriosi killer venuti dal nulla lo hanno tolto di mezzo, mettendo a rischio il già precario equilibrio mediorientale.
portate via lasciando all’aviazione da guerra o al Mossad (il servizio di intelligence per le operazioni estere di Israele) mani libere per portare a termine ogni azione coperta necessaria a scacciare via l’incubo che da 70 anni agita i governi dello Stato israeliano e che ha un nome preciso: bomba atomica.
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MACROMICRO DI DANIELE MANCA INFOGRAFICA DI MATTEO RIVA
Perché non siamo competitivi (e perdiamo cervelli) La prima priorità del Paese è far funzionare lo Stato. Invece persiste la divergenza tra politica ed economia. Che impedisce una visione del futuro.
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EL 2020 abbiamo ricevuto una conferma e scoperto almeno un paio di cose nuove, o perlomeno che si avviano ad avere più peso sull’economia e quindi sulla nostra vita nei mesi a venire. La conferma è che la globalizzazione non si è bloccata. Il virus che ha abbattuto di colpo qualsiasi confine ci ha costretto a pensare al mondo in termini di un unico ambiente. Ci ha costretto ad ammettere che globalizzazione non significa disinteresse per i territori dove si vive. Come direbbe il giurista e studioso dei sistemi democratici, Sabino Cassese, vivremo in un mondo sempre più globalizzato ma non per questo meno locale. Passando alle novità: la prima è che, soprattutto per un Paese come l’Italia ma non solo, lo Stato si appresta ad avere un peso sulle scelte economiche impensabile fin solo a qualche mese fa; la seconda è che l’Europa si sta dimostrando una realtà solida
e consistente, dal potere sinora forse persino sottovalutato. Due considerazioni che riguardano gli assetti mondiali dell’economia, ma che per il nostro Paese hanno conseguenze forse maggiori che altrove. Il nostro Stato e burocrazia, infatti, non hanno la stessa efficienza di altri sistemi e Paesi dei quali siamo competitor. Purtroppo, ancora una volta, di fronte a una constatazione persino così banale la reazione di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica non è stata quella attesa. E cioè di mettersi a testa bassa per far funzionare quello che già c’è, ed è molto, del settore pubblico. Tutt’altro, in Italia se non funziona una legge non la si abroga e se ne fa un’altra, al contrario le vecchie norme vengono lasciate mentre se ne varano di ulteriori che vanno ad aggiungersi alle precedenti. Un modo di agire che ha favorito l’allargarsi incontrollato e soffocante di quella ragnatela di leggi e codicilli che ingabbiano l’agire quotidiano di famiglie e imprese. LEGENDA
Silent generation (1848-1945) Baby boomers (1946-1964)
Generational flux:
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Come cambia la demografia mondiale nel tempo
Millenials (1981-1996) Gen Z (1997-2012) Altri
Regno Unito Popolazione: 66,65 milioni (2019)
Italia Popolazione: 60,36 milioni
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MACROMICRO A questo si aggiunga quel riflesso condizionato caratteristico dell’Italia che è il creare task force o commissioni per sopperire a quanto non viene fatto da ministeri e agenzie di Stato. È lecito sospettare che tutto questo serva di fatto ad allontanare le responsabilità da chi dovrebbe amministrare la cosa pubblica. Uno stile che si è visto in azione anche sui temi europei. Ci siamo messi nel solito ruolo rivendicativo nei confronti dell’Europa, come se non fossimo tra i Paesi fondatori o la terza potenza economica o la seconda manifatturiera del continente. Non capendo che il rinnovato potere dell’Unione, grazie alla presidente Ursula von der Leyen, poteva e può essere una carta da giocare sui mercati mondiali. Quei mercati dove, come Paese esportatore, contendiamo primati alla Cina, alla Corea e alla stessa Germania. Si è confermata ancora una volta quella divergenza tra politica ed economia che in Italia è una costante. Cosa che ci impedisce di avere una visione MASCHI
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del futuro che vada al di là delle manovre-mance che ogni dicembre approviamo all’ultimo momento. Un esempio per tutti: la demografia. L’Italia ha una popolazione che per un terzo ha più di 60 anni. Non solo, dal 2015 continuiamo a perdere cittadini. Due dati che dovrebbero spingerci a rivedere completamente le politiche economiche, che sembrano non tenere in conto la fuga continua di giovani che ci priva di cervelli e di intere generazioni che dovrebbero essere il nostro futuro. Si pensi anche alla produttività, da un ventennio in continua discesa. Come tutte le medie anche questa nasconde il vero dato: la competitività delle nostre aziende sui mercati esteri ci dice che non è lì che dobbiamo ricercare il problema, ma in quel vasto mondo che è il settore pubblico. Il che ci riporta alla constatazione iniziale: se continueremo a non parlare della prima priorità del Paese che è far funzionare lo Stato, saremo destinati a un ruolo sempre più marginale.
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Colpi di scena tra contraddizioni e conflitti Razzismo, diritti civili, discriminazione, femminismo, ecologia, Marilyn Monroe e le manifestazioni per i diritti civili. Mentre il corpo dell’artista diventa un’opera d’arte. Come quello di Joseph Beuys che nel 1974 si avvolge in una coperta per raccontare «I like America and America likes me» in compagnia di un coyote. DI MARTINA CORGNATI
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ASPER JOHNS, uno dei più importanti attori di quel cambiamento nell’arte e nella società che, intorno al 1960, travolge l’America, scriveva convinto: «Non voglio che il mio lavoro sia una messa in scena dei miei sentimenti». Questo è il punto di partenza di una grande mostra, American Art 1961-2001, programmata a Palazzo Strozzi di Firenze (dal 6 marzo al 25 luglio). Cento capolavori, tutti provenienti dal Walker Art Center di Minneapolis e mai visti in Italia, ripercorrono 40 anni di storia e di arte americana, dall’esordio della cultura Pop all’11 settembre 2001. Quarant’anni di colpi di scena, di contraddizioni e di conflitti, in merito ai quali però l’arte ha sempre saputo proporre una sorta di conciliazione e di sintesi. Andy Warhol per esempio, il più celebre rappresentante della Pop Art, il primo movimento a
Sopra, National Trust (1981), opera della serie Men in the Cities di Robert Longo. Nella pagina a fianco, Sixteen Jackies (1964) di Andy Warhol.
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emergere negli anni Sessanta caratterizzando più di qualunque altro l’arte d’oltreoceano, elabora le sue immagini a partire dalla visione del mondo presentata giorno dopo giorno dai media, mettendo sullo stesso piano Marilyn Monroe e le manifestazioni degli afroamericani in lotta per i diritti civili. Entrambe fanno notizia, entrambe fissano frames di storia presente e li trasformano in icone. «Il rapporto fra storia e immagini è il filo conduttore del progetto» spiega Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi. «Abbiamo scelto un percorso incentrato non solo sugli sviluppi artistici ma anche sulla storia americana. Non per nulla abbiamo dato spazio a diversi artisti che si sono serviti dell’arte in modo più militante, come Bruce Nauman, uno dei massimi interpreti della performance, ma anche a coloro che si sono calati fino in fondo in temi scomodi e scottanti oggi: razzismo,
© THE ANDY WARHOL FOUNDATION FOR THE VISUAL ARTS INC.
ANDY WARHOL ELABORA LE SUE IMMAGINI A PARTIRE DALLA VISIONE DEL MONDO PRESENTATA GIORNO PER GIORNO DAI MEDIA S T Y L E M AG A Z I N E
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diritti civili, discriminazione». Nauman, ad esempio, nel 1968 realizza un’opera pionieristica composta da quattro video intitolata Art Make - Up: No.1 White, No.2 Pink, No.3 Green, No.4 Black: la telecamera lo inquadra a torso nudo mentre si copre di polvere colorata, una specie di fondotinta, diventando completamente bianco, poi rosa, poi verde e infine nero. Una dichiarazione di come il corpo dell’artista possa diventare opera d’arte, quando adeguatamente truccato, ma anche un’assunzione di identità «altre», oltre alla propria, in particolare quella afroamericana. A proposito di performance, non si può non evocare una delle più celebri ed emblematiche di tutti i tempi dedicata proprio alla storia e all’identità americana e realizzata però da un artista tedesco, Joseph Beuys, nel 1974: I like America and America likes me. L’azione, durata una settimana, si era svolta
In senso orario: Cowboys and Girlfriends (1992) di Richard Prince; il video, in una galleria di Berlino, della performance I like America and America likes me (1974) di Joseph Beuys; e BLACK IS BEAUTIFUL (1998) di Kerry James Marshall.
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nei locali della René Block Gallery a New York, trasformati in una specie di gabbia munita di una grata per consentire al pubblico di assistere a quanto accadeva all’interno. Beuys, arrivato in ambulanza direttamente dall’aeroporto avvolto in una coperta di feltro, convive nella stanza con un coyote selvatico, ribattezzato Little John e con lui si impegna in una specie di danza, munito di bastone, coperta, cappello, giornali e un mucchio di paglia. Ritmo, durata e gestualità variavano in base alle reazioni del coyote. L’azione, non priva di pericoli, rappresenta come nessun’altra le posizioni quasi profetiche di Beuys sul mondo naturale ed è diventata l’emblema di una possibile conciliazione o restituzione dell’equilibrio perduto fra l’Eurasia e l’America, fra l’uomo bianco e quello nativo americano, la civiltà presente e quella passata, fra cui corre il filo teso del trauma prodot-
© RICHARD PRINCE. COURTESY THE ARTIST AND THE WALKER ART CENTER, MINNEAPOLIS; © KERRY JAMES MARSHALL. COURTESY THE ARTIST AND THE WALKER ART CENTER, MINNEAPOLIS; LAIF
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©ELLSWORTH KELLY FOUNDATION, COURTESY MATTHEW MARKS GALLERY; © KARA WALKER
IL FEMMINISMO NON HA MAI PERSO QUOTA PERCHÉ LA DISCRIMINAZIONE NON È MAI CESSATA
to dall’originaria violenza e dal genocidio dei nativi. La distruzione dell’ambiente e l’ecologia, temi di cui all’epoca non parlava nessuno, se non pochi scienziati visionari americani come il biologo Barry Commoner, e che oggi invece sono tornati di grande attualità con l’aggravarsi delle conseguenze dovute all’inquinamento e al cambiamento climatico. Il femminismo invece non ha mai perso quota perché la discriminazione ha assunto sempre nuove forme, anche violentissime, e non è mai cessata del tutto. Così, nella mostra fiorentina le artiste saranno molte, dalle apripista del femminismo storico, come Barbara Kruger, alle trasformiste avveniristiche e visionarie quali Cindy Sherman, che nei Film Still degli anni Settanta assumeva su se stessa innumerevoli ruoli e personaggi femminili, anzi potenzialmente infiniti, facendosi fotografare sempre nei panni di
Red Green Blue, olio su tela del 1964 di Ellsworth Kelly, e Cut (1998), carta ritagliata, opera di Kara Walker.
un’altra fino a cancellare la propria identità. Kara Walker, femminista e afroamericana, denuncia invece una doppia discriminazione, verso le donne e verso i neri: le sue opere sono sagome di cartoncino nero ritagliate e fissate direttamente alla parete per ricreare un teatro delle ombre che racconta storie terribili o irriverenti, di schiavitù e di stereotipi. «Kara Walker sarà una grande protagonista della mostra» dice ancora Galansino «con l’obiettivo di cambiare la narrazione della storia dell’arte americana, fuori da un mainstream ancora fortemente incentrato sulla percezione del grande pubblico intorno ad artisti maschi e bianchi». Sarebbe proprio ora di raccontare un’altra storia. E di conciliare le diverse anime della grande America in un paesaggio certo complicato e a volte drammatico, ma ancora capace di regalare sogni e aprire le porte alla parola «futuro».
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Senza confini
Non ha vincoli né limiti il mondo di Lorenzo Palmeri: si occupa di architettura, progettazione, design, art direction, composizione e produzione musicale.
UELLA CHE VEDETE qui sopra è la copertina di Erbamatta, il secondo album di Lorenzo Palmeri, architetto, designer, musicista... Parlando di Palmeri compositore bisogna andare al 2009, quandoera uscito Preparativi per la pioggia, con la collaborazione di Saturnino e Franco Battiato. Nel 2019 arriva poi La natura del parafulmine. Se vi state domandando di che cosa esattamente si occupi, risponde il suo curriculum vitae: «Palmeri ha progettato tante cose: abitazioni, chitarre, lampade, vasi, tavoli... cioccolatini». Di fatto, Erbamatta ne mette insieme almeno due: da un lato la musica, dall’altro tutto il resto. Proprio come ci racconta lui, che ora sta lavorando a un brand di design che ha lo
In alto: la cover di Erbamatta di Palmeri (sopra), album di 12 brani presentato con un concerto live alla Triennale di Milano (2015).
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stesso nome dell’album. Perché? «Perché le erbe matte crescono sul cemento, tra le rotaie dei treni, sui marciapiedi» risponde. «Sembrano un nulla, non hanno nome ma si diffondono liberamente, in modo imprevedibile, grazie al vento o al passaggio di un uccello». Laurea in Architettura a Milano, studi in composizione passando dalle stanze del Conservatorio, Palmeri è stato allievo di Bruno Munari («insieme abbiamo giocato con oggetti e cose») e amico di Franco Battiato («ho anche fatto un cameo nel suo film Niente è come sembra»). Il design? «Designer lo si è, non lo si fa» afferma. «In realtà la cosa che mi affascina è la dimensione del progetto: è la categoria che sta sopra a qualsiasi disciplina». Se gli chiedi come lavora quando progetta, racconta che dallo stare fermi, seduti, non nasce mai niente, che a lui occorre disegnare e, ancora prima, camminare perché il percorso più lungo inizia sempre da un
FOTO: VIRGINIA BETTOJA
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DI SUSANNA LEGRENZI
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DISEGNARE UNA BOTTIGLIA SIGNIFICA MISURARSI SU CHE COSA S’INTENDE PER DESIGN DEMOCRATICO
piccolo passo. «È Confucio» sorride. «Ma anche per me è esattamente così. Solo quando sono in movimento si apre davanti una scena». Di Palmeri tutti (o quasi) sanno che qualche hanno fa ha disegnato una chitarra per Noah Guitar, la (ormai) mitica Paraffina Slapster, una icona del design italiano finita quasi subito tra le mani di Lou Reed. «Con Giulio Iacchetti stavamo lavorando a una mostra, Milanosoundesign, in cui chiedevamo alla nuova generazione di designer italiani di progettare qualcosa di “sonoro”. Paraffina è nata lì e mai mi sarei immaginato che Lou Reed ci avrebbe poi fatto un tour mondiale e scelto proprio questo strumento per la copertina del suo libro Lou Reed Songbook. E nemmeno che Saturnino scegliesse di usarla nella versione quattro corde, quella per i bassisti».
FOTO: GUIDO HARARI
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OME SI PASSA dalle chitarre ai cioccolatini? «Sono sempre stato affascinato dal rapporto corporeo che abbiamo con gli oggetti» racconta sempre Palmeri. «Tra i miei ultimi progetti, per esempio, c’è una nuova bottiglia di vetro per Acqua Chiarella: disegnare una bottiglia significa lavorare con l’archetipo. Ma anche riflettere e misurarsi su che cosa si intende per design democratico. Si tratta di mettere la testa su qualcosa che passa di mano in mano, fino a che ci si dimentica di chi l’ha disegnato». Dietro ogni progetto di Palmeri c’è un pensiero, spesso un suono. Nei piatti Formiche, prodotti da Laboratorio Pesaro per Erbamatta Project, c’è l’eco della poetica sottile di Bruno Munari. Per Pieces of Venice, il giovane brand Compasso d’Oro ADI 2020 per la categoria Design per il sociale, che trasforma frammenti di Venezia o della laguna in piccoli souvenir, ha disegnato un ventaglio in piallaccio di rovere di bricola, il legno dei pali nell’acqua, si chiama Castello 5183 e porta con sé il rumore silenzioso di un gesto, quello con cui apriamo e chiudiamo uno degli oggetti più trasformisti. Con Whistleblower, anello disegnato per la galleria Subalterno1, c’è un fischio. «Un fischio può rappresentare dissenso o gioia, un segnale d’allarme o una richiesta di aiuto» afferma Palmeri. «Questo piccolo anello fischietto ci ricorda la nostra libertà di decidere se farci sentire, se partecipare o preferire il silenzio».
Lou Reed fotografato mentre suona con la chitarra Paraffina Slapter; lo strumento è esposto al museo del Design nella collezione fuoriserie della Triennale. «La tavola è un luogo sacro per la famiglia, l’amicizia, l’incontro, la convivialità». E il tema ricorre, ad esempio, con la bottiglia dell’acqua (2020) e i piatti Formiche (2018). Dalla serie LivingStone (2012): «Gli animali raccontano la storia dell’azienda Stone, i suoi materiali, le finiture, i colori»; a destra il ventaglio Castello 5183 (2018) «c’è quando serve per poi sparire rapidamente».
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C U LT U R E SCIENZA
IL SEGRETO DELL’ORIGINE DELLA VITA SULLA TERRA È NELLO SPAZIO DI VALENTINA RAVIZZA ILLUSTRAZIONE DI CARLA INDIPENDENTE
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COME PARTECIPARE a una enorme e complessa lotteria per la quale abbiamo un solo biglietto. Ma la posta in gioco è troppo alta per non tentare: scoprire tracce di vita su altri corpi celesti significherebbe avvicinarsi a capire com’è nata quella sul nostro pianeta e quali evoluzioni potrebbe avere. Tanto che l’Agenzia spaziale italiana ha al suo interno un’unità dedicata proprio all’Esplorazione e Osservazione dell’Universo, un team che collabora con ESA (European Space Agency), NASA e analoghi enti spaziali russi, giapponesi e cinesi per studiare non solo i pianeti del nostro sistema solare ma anche i loro satelliti e gli asteroidi. E persino alcune comete di passaggio perché, come spiega la responsabile dell’unità, l’astrofisica Barbara Negri, «se è vero che i parametri fondamentali per immaginare l’esistenza di forme di vita simil-terrestri sono la solidità del corpo celeste (avendo bisogno di gravità non potrebbero esistere su un gigante gassoso) e la sua collocazione nella fascia di abitabilità rispetto alla stella attorno a cui gravita, è altrettanto vero che all’interno di questi agglomerati di gas ghiacciati, frammenti di rocce e metalli sarebbero presenti elementi volatili e molecole organiche pre-biotiche alla base della nascita delle cellule». A dimostrarlo è stata la missione Rosetta che su una cometa, la 67P, è atterrata nel 2016, raccogliendo dati e immagini che ancora oggi stanno nutrendo la ricerca astronomica.
QUALI «FIORI» queste gigantesche «api cosmiche» siano riuscite a impollinare è però ancora tutto da scoprire. «Dal 1995 sappiamo che nella Via Lattea ci sono sistemi di pianeti che ruotano anche attorno ad altri soli» continua Negri, «ma è solo grazie ai dati raccolti con la missione Kepler della NASA che tra il 2009 e il 2018 sono stati identificati circa cinquemila pianeti potenzialmente abitabili. E dovremo aspettare almeno fino al 2028 perché la missione europea ARIEL (Atmospheric Remotesensing Infrared Exoplanet Large-survey) inizi a osservare
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da vicino i candidati più promettenti, verificando anzitutto che la loro atmosfera sia abbastanza “spessa” per proteggerli dalle radiazioni delle stelle attorno a cui orbitano e ricercandovi indizi della presenza di ossigeno, metano, azoto e fosforo». In caso di esito positivo ci vorranno tra 30 e 50 anni, si stima, per provare ad atterrare con una sonda robotica sulla superficie di uno degli esopianeti più vicini come Proxima b, a quattro anni luce da noi.
NEL FRATTEMPO PROSEGUE con risultati più incoraggianti l’indagine nel sistema solare, in particolare per quanto riguarda Marte, Giove e Saturno. Sul primo, anche grazie alla scoperta di un grande lago di acqua ghiacciata a un chilometro e mezzo di profondità (fatta dal radar italiano Marsis a bordo della Mars Express), è stata confermata l’ipotesi che fino a tre miliardi di anni fa ci fosse abbondanza d’acqua. Gli scienziati stanno dunque cercandovi tracce fossili di materiale organico nel sottosuolo «che potrebbero testimoniare l’esistenza di microrganismi estremofili prima della progressiva desertificazione». Per quanto riguarda Giove, invece, a interessare i planetologi sono soprattutto i suoi satelliti Europa, Ganimede e Callisto, definiti «ocean worlds» per l’assai probabile presenza di immensi oceani sotto lo strato esterno di ghiaccio, verso i quali si dirigerà nel 2022 la missione europea JUICE (JUpiter ICy moons Explorer): «Le loro grandi riserve di acqua liquida potrebbero ancora oggi ospitare microorganismi». Su Encelado, satellite di Saturno, il vapore che esce dalle fratture del ghiaccio in superficie contiene addirittura sali e tracce di composti organici «che fanno pensare a possibili sorprese quando saremo pronti per una missione spaziale dedicata. Se, come pare dalle immagini dell’orbiter Cassini della NASA, ci sono sulla sua superficie movimenti d’acqua generati da geyser, possiamo sperare di trovare sorgenti idrotermali sotterranee simili a quelle che hanno fatto da culla alla vita sulla Terra». A che punto sia l’eventuale «gestazione», però, è uno dei tanti misteri ancora da svelare.
Nel 2028 l’Agenzia spaziale europea inizierà a osservare i primi esopianeti, ma per atterrarvi ci vorranno almeno altri 30 anni. E molto più tempo per sviluppare sonde spaziali in grado di raggiungere quelli più lontani, come Toi 700 d, che dista 100 anni luce dalla Terra.
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abbiamo identificato circa cinquemila esopianeti potenzialmente abitabili. ora si tratta di arrivarci
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INCHIESTA
Tutti i giorni nel mondo c’è un uomo con il CUORE SPEZZATO che si strugge per la persona che ama. Perché anche i maschi soffrono
GLI UOMINI E L’AMORE DI EDOARDO HENSEMBERGER
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UATTRO PENSIERI, totalmente maschili, sull’amore. Perché anche i maschi soffrono d’amore, e ogni tanto dobbiamo ricordarcene, soprattutto oggi che, per colpa di chi l’amore non l’ha capito, possiamo essere solo colpevoli, tante volte complici, quasi mai vittime. La verità è che soffriamo terribilmente per amore, ma siamo portati a nasconderlo per questa aurea di mascolinità che forse stiamo piano piano arrivando ad abbattere. Soffriamo ogni volta che ci si dimentica di noi e che i nostri sentimenti vengono calpestati, non sappiamo dove rifugiarci, né come uscirne; spesso però non siamo abbastanza razionali per reagire e siamo condannati a stare male per troppo tempo. L’amore però, quello vero, è superiore a tutti i nostri sbagli, non prevede che gli uomini siano «gli stronzi» e le donne «le vittime», l’amore proprio non prevede il male. E allora esiste questo Amore? Come tante cose, esiste solo quando ci si crede.
«DANTE NON È ANDATO ALL’INFERNO PERCHÉ VOI POSSIATE CAMBIARE SENTIMENTI SENZA SOFFRIRE»
tà con cui cambiamo mutande da un giorno all’altro. Non dico che non siamo liberi di rovesciare l’idea che avevamo di una persona, o perfino di stufarci di quella persona, dico che difficilmente avrebbe potuto essere amore: era desiderio, era passione, era un intrigo o un capriccio, poteva essere amicizia mescolata con attrazione fisica. Di certo Dante non è andato all’inferno perché voi poteste pensare di innamorarvi per poi non esserlo più.
PARTIAMO DA DANTE, perché l’amore eterno (un amore per giunta non ricambiato) l’ha capito meglio lui di tutti noi e gli ha dedicato l’intera vita, scrivendo versi come «l’amor che move il sole e l’altre stelle» per provare a farci capire, più di 700 anni dopo, quanto fosse potente. Oggi crediamo semplicemente che possa finire; crediamo che la passione possa scemare e che i nostri sentimenti possano cambiare con la stessa semplici-
Il monumento a Dante e Beatrice a Bellagio (Co), coppia simbolo dell’amore eterno, seppur non ricambiato.
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EPPURE GLI AMORI FINISCONO tutti i giorni; in questo momento da qualche parte del mondo c’è un uomo che giurerà di aver amato una donna o un altro uomo che mai avrebbe pensato potesse fargli del male, e invece gli ha spezzato il cuore, e adesso non si alza dal divano neanche per mangiare. L’amore delle favole, dei romanzi e dei film non è l’amore della vita reale: nella vita reale l’amore si scontra con così tante difficoltà che è molto più facile
INCHIESTA
Non può esistere l’amore se non È CONDIVISO, è un sentimento che si costruisce in due, condividendo la strada
GIOVANNI: «IL FATTO CHE la mia relazione sia finita non significa per forza che abbiamo smesso di amarci. Smettere di amare una persona è un ossimoro: se si ama si continua ad amare; se si arriva a non amare più, forse, piuttosto, non si è davvero amato. È come se, dopo un pezzo di vita percorso insieme, avessimo deciso di prendere due strade diverse. Non ho smesso di volere il suo bene, perché amare significa essere in grado di volere il bene di una persona anche quando questo non coincide col proprio. Nella corso della vita, è vero, si fanno delle scelte, ma si sceglie di amare, non chi amare. Per quanto possa sembrare assurdo è proprio quando abbiamo preso strade diverse che ho compreso il verso d’amore per eccellenza: “amor ch’a nullo amato amar perdona”, non può esistere l’amore se non è condiviso. Ci si può innamorare di un’altra persona senza che questa ricambi, ma non sarà mai Amore. L’amore si costruisce condividendo la strada; io la prima volta l’ho visto nei suoi occhi, guardando lei mi sono reso conto di cosa fosse l’amore, condividevamo lo stesso sguardo. L’amore non è una cosa concreta e non sono in grado di dire se mai smetterò d’amarla anche perché quello che ho provato
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«QUESTO PER ME È L’AMORE: QUANDO L’ALTRA PERSONA DIVENTA TUTTO CIÒ DI CUI HAI BISOGNO PER STARE BENE»
e tutt’ora provo per lei resterà per sempre. Non so che cosa significhi stare male per amore. Credo piuttosto che la chiave sia “stare con” o “stare senza”».
Solo di fronte all’amore uomini e donne sono davvero uguali, esattamente come dovrebbero esserlo nella vita e nella società.
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LUCA: «SONO STATO INNAMORATO due volte, ed entrambe le volte è finita perché uno dei due si spostava in un’altra nazione. La prima volta è stato lui ad andarsene, doveva tornare nel suo Paese per portare avanti l’attività di famiglia; è stato il primo ragazzo con cui sono stato, il primo che ho presentato ai miei genitori, non è stato facile e mi ha permesso di crescere molto; ho concretizzato l’amore per lui quando ho capito che dovevo lasciarlo andare pur sapendo che se non fosse partito non sarebbe mai finita. La seconda volta ad andarmene sono stato io, e nonostante sapessi fin dall’inizio che la relazione avrebbe avuto una scadenza ciò non mi ha impedito d’innamorarmi di nuovo. Ho ritrovato lo stesso sentimento della prima volta in una forma diversa. Per me l’amore è quando l’altra persona diventa tutto ciò di cui hai bisogno per stare bene. Non mi sono pentito di essere partito perché ho sempre considerato il mio futuro più importante delle mie relazioni. Non sono più innamorato di nessuno di loro due, però ogni tanto capita di sentirci, e probabilmente se adesso ci rivedessimo sarei curioso di riprovarci, perché non essendo mai finita per volontà, credo potrebbe rinascere qualcosa. Da entrambe queste relazioni ho capito che l’amore si costruisce, e non è importante come inizia, né che abbia bisogno della validazione del mondo esterno. Mi innamorerò di nuovo, credo che capiti a tutti».
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lasciare che finisca piuttosto che combattere per la sua sopravvivenza. In amore il sacrificio di uno solo non basta, e forse neanche serve, all’amore si gioca in due, e quando il protagonista è lui siamo tutti uguali, uomini e donne, esattamente come dovremmo esserlo nella vita e nella società, ma questa è solo un’altra illusione da romanzo. A 20 anni si crede d’amare ma si guarda al passato con tenerezza, pensando a quando si credeva d’amare a 14, 15 o a 16, e probabilmente a 30 si sorriderà dell’amore dei 20, e avanti così, fino a quando ci si rende conto di non aver mai amato davvero nessuno, o forse ci si trova accanto all’amore dei 16 anni, consapevoli che non finirà mai. Ecco due storie d’amore, ormai finite, di Giovanni, 23 anni, eterosessuale, e Luca, 23 anni, omosessuale; entrambi hanno finito da poco l’università e hanno iniziato a lavorare, il primo come giornalista freelance, il secondo a Londra in un’importante banca d’investimento.
21-22 a.i.
PREVIEW E TENDENZE PER L’AUTUNNOINVERNO 2021-2022 Ecco quello che vedremo (e indosseremo): dalla rivoluzione green allo stile scandinavo, dalla moda per l’outdoor ai capi stratificati.
testi di Cristina Manfredi coordinamento: Fiorenza Bariatti e Silvia Giudici ha collaborato: Diletta Accorroni 154
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21-22 a.i. Antony Morato
PROPOSTE TRA MODA E SPORT Sette temi (Timeless, Digital, Modernismo, Los Angeles, Copenaghen, Sport technology e Sport men at work) per una stagione. Da indossare in esclusiva o mixati per creare un proprio modo di vestire.
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OMPORRE il
proprio look attingendo da contesti diversi. Oltre all’iconica proposta Timeless con i suoi capi essenziali, Antony Morato ha sviluppato altre sei temi, divisi tra moda e mondo sportivo. Digital richiama gli anni Ottanta, le metropoli con le luci al neon, i cartoni animati giapponesi e la vita notturna; ovvero: giubbotti e pantaloni slim, tessuti tecnici e nylon lucidi alternati a materiali naturali in una palette di colori decisa (giallo acido, nero e bianco). Modernismo vuole invece essere un omaggio agli anni Sessanta con l’architettura e il design plastico, forme essenziali ma sorprendenti, gusto british per realizzare silhouette asciutte su capi tradizionali in colori insoliti (come il cappotto azzurro). Los Angeles è il nome dato alla collezione di giubbotti, parka, pantaloni e overshirt dall’evidente richiamo militare: gusto vintage americano in tonalità calde (verde bottiglia, nero, ruggine e senape). Copenaghen, infine, vede protagonista il color bianco neve abbinato a grigi e blu; maglioni, giubbotti super puffy e cappotti in lana cardata. Due le proposte sportive: Sport technology dove gli elementi classici di quel mondo (loghi, nastri e bande laterali) sono semplici e lineari per meglio unirsi ai capi Digital; e Sport men at work cioè un look dove l’uso del logo, del colore e dei contrasti è studiato per risultare incisivo ma non invadente.
Il cartone animato Goldrake è il protagonista della capsule chiamata Digital (sotto alcuni bozzetti).
ATTINGERE DA CONTESTI DIVERSI SENZA RINUNCIARE AL MOOD CONTEMPORANEO E TECNOLOGICO
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21-22 a.i. Baracuta
Berwich
Montgomery is back
In movimento, con stile
È UN CAPOSALDO del
UNA COLLEZIONE
guardaroba maschile e Baracuta lo reinterpreta con piglio contemporaneo. Si tratta del montgomery, il capospalla che deve il suo nome all’omonimo maresciallo inglese che lo indossava durante la Seconda guerra mondiale. Il marchio dalle origini brit è partito da un modello d’archivio con la tipica chiusura ad alamari di legno, lavorando il neoprene tecnico abbinato alla lana inglese. Risultato? Look dal tocco rétro, ma con leggerezza da terzo millennio.
sostenibile ispirata agli esploratori: elegante ma comoda. Quattro i temi: Komodo (in tessuti funzionali, active e performanti), Bibliotheca (in lana
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tartan, velluti o fustagni), Vissuto (sottoposto a speciali lavaggi) e Pantalone italiano. Quest’ultimo ingloba i must del marchio: Morello, Barber e l’iconico Retro, i pantaloni con dettagli sartoriali, realizzati in pregiato fiocco di cotone 100 per cento organico certificato, raccolto in California.
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Il capo intramontabile interpretato in neoprene e lana inglese.
Retro Army: carrot fit con una pince, tasche a filetto e cinta a rondine.
Barrett
THINK BIG La differenza la fa il fondo delle calzature: suole con carrarmato di almeno cinque centimetri.
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di pregio, progettate e costruite con passione. Così nascono i modelli Barrett per il prossimo inverno, all’insegna della versatilità e del carattere. La semplicità delle linee si abbina al dettaglio di suole «importanti» che consentono la massima duttilità, perfette per una passeggiata in campagna, come per un look da città. Tra i must-have, la derby
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CARPE
in vitello spazzolato con suola bicomponente da 2,5 cm. E le varianti dal fondo chunky alto cinque cm in para con battistrada Eva extralight, ispirato al mondo delle escursioni estreme.
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TRA I FOCUS DI STAGIONE LA DERBY IN PELLE SPAZZOLATA
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I boots di collezione prendono spunto dal guardaroba per le escursioni in montagna.
21-22 a.i. Boggi Milano
LA RIVOLUZIONE ADDOSSO Solo un tessuto ad accomunare polo, felpa, camicia, pantaloni, field-jacket e parka.
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di movimento, massimo comfort e alto contenuto di stile. Da queste premesse Boggi Milano è partito nel mettere a punto B Tech, la linea in total look a metà tra classico e sportivo. Elemento chiave, il jersey di ultima generazione, integrato con fibre di micro nylon stretch, per offrire, oltre alla piacevolezza dell’averlo
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Focus su B Tech grazie al jersey di ultima generazione integrato con fibre di micro nylon stretch.
IBERTÀ
addosso, anche la praticità dei materiali anti piega e facilmente asciugabili. La gamma dei colori spazia tra le tinte unite ultra versatili e le fantasie tipiche della sartoria maschile. I bottoni sono in madreperla e le etichette personalizzate.
PAROLE CHIAVE: ELASTICITÀ E RESISTENZA
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Briglia 1949
Il particolare? La coulisse interna sui classici colori di stagione.
COMFORT CHIC La coulisse diventa il nuovo dettaglio che segna la differenza dei pantaloni contemporanei.
A
eleganza inamidata, Briglia 1949 prosegue nella definizione di un universo chic e confortevole allo stesso tempo. Massima attenzione alla scelta dei tessuti che spaziano tra jersey e tecno-lane per costruire pantaloni morbidi, piacevoli da indossare e sempre impeccabili nello stile. Due su tutti: i cargo realizzati nel tessuto DDIO
principe del guardaroba maschile, il cashmere, e quelli con la variante con coulisse in velluto stampato effetto bottonato. Quanto ai colori oltre al grigio passe-partout, la palette si apre ai toni caldi, inframmezzati dal panna e dal verde militare.
TESSUTI PREZIOSI MA SEMPRE COMODI
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21-22 a.i. Brooksfield
MAGLIERIA RELOADED Mantenere lo spirito degli originali ma molto più cozy.
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L NORVEGESE,
quello da marinaio, il fair isle. Ci sono maglioni ben radicati nell’immaginario collettivo del guardaroba maschile, pezzi iconici dal fascino senza tempo se non fosse per un dettaglio abbastanza sgradevole: spesso i filati che li compongono sono ruvidi, pesanti, poco piacevoli al tatto. Brooksfield li ha ripensati, creando una capsule collection in misto
lana e alpaca. Il mood resta lo stesso, ma i capi guadagnano in leggerezza, con un tocco più soffice e vaporoso, senza per questo dover rinunciare al calore tipico dei modelli tradizionali.
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Le maglie vengono sottoposte a una lavorazione speciale che le alleggerisce e toglie peso.
ANCHE UNA CAPSULE IN ECO CASHMERE RIGENERATO
Cains Moore
Fabi
Artigianalità 4.0
Ibridazioni di stile
CHI L’HA DETTO che
che dividevano in compartimenti stagni le diverse categorie di stile, da Fabi vincono le scarpe ibride, modelli in equilibrio tra casual, sporty ed eleganza. I volumi di stagione sono importanti, le linee si fanno ancora più rotonde e si accompagnano a fondi carrarmato, in gomma leggera, un riferimento agli anni Novanta volutamente accentuato nella sua anima più tecnica. Da non perdere, il polacchino in pregiato vitello lucido, con cuciture in evidenza.
i grandi classici non si possono rinnovare? Cains Moore da oltre 60 anni produce maglieria di gusto tradizionale, incrociando però le tecniche artigianali con le più avanzate soluzioni industriali. L’effetto finale è una collezione in cui le lavorazioni di pregio come la grana di riso o la costa inglese incontrano i filati nobili, dal cashmere alle sete, alla lana merinos. Per questa stagione, vincono i toni caldi, dai neutri al rosa antico, al rosso.
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SALTATE LE PARATIE
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La collezione punta su volumi più ampi e forme ancora più arrotondate.
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Il cardigan Sean, con il collo a scialle, indiscussa icona di stile del marchio.
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21-22 a.i. Gimo’s
Montone, welcome back! RICERCA e sperimentazione
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Fratelli Rossetti
La lavorazione è realizzata con una tecnica futuristica che consente di incidere i dettagli più piccoli.
Figlie delle stelle ANTICHI ORNAMENTI, richiami decisi a simboli ancestrali,
linee che uniscono il passato al futuro. Da Fratelli Rossetti l’artigianalità incontra l’avanguardia per dare vita a una tecnica futuristica, per cui anche i dettagli minimi possono essere incisi con precisione sul pellame. Nasce così la linea Cosmo che riproduce sull’intera calzatura il disegno delle costellazioni del sistema solare. Grazie a questa lavorazione i mocassini Brera e le classiche francesine scoprono una nuova luce.
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Leggero e caldo il cappotto in montone rovesciato.
si fondono con l’heritage di Gimo’s. Durante l’inverno, fondamentale è proteggersi dal freddo, perciò alle imbottiture in vera piuma si affianca il montone. Proposto in diversi pesi e modelli, torna alla ribalta con un cappotto slim fit, in shearling rovesciato. Non il classico capo in pelliccia foderato, bensì un pezzo ultra comodo e leggero, caldo anche alle temperature più rigide, grazie al montone merinillo rasato a lana cinque millimetri.
Gallo
CAVIGLIE COUTURE La sartorialità diventa elemento di novità nel mondo delle calze di eccellenza.
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La palette di cromie spazia senza confini per un inverno pieno di colore.
E RAFFINATEZZE
dell’alta sartoria non valgono solo per completi e cappotti. Gallo Couture è la linea di calze haut de gamme del marchio nato nel 1927 e da quel momento protagonista di molteplici innovazioni nel settore. Il modello di punta è stato realizzato con una tecnica chiamata links jacquard, dove più colori vengono prima lavorati a telaio
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e poi rifiniti a mano per ottenere un risultato impeccabile. La palette cromatica del filo di Scozia con cui Gallo confeziona i suoi prodotti è molto accesa e spazia dal rosso al bluette, al verde, al turchese, al giallo e all’arancio.
LA TECNICA LINKS JACQUARD PER LA STAGIONE
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Geox Respira
PER IL BENE DEL PIANETA
Econyl è un filato di nylon rigenerato con cui vengono prodotti alcuni pezzi della collezione.
La collezione punta sull’ecologia e sull’attenzione all’ambiente e alla filiera produttiva.
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AROLA D’ORDINE:
sostenibilità. Geox Respira ha da tempo intrapreso un percorso di maggiore attenzione all’ambiente e la partnership con Aquafil, realtà impegnata sul fronte della produzione di fibre sintetiche green, è un ulteriore passaggio. Aerantis e Spherica sono le due linee realizzate utilizzando Econyl, un filato di nylon
rigenerato e rigenerabile. In particolare Spherica riassume in sé un concetto più ampio di benessere, grazie all’intersuola a bassa intensità i cui elementi sferici offrono ammortizzazione in ogni fase della camminata.
IL PROGETTO SPHERICA VA VERSO L’AGIO ASSOLUTO
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Guess Jeans
Una capsule comprende capi sportivi dalla silhouette dinamica e con tessuti tech.
UN TOCCO EASY Dal formale allo sportivo, dal tecnico al casual. La collezione è a 360 gradi.
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deluxe, nuove silhouette dai richiami anni Ottanta, lavaggi classici da alternare a finissaggi di ultima generazione. Ecco gli ingredienti base di Guess Jeans, mescolati a un’attenzione per tessuti e lavorazioni eco-conscious che rispecchiano l’impegno del brand in materia di sostenibilità ambientale. L’attitudine
IN COLLEZIONE ANCHE STAMPE OPTICAL, CHECK, CAMOUFLAGE E GRAFICHE VINTAGE
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ATERIALI
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è rilassata, con la dimensione urban pronta a sviare in accenti di vita all’aria aperta nei grandi parchi americani, riletti in chiave vintage. La polo e i pantaloni hanno un aspetto vagamente vissuto, mentre il capospalla sfodera un sapore tecno.
21-22 a.i. Hand Picked
Igi&Co
Jeans virtuosi
Versatilità pura
ma rispettoso dell’ambiente. Hand Picked è la collezione di jeanswear di ricerca, da sempre impegnata a sviluppare una produzione il più possibile attenta ai bisogni del pianeta. Contenimento dei consumi elettrici, riciclo dell’acqua necessaria alla lavorazione e riutilizzo di materiali normalmente considerati di scarto sono le pratiche alla base di ogni capo realizzato, a cominciare dagli iconici cinque tasche, prodotti attraverso un centinaio di passaggi diversi.
LA COLLEZIONE Igi&Co è fatta di una serie di modelli passe-partout: calzature funzionali, super versatili ma con un tratto sempre distintivo. I materiali sono scelti e accoppiati con cura, abbinando pellami e tessuti, oppure optando per un effetto di cuoio vintage. Ampia è la cartella colori, con una predilezione per il nero, il grigio e i toni naturali. Mentre sul fronte delle performance la consolidata collaborazione con Gore-Tex garantisce la massima traspirabilità, il comfort e l’impermeabilità dei modelli realizzati grazie ai suoi brevetti high-tech.
DENIM SÌ
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Sneakers in nabuk con sottopiede estraibile.
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Oltre al denim anche fustagno, velluto e tecno-lana.
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Il modello Hyperlight dialoga con l’eleganza «rilassata» e confortevole.
Hogan
FASCINO TIMELESS La suola importante diventa elemento distintivo di uno stile da sempre unico.
O IL MONDO DEL RUNNING DIVENTA FONTE DI ISPIRAZIONE
ai clienti dei modelli senza tempo, frutto dell’incontro tra design, qualità, funzionalità e innovazione. Questa la mission di Hogan che con Hyperlight ha definito il concetto di luxury sneakers. La fluidità delle linee crea un punto d’incontro tra suggestioni urban e accenti ispirati al mondo del running. La tomaia FFRIRE
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è in pelle lucida, la cui morbidezza dialoga con il twist scattante delle impunture e dei dettagli in materiale tecnico. E poi c’è la suola bene in evidenza grazie anche ai colori a contrasto. Perfetta per ogni momento della giornata.
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21-22 a.i. Holubar
PASSIONE OUTDOOR Per primo il brand ha utilizzato il nylon dei sacchi a pelo e ha introdotto capi per outdoor reversibili e dalle innovative proprietà tecniche.
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che anima Holubar, marchio nato in Colorado nel 1946. Alice e Roy Holubar sono una coppia di alpinisti che ben comprendono le esigenze degli appassionati della vita all’aria aperta. Iniziano a proporre i surplus di materiale militare e da lì prendono spunto per inventare quello che sarà il primo marchio americano specializzato in outdoor, votato in tutto e per tutto all’innovazione. Sono tra i primi a utilizzare il nylon, allora un materiale rivoluzionario e, negli anni Cinquanta, mettono a punto quello che in breve tempo diventerà il loro cult, il Mountain Parka, reso ancora più celebre da Robert De Niro, che l’indossava nel film Il Cacciatore del 1978 di Michael Cimino. Dal 2012 il marchio è guidato dall’imprenditore Alberto Raengo, nella veste di Chief Creative Director e da Patrick Nebiolo come capofila di un pool di investitori. I due hanno l’obiettivo di rafforzare il brand a livello internazionale, restando fedeli allo spirito avventuroso e appassionato dei suoi fondatori. È UN CUORE ITALIANO
IL VALORE CHE DA SEMPRE CONTRADDISTINGUE IL BRAND È: AMORE PER LA NATURA E PER LO SPORT ALL’ARIA APERTA ä
Tra i tessuti della collezione ci sono il cotone laminato, la lana tecnica, la cordura e l’alpaca cruelty-free.
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La silhouette riprende quella dei modelli storici tra cui il Mountain Parka, diventato negli anni il capo iconico del brand.
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21-22 a.i. Impulso
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PRONTI A TUTTO
Alcuni capi hanno doppia funzione: come capispalla e come elementi da inserire sotto le giacche.
Versatilità e visione green diventano tendenze assolute di stagione.
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RA I TANTI
effetti del cambiamento climatico in atto, diventa sempre più difficile azzeccare il giusto peso dell’abbigliamento. Da Impulso la soluzione arriva grazie a una serie di modelli full zip, da sfruttare come giubbini quando il clima è più mite, o da portare sotto ai capispalla se le temperature si fanno più rigide. E alle felpe
realizzate con materiali e dettagli di alta qualità, talmente sofisticati da somigliare al tricot, da sempre punto di forza della collezione, per il prossimo inverno interpretato con un tocco sporty-vintage.
IL MOOD È VINTAGE SPORTIVO NEI COLORI E MATERIALI
K-Way
STATE CALDI Il nylon ripstop è impermeabile, idrorepellente e antivento mentre le cuciture sono termosaldate.
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Hugo Thermo Super e Urbain Thermo Cordura sono i due capi assicurati per la protezione dal freddo.
ICI K-WAY
e subito pensi all’antipioggia nel marsupio che ha rivoluzionato il modo di vivere il maltempo. Il brand negli anni è diventato un total look dove l’attitudine sporty prende a braccetto un animo stiloso, senza mai tradire la vocazione alla praticità. Un modello da non perdere è Hugo Thermo Super, la giacca corta e super tecnica,
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pensata per proteggere nei climi più rigidi. Il nylon ripstop lucido è trapuntato con una imbottitura in calda vera piuma e cuciture termosaldate per rendere il capo oltre che impermeabile, anche resistente al vento.
LA VERA PIUMA È SELEZIONATA E TRACCIABILE
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21-22 a.i. Lardini
IL RICHIAMO DELLA NATURA Il libro Walden di H. D. Thoreau e l’arte del naturista Giuliano Mauri sono le ispirazioni della collezione.
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ITROVARE una
connessione profonda con la natura da portare addosso anche quando si vive in città. È una dichiarazione di intenti la palette cromatica di Lardini, tra le nuance dei legni e delle foglie in autunno, con cui si anima un total look dove la praticità non è mai a discapito dello stile. I cappotti scelgono lane non trattate e spesso
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La vita all’aria aperta è valorizzata da materiali pregiati e con caratteristiche tech.
sono reversibili, come il trench che abbina al tessuto tecnico anti pioggia un pregiato blend di lana, cashmere e seta. Le giacche sono ultra confortevoli, nelle versioni in jersey di lana, da completare con morbidi dolcevita anni Cinquanta.
IL CAPPOTTO IN HARRY’S TWEED HA TONI NEUTRI
Latorre
BENVENUTA LEGGEREZZA È in arrivo una linea più contemporanea che non dimentica qualità e tradizione sartoriale.
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RANDI NOVITÀ
in casa Latorre. L’azienda pugliese presenta Aither, una capsule collection dove le regole della migliore tradizione sartoriale vengono reinterpretate partendo dalle esigenze del pubblico. All’insegna di leggerezza e versatilità. Come nel caso della giacca di impostazione formale, rieditata con un cappuccio, una
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doppia tasca sul davanti e confezionata con fibre nobili, a loro volta alleggerite e abbinate a materiali waterproof. I pantaloni sono tinti in capo, di taglio loose, mentre i capispalla hanno linee essenziali, nei toni di blu, grigio e beige.
PAROLE CHIAVE: LIGHTNESS E VERSATILITÀ
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Aither, ovvero come rivisitare le regole dell’heritage sartoriale adattandole alle nuove esigenze.
21-22 a.i. Lebole
UNA CAPSULE TUTTA ECO Si chiama Green Lebole il nuovo progetto del marchio: capi creati con lana rigenerata e dettagli prodotti con attenzione verso l’ambiente.
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è mantenere saldo il legame con la tradizione e rendere sempre più concreto l’impegno verso l’ambiente. Nasce così Green Lebole, una capsule collection di capi progettati prestando la massima attenzione ai materiali utilizzati e alle pratiche virtuose in fase di lavorazione. Si comincia dalla scelta del tessuto, una lana rigenerata prodotta da Comistra e ricavata da indumenti riportati allo stadio di materia prima, per essere poi rilavorata. Per realizzare questo tessuto non si fa uso di coloranti, ma viene preservato il colore originale riducendo così l’emissione di anidride carbonica in atmosfera e lo spreco di acqua. E poi ci sono i dettagli presenti nel capo: dai bottoni in Zetabi, un materiale naturale ricavato dalla cellulosa, biodegradabile e resistente ai lavaggi, all’etichetta fatta con filati ottenuti dal riciclo di bottiglie in Pet e il cartellino in carta riciclata e stampata con colori a base d’acqua. Senza trascurare le grucce che accompagnano gli abiti: 100 per cento naturali, biodegradabili e compostabili. ER LEBOLE LA SFIDA
REALIZZATA CON FILATI OTTENUTI DAL RICICLO DELLE BOTTIGLIE IN PET È ANCHE L’ETICHETTA DEI CAPI
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Il colore ottenuto è nel rispetto dei filati originali e non creato attraverso l’uso di coloranti chimici.
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Tessuti check dal sapore british rendono l’immagine della collezione green anche senza tempo.
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21-22 a.i. L.B.M. 1911
UNA GIACCA A PUNTO Obiettivo: ridurre l’impatto ambientale (passando dalle grucce).
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accoppiata con jersey super soft in tre varianti. Il capo viene presentato su un appendiabiti, in carta riciclata, molto particolare, che debutta sul mercato proprio con questo progetto perfezionato, e brevettato, su richiesta del brand da uno specialista del settore. In questo modo gli sprechi vengono ridotti non soltanto sul prodotto, ma persino a livello di packaging.
I CHIAMA PUNTO
ed è la nuova capsule collection dall’animo ultra green di L.B.M. 1911. La giacca, mono o doppiopetto, morbida, avvolgente e calda, è stata realizzata utilizzando lana riciclata
CONTENUTI INNOVATIVI CON UN ALLURE VOLUTAMENTE VINTAGE
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Giacca Punto in maglia jacquard punto piquet (finezza 7) in lana rigenerata e accoppiata con jersey super soft.
Moorer
IL PIUMINO VENUTO DAL FREDDO Si parte dall’imbottitura: per dimensioni, morbidezza e leggerezza una delle migliori.
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ON TUTTE
le imbottiture sono uguali. Da Moorer lo sanno bene e per questo scelgono piume in arrivo dalla Siberia perché le basse temperature fanno sì che le oche sviluppino un plumage particolarmente soffice, leggero e in grado di mantenere il calore. Poi stabiliscono una composizione dove il 95 per cento è piuma
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e solo il 5 piumetta (la cui fornitura arriva da allevatori per scopi alimentari che certificano una buona qualità della vita dell’animale). Dopo di che, in fatto di linee e mood, è l’italian style a fare la differenza.
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CERTIFICATI E GARANTITI SECONDO NORMATIVE EUROPEE
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Il brand indica sulle etichette la categoria termica di appartenenza di ciascun capo. Sopra: modello Casciano.
21-22 a.i. Moreschi
UN TOCCO RÉTRO I colori profondi e scuri richiamano lo spirito delle città dell’Inghilterra del Nord, come Birmingham.
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NGHILTERRA,
anni Venti del secolo scorso. La rivoluzione industriale ha cambiato drasticamente la vita nelle città, dove gli uomini indossano capi robusti, pratici, fatti per durare nel tempo. Da un immaginario alla Peaky Blinders, la fortunata serie tv, Moreschi prende spunto per ideare polacchini e doppiafibbia in cui il feltro sposa il pellame di vitello, grazie
a finiture artigianali. Le linee sono sobrie, le tomaie arricchite da decorazioni brogue, mentre la lavorazione Goodyear fa si che le calzature, oltre che essere comode abbiano una tempra resistente.
LINEE SOBRIE E DETTAGLI ESSENZIALI
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La serie british Peaky Blinders fa da suggestione alla prossima collezione invernale.
Manuel Ritz
Myths
Ed ecco il camouflage
Pantaloni di ricerca
FIT ACCATTIVANTI e dettagli rifinitissimi nella costruzione di capi dal tocco morbido, avvolgente. Tra le tendenze forti della collezione di Manuel Ritz un omaggio al mondo military, con lane recuperate da archivi militari e panni di lana trasformati in field jacket, parka, peacoat e pantaloni cargo. Il mimetico, motivo per eccellenza, si fa elegante nella giacca a due bottoni, perfetta con i pantaloni da smoking, magari della capsule Evening, dove si aggiunge l’opzione in una nuance ottanio.
CONIUGANO spirito sartoriale
a dinamismo d’impresa, con grande attenzione alla selezione delle stoffe. A cominciare dalle lane d’antan, riscoperte negli archivi storici dei migliori tessutai italiani e interpretate con mood contemporaneo. Passando poi per il robusto panno militare che sostiene Granpà, il modello di punta di Myths, caratterizzato da tasconi in evidenza. E arrivando a una chicca: la capsule collection Luxury Woolrecycle, in tutto 499 pezzi costruiti con lane lavorate da Bonotto su telai di inizi Novecento.
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Tendenza militare: nero e verdone combinabili con guardaroba chic.
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Must del brand è la ricerca nel campo delle tinture in capo su cotoni e lane.
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21-22 a.i. North Sails
Orciani
Il futuro è oggi
Estensioni romantic-rock
per tutto ciò che è esplorazione, sogno, sfida nel superare i limiti è da sempre nel Dna di North Sails. Iceland è il nome della capsule collection nata con l’intento di proteggere gli oceani dagli sconvolgimenti climatici in atto. Tinture naturali, cashmere e cotone entrambi riciclati sono solo alcune delle scelte messe in atto per produrre in modo più consapevole, un impegno che il brand rafforza comunque su tutta la collezione.
RICAMO E BORCHIATURA. Queste sono le due parole
LA PASSIONE
chiave della prossima collezione dell’azienda marchigiana specializzata nella lavorazione della pelle, che punta su un’estetica più rock e contemporaneamente più sofisticata. Il risultato sono la cintura in cuoio con microborchie piatte con motivo a onda e quella, sempre in cuoio, con ricamo ottenuto grazie al know-how artigianale da sempre caratteristico del brand.
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La cintura con ricamo è anche in pelle scamosciata.
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I colori distintivi della collezione Iceland rappresentano l’acqua, la terra e il ghiaccio.
OVS
UNA COLLABORAZIONE VINCENTE Capo iconico della scorsa stagione, il bomber PIOMBO in OVS cambia tessuti.
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L GIUSTO EQUILIBRIO
tra prezzo e qualità. Questa la formula di OVS, realtà italiana che lavora per realizzare il concetto di fashion democratico e che per rafforzarlo ha stretto un’alleanza con Massimo Piombo. Una collaborazione che va al di là del concetto di capsule collection in cui il marchio di sartoria ha creato una serie di prodotti pensati apposta
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per OVS e proposti negli spazi Piombo ricavati all’interno degli store del marchio. Tra i capi cult: il bomber a collo alto, disponibile in velluto a coste, in ecopelle e in tessuto acceso da una fantasia a scacchi.
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LO STILE DI MASSIMO PIOMBO NELLA REALTÀ DISTRIBUTIVA DI OVS
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Tasche a filetto; polsi elasticizzati a costina; chiusura full-zip con bottoni automatici sul colletto.
21-22 a.i. Pal Zileri
IL RICHIAMO DELLA TERRA Tessuti in lana rigenerata e fluoro-free, finissaggi antibatterici e trame traspiranti.
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e finissaggi antibatterici costruiscono giacche e cappotti dal fascino cosmopolita. Ma anche sul fronte della maglieria e dell’outerwear massima attenzione è riservata alle fibre, dal cascame di seta, un residuo del processo di tessitura della seta, al Graphene, una sottilissima membrana di carbonio che in soli cinque minuti garantisce una termoregolazione ideale del corpo.
ATERIALI
di ultima generazione, ecosostenibili e performanti sono alla base della collezione Pal Zileri. Lane rigenerate e non trattate con fluoro dalle trame traspiranti
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La giacca fa parte della collezione Smart Casual mentre la maglia, Metro Elegance, rientra in un guardaroba più formale.
LA SEMPLICITÀ DELLA TRADIZIONE INCONTRA L’INNOVAZIONE
Panchic
POP AI PIEDI Materiali inediti, come il tessuto millerighe, vestono alcuni modelli iconici.
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è sinonimo di calzature Made in Italy comode, facili da indossare e da abbinare, con uno spirito pop che le rende subito riconoscibili. Due i modelli passe-partout: lo stivaletto Beatles P03 e i polacchini P19. Nel primo caso, la tomaia scamosciata color mandarino si aggancia alla nuova suola in Tpu studiata apposta per regalare un effetto vedoL BRAND
non-vedo. Nel secondo, il velluto millerighe è doppiato all’interno con un tessuto che semplicemente richiama il vello di un agnellino, una scelta precisa per dimostrare l’impegno di Panchic nel non usare derivati animali.
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IL BRAND HA SCELTO DI NON UTILIZZARE DERIVATI ANIMALI
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Beatles P03 in suède color mandarino ed elastici laterali a contrasto; sotto, polacchini P19 in velluto millerighe.
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21-22 a.i. Paoloni
COMFY CHIC Formale marcatamente comodo con check, pied-de-poule, finestrati, resche e gessati.
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predilezione per il jersey di lana o, nella versione più preziosa, in cashmere e felpa. Le fantasie della tradizione spaziano dal grigio al beige, al marrone, al blu, ma la cartella colori si accende anche di rosso, ocra e bordeaux.
ASUALISATION, così da Paoloni definiscono il processo che vede l’abbigliamento formale mettere il comfort tra le priorità assolute. Con proporzioni garbatamente over le giacche, da sempre punto di forza del brand, guadagnano morbidezza, alla stregua dei pantaloni con le pinces e la coulisse in vita. I tessuti sono stretch, con una
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Protagonista l’accostamento bianco e nero su macro check.
UN ALTRO MUST HAVE: LA CAPSULE TECNO URBAN
People of Shibuya
OUTDOOR DA CITTÀ Viaggiatori del mondo sì ma ben attrezzati. Fin nei minimi particolari.
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NO DEI CAPI di
punta di People of Shibuya porta l’esotico nome di Fuji. Il marchio, specializzato in capispalla per l’urban outdoor, unisce a un’estetica influenzata dal mondo
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La caratteristica in più del parka in tessuto tecnico: zip con chiusura doppio cursore e guaina a protezione del mento.
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NON MANCANO I DETTAGLI CATARIFRANGENTI
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giapponese la massima funzionalità. Il parka Fuji, ad esempio, è in tessuto tecnico traspirante e idrorepellente, trapuntato all’interno grazie a un isolante termico in Thermore, reso ancora più efficace dai polsini in costina tecnica elasticizzata che ne aumentano la coibentazione. Le tasche esterne hanno la zip, quelle interne sono termonastrate.
21-22 a.i. Paul&Shark
SALVIAMO IL MARE Maglieria, outwear altamente performante e sostenibilità. Questi i tre capisaldi del marchio che s’ispira alle atmosfere tipiche del Nord.
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INDISSOLUBILE IL LEGAME tra Paul&Shark e la natura. Da sempre, il marchio italiano di luxury sportswear progetta capi fatti per vivere all’aria aperta anche in situazioni estreme. Pioggia, vento, gelo diventano presenze amiche, proprio come il mare anche quando è in tempesta, grazie a materie prime trattate per affrontare i climi più ostili, pur garantendo comfort e durata nel tempo. Typhoon 20.000 Norvegian è il giaccone in cui la tecnologia brevettata Paul&Shark garantisce una resistenza waterproof e windproof pari all’impatto di 20 mila colonne d’acqua. Ma le alte prestazioni di questo modello si accompagnano a un’iniziativa concreta di salvaguardia dell’ambiente. Il capo è infatti realizzato con il tessuto Save the Sea, in poliestere ottenuto dal riciclo di plastiche postconsumo recuperate in mare. Ma anche l’imbottitura è green perché viene utilizzata piuma riciclata. E, sotto, si può poi optare per uno dei maglioni Fisherman, ispirati a quelli dei pescatori dei mari del Nord, in lana riciclata EcoWool ultra leggera.
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Il giaccone Typhoon 20.000 Norwegian grantisce massimo isolamento dagli agenti atmosferici più aggressivi ed è tra i capi più rappresentativi di questa collezione, come anche la serie di maglioni Fisherman ispirati a quelli indossati dai pescatori del Nord.
SAVE THE SEA È UNO DEI PROGETTI GREEN PIÙ IMPEGNATIVI REALIZZATI DAL BRAND
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21-22 a.i. Piquadro
LA FORZA E LA LEGGEREZZA Porta computer e porta iPad progettato per difendersi dai furti.
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NO ZAINO a
prova di furto: questo è lo spirito di uno dei modelli di punta di Piquadro. Il materiale che lo compone arriva dal mondo militare ed è il più robusto in circolazione, iper resistente al taglio, così come la sua base, pensata per non cedere alle abrasioni dell’usura grazie ai fili in poliuretano inseriti nell’armatura del tessuto, con cui di solito
si confezionano capi antinfortunistici. Mentre la tasca con schermatura RFID previene il rischio di clonazione delle carte di credito. La sua forza non gli impedisce però di distinguersi per leggerezza, pesa infatti appena un chilo.
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PQ-Y: design sportivo e materiali super tecnici.
UN CAVO ANTIFURTO IN ACCIAIO PER LEGARLO ALLE SEDUTE
Pineider
PT Torino
Il fascino della storia
Facciamo scintille
è garbato, fatto del piacere di lavorare materiali raffinati. Con 245 anni di storia nella cartoleria di alta gamma, il marchio fiorentino si è sempre fatto onore per le continue sperimentazioni in fatto di stampa e di realizzazione di stemmi e monogrammi incisi a mano, a cui nel tempo ha affiancato la pelletteria e gli strumenti di scrittura. Con la stessa passione oggi crea anche oggetti pensati per i device tecnologici, come il porta iPad in pelle stampata con la fantasia Empress.
SONO MOLTE LE NOVITÀ
IL LUSSO
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Porta iPad con chiusura a zip in pelle stampata, interno in pelle di vitello liscio.
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Spark: trattamenti nuovi e ricercati proposti su tre modelli (Freedom, Madison e Club).
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di PT Torino, a cominciare dalla scelta dei tessuti ampliata e rinnovata, per arrivare a fit inediti. Tra le proposte del marchio piemontese, c’è la capsule collection Spark che parte da una base di chino per poi sperimentare sui materiali. Trattamenti di ultima generazione vengono applicati ai modelli Club, Freedom e Madison, per ottenere un effetto vissuto. Tutti hanno cintura interna e bottone a chiodo per chiudere la tasca posteriore.
21-22 a.i. Pyrenex
Sant’Andrea Milano
Piume straordinarie
L’evoluzione dell’eleganza
LE PIUME giuste fanno una gran differenza, parola di Pyrenex. L’azienda francese da più di 160 anni raccoglie, tratta e valorizza
QUANDO IL MADE-TO-
le piume d’oca e d’anatra dalle aziende zootecniche limitrofe, tracciando così ogni passaggio della filiera e impattando in minima parte sull’ambiente poiché utilizza gli scarti dell’industria alimentare. Da qui nascono i piumini dall’eccezionale livello di leggerezza e potere di isolamento dal freddo. Fiore all’occhiello è la collezione, in edizione limitata, Saint Sever 1859.
MEASURE incontra i tessuti
di pregio scatta la magia. Se poi da lì prende vita una collezione di menswear sofisticato il risultato è Sant’Andrea Milano, marchio nato dall’acquisizione della sartoria italiana Saintandrews da parte del Trabaldo Togna Group, eccellenza tra i lanifici biellesi. Oltre ai capi su misura, ci sono le proposte ready to wear, in equilibrio tra tradizione e contemporaneità. Il pezzo vincente? Il cappotto doppiopetto.
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L’Audoubert, omaggio a Louis Audoubert, alpinista, fotografo e divulgatore.
Cappotto doppiopetto in velluto di cashmere e lana.
Saucony Originals
Sebago
Glorious years
Vita all’aria aperta
IL CELEBRE MODELLO Shadow 6000 quest’anno spegnerà 30 candeline. Da sempre ambita da corridori esperti, in cerca dell’equilibrio perfetto tra stabilità del tallone, flessibilità e ammortizzazione, è stata una delle prime sneakers con suola Vip (Vertical Ionic Pillars) in grado di offrire massimo comfort sul passo. Sulla scia dell’attuale back to the 90s, le sue forme classiche risultano oggi più che mai attraenti. Il modello sarà presto protagonista di ambiziose collaborazioni.
UN MOCASSINO dalla lavorazione artigianale: Sebago punta su un modello cucito a mano, ricalcando le antiche tecniche usate dai nativi americani per costruire le loro calzature tradizionali. Il nome, Keuka, deriva proprio dal dialetto degli irochesi. La tomaia abbina il cuoio con la pelle sfoderata e si presenta a moc toe, i lacci sono in cuoio e la suola in Eva è tranciata, accorgimento utile a garantire comfort e a proteggere dagli urti.
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La Shadow 6000 viene «celebrata» con modelli Saucony X Saucony.
Mocassini a quattro occhielli in cuoio e pelle sfoderata cuciti a mano.
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21-22 a.i. Sealup
A PROVA DI FREDDO Arriva Mountain, fatta per affrontare le temperature più rigide.
È
IL PEACOAT
da marinaio il capo simbolo di Sealup, storico marchio italiano. Pur restando fedele al suo Dna, il brand milanese amplia l’offerta introducendo Mountain, collezione dedicata alle temperature più rigide. Linee chic, piuma d’oca pregiata e dettagli sartoriali sono alla base del progetto. Tra i modelli di punta c’è Ponte
di Legno, in lana Shetland 100 per cento water repellent, finiture in velluto a coste e cappuccio anti pioggia a scomparsa. Non manca certo il rivetto Sealup in ottone con finitura antique gold applicato sul retro del collo.
IL PIUMINO COOL CHE SI AFFIANCA A TRENCH E PEACOAT
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Ponte di Legno: piumino in lana inglese e dettagli in velluto a coste.
Slowear
L’ARTE DEL MIX AND MATCH Montedoro, Zanone, Glanshirt e Incotex: total look da un unico gruppo.
L’
di una moda pensata per durare nel tempo e per creare un dialogo tra i diversi capi del guardaroba maschile è il principio fondante di Slowear. Ecco perché il gruppo veneto nel tempo ha radunato in sé IDEA
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Comune denominatore dei quattro brand: i dettagli e la ricercatezza dell’esperienza sartoriale.
LINEA LEISURE TRASVERSALE: TECH E TRADIZIONE
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quattro storici marchi di moda italiani, ognuno con una expertise specifica all’insegna della qualità. Montedoro per i capispalla, Zanone per la maglieria, Glanshirt per le camicie e Incotex per i pantaloni si abbinano con nonchalance all’insegna della trasversalità, con suggestioni leisure che incontrano accenti di alta sartoria, tecno-materiali e lane della tradizione.
21-22 a.i. Tagliatore
DOVE C’È VERDE C’È SPERANZA L’eleganza assume nuovi significati: primo fra tutti il sentirsi sempre a proprio agio.
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ER PINO LERARIO,
direttore creativo di Tagliatore, il menswear è un racconto senza fine, dove l’autenticità e il saper fare tutto italiano sono i protagonisti assoluti. Dall’idea iniziale al capo finito, ogni singola fase è seguita con cura. Quanto all’estetica, il marchio cerca risposte concrete in un momento in cui è doveroso restare a contatto con la realtà, senza però tradire la sua forte identità. Eleganza significa soprattutto sentirsi a proprio agio, perciò la collezione riunisce in sé una sequenza dei capi easy to wear, sebbene sempre carichi di personalità. Colore dominante è il verde, per antonomasia simbolo di speranza, e declinato in tante varianti, dai toni più brillanti per arrivare alle tinte più smorzate, come il salvia. Due i pezzi irrinunciabili: il cappotto doppiopetto con l’ampio bavero che richiama il rigore funzionale del mondo military e il cardigan con il collo sciallato e la cintura in vita.
VIVIAMO UN MOMENTO IN CUI È DOVEROSO ESSERE IN CONTATTO CON LA REALTÀ, MA FACCIAMOLO CON STILE
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Fuori il rigoroso cappotto doppiopetto; in casa il cardigan perfetto per vivere con stile anche i momenti di smart working o di relax.
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21-22 a.i. Ten c
UN PARKA È PER SEMPRE Il capospalla realizzato in uno speciale tessuto fabbricato in Giappone.
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L NOME NE RIASSUME
i valori. Ten c - ovvero The Emperor New Clothes, la traduzione in inglese della famosa fiaba di Hans Christian Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore - è un invito a non fermarsi alle apparenze, a scegliere solo capi autenticamente timeless, realizzati in Italia, ispirandosi all’artigianalità giapponese. Icona assoluta, l’Oversized
Fishtail Parka, rilettura up-to-date del classico modello, realizzato nel tessuto distintivo del brand: l’OJJ, Original Japanese Jersey, idrorepellente, anti vento e con caratteristico aspetto invecchiato, simile a quello del denim.
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Oversized Fishtail Parka
UN NOME FIABESCO: THE EMPEROR NEW CLOTHES
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Woolrich
UN CAPO A SETTE STELLE
Esecuzione lussuosa del Polar Parka per il prossimo autunnoinverno.
L’esperienza al servizio di pratici capi di abbigliamento outdoor.
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Parka è il capo simbolo di Woolrich, un indumento principe della vita all’aria aperta in grado di affrontare le temperature più estreme. Il marchio lo presenta ora in chiave iper sofisticata, senza scalfirne le performance tecniche. Si chiama Polar Luxury Eco Wool Parka, è realizzato con Blacksheep, una variante esclusiva di lana ecologica L POLAR
FASCINO MODERNO SU LANA ECOLOGICA LUXURY
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di Loro Piana, resistente ad acqua e vento grazie alla tecnologia Storm System. È imbottito con generose quantità di piumino d’anatra, anche nel cappuccio che protegge la testa e il collo. La fantasia è tipica della tradizione maschile.
IL VIAGGIO È CAMBIATO. È TEMPO DI VIVERLO SCOPRIRE METE INSOLITE VICINE, GUARDARE CON OCCHI DIVERSI LUOGHI GIÀ NOTI Una GUIDA COMPLETA che accompagnerà i lettori fino a primavera. Le idee, le tendenze, le esperienze per vivere un nuovo concetto di vacanza e per organizzarsi anche last minute.
PARMA E BARI le capitali candidate alla cultura per il 2021 e 2022.
DIECI BORGHI-GIOIELLO tra Toscana e Umbria luoghi unici dove progettare una vacanza o un cambio di vita. MILANO E PALERMO e i percorsi della street art. LE DOLOMITI VENETE da Cortina all’Agordino. VAL D’AOSTA le vette del Monte Bianco e del Monte
Rosa.
VAL GARDENA neve e tradizioni gastronomiche. VIAGGI IN BICICLETTA fra le colline venete del Prosecco patrimonio Unesco, a VALDOBBIADENE, o lungo IL TICINO. IL CAMMINO a piedi da Brindisi a Matera seguendo la VIA ELLENICA . RELAX da Bormio al Tirolo le più belle piscine scoperte di acqua calda, per concedersi momenti di pausa anche nell’inverno avanzato.
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STORYTELLING di Giuliana Matarrese
LE DERBY INGLESI SI METTONO SUL CAMPO (DA GOLF) ADDIO ALLE TUTE, BENVENUTO #POWERSUIT
LA VERSIONE DI MICHAEL IL SUO TALENTO? Dribblare gli avversari e gli stereotipi sulla mascolinità , come era intesa dalla black community. Fuori dal campo, Michael Jordan (sopra) rifuggiva lo sportswear, sfoggiando completi su misura, mocassini e bretelle. Una lezione che oggi segue Tyler, The creaTor, artista che sperimenta con musica e armadio. E i trapper? Stanno a guardare.
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FALL/WINTER 2021-2022 PREVIEW AND TRENDS What we will see, and wear: everything from Eco-revolutionary to Nordic style, from new layers of basic to extreme outerwear.
Words: Cristina Manfredi Translation: Cecilia Braghin
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Antony Morato
Multi range, from fashion to sports MAKING UP YOUR OWN LOOK by drawing back on different sources. Besides the iconic Timeless collection featuring essential pieces, Antony Morato has developed six further themes, ranging from fashion to sport. Digital recalls the Eighties, the neon-lit big cities, Japanese cartoons and night life: slim jackets and trousers, techno fabrics and glossy nylon alternating with natural strong-coloured materials (acid yellow, black and white). Modernismo is a tribute to the Sixties, in particular sculptural design and architecture, simple but puzzling outlines and British taste that can be seen in the slim silhouette characterising traditional garments made in unusual colours (like the light blue coat). Los Angeles is the name of the collection featuring military style heavy coats, parkas, trousers and overshirts: an American vintage taste with soft tones (bottle green, black, rust and mustard). Copenaghen features snow white as the main colour, matched with grey and blue, and exploited
on jumpers, super puffy jackets and coats made of carded wool. There are two sports collections: Sport technology, featuring classic elements drawn from the sports world (logotypes, ribbons, side strips) and simple shapes that go well with the pieces of the Digital collection; and Sport men at work, a look that intentionally exploits logotype, colour and contrasts to obtain a vivid but not overwhelming effect. -P. 155 Baracuta
Montgomery’s back IT IS A BEDROCK of the male wardrobe and Baracuta reinterprets it with contemporary attitude. The Montgomery is an outerwear classic taking its name from the British Marshal who used to wear this kind of coat during WWII. The brand, originally from Great Britain, has reworked an archive model featuring the typical wooden frog fastening to develop a new version made of technical neoprene combined with British wool. The outcome has that retro touch while keeping a cool and understated mood, in tune with the third millennium. -P. 156
Barrett
Think big LUXURY SHOES, designed and made with passion. This is how the Barrett footwear collection for the next winter season has come to light, focusing on versatility and personality. The essential outlines mesh with the details of ÂŤimportantÂť soles, allowing the biggest flexibility and making them perfect for a countryside walk as well as an urban look. There are two must-have models: the Derby made of combed calfskin and equipped with a 2,5 cm double-component sole and the
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chunky bottom variants featuring a 5-cm-high crepe with an extra-light Eva tread. -P. 156 Berwich
On the move with style AN ECO-FRIENDLY collection that takes inspiration from the great explorers: smart and yet comfortable. There are four main themes: Komodo (made with functional, active and high-performance fabrics), Bibliotheca (made of tartan wool, velvet or fustian), Vissuto (which has undergone special washes) and the Pantalone italiano collection, which includes the must-haves of the brand: Morello, Barber and the iconic Retro, design studio trousers made of refined 100 percent certified organic cotton, sourced in California. -P. 156
Boggi Milano
A revolution to wear FREEDOM OF MOVEMENT, top comfort and high-quality style. Starting from these premises, Boggi Milano has developed B Tech, a total-look line halfway between classic and sporty. The key element is the latest-generation jersey, implemented with micro nylon stretch yarns in order to provide anti-folding and easy-drying convenience in addition to pleasantness of touch. The colour palette consists of extremely versatile plain tones; the patterns draw upon the typical male tailoring repertoire. The buttons are made of mother-of-pearl and the labels are customized. -P. 157
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Cains Moore
Craftsmanship 4.0 WHO SAID THE GREAT CLASSIC PIECES
Briglia 1949
Comfort chic FAREWELL TO STARCHED ELEGANCE:
Briglia 1949 keeps working on defining a universe which has to be chic and comfortable at the same time. Utmost attention has been put in the choice of yarns, which range from jersey to technical wools, to make soft trousers, comfortable to wear while stylish to a fault. Two models are worth mentioning: the cargo trousers made of cashmere, the predominant fabric of the male wardrobe, and the variants featuring a button-effect printed velvet coulisse. As regards colours, the palette includes warm hues, combined with cream and military green in addition to the classic grey. -P. 157 Brooksfield
Reloaded knitwear and the so-called Fair Isle. There are male jumper styles that remain well-defined in our imagination, iconic pieces with unfading fascination except for one rather unpleasant detail: the fact that they are often made of rather rough, heavy, unpleasant to touch fabrics. Brooksfield has redesigned them, creating a capsule collection made of wool blend and alpaca. The mood remains the same but the garments gain in lightness, featuring a softer and puffy look, without losing the warmness typical of those traditional pieces. -P. 158
THE NORWEGIAN, THE SAILORMAN
cannot be renovated? Cains Moore has been making traditional knitwear for over 60 years, combining handcrafted techniques with the most advanced industrial solutions. The results are on display in a collection characterised by quality craftsmanship, as in the moss stitch and the fisherman’s rib done with refined fabrics such as cashmere, silk and merino wool. The colours of the season are warm, ranging from neutral to antique pink and red. -P. 158 Fabi
Style hybrids CROSSING OVER THE DIVIDERS that
closely define the different categories of style, Fabi has created hybrid shoes, blending casual, sporty and formal. The footwear features significant volumes, rounded
with the motif of the solar system constellations. This specific type of work provides the Brera loafers and the classic Oxford shoes with a new light. -P. 159 Gallo
Ankle couture THE REFINEMENT of high fashion does not only apply to suits and coats. Gallo Couture represents the high-end collection of socks designed by the brand, which was founded in 1927 and has pioneered several innovations in the field over the years. The flagship piece is made with a technique called «links jacquard», which consists in working different colours first on the loom and then by hand to obtain an impeccable result. The chromatic palette of the Scotland yarns that Gallo uses for its products is especially vibrant, ranging from red to cornflower blue, green, turquoise, yellow and orange. -P. 159
Geox Respira
For the benefit of the planet KEYWORD: SUSTAINABILITY.
outlines combined with tank soles made of light rubber, intentionally referencing the tech attitude of the Nineties. The must-haves are the refined polished calfskin high-laced boots, embellished with visible stitching. -P. 158
Geox Respira has long undertaken an eco-friendly path and the partnership with Aquafil, an organization engaged in producing eco-friendly synthetic yarns, is one further step along this path. Aerantis and Spherica are the two new collections made with Econyl, a recycled and recyclable nylon yarn. Spherica, in particular, encapsulates a wider concept of wellness by exploiting a low-intensity sole whose spherical texture provides a cushioning effect. -P. 160
Fratelli Rossetti
Born to the stars ANCIENT ORNAMENTS, a clear reference
to ancestral symbols and outlines joining up past and future. Fratelli Rossetti manage to merge craftsmanship with avant-garde, developing a futurist technique that enables to carve on leather even the finest details. The Cosmo collection footwear is entirely decorated
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III
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Gimo’s
Welcome back, shearling! RESEARCH AND FIELD tests compound Gimo’s heritage style. During winter protection from the cold comes first, so sheepskin provides extra supports for the genuine down filling. Featured in a variety of weights and models, it has a comeback with a slim fit coat in inside-out shearling. Not the ordinary fur-lined item of clothing, but a super comfy and light piece, warm even in the most freezing weather, thanks to the Merinillo shearling, cropped to a length of five millimetres. -P. 159
Guess Jeans
An easy touch DELUXE MATERIALS, new silhouettes recalling the Eighties, classical washes alternating with last-generation finishing. These are the basic ingredients of Guess Jeans, combined with a focus on fabrics and eco-friendly manufacturing processes, which show the brand’s commitment in environmental sustainability. The attitude is relaxed, featuring an urban character with echoes of great American outdoors, reinterpreted from a vintage perspective. The polo shirts and trousers now boast a slightly livedin look, while outerwear items feature touches of tech style. -PAG 160
Hand Picked
Virtuous jeans only if eco-friendly. Hand Picked is the design studio jeanswear collection which has consistently been engaged in developing YES TO DENIM, BUT
IV
a sustainable manufacturing process throughout. Reducing electricity consumption, recycling used water and reusing waste materials are the key practices involved in the overall production, starting from the iconic fivepocket jeans, which have to undergo 100 different manufacturing steps. -P. 161 Hogan
Timeless appeal is to offer timeless models developed by blending design, quality, practicality and innovation. The Hyperlight collection effectively defines the concept of luxury sneakers. The streamlined shapes blend urban mood and echoes from top track-and-field athletics. The shoes upper is made of polished leather and its softness interacts with the twist of the stitching and the details in techno material. The sole is well emphasised by the use of contrasting colours. These kicks are good to go – anytime, anywhere. -P. 161 HOGAN’S MISSION
successful piece, the Mountain Parka, which became famous after Robert De Niro wore it in the 1978 movie The deer hunter, directed by Michael Cimino. Since 2012, the brand has been managed by entrepreneur Alberto Raengo, also acting as creative director, and by Patrick Nebiolo, heading a pool of investors. The two want to boost the brand internationally without losing the adventurous and passionate spirit of the founders. -P. 162 Igi&Co
Sheer versatility
Holubar
Outdoor passion AN ITALIAN HEART beats inside Holubar, a brand that was born in Colorado in 1946. Alice and Roy Holubar are a couple of mountaineers who are well aware of what open-air activity enthusiasts need. They started their business by selling surplus military gear, and then by taking inspiration from it, creating the first American brand specialised in outdoor clothing totally devoted to innovation. They were among the first to employ nylon, a then-revolutionary material. In the Fifties, they developed their most
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THE IGI&CO COLLECTION features a series of passe-partout pieces: functional footwear, extremely versatile but with a distinctive look. The materials are selected and blended with great attention, matching skins and fabrics or opting for a vintage leather effect. A wide colour palette is used, with a penchant for black, grey and natural shades. In terms of shoe performance, the long-established collaboration with Gore-Tex provides top breathability, comfort and water-resistance thanks to its high-tech patents. -P. 161
Impulso
Ready for everything BECAUSE OF CLIMATE CHANGE and its ever-increasing effects, it has become more and more difficult to pick clothing
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of the right weight in advance. Impulso has disegned a range of solutions in a series of full-zip models, suitable to be used as light jackets when the weather is mild and to be layered under the coat when the temperature goes down. The sweaters designed for the coming winter season feature high-quality materials and details which make them look like tricot, a key element of the brand, reinterpreted with a sporty-vintage vibe. -P. 163 K-Way
Stay warm WHEN YOU SAY K-WAY you immediately think of the rainproof jacket nested inside the pouch which has had lasting impact on our way of protecting ourselves from rainfall. The brand has recently extended into a total look blending sporty spirit with stylish
Lardini
The call of nature RE-ESTABLISHING A DEEP CONNECTION
with nature and bringing it into our everyday clothing, even in urban living. Lardini’s colour palette is itself a declaration of intent, highlightinh the hues of autumn leaves and woods. The collection is a total look in which practicality does not overshadow style. The coats are made of un-processed and often non-reversible wools, like the trench which features waterproof techno fabric and a smooth blend of wool, cashmere and silk. The woollen jersey jackets are ultra-comfy, especially when combined with soft Fifties-style turtlenecks. -P. 164 Latorre
Welcome to lightness GREAT NEWS at Latorre fashion house.
The company from Apulia presents Aither, a capsule collection in which the rules of the best tailoring tradition are reinterpreted to meet public needs. The core values are lightness and versatility. The formal jacket is redesigned with a hood and a double pocket at the front and it is made of fine fabrics, blended with waterproof materials for a softer feel. The trousers are garment dyed and loosecut while the outerwear features pareddown lines and a palette in shades of blue, grey and beige. -P. 164 L.B.M. 1911
The Punto jacket
attitude, without ever losing its focus on practicality. A must-have piece is the Hugo Thermo Super, a short and ultra-hi-tech jacket designed to protect from the harshest climates. The polished Ripstop nylon is quilted with a genuine feather filling and the seams are heat-sealed in order to make the garment as water resistant as it is windproof. -P. 163
PUNTO IS THE NEW GREEN-SOUL capsule collection designed by L.B.M. 1911. The soft, wraparound and warm jacket, single or double-breasted, is made of recycled wool blended with ultra-soft jersey in three different variants. It is presented on a one-of-a-kind coat hanger made of recycled paper, which is now available after having being improved and patented by a specialist in the field, at the company’s request. Another step aimed at reducing waste, both in the production process and in the packaging. -P. 166
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Lebole
A whole green capsule ACCORDING TO LEBOLE, the challenge is to keep a steady connection with the tradition while making a stronger commitment to environmental issues. Green Lebole is a capsule collection designed paying utmost attention to the materials exploited and to the working processes. Starting from the selection of the yarn, a regenerated wool produced by Comistra and obtained by harvesting parts of old clothes for materials to be upcyled. This wool retains its original colour because there are no colouring agents involved in the production, thus reducing C02 emissions and water waste. Worth noticing are the garments’ details: all buttons are made of Zetabi, a natural material derived from groundwood, biodegradable and resistant to washing; the label is made of yarns obtained by recycling PET bottles, and the recycledpaper tag is printed with water-based colours. Also noteworthy are the coat hangers: 100 per cent natural, biodegradable and compostable. -P. 165
Manuel Ritz
Here’s to you, camouflage APPEALING FITS and sophisticated details make soft, wraparound garments. One of the highlights of the Manuel Ritz
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collection is the tribute the brand pays to the military world by adopting old wool yarns sourced from military archives and upcycling vintage fabrics for field jackets, parkas, peacoats and cargo trousers. Forest green camo, the most iconic pattern, is deployed on a two-button jacket, ready to be combined with dinner trousers – as featured in the Evening capsule collection, which includes a teal variant of this same jacket. -P. 167 Moorer
The down coat who came in from the cold NOT ALL FILLINGS are
made equal. Moorer knows this well and selects feathers coming from Siberia because its low temperatures force geese to develop a particularly soft, light and warm plumage. The brand then creates a mixture of 95 percent feathers and five percent down (coming from breeders who certify high quality animal life). Plus, the effortless Italian style and feel makes all the difference. -P. 166 Moreschi
A touch of retro 1920S ENGLAND: the industrial revolution radically changed urban life and people started wearing robust and practical clothes made to last. Taking its cues from Peaky Blinders, the popular TV series, Moreschi has come up with high-laced boots and monkstraps, combining felt with calfskin, all featuring handcrafted finishings.
Outlines are simple; shoe uppers are embellished with brogue decorations while the Goodyear finish makes them comfortable and durable. -P. 167 Myths
Design studio trousers THEY BLEND TAILORING SPIRIT and business vitality, paying great attention to the selection of fabrics. These include old times wools, rediscovered from the historic archives of the best Italian textile industries and reinterpreted with a contemporary mood. The strong military fabric is exploited to make Granpà, Myths top-of-the-range model, featuring large clearly visible pockets. Another highlight is the capsule collection of Luxury Woolrecycle, which includes 499 pieces made of woollen fabrics worked by Bonotto on looms of the early Nineteenth century. -P. 167
North Sails
The future is today a passion for exploring, dreaming and challenging boundaries. Iceland is the name of the capsule collection designed with the aim to protect the oceans from the effects of climate change. The exploitation of natural dyes and recycled cashmere and cotton are some of actions the company has undertaken to work with a conscious attitude, a commitment that applies to the whole collection. -P. G 168 NORTH SAILS DNA EMBODIES
Orciani
Romantic-rock extensions EMBROIDERY AND STUDS: these are the two key features of the new collection designed by the company from the Marche region, specialised in leather. The company aims for sophisticated rock star aesthetics; highlights include a leather belt featuring wave-patterned flat micro studs and another leather belt boasting masterful embroideries. -P. 168
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OVS
A winning partnership THE IDEAL BALANCE between quality and price: this the winning formula of OVS, an Italian brand engaged to design and produce democratic fashion. This aim is further strengthened by a partnership with designer Massimo Piombo. The collaboration goes beyond the concept of capsule collection, featuring a line of bespoke OVS products, on display in the designated Piombo areas inside the brand’s stores. Among the must-haves is the turtleneck bomber, available in three versions: corduroy, eco-leather and bright coloured chequered fabric. -P. 168
Pal Zileri
The call of the earth ECO-FRIENDLY and
high-performance materials of the latest generation are the core elements of the Pal Zileri collection. Regenerated wools (not treated with fluorine), worked into a breathable weave and finished with an antibacterial treatment, are exploited to make jackets and coats that exude a cosmopolitan
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attitude. The biggest attention has been paid to the yarns exploited to make the knitwear and the outerwear, ranging from leftovers of industrial silk weaving process, to graphene, a layer of carbon lattice which helps achieve optimum body heat regulation. -P. 169
the palette also includes bright red, ocher and burgundy. -P. 170 Paul&Shark
Save the sea PAUL&SHARK AND NATURE have a lasting relationship. The Italian brand specialised on luxury sportswear designed for outdoor living and harsh environments. Rain, wind and freezing cold are friendly companions to Paul&Shark clothing. The same is true for rough sea because the materials exploited are specifically treated to face the most hostile climates providing comfort and durability.
Panchic
Pop footwear THE BRAND IS SYNONYMOUS with Italianmade, comfortable, easy-to-wear footwear with a unique pop spirit. There are two passe-partout models: the Beatles P03 ankle boots and the P09 high-laced boots. The ankle boots feature a tangerinecolour suede shoe upper attached to the new TPU sole in a way that creates a seethrough effect. In the high-laced boots, the corduroy is internally lined with a fabric that looks like lambskin, a choice intentionally made to show Panchic’s commitment to avoid using animalderived materials. -P. 169
People Of Shibuya
Urban outdoor ONE OF THE FLAGSHIP pieces of the People of Shibuya collection bears the exotic name Fuji. The brand, specialised on urban outdoor wraps, combines an aesthetics influenced by the Japanese culture with the utmost practicality. The Fuji parka, for example, is made of a breathable and waterproof techno fabric, quilted on the inside with a Thermore thermal insulation and equipped with techno-ribbed stretch wristbands to increase insulation. The outer pockets have a zip fastener while the inner ones are heat-taped. -P. 170
Pineider
The fascination of history achieved by using refined materials. With a 245-year-old history in the field of high-end stationery, this Florentine brand has gained a reputation for its ongoing experiments in printing and manufacturing coats of arms and handcarved monograms. Over time it has developed a range of leather goods and writing tools to go with these. Today, driven by the same passion, it has added accessories for electronic devices, such as an Empress-patterned printed leather iPad case, to its design range. -P. 172 GRACEFUL LUXURY ITEMS,
Paoloni
Comfy chic «CASUALISATION» IS THE WORD chosen by Paoloni to define the process undertaken by high fashion which regards comfort as an absolute priority. The jackets, which represent the flagship of the brand, are gracefully oversized to gain softness and the trousers are designed with pleats and coulisse at the waist. The fabrics are stretchy and the predominant types exploited are woolen jersey and cashmere and fleece for the refined models. The traditional patterns are exploited in a range of colours going from grey to beige, brown and blue but
made of recycled down, is also ecofriendly. The perfect match for this heavy jacket is the Fisherman sweater, as worn by North Sea fishermen, made of ultralight recycled EcoWool. -P. 171
Typhoon 20.000 Norwegian is the heavy jacket made with a patented Paul&Shark technology that guarantees an impressive 20k mm waterproof and windproof resistance. In addition to the garment’s high performance, it is worth mentioning that the production process includes concrete measures to help sustain the environment. The jacket is made with Save the Sea fabric, polyester obtained by recovering and recycling plastic dumped in the sea. The filling,
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VII
21-22 f-w Pyrenex
Extraordinary feathers THE RIGHT FEATHERS make the difference according to Pyrenex. The French company has been collecting, working and promoting duck and goose feathers from nearby livestock farms for over 160 years, tracking all the supply chain and making the slightest possible impact on the environment by exploiting the food industry waste. This process has given birth to exceptionally light and winterproof down jackets. The top range is the Saint Sever 1859 limited edition collection. -P. 173
Piquadro
Strength and lightness A BURGLAR-PROOF BACKPACK:
this is the spirit of one of the flagship products designed by Piquadro. The materials come from the military world: the main fabric is the hardest available and the most resistant to cutting; the bottom has been made wear-resistant by inserting polyurethane threads in the weaving, as generally used in construction-grade safetywear. An RFID tag pockets can prevent credit card cloning danger. Despite its strengths, this backpack is amazingly light: it only weighs one kilo. -P. 172
Sant’Andrea Milano
The evolution of elegance
Ionic Pillar) sole providing optimum comfort. Following a general backto-the-Nineties trend, classic shaping makes these sneakers extra attractive, ready to become the set piece for a new round of high-flying collabs. -P. 173 Sealup
Cold-proof THE FLAGSHIP PIECE OF HISTORICAL Italian
brand Sealup is the sailor’s peacoat. Despite being faithful to its original DNA, the Milanese brand widens the choice by introducing Mountain, a collection devoted to harsh climates. Chic outlines, refined down and tailoring details are the main features of this project. One of the top new pieces is Ponte di Legno, made
WHEN MADE-TO-MEASURE meets quality fabrics, magic happens. Developing a sophisticated menswear out of this magic is what Sant’Andrea Milano has done. The brand was established when the Trabaldo Togna Group, a top name among the woollen mills from the Biella district, acquired the Italian tailoring company Saintandrews. In addition to custom-made suits, they produce ready-to-wear garments balancing tradition and contemporary style. The top piece has to be their glorious doublebreasted coat. -P. 173
PT Torino
Sparkling in spades, from a widened and renovated range of fabrics to a host of original outfits, the PT Torino line is once again ready with a trendsetting trouser lineup. The newly presented Spark capsule collection designed by the brand from the Piedmont region is based on Chino cloth but also experiments with other materials. Next-gen finishings are applied to the Club, Freedom and Madison models in order to obtain a lived-in effect. Also, they all boast subtle details, such as an inner belt and rivet buttons for the back pocket. -P. 172 FEATURING INNOVATION
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Saucony Originals
Glorious years THE POPULAR MODEL Shadow 6000 is turning 30 this year. Alweays sought after by trained runners who seek to balance heel stability, flexibility and cushioning effect, it has been among the first sneakers fitted with a VIP (Vertical
of 100 percent waterproof Shetland wool, featuring corduroy finishing and a hidden rainproof hood. It is also equipped with the typical Sealup brass rivet with antique gold finishing, applied to the back of the neck. -P. 174 Sebago
Open air life A HANDCRAFTED LOAFER:
Sebago goes the hand-stitched route, revisiting the old techniques exploited by the Native Americans to make their traditional shoes. The new model’s name, Keuka, comes from the Iroquoian language. The
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21-22 f-w simply by appearances, and the brand invites customers to choose timeless garments, made in Italy but inspired by the Japanese craftsmanship. The flagship is the Oversized Fishtail Parka, an up-to-date reinterpretation of the classic garment, made with the brand’s characteristic material, OJJ (Original Japanese Jersey), which is waterproof, windproof and intentionally looking lived-in like denim. -P. 176
moc toe features a shoe upper combines leather and unlined leather, leather laces and a sheared Eva sole providing comfort and absorbing shocks. -P. 173 Slowear
The art of mix and match AN IDEA OF FASHION as designed to last and to spark conversations among stalwarts of men’s style: such is the starting premise of Slowear. The company from the Veneto region has gathered four historical Italian fashion brands over time, each one holding a specific quality-oriented expertise: Montedoro for wraps, Zanone for knitwear, Glanshirt for button-down shirts and Incotex for trousers. These pieces can be casually coordinated with an anything-goes attitude; they feature touches of leisurewear combined with high-tailoring details, techno-materials and traditional wools. -P. 174
Woolrich
A seven-star piece
two main components. Every step in the process that leades from an original idea to a finished product is overseen with painstaking care. As regards aesthetics, the brand pursues a back-to-basics attitude and real-life vibes, without losing its strong identity. Elegance essentially means to feel at ease; the collection thus includes a number of easy-to-wear pieces with personality. The predominant colour is green, undisputed symbol of hope, showcased in several variants from the brightest tones to muted shades such as sage green. There are at least two musthave pieces: a double-breasted, amplecollared coat, oozing uniformed officer’s vibe, and the cardigan with shawl neck and waist belt. -P. 175 Tagliatore
When there is green there is hope ACCORDING TO PINO LERARIO, creative
director of Tagliatore, menswear is a never-ending story, of which authenticity and Italian know-how are
THE POLAR PARKA is the flagship of Woolrich, the must-have piece of outdoor clothing suitable for the harshest climates. The brand presents a highly sophisticated version of this parka despite preserving its high technical performance. Polar Luxury Eco Wool Parka is made of Blacksheep, an exclusive variant of eco wool produced by Loro Piana, windproof and waterproof thanks to the Storm System technique. The parka is filled with a generous amount of duck down, including the hood that protects head and neck. The featured patterns are drawn from traditional menswear. -P. 176
Ten C
A parka is forever THE NAME OF THE BRAND encapsulates its values: Ten c stands for The Emperor’s New Clothes,as in the popular fairy tale by Hans Christian Andersen. The story encourages people not to judge
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