COMICA-MENTE

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III L e I A della scuola secondaria - I.C. Cavour Catania

Antologia della risata 2016-17



COMICA-MENTE Antologia della risata

A.S. 2016-2017 Dirigente Scolastico dell’I.C. “Cavour”, Catania, Prof.ssa Maria Leonardi. Coordinatrice di progetto: Prof.ssa Cinzia Di Mauro. Autori: tutti gli alunni della III L e della I A.


Fiabe tutte da ridere


Kornell Alì - Giada Mucimarra - Simone Spampinato - Andrea Panascia

Il bell’… anatroccolo?


C’era una volta una graziosa storiella della trasformazione di una paperella. Era una mattina d’estate. Il sole splendeva nel cielo limpido e rifletteva i suoi raggi in un laghetto che si trovava nei pressi di un boschetto bordato di cespugli e profumato di violette e rose: il silenzio regnava sovrano. Tra gli arbusti una famigliola di anatre aveva costruito il suo nido. Mamma anatra aspettava con impazienza che si schiudessero le uova, mentre papà nuotava nel laghetto. Ad un certo punto papà rana chiese: - Quando nasceranno i tuoi piccoli? Papà anatra rispose: - È questione di ore! - e aggiunse - Non vedo l’ora! A mezzogiorno finalmente le uova si aprirono e l’aria si riempì di un infinito pigolio. Erano nati sette anatroccoli tutti uguali alla madre, quindi col corpo giallo e becco e zampe arancioni. Uno però non venne fuori. Allora papà anatra esclamò: - Guarda, ancora questo uovo non si è schiuso! E mamma anatra aggiunse: - Oh povero cucciolo, avrà bisogno di più tempo. Aspetteremo. Finalmente arrivò il momento giusto, la mamma vide una testolina gialla sbucare dall’uovo e poi togliendo via le varie parti del guscio,

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scoprì il rosso del collo, il fucsia del petto, il verde delle ali e l’azzurro delle zampe, il becco viola e gli occhi cangianti a seconda delle sue emozioni. Infatti, da azzurri, forse perché sentiva freddo, non appena riconobbe la sua mamma, diventarono rosa. Certo, non poté non chiedersi il perché di un figlio così diverso da lei, dal padre e dai fratelli, in quanto se lei era di un colore giallo scuro, come gli altri figli, il padre era verdognolo e nero con zampe e becco arancioni. Da dove proveniva quell’arcobaleno delle sue piume? Ma, comunque, mamma anatra pensò che era bellissimo. Già da piccolo mostrava di essere molto vanitoso e non perdeva un’occasione per celebrare la sua bellezza e mettere al secondo posto i fratelli che non venivano degnati neanche di un saluto. Presto la sua fama raggiunse tutti i laghi e il suo nome era conosciuto anche dai più piccoli. Le riviste di gossip si occupavano solo di lui, fioccavano le interviste in TV. Iniziò a partecipare come protagonista a film e serie televisive, tra i quali: Quack Man, Paper Jones e Harry Quacker. L’anatroccolo ormai adulto iniziò a frequentare le più belle anatre del lago: Anatren, Paperina Jolie e Nicole Quackermann. Conduceva una vita senza regole, non andava a dormire la notte per partecipare a feste di VIP e serate in discoteca. Passando il tempo si allontanò sempre più dalla sua famiglia, con cui in precedenza viveva. I suoi genitori ne soffrivano molto, non riuscendo a comprendere come facesse il loro figlio a dimenticarsi dei sentimenti veri. Solo i fratelli del bell’anatroccolo ne erano felici, perché era diventato insopportabile per la sua arroganza e vanità. Un giorno capitò che il bell’anatroccolo, dopo aver comprato un nuovo foulard di cachemire, si specchiasse in un lago. Questo era simile a una palude, intricato di canne, con ninfee e varie specie di rane variopinte che lo abitavano. Dall’acqua veniva fuori uno strano odore, come di zolfo e la consistenza sembrava oleosa. Il bell’anatroccolo, che voleva sempre essere perfetto, si guardò e improvvisamente successe qualcosa di strano: al suo posto comparve un gigantesco elefante

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multicolore, con le sue stesse caratteristiche. L’anatroccolo non aveva ancora capito di essere lui l’elefante, ma non appena alzava la zampa destra l’immagine riflessa faceva la stessa cosa. Muoveva la testa e l’elefante si comportava allo stesso modo. Allora capì e la disperazione prese il sopravvento. Si mise a piangere distruggendo il canneto con le sue corse folli, ma dato che lui non era nato da pachiderma, non sapeva correre e cadeva sempre. Fermatosi su una grande roccia, una tristezza infinita lo assalì e gli venne voglia di abbracciare la sua mamma. Si ricordò però che si era comportato molto male con la sua famiglia, e adesso sperava che loro potessero perdonarlo. Ma i suoi guai non erano ancora finiti... Dei circensi che passavano di lì, lo misero in catene e lo portarono al circo. - Vedrai che novità sarà per il circo! - disse Billo, il clown dai pantaloni larghi con le righe verticali, maglietta gialla a quadrettoni e bretelle rosse. - Con le mie “buone maniere” riuscirò anche a farlo parlare. - gli fece eco Tom, l’altro clown con baffi a manubrio, maglietta a righe orizzontali verdi. Quindi entrambi concordarono nel farlo presentare come un fenomeno da baraccone. Nel frattempo arrivarono al circo che era caratterizzato da due tendoni (uno per gli artisti e uno per gli animali). Questi erano a strisce verticali gialle e rosse. In tutt’evidenza strisce e quadri erano fondamentali e infatti diedero un’uniforme a strisce anche alla nuova attrazione multicolore. All’ingresso c’era una biglietteria con un uomo annoiato all’interno, che si stava per addormentare. Appena li vide arrivare con quello strano essere, però, si destò all’improvviso e chiese da dove spuntasse quello strano elefante e a cosa potesse essere utile. I due ridacchiarono senza dare spiegazione precise, perché di fatto non le conoscevano neanche loro, si allontanarono borbottando. I circensi iniziarono a costringere l’anatroccolo a ballare, scherzare e a trasformarsi in quello che non era. L’anatroccolo/pachiderma non eseguiva nessun ordine che gli impartivano i circensi, facendo

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fare loro brutta figura. Tom e Billo, allora, per obbligarlo a fare quello che volevano, incominciarono a non dargli cibo, punzecchiarlo e fargli ogni tipo dispetto. Un giorno, durante un spettacolo, stava tentando di esibirsi insieme agli altri elefanti. Erano tutti in ordine, zampe anteriori all’insù. Lui goffamente staccava da terra un arto e poi l’altro, finché all’improvviso si trasformò in un topo. Gli elefanti, la cui paura per i topi è rinomata, iniziarono a barrire all’impazzata, a scavalcare i recinti e, con la loro nota grazia, combinarono un bel trambusto. La gente scappava per ogni dove, riproponendosi di non metter mai più piede in un circo, soprattutto in quello! A quel punto i circensi non dovettero far altro che cacciare quel topaccio, anche perché furono i primi a seguirlo, cacciati a loro volta dal proprietario del circo e dall’annoiato bigliettaio che non li aveva mai sopportati. Al topo, una volta fuori da quell’incubo, non restava che cercare la via di casa, rimpiangendo i bei tempi di quando era anatroccolo. Finalmente il bell’anatroccolo tornò da sua mamma, dai suoi fratellini e dai suoi amici sotto forma di topo multicolore. Si riabbracciarono proprio mentre lui aveva una metamorfosi in porcospino. Urlarono tutti di dolore, ma gli vollero bene lo stesso. Alcuni dei suoi amici non lo accolsero subito, perché avevano paura che il porcospino multicolore li avrebbe punti, ma capirono che con qualche accorgimento era possibile un veloce becco muso. E la sua vita ricominciò da zero, perché lui era cambiato e non era più vanitoso. Tuttavia, quando tutti gli animali dello stagno si erano finalmente abituati al bizzarro porcospino, improvvisamente se lo ritrovano una giraffa. Quindi essendo così alta, non riuscivano a comunicare con lei e dovevano fare i salti mortali per poterle parlare. Una settimana dopo si trasformò in un ippopotamo per cui si mise a dormire nello stagno. Con la sua stazza lo riempiva tutto e le anatre erano disperate, perché non potevano fare neanche un bagnetto.

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La settimana dopo si trasformò in serpente, lasciò a terra un sacco di resti delle sue mute, perciò le mamme anatre erano costrette a pulire continuamente. Queste trasformazioni durarono settimane e settimane, per esempio si trasformò in un gatto, quindi le anatre per non farsi mangiare furono costrette a imprigionarlo in un’isoletta dello stagno e poi in un ornitorinco: un vero scherzo della natura. Dopo ancora si trasformò in un verme, ma nessuno si accorse del suo ultimo cambiamento. Passavano di lì i suoi genitori e fratellini che lo stavano cercando, ma come videro il verme, per quanto multicolore, non pensarono proprio che potesse trattarsi del loro familiare. D’altronde le anatre non sono di certo le creature più intelligenti della terra! Così litigarono per chi dovesse mangiarlo e alla fine lo divisero in tante piccole parti e se lo papparono tutto. E così finisce la fiaba del bell’anatroccolo che dal jet-set arrivò a pezzettini nella pancia dei suoi genitori e dei suoi fratellini.

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Guglielmo Fassari - Alessio Gibilaro - Matteo Liuzzo - Alfio Sicurella

Diavoletto rosso (ovvero A chi diciamo in bocca al lupo?)

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C’era una volta in una piccola città una bambina di nome Cappuccetto Rosso, perché portava una mantellina rosso fuoco che le dava l’aspetto di un piccolo demonio. Infatti, benché fosse alta appena trenta centimetri intimidiva chiunque, persino i lupi. Era davvero un disastro. Lei aveva fatto un numero da record di dispetti. Un giorno aveva distrutto un servizio da tè, poco dopo un lampadario, in un altro momento un vaso e a seguire un divano ed infine procurato un esaurimento nervoso alla propria mammina. La sua casa era una vera e propria catapecchia, perché la bambina era riuscita a creparne i muri e romperne la mobilia. Così la sua mammina aveva perso i capelli dallo stress, acquisito delle occhiaie nere come il carbone e delle rughe da ultracentenaria. Proprio in quell’occasione Cappuccetto Rosso ne combinò una delle sue. Entrò nel pollaio e, come al solito, dimenticò di chiudere per bene la porticina e ops... Tutte le galline scapparono e si dispersero nel cortile. La mamma disperata le urlò: - Cappuccetto Rosso, ma è possibile che ogni volta è la stessa storia? - Mamma, io l’ho chiusa la porticina, ma le galline sono diventate così furbe che sono riuscite ad aprirla. - Sì, sì certo, la colpa è sempre di qualcun’altro... Muoviti, non

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perdere tempo e acchiappa le galline. Così Cappuccetto iniziò a correre qua e là per il cortile, ma non fece caso alle uova che aveva messo nella tasca del grembiule e patatrac balzarono fuori e si fracassarono a terra. - Cappuccetto!! - gridò esasperata la mamma - Ne combini una dietro l’altra... Nel frattempo, la piccolina riuscì a recuperare le galline e a metterle dentro al pollaio. La mamma preparò del brodo di pollo e chiese alla figlia di portarne un po’ alla nonna ammalata. Povera donna, era così stanca che, pur di togliersela di torno, le consegnò un cestino con il brodo e le medicine e la spedì fuori. La bambina s’incamminò nel bosco e incontrò il lupo Carlo, che si era trasferito da poco e che non la conosceva bene. Un bel lupo nero con la sua aria solitaria, aveva un ciuffo bianco sulla testa che gli ricadeva sulla fronte e due occhi verdi quasi fluorescenti. Non era un cattivo ragazzo, ma i lupi sono selvatici e, quindi, quando vide la bambina avvicinarsi, il suo primo pensiero fu di mangiarla. Si sa, il lupo perde il pelo, ma non il vizio. - Ciao, bella bambina, come ti chiami? - Ciao, io mi chiamo Cappuccetto Rosso e tu? - Io Carlo. Sono stato fuori per lavoro e non tornavo al paese da tempo. Dove vai di bello? - Vado in fondo al bosco a casa della nonnina a portarle del brodo di pollo, perché sta male. - Oh bene! Io devo andare al villaggio oltre il bosco, ma non ricordo bene la strada. Ti dispiacerebbe... Non riuscì a finire la frase perché Cappuccetto Rosso iniziò a tirargli la coda che gli fuoriusciva dai pantaloni e lui con un grande salto balzò in aria, per il dolore, e cadde su un cespuglio di spine. - Ahi! Ahi! Ma che ti è saltato in mente di tirare la mia bellissima coda? Cappuccetto rideva a crepapelle: - È troppo buffa, questa cosa

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lunga e pelosa. Il poveretto, quando riuscì ad alzarsi dal cespuglio, sembrava un cactus. Con un po’ di pazienza si tolse le spine di dosso. - Ti stavo chiedendo poco fa le indicazioni per raggiungere il villaggio. - Sì, certo. Allora, devi scendere a destra, poi prendi la curva a sinistra del melo, quindi riprendi il sentiero di destra e al cespuglio di rose vai a sinistra. - Aspetta! Aspetta! Mi sono confuso già alla prima curva. - disse il lupo bugiardo. A dir la verità, Carlo ricordava benissimo il tragitto, ma finse di non saper arrivare al villaggio per poter stare più tempo con la piccola e trovare il momento giusto per mangiarla. - Scusami tanto, ma potrei venire assieme a te, fino alla casa della nonna? Poi magari mi rispiegherai la strada. - Ma non è così difficile... Va bene, puoi venire con me, ma io sto davanti. - disse Cappuccetto, iniziando a camminare, anzi a saltellare. Saltando spostò un ramo che finì sul muso del malcapitato, girandosi gli diede un colpo di cestino sullo stinco, poi si fermò di botto, per annusare dei fiori e abbassandosi il lupo non la vide, inciampò e finì in una buca. - Ahi! Ahi! Povero me… spero di arrivare sano e salvo a casa della nonna. - pensò Carlo tutto dolorante, cercando di rimettersi in piedi. Dopo varie disavventure finalmente arrivarono dalla nonna. Il lupo, poverino, era distrutto e malconcio ma, non appena vide la casa della vecchietta si rianimò, pensando al pasto che lo aspettava. La casetta in cui viveva la nonna era piccola, con poche stanze ma piene di mobili in cui conservava tutti i suoi lavori a maglia e le bomboniere che amava collezionare. C’era anche una botola dove era solita nascondere tutti i suoi oggetti più preziosi in vista del demonietto rosso. Di solito la nonnina era una vecchietta dall’aria serena, parlava lentamente e a bassa voce, le piaceva il tè e indossava degli

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occhiali rotondi. Quando arrivava sua nipote, però, si trasformava in una supernonna piena di energia e vitalità pronta a difendere la propria casa dalla terribile bimbetta. Il lupo si avvicinò lentamente alla casa ma, appena mise un piede sull’uscio, Cappuccetto Rosso inavvertitamente lasciò la presa della porta che, essendo a molla, sbatté forte sulla faccia dell’animaletto. Riuscì comunque ad entrare, schivando un colpo di scopa che Cappuccetto stava usando per spazzare per terra, dal momento che la nonna era a letto ammalata, il lupo riuscì ad arrivare fino in camera della nonna che se la stava svignando perché, va bene la febbre, va bene il fatto di avere Cappuccetto Rosso in casa, ma il brodo di pollo della nuora proprio no!!! Quella donna era veramente una frana in cucina! Oltre alla febbre l’intossicazione non poteva tollerarla. Si nascose perciò in una botola e si chiuse con almeno quattro catenacci. Il lupo non capì il motivo di quella fuga, ma pensò che avrebbe potuto prendere benissimo il suo posto e che, una volta entrata Cappuccetto Rosso nella stanza, il suo pranzo a base di quel diavoletto di bambina sarebbe stato servito. Nel frattempo Cappuccetto era intenta a cercare piatti e posate distruggendo tutto quello che le sue manine toccavano: vasi, pile di piatti, bicchieri. La cucina era completamente devastata!!! Con l’unico piatto sopravvissuto Cappuccetto entrò nella stanza da letto e, mentre raccontava del suo strano incontro nel bosco, cominciò ad osservare meglio quella che credeva essere la nonna. - Nonnina che occhi grandi, orecchie pelose e denti appuntiti che hai! - disse la bimba. - Dici davvero, tesoro mio? - rispose il lupo. - Proprio così! Devi aver contratto una brutta malattia! Speriamo non sia contagiosa... - rispose Cappuccetto. Non appena finì di pronunciare quelle parole, il lupo spalancò le fauci come per mangiarla, Cappuccetto Rosso prese la scodella e gli versò il brodo bollente dentro la bocca. A questo punto la faccia del

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povero animale diventò dapprima rossa, poi rosso più acceso fino a rosso fuoco. Sbuffi di fumo gli uscirono dal naso e dalle orecchie e cominciò a saltare urlando dal dolore. Attirato dagli orrendi ululati del disgraziato Carlo, Alfredo il cacciatore, un uomo impacciato, grasso e credulone, che si trovava a passare di là, temette il peggio. Trovò il lupo e gli balzò addosso, schiacciandolo con il suo peso. La ragazzina che aveva assistito alla scena, convinta che il lupo Carlo fosse la sua nonna, tramortì il cacciatore con ripetuti colpi di tazza da brodo, lasciandolo a terra svenuto. A quel punto il lupo, ormai consapevole che al tornado “Cappuccetto Rosso” fosse meglio il digiuno, tentò di svignarsela. Fu inseguito prontamente da Cappuccetto che urlava a gran voce: - Nonnina, nonnina mia, sei malata! Dove vai? Stai a letto, devo curarti!

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Samuele Deni - Ginevra LaganĂ - Luca Zappulla

Porky, Porki e Porkee

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C’erano una volta tre porcellini di nome Porky, Porki e Porkee che vivevano in casa con la madre suina. Ogni suino aveva una caratteristica: quella di Porky era di mangiare qualunque cosa gli venisse a tiro, quella di Porki di dormire molto e di essere mediamente vorace (riusciva a cucinare prima di divorare il cibo). Porkee invece non era per nulla goloso: lui era un grande studioso, ma soprattutto molto ordinato. Porky e Porki passavano le loro giornate ingozzandosi di cibo e nel frattempo guardando TV. Invece Porkee studiava e leggeva per diventare un grande scienziato. Un giorno la madre suina disse: - Siete troppo grandi per restare qui, anche perché fate troppo frastuono, tranne vostro fratello. Lui mi fa stare in pace. Siccome però la regola è uguale per tutti, andate tutti via di casa! Porky e Porki dissero: - No, noi non andiamo fuori di casa! Poi dove la mettiamo la TV con la play-station? Porke invece disse: - Ma non è questo il problema, il vero problema è quello di non vedere più la mia amata mamma. Però, siccome obbedisco, io andrò via di casa. Ci vediamo, io vado. Gli altri due rimasero ancora un po’ a contendersi la play-station e alcuni pasticcini. Ma questa volta la madre fu perentoria: - Fuori dai piedi, voi due, immediatamente!

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Andarono in una bellissima collina da cui si vedeva tutta la città dei porcellini che da lì apparivano piccoli come formiche. Cominciarono subito a costruire le loro case. Porky costruì la sua casa con resti di cibo: mele, arance, ananas, banane, fragole, bucce di kiwi, ma anche bottigliette di acqua piene e vuote. Naturalmente non potevano mancare frutta, verdure e ortaggi. E così utilizzò anche: carote, cipolle, pomodori, finocchio, sedano, canna da zucchero, peperoni, melanzane, insalata e lattuga. In alcuni ambienti della casa invece scelse di utilizzare pasta di tutti i tipi, al pesto, di menta e di pistacchio, lasagne e poi prosciutto, torta, biscotti presi dal fratello, salame, pancetta, hamburger, formaggio... Coprì parti vuote del muro con lenticchie o fagioli che incastrava per bene. In casa sua non esisteva la frase “Come è finito il cibo?” oppure “Ho fame!” perché lui mangiava così tanto che solo a guardarlo la faceva passare, e tutti i resti erano impiegati nella costruzione. Naturalmente ci mise un solo giorno. Porki, invece, per dare prova della sua bravura in cucina, si mise ai fornelli e preparò delle prelibatezze come per esempio zenzero, marzapane, cioccolato fuso con costruì una casa che sembrava una torta nuziale. Usò la glassa come cemento e per decorare il tetto utilizzò zuccherini presi dalla casa del fratello Porky, ci mise tempi un po’ più lunghi, ma ne valeva la pena. Infine Porkee decise di strafare. Si allontanò leggermente dai fratelli per andare a cercare degli oggetti. Non sapeva dove prenderli e neanche quali fossero gli strumenti di cui aveva bisogno, ma andò in esplorazione. Ad un certo punto si accorse di essere davanti ad una discarica dove trovò oggetti incredibili dalle forme più bizzarre. Allora si mise subito a lavorare suscitando grande curiosità nei fratelli che gli chiesero: - Dove hai trovato tutta quella roba? Ma loro erano troppo pigri e decisero di mettersi con le sdraio e una bibita a guardarlo ripetendogli: - Ma quanto sei bravo! Dopo settimane: - Eccola! - esclamò Porkee - Ora la casa è pron-

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ta. Non era presente niente che non fosse metallo. E di questo lui ne era felice. - Ma come hai fatto a costruirla così grande, bella, spaziosa? - gli domandarono Porky e Porki. - Non lo so, ma manca solo una cosa da fare: testarla! Accese un telecomando e la casa fece un cenno come se volesse salutare i porcellini, loro risposero e tornarono a casa felici. Settimane dopo i fratelli andarono a trovarlo: aveva passato tutto quel tempo a modificare la sua casa per renderla PERFETTA. Era diventata una vera e propria smart home. Riusciva a far funzionare qualsiasi cosa semplicemente utilizzando un’app del telefonino. Era diventata un’ossessione. Ma lui pensò: - È giusto fare tutto ciò… ne vale della mia sicurezza. E non aveva tutti i torti. Infatti, di lì a poco le loro vite si sarebbero incrociate con un lupo. Quello della nostra storia viveva in una casa tipo teepee (tipica indiana, ma usata anche dagli inglesi costruita per i più agiati del popolo, raggruppati in villaggi con il tetto di paglia, ma lui in questo caso non si trovava in un villaggio), ma con tanto di palla rotante e luci stroboscopiche. Era un tipo piuttosto strano, perché appunto organizzava feste stravaganti a casa sua: veniva il deejay, un cantante ospite, e si faceva pure la pignatta messicana. Il lupo un giorno voleva raccogliere funghi nel bosco e si perse e allora cercò di ritrovare la strada. - No, mi sono perso! Come faccio? Non ho le briciole per tornare a casa come Pollicino, non ho neanche una bussola, non sono scout, ah! Capitano tutte a me! Vabbè, mi resta solo che canti, la la la LA! Sono in totale delirio! - canticchiò baritonale. Passarono brutti giorni, di solitudine e digiuno, per il “nostro amico” lupo. Ma ad un tratto: - Oh, ma sto sognando? Una casa? Spero sia vera!

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Forse in questa casa un bel suino succulento ci sarà! E sicuramente troverò un frigorifero da svuotare! Era davanti alla porta della casa di Porky, entrò e vide che era fatta tutta di cibi diversi: il divano era di wurstel, le lampade erano di prosciutto arrotolato, sul tavolo di pasta trovò una montagna di cibo composta da pollo, curry, pasta, pesto... Mentre il lupo camminava pensò: - C’è troppo disordine. Potrei fare una brutta fine. Bisogna guardare dove si mettono i piedi o zampe. Siccome aveva fame cominciò a divorare tutto. Fece un passo indietro e scivolò su una buccia di banana, incastrandosi in una finestra di pasta di zucchero che dovette mangiare per liberarsene. Ma questa finestra era uno dei pilastri della casa e gli cadde una parte del tetto addosso. Allora disse: - Con tutto questo mangiare mi verrà il diabete e poi per liberarmi dovrò mangiare tutta la parte del tetto di torrone crollato e forse non dovrò neppure mangiare per almeno una settimana. Ebbe pure dei rumori di pancia indesiderati. Poi si rese conto che aveva voglia di cioccolato al latte. Trovò un comodino di cioccolato e lo addentò. - Ahi! Ma questo non è al latte, è fondente, con un’anima metallica! Mi si è pure staccato il dente, accidenti! Però ci guadagnerò una moneta d’oro, se lo metto sotto il cuscino. Dentro il comodino trovò il piccolo Porky che disse ironico: Tutto calcolato! Poi scappò e andò a casa di Porki e il lupo lo inseguì. - Ehi, succulento porcellino, fermo! E allora Porky riprese: - NO! Enne O. Non voglio diventare la tua cena! E il lupo ripartì: - Niente cene, voglio solo fare una partita a scacchi. Porky continuò: - Ho detto no! Cosa non ti è chiaro? Piuttosto, inseguimi. Non credo che ce la fai.


Quando vide la casa di Porki capì che era a forma di torta: a tre piani bianchi con i bordi rosa ornati da fiori stupendi che erano viola, rossi, gialli e rosa. Allora il lupo si tuffò su di essa, perché aveva ancora fame, ma dentro c’erano dei petardi (errore dello chef Porki, che siccome era molto disordinato, li aveva messi nell’impasto per sbaglio). Il lupo cominciava ad avere un’indigestione, ma la “ciliegina sulla torta” furono proprio quegli esplosivi che gli provocarono un dolore pazzesco e così non tornò più. A proposito, vi consiglio di guardare cosa c’è nell’impasto la prossima volta che assaggiate un dolce. Porkee capì che la pigrizia e la strafottenza dei suoi fratelli erano stati efficaci, perché così erano riusciti a sconfiggere il lupo. Da quel momento cominciò a comportarsi come loro: fare sempre feste, mangiare merendine a volontà, rotolarsi nel fango e abbandonò il suo ordine e precisione per sempre.

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Susanna Belfiore - Giovanna Cosentino - Giada Giammona - Penelope La Rocca

Raperonzolo e l’inganno degli ortaggi

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C’erano una volta due contadini tonterelloni Gilberto e Adalina che vivevano coltivando raperonzoli in un enorme campo in mezzo alla campagna. La loro casa era una misera capanna di argilla e paglia tanto piccola che dentro c’era solo un letto sgangherato e un piccolo camino dove, in un annerito paiolo ribollivano sempre acqua e patate. I due erano sposati da tanti anni, ma non si parlavano molto e quando lo facevano mugugnavano senza guardarsi in faccia. Il marito aveva i capelli a porcospino e il naso a peperone sempre rosso, perché pativa il freddo. Il poverino era molto gracile, alto e così magro che quando usciva da casa e c’era vento: o si metteva le pietre in tasca o si aggrappava al collo della moglie che, imprecando, lo trascinava fino a casa e là finalmente lo mollava. Adalina, al contrario di Gilberto, era bassa e grassa come una palla e puzzava. Inoltre, essendo molto forte, al momento della raccolta dei raperonzoli, toccava a lei estrarle dal terreno, visto che le radici di queste piante erano troppo resistenti. I due coniugi erano talmente ignoranti che non si resero nemmeno conto che la donna era rimasta incinta e questo era il motivo per cui la poverina iniziò ad ingrassare ogni giorno di più. Il marito era seriamente preoccupato e le diceva continuamente: Adelina, non mangiare più patate che nella casa non ci entriamo più! Lei, offesa, replicava: - Ma io non sono grassa e poi le patate mi piacciono tanto e fanno bene alla pelle. E dimmi, tu come faresti a ritornare a casa quando c’è vento? Questa lagna durò per tutta la gravidanza, fino a quando sfiancati

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da questa malattia inguaribile, si rivolsero a una fattucchiera. Questa abitava in un enorme è alto castello grigio. Si chiamava Morgana ed era un po’ vecchia, aveva i capelli castani e gli occhi di colore azzurro, indossava un vestito viola abbinato con un cappello a punta sempre viola delle scarpe nere e alla vita portava un cinturino nero. Infine in mano teneva una bacchetta che sembrava un pezzo di legno. I due stupidoni le chiesero una medicina per far curare la donna: - Salve, per caso lei avrebbe un farmaco per questo gran pancione ? La strega ci pensò e disse loro: - Certo! Venite alla prossima luna piena e ve ne sgraverò io. - accompagnando la frase con un ghigno. Gilberto e Adelina si recarono al castello della strega proprio alla successiva luna piena. La donna si reggeva a fatica e accusava già i primi dolori del parto imminente. Ma ancora il marito la rimproverava: - Ecco vedi cosa succede a riempirsi come un otre? La poverina non aveva nemmeno più forza di replicare. Morgana se la rideva. Quindi, portò Adelina in una sala più interna e a furia di “spingi” e “spingi” la sollevò dal suo peso. Così nacque la neonata che la strega tenne con sé e chiamò “Raperonzolo”. Raperonzolo crebbe bellissima. Aveva degli occhi incantevoli azzurri e dei capelli lunghi e folti color rubino, ma era tanto bella quanto stupida. Abitava da sola con la strega nel grande e alto castello grigio, trascorrendo le sue giornate a pettinarsi i suoi capelli lunghi rossi, a giocare con delle pentole e dei mestoli e a far finta di preparare cibo per delle bambole. In giardino prendeva insetti, li metteva nelle pentole, li schiacciava, dopo li metteva in ciotole e infine li mangiava. Quando Raperonzolo compì dodici anni, usciva e incontrava molti ragazzi, così la “madre” la rinchiuse per sempre in una torre altissima senza porte e finestre e l’unico accesso era una finestrella posta nella parte più elevata dell’edificio. Questa sorgeva su una collinetta sempreverde , nascosta da un grande albero di olivo. La fanciulla, seppur maturata, continuava a passare tutto il suo tempo pettinando i lunghissimi capelli color rosso ravanello.

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Un giorno mentre districava la sua folta chioma, davanti alla strega, un ciuffo le cadde e si trasformò in rubino. Meravigliata Raperonzolo disse: - Oh che bel ravanello! La vecchia strega che non era sciocca capì subito che si trattava di un rubino prezioso e ordinò: - Raperonzolo, taglia i tuoi capelli, perché ho bisogno di ravanelli. E la giovane rispose: - Li taglio immediatamente, signora! Tutto questo accadeva ogni giorno e la fanciulla, che non conosceva nulla del mondo esterno, chiese: - Ma perché mi chiedi tutte le mattine di tagliare i capelli? A cosa ti servono tutti questi ravanelli? E la strega, quasi infastidita, puntualmente rispondeva: - Taci, sciocca! Non vedi che sono degli ortaggi? A cosa pensi possano servire? Devo portarli al mercato per guadagnare del denaro. Ci servono per vivere. Adesso concentrati e pensa solamente ad esaudire la mia richiesta. Raperonzolo esaudiva sempre i desideri della donna poiché era davvero sciocca e senza un grammo di intelligenza e praticamente tutti potevano dirle qualunque cosa e lei ci avrebbe creduto. E così la strega raccontava che i rubini erano dei ravanelli e Raperonzolo le prestava fede, nonostante l’evidenza dei fatti. La vecchia signora per entrare nella torre non usava l’unica porta che si trovava nell’edificio perché era situata molto in alto quindi le urlava da basso: - Raperonzolo taglia i tuoi capelli, perché ho bisogno di ravanelli. Me ne occorrono parecchi per salire fino a te, quindi fai in fretta. La strega ormai lasciava sempre più spesso la giovane da sola e andava a curare i propri affari fuori dalla torre. Con il passare del tempo, infatti, si arricchì a tal punto da comprarsi un castello con un super resort. Questo era situato a ridosso di un bellissimo parco naturale ricavato fra la roccia lavica e il mare. Era circondata da alberi di pesco, di arance e da tanti laghetti azzurri. Dopo questa immensa distesa di verde si trovava una spiaggia bian-

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chissima, grandissima e a seguire un mare cristallino con tanti pesci che saltavano dall’acqua. Accanto al mare c’era anche una fattoria tutta in legno dove vivevano dei cavalli bianchi che erano il passatempo principale della strega. - Che grande fortuna ho avuto! - diceva tra sé - Ho realizzato il sogno della mia vita, grazie a quella sciocca di Raperonzolo! Lei non saprà mai quanto potere hanno i suoi capelli. È troppo stupida. Ed io ho raggiunto il mio scopo! Ovviamente la donna non pensò più alla giovane, che le aveva procurato tanta ricchezza, e la abbandonò al suo destino. Passarono alcuni giorni dalla scomparsa della strega e Raperonzolo incominciò ad avere fame. Dato che oramai sapeva che tagliando i suoi meravigliosi capelli rossi ne sarebbero fuoriusciti dei bei raperonzoli, iniziò a prenderne qualche ciocca. Ne sbocciarono così tanti che decise di farne una scorpacciata. Ma al primo morso… trac: le si ruppe il primo dente, un incisivo. Vedendo il dente caduto, disse: - Buono questo raperonzolo! Ne mangerei un altro volentieri. Così continuò a mangiarli senza sosta, ma più masticava, più perdeva i denti di bocca. Stavolta le cadde il secondo incisivo, poi il canino sinistro e prima che le saltasse via anche quello destro, con un forte starnuto, cacciò fuori pure quello dalla finestra. Ovviamente, la ragazza aveva preso la sua genialità dai genitori, rinomati non certo per perspicacia. Spaventata, sputò via il boccone e con grande sorpresa, al suo posto trovò un bellissimo rubino rosso. A quel punto la ragazza dovette cercare qualcos’altro da mangiare. Rovistando dentro la credenza trovò una brocca colma d’acqua e un pezzo di pane raffermo. Col passare dei giorni finirono tutte le cibarie e Raperonzolo fu costretta a restare a digiuno, fino a quando si dette il caso che un bel giovane passasse davanti alla torre. Attirato da un bagliore che proveniva dalla folta erba, si chinò incuriosito per dare un’occhiata. Raccol-

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se da terra un bianchissimo dente, e stupito per il suo candore volle a tutti i costi conoscerne il proprietario. Sicuro che appartenesse ad una bella donzella, iniziò così a chiamare verso l’unica finestra della torre. Raperonzolo, sentendo rumoreggiare dall’esterno, si affacciò al davanzale. Quando il ragazzo la vide rimase inorridito dalla sua bruttezza. Raperonzolo, arrossendo gli disse: - Fi chiefo scufa per aferfi spafenfafo, ma quanfo faglio i miei cafelli, effi fi frasformano in ferdure dufe. Il ragazzo rispose: - Forse volevi dire in rubini? Perché li getti dalla torre? Lei ribatté: - Rufini? Forfe infendi fire raferonfoli? Io ho fanfa fame e profo a manfiarli ma af ogni morfo mi fi romfe un fente. Il ragazzo capì subito l’ingenuità della fanciulla e le disse: - Scappa con me, ti prometto che non morirai più di fame! Raperonzolo accettò, perché aveva troppa fame mentre il ragazzo pensò: meglio una moglie brutta ma ricca che una bella ma povera. E così vissero felici, ricchi e contenti e Raperonzolo senza denti.

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Lorenza Armenio - Aurora Calì - Giulia Campisi Giulia De Angelis

Ciccioli d’oro

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C’erano una volta tre orsi, papà, mamma e figli, che vivevano in una foresta. Fitta di pini, larici, querce e noccioli era popolata da scoiattoli, lepri, cervi, conigli e gufi. Graziosi funghetti velenosi popolavano il sottobosco. Qui nascosta, si trovava una casetta di altri tempi con tanti mobili in legno e le porte molto antiche. L’orsacchiotto indossava una bella cresta, giacca di pelle, jeans stretti, cuffie, scarpe super star. Era un appassionato di video games e aveva un pelo corto marrone. Aveva un carattere menefreghista e per niente studioso. Papà orso era un gran nerd, aveva il pelo corto di color nero, indossava sempre cravattine, gilet a rombi azzurri, pantaloni fini alle ginocchia marroni, occhialetti tondi e infine delle scarpe eleganti. Insomma un vero studioso e pignolo. Mamma orso era molto sexy. Truccatissima, vanitosa e simpatica indossava un ciuffo folto con un fiocchetto rosa, unghie colorate, vestito corto brillantinoso, scarpe col tacco, collana di perle , bracciale d’argento, e infine un anello d’ oro. Ma dove dava il meglio di sé era in cucina. Un giorno, per l’appunto lei preparò un enorme banchetto composto da: ravioli al pistacchio, pasta alle noci, lasagne al ragù, tortiglioni al pomodoro, pennette alla ricotta, tortellini alla panna e farfalle al salmone. Come secondo cucinò carne arrosto, pollo al curry, salmone, mozzarella in carrozza, pesce spada, patate al forno, polpettone al vino e involtini al formaggio. A tutte queste prelibatezze non mancavano i

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dolci come tiramisù, torta al cioccolato, cannoli alla ricotta, crostata alla nutella e torta di mele. Si recò con la famiglia a fare un passeggiata nel bosco attendendo che alcune vivande si raffreddassero. In quel momento nei pressi della bella casetta tutta addobbata a festa si trovava una bimba chiamata Ciccioli d’oro. Era bionda con i capelli lisci, gli occhi grigi, il naso a patata e l’apparecchio nella bocca. Aveva anche un dente d’oro e tanti altri cariati. Ma ciò che le aveva attribuito questo soprannome lo doveva ad una corporatura tozza e soprattutto molto molto grossa, accentuata dai suoi abiti. Indossava infatti un vestitino dorato ben ricamato dalla nonnina, abbinato a ciabatte colorate. E, come se ciò non bastasse, era antipatica, vanitosa e scontrosa. Ciccioli d’oro aveva visto, per l’appunto, dalla collina, del fumo che usciva dal bosco e dato che era molto curiosa, era scesa di corsa, arrivando al limitare del bosco. Aspettò un po’ prima di addentrarvisi perché i suoi genitori le avevano detto che era pericoloso, ma lei curiosa com’era non li ascoltò. Vi era buio, freddo e silenzio. Dopo un po’ di strada si trovò davanti a una casa tutta fatta di legno. Lì accanto venne distratta da un cespuglio di rovi con delle more molto grandi e essendo molto golosa andò a mangiarsele. Dietro il cespuglio c’era una finestra da dove sbirciò. Scorse i tre orsi, che si dirigevano verso la porta e pensò che stessero andando a fare una passeggiata. Quindi, presa dall’agitazione, si nascose dietro il rovo, però si graffiò. Le uscì dalla bocca un urlo, si spaventò che l’avrebbero cercata e trovata, invece non se ne preoccuparono nemmeno. Appena se ne furono andati, lei uscì dal suo nascondiglio, tutta graffiata. Quella casa vuota fece crescere la sua curiosità fino al limite. Prima di entrare si ricordò le parole della mamma: - Se non ti invitano, non puoi entrare nelle case degli altri. Stava quasi per tornare indietro quando pensò che era così vicina a scoprire come era dentro che non volle ascoltare il consiglio. Appena

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mise piede all’interno, non riuscì a credere ai suoi occhi: una tavola imbandita di pietanze succulente occupava tutta la sala. Notò tre sedie, una piccola, una media e una grande. Provò la piccola e la ruppe, incurante del danno, provò la sedia media, la trovò scomoda e decise di sedersi sulla grande, questa era di suo gradimento e si mise comoda comoda, pronta ad assaporare i diversi piatti. Queste erano suddivise in tre vassoi: uno molto caldo, uno tiepido e uno freddo. Cominciò dal vassoio caldo. - Ma ahimè, - urlò - la mia lingua! Questo cibo troppo caldo non fa per me, però non voglio lasciare nulla sul tavolo. E allora lo spazzolò. Così, passò al vassoio freddo. - Questo è disgustoso! Odio i cibi freddi! Neanche questo fa per me. Però lo mangiò lo stesso, pensando che avrebbe potuto dare un opportunità anche a quel vassoio. Appena finito, si accinse a mangiare il cibo del terzo vassoio. E disse tra sé e sé: - Questo fa proprio al caso mio, tiepido e gustoso, non troppo caldo da scottarsi né troppo freddo. Così divorò tutto quello che c’era sulla tavolata. Poi sazia e stanca per la velocità con cui aveva letteralmente divorato il cibo a disposizione si passò la manica del vestito in bocca un pò frettolosamente e si alzò. Mentre barcollava con gli occhi semichiusi nel lungo corridoio in cerca di un posto in cui riposare, i suoi ciccioli si muovevano così tanto che sembravano andare al ritmo del suo passo. Camminava pensando a quanti soldi avrebbe guadagnato vendendo quella casa, con cui avrebbe comprato altro cibo. Alla fine del corridoio, vide una camera da letto con tre letti: uno grande, uno medio e uno piccolo con dei bei piumoni di colore rosso e arancione che davano una senzazione di tepore solo a guardarli. Quella camera era la più bella fra tutte quelle che aveva intravisto:tutta rifinita in legno, a destra si trovava un bel camino che riscaldava tutta la stanza, più vicino c’era un enorme scaffale pieno di

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barattoli di miele, infine verso sinistra si poteva notare un gigantesco armadio pieno di vestiti ma anche di coltelli e altri oggetti per scuoiare. Nonostante questo, Ciccioli d’oro, non ebbe nessuna paura e risoluta decise di appisolarsi nel letto più piccolo. Questo scricchiolo finchè si ruppe sotto il suo peso. Poi provò in quello medio , ma anche quello non riuscì a sostenerla e si spezzò in due. Invece quello più grande riuscì a reggerla e così finalmente si potè addormentare. Mentre dormiva, avrebbe sognato i suoi progetti futuri! Appena gli orsi entrarono videro che tutta la cucina era sottosopra, ma la cosa che li faceva arrabbiare moltissimo era il fatto che non c’era il loro agognato pranzetto. Papà orso stranizzato, con il suo vocione, si domandò quale animale carnivoro avrebbe potuto mangiare tutti quegli enormi piatti. Ma rassegnato a non avere nessuna risposta, lamentandosi e sbuffando, cominciò a pulire e a rassettare, fino a quando il piccolo orso con la sua vocetta esclamò: - E se l’animale fosse ancora qui ? Sarebbe più prudente controllare tutte le stanze, no ? Il padre senza pensarci due volte col suo vocione rispose: - Sì, hai ragione! Poi la mamma con la sua voce media continuò: - Sì, hai ragione. Così i tre orsi perquisirono tutta la casa, controllarono nel bagno, in soggiorno, in giardino in lavanderia e perfino in soffitta. Quando finalmente entrarono in camera da letto, videro il letto più piccolo sbriciolato e l’orsetto disse con la sua vocetta: - Chi ha distrutto il mio lettino? Poi la mamma vedendo il suo letto spezzato a metà, con la sua voce media gridò: - Quale perfido animale ha spezzato il mio letto in due? Papà orso notò un’enorme collina sotto la coperta del suo letto che produceva un rumore cupo e intermittente, una specie di russa-

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mento. Si avvicinarono con cautela e arrivati ai piedi del letto videro più chiaramente una bambina. I tre si aspettavano di trovare un animale feroce piuttosto che una bimba e allora il piccolo, rompendo il momentaneo silenzio con la sua vocetta chiese in modo deciso: - Che cosa ne facciamo di questa piccola ladra di cibo?! La mamma, leccadosi i baffi, con voce media, fece una proposta che tutti accettarono. Dopo tutto ciò che aveva fatto, gli orsi arrabbiati decisero che quella sera, avrebbero cenato con Ciccioli d’Oro. Perciò mentre che lei ancora dormiva, papà orso provò in tutti i modi a farla entrare nel forno, ma visto che era molto cicciottella, ci volle l’aiuto del figlio per farla entrare. Con i due orsi entrambi all’opera, la ragazzina vanitosa e sovrappeso venne messa a cuocere. Visto che era molto grassa, dovevano aggiungere continuamente legna al fuoco. La madre, per rendere il tutto molto più buono e saporito, aggiunse: patate, cipolle, olio, sale, origano, carote e qualche altro tipo di spezie. La famiglia era impaziente di mangiare quella squisitezza, ma sapendo che sarebbe stato addirittura troppo per tutti e tre, decisero di chiamare i rinforzi (i loro zii, cugini e nipoti). Quindi organizzarono una specie di grande cenone di famiglia. Man mano che i parenti arrivavano, erano felici e contenti, di quell’invito inprovviso. Quando tutto sembrava andare per il meglio, ad un certo punto il forno crollò per la pesantezza del carico. I familiari non volevano rinunciare a quella prelibatezza, e pensarono di far continuare la cottura nel camino, dove più o meno la temperatura era simile a quella del forno, anzi addirittura meglio. Nel frattempo mamma orso iniziò ad apparecchiare, e il profumino si faceva sempre più invitante. Alla fine quando fu tutto pronto, molti aiutarono a fare uscire l’arrosto dal camino , poichè non vedevano l’ora di mangiarlo, quando finalmente fu tutto nel tavolo, papà orso con il vocione disse: “Buon appetito a tutti!”, mamma orsa con la voce media disse: “Brindiamo

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alla nostra famiglia”, il figlio orso con la vocetta disse: “E soprattutto un grazie speciale a Ciccioli d’Oro per averci donato questo grande arrosto!”... tutti fecero le porzioni, e mangiarono felici e contenti.

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Sofia Balsamo - Eugenia Gambino - Emma Lo Stimolo - Rula Norzi

Biancaneve tecno e i sette prof. nani

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Biancaneve aveva una mamma e un papà fantastici, di nome Anna e Andrea. Erano simpatici, divertenti e trascorrevano molto tempo insieme a lei. Aveva una bellissima casa e la sua stanza era la più grande di tutte. Al suo interno c’era un bel letto a baldacchino che divideva con suo fratello e tantissimi giocattoli. Tra questi il suo preferito era una casa delle bambole, fatta interamente di legno. Ogni domenica mattina la sua mamma e il suo papà si mettevano a giocare insieme a Biancaneve con la casa delle bambole. Si divertivano tutti moltissimo e, se fosse stato per lei, sarebbe rimasta per ore e ore a passare il tempo così; era decisamente il gioco che le piaceva di più perché mamma e papà non le facevano fare le solite cose, ma intraprendevano avventure mai viste e tesori nascosti. Insomma, era proprio uno spasso inventare delle storie fantastiche con loro! La sua migliore amica si chiamava Sabrina e passavano molto tempo insieme. Biancaneve aveva anche un migliore amico, di nome Marco. Ogni giorno, dopo la scuola, si vedevano e facevano i compiti insieme. Dopo aver finito di studiare, andavano felicemente tutti e tre al parco. Biancaneve ogni anno trascorreva le feste a casa dei nonni paterni. Questi avevano un grande giardino dove c’era una bellissima altalena e Biancaneve passa molto tempo a dondolarsi su e giù, e una stanza enorme piena di giochi che i nonni le avevano fatto costruito

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apposta per lei e in alcuni pomeriggi invitava Sabrina e Marco. I giochi che facevano insieme erano: acchiapparello, nascondino, un due tre stella, strega mangia colore e infine palla avvelenata. Biancaneve faceva danza classica e moderna da quattro anni e le piaceva molto, ci andava ogni lunedì e venerdì. Lì aveva un’altra migliore amica di nome Clara però che però frequentava solo a danza. Amava gli animali e aveva a casa un cane di nome Lea, un gatto di nome Lemon e un pesce rosso di nome Lulù. Cane e gatto non litigavano mai, perché erano cresciuti insieme. II suo compleanno era il 25 Dicembre quindi Biancaneve quel giorno aveva il doppio dei regali. Ogni anno lei e la sua famiglia andavano a fare la settimana bianca in Svizzera dove avevano anche una casa ereditata dai nonni. Sia lei che il resto della famiglia sapeva sciare molto bene e sfrecciavano tutti come matti sulle piste. Inoltre, ormai era una tradizione che il giorno dopo essere arrivati bisognava fare un enorme pupazzo di neve, tutti insieme, per festeggiare l’arrivo. Lì i loro vicini di casa erano italiani e anche lì si era fatta un’amica di nome Sara. Insomma Biancaneve aveva avuto un’infanzia gioiosa, senza preoccupazioni né grandi dispiaceri. Ma nell’ultimo periodo i genitori si accorsero che la bambina, ormai quasi ragazza, era cambiata. Si comportava in modo strano, stava frequentando i ragazzi sbagliati. I genitori disperati non riuscivano a rassegnarsi, ma soprattutto non riuscivano a darsene una spiegazione. Quando Biancaneve tornava a casa si attaccava al telefono o all’iPod, metteva la musica a tutto volume e ascoltava le sue canzoni preferite con le cuffie o con le casse. E spesso ballava o faceva fitness per tenersi in forma e sudava come un orco tipo Shrek. Una volta cadde all’indietro e si spaventò da morire allora disse: - Questa è l’ultima volta che faccio la pazza. Ma ovviamente il giorno dopo era di nuovo lì a saltare e a fare la sconnessa. I vicini si lamentavano spesso per il rumore, ma lei non li

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considerava neanche. Non sistemava mai casa, specialmente la sua camera che era un caos tremendo. Ogni cosa che cadeva per terra rimaneva lì e poteva fare la muffa, non la prendeva per nessun motivo al mondo. Aveva dipinto la sua stanza tutta di nero: le pareti, il tetto, il pavimento, il letto, il comodino, l’armadio. Le uniche cose che si erano “salvate” erano il lampadario, quello rosa che le aveva regalato suo padre quand’era piccola e non lo avrebbe cambiato per nessun motivo, la mensola verde con tutti i libri di Roald Dahl che aveva letto dai nove ai dieci anni e la cornice gialla piena di stickers con dentro una strana foto messa al contrario (nessuno poteva girarla e scoprire il mistero). Era sgarbata e rispondeva male e con mugugni a tutti, in particolare agli sconosciuti. Quando parlava appiccicava le parole e non faceva capire niente di quello che diceva. Per giunta non si sforzava neppure di ripetere o pronunciare meglio le sue frasi, che erano piene di “cioè, figata, praticamente”. Vestiva malissimo, usava abiti lunghi e sempre dello stesso colore: nero, bianco e grigio. Tante volte puzzavano perché li cambiava per giorni, e in realtà anche lei non si lavava mai. Allora ne approfittava: si avvicinava alla gente antipatica che a sentire quella terribile puzza, come di testa di pesce marcio, correva via verso l’infinito e oltre! A scuola poi era un disastro. Andava male, prendeva voti bassissimi: due, tre, quattro. Arrivava in classe sempre in ritardo, quando cioè le lezioni erano già iniziate, e a volte a scuola non ci andava proprio, perché non ne aveva voglia. I professori la rimproveravano ma a lei non importava, anzi li sfidava e così si sentiva figa con i compagni, che le dicevano: - Sei troppo wow! La sua compagnia preferita era quella del telefono, quasi il suo amico del cuore, l’unica cosa che non disprezzava mai, come se fosse l’unica rimasta al mondo. Un giorno in cui i genitori di Biancaneve erano particolarmente

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stressati, lei decise che quella era la mattina perfetta per non andare a scuola e restare a letto tutto il tempo; detto ciò una volta fatte le sei e quarantacinque lasciò la sveglia suonare e tornò a dormire. Sua madre non vedendola scendere per fare colazione si allarmò e decise di andare a vedere che fine aveva fatto, la vide sdraiata con la sveglia che suonava e pensò che magari stava facendo un bel sogno e non la aveva sentita, allora la svegliò e convinta che si stesse alzando se ne andò. Dopo dieci minuti tornò camera di Biacaneve e la vide di nuovo sotto le coperte, a quel punto non ci vide più dagli occhi e iniziò ad urlare, dicendo che lei si svegliava ogni giorno alle sei, preparava la colazione per tutti, si vestiva, truccava, mangiava, si lavava i denti e controllava tutte le e-mail, mentre la figlia a stento apriva gli occhi e per farla alzare ci voleva un miracolo. Detto ciò chiamò suo marito che le fece l’ennesima sgridata, e questa volta Biancaneve non ebbe più nulla da ridire, anche se promise che si sarebbe vendicata, a cominciare dai dieci minuti spesi davanti al guardaroba ed il ritardo a scuola. Una volta accompagnata, i suoi genitori iniziarono a discutere di questa faccenda, dal fatto che le stesse cose si ripetevano ogni giorno, o che loro erano esauriti per colpa sua. Dopo circa una settimana trovarono ciò che faceva per loro: sette insegnanti privati per correggere ognuno dei suoi sette difetti principali, a buon prezzo e con molta esperienza, che gli promisero grandi cose per Biancaneve. Erano molto bassi e avevano nomi davvero strani: Dottore aveva i capelli bianchi, era robusto, aveva occhialetti sul naso e insegnava grammatica, Ellisse era magro, avava dei capelli biondi ricci come delle molle e insegnava matematica, Brontosauro era molto vecchio, con una lunga barba e un modo di vestire davvero particolare, insegnava storia, Mammifero invece aveva i capelli corti e castani, enormi occhiali neri e uno strano accento, insegnava scienze, Dondolobis aveva i capelli neri e una voce stridula, insegnava lingue, Cucciolando era solare, avava una voce malodiosa e capelli castani, e la pazienza era la sua specialità, insegnava musica, Pisolato aveva i capelli grigi e

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gli occhi azzurro cielo, un po’ suscettibile, insegnava arte. Gli incontri pomeridiani con Biancaneve duravano sette ore alla settimana, in cui le insegnavano il galateo e moltissime regole oltre che le normali materie scolastiche. Questi incontri si tenevano in un piccolo palazzetto alto quanto una casa a due piani, con un solo citofono e la porta molto bassa, che a Biancaneve dava molto fastidio, dato che doveva sempre abbassarsi per entrare e uscire, quindi arrivava sempre super nervosa e arrabbiata. I nani erano severissimi, quando la ragazza faceva la capricciosa o l’annoiata, gentili e gioiosi, quando si comportava bene. Sapendo che la ragazza era molto particolare, avevano un metodo molto per insegnarle senza farla annoiare: si iniziava con poche regole semplici, dette in modo da renderle più accettabili e divertenti per lei, poi pian piano sempre più dure e numerose, ma sempre senza esagerare. Biancaneve nei primi mesi era molto ostile, spesso urlava e si arrabbiava, e veniva spesso punita per questo, soprattutto da Dottore e Pisolato, che erano i più autoritari; i genitori di Biancaneve speravano che i nani le facessero cambiare idea riguardo a tutto, stimolando ogni giorno di più il suo cambiamento, finché dopo un po’ lei capì definitivamente che non c’era niente di difficile o noioso nel seguire le regole, ma che invece erano un buon modo per vivere insieme senza problemi. I genitori e i nani ovviamente furono molto contenti di questo e ogni tanto facevano qualche giorno di pausa, nel quale invece di andare alle lezioni, di pomeriggio andavano a fare una passeggiata o a prendere un gelato tutti insieme, con molti risultati positivi, fino a quando Biancaneve non ebbe più bisogno di lezioni, evdiventò un modello di ragazza, perfettamente educata in tutto e senza più tutti i problemi che aveva prima. Finalmente, quelle lezioni terminarono, perché l’alunna sembrava aver recepito gli insegnamenti. E, infatti, quando, la madre chiese alla figlia come fosse andato

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il compito di matematica, lei poté rispondere: - Bene, mamma, molto bene. Così la madre le fece il bel regalo che le aveva promesso, che era essenziale per la figlia e le era stato sequestrato dai genitori proprio per i brutti voti. Ma ora tutto era diverso: Biancaneve era di nuovo la loro figlioletta ordinata e diligente negli studi. Senza preoccupazioni, quindi, le diede uno smartphone e un computer, quelli con una mela luccicante sopra. Biancaneve quasi non le rispose, afferrò bramosa quegli oggetti dirigendosi come un automa nella propria camera. Da quel momento incominciò a navigare su internet, a postare foto su facebook, instagram e fece sapere a tutti i suoi amici che riaveva di nuovo il suo caro e vecchio telefono. Mandava foto in continuazione senza mai fermarsi e quando sua mamma la chiamava per andare mangiare oppure a scuola lei non si muoveva. Trascorsero settimane e settimane dedicandosi solo all’elettronica, senza lavarsi e studiare. Arrivarono le pagelle, alla cui vista, essendo veramente penose, la madre svenne. Tutta colpa della mela!

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Antonio Caruso - Vittorio Ritrovato - Federico Zerbo

Il cane con gli stivali

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C’era una volta la città di Macelleria, circondata da possenti mura. Era molto grande, aveva l’allevamento molto sviluppato, i palazzi alti tre o quattro piani, nella piazza centrale vi era una scultura di un bue squartato, simbolo di Macelleria. La maggior parte della popolazione era povera e svolgeva lavori umili. Oltre ai parecchi macellai c’era un solo panettiere che soddisfava il fabbisogno di tutta la città. Il panettiere, una mattina, mentre preparava il pane, sentì una fitta al petto, si accasciò e chiamò aiuto. Il figlio minore corse a soccorrerlo, lo prese fra le braccia e poté udire le sue ultime parole. Tra una lacrima ed un singhiozzo il padre gli confidò di aver scritto un testamento, chiuso dentro una busta dietro il quadro appeso sopra il camino. Morì, tutto il paese partecipò al suo funerale, ma dal giorno dopo si riprese la vita di tutti i giorni tranne che per i tre eredi. Il grande ricevette la panetteria, il medio il carretto, il piccolo il cane. E ognuno andò per la sua strada. Ma, quando si trovò solo con un cane, il minore di solito chiacchierone, simpatico ed estroverso, si disperò e disse: - Mio padre raccontava che quel chihuahua misto bassotto e gli occhi a palla, le orecchie penzolanti era molto furbo. Ma lui si sentiva solo, arrabbiato per quel regalo inutile. Così lo prese e lo buttò fuori di casa, ma subito dopo, senza accorgersene, se lo ritrovò sdraiato sul divano. Lo ributtò fuori e nuovamente lo ritrovò davanti al camino scodinzolante. Probabilmente, pensò, era vero quello che si diceva sulla sua furbizia. Quindi decise di tenerlo. Chissà che

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un giorno potesse servire a qualcosa. Proprio mentre pensava a ciò, il cane aprì la bocca e con suo grande stupore cominciò a parlare: - Portami un cappello ed un paio di stivali e ti renderò ricco. Il ragazzo eseguì la strana richiesta. Il cane li indossò e si recò alla macelleria “da Orco”. Al contrario della macelleria “reale” era poco raffinata, anzi era una vera topaia: l’interno puzzava di carne putrida, c’erano piccole gabbie di conigli e polli, dove Orco, il macellaio, prendeva gli animali da macellare, visto che allevava e uccideva gli animali nello stesso grande stanzone. Proprio lì il cane incontrò il proprietario in persona che, come la macelleria, non brillava certo per l’igiene personale. Era molto brutto, aveva un grosso naso a patata, delle enormi sopracciglia pelose, due folte basette ai lati del volto ed era completamente pelato. Aveva, inoltre, uno strano sguardo che gli conferiva un’aria malvagia, e portava un grosso grembiule tutto insanguinato. Era anche irascibile, a giudicare da come aveva trattato una cliente, che aveva chiesto uno sconto. - Potrei avere uno sconto? - aveva chiesto la signora. - Uno sconto? - aveva detto Orco e iniziato a sbraitare per poi sbattere i pugni sul tavolo con una tale foga da riuscire a spaccarlo, nonostante fosse di pietra. La cliente si era spaventata così tanto da scappare via, urlando impaurita e lasciando la merce su ciò che rimaneva del bancone. Il cane, comunque, fece amicizia con lui, grazie anche al fatto che era così ridicolo con quei vestiti da uomo. Orco rimase ancora più sbalordito dal fatto che il cane riusciva persino a parlare. Poi conversando Orco disse al cane: - Sai, amico, voglio confidarti un segreto. Il cane gli rispose: - Sono tutt’orecchi. E Orco continuò: - Sai perché sono così grande, grosso e forte? Il cane fece cenno di no. Allora Orco rispose alla propria domanda: - Io sono così per-

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ché... possiedo una gallina magica che incredibilmente depone uova magiche che, se mangiate, fortificano e rendono più imponenti. L’ho scoperto per caso tempo fa. E indicò una gabbietta tutta rivestita d’oro, chiusa con un lucchetto. Sulla sommità era fissata una targhetta con su scritto in stampatello maiuscolo: MARCELLINA. Era il nome della gallina! Improvvisamente balenò un’idea nella mente del cane. Fece ubriacare Orco, che si addormentò. Rubò la chiave, aprì la gabbietta e una volta che ebbe stordito il pollo con un colpo di osso rosicchiato, lo portò in una rosticceria dove venne cucinato e venne mangiato dal cane, spezzando l’incantesimo e facendo trasformare il grosso e forzuto Orco in un mollaccione senza muscoli. Poi diede la notizia al “Re”, il macellaio concorrente. - Ho risolto il problema della concorrenza: il grosso e forzuto Orco ora non ha nemmeno la forza di prendere un coltello in mano. Il Re in un primo momento fu sbalordito dal sentir parlare il cane, ma poi gli chiese: - Come ci sei riuscito? - È una lunga storia di polli e uova magiche... - rispose evasivo il cane. - Polli e uova magiche? - rimuginò tra sé e sé - Ma quello che conta è il risultato. - pensò poi. Poco dopo passò a salutare il Re e sua figlia ed il Re ne approfittò per presentarle il cane con gli stivali. Appena lei se ne fu andata l’animale gli pose una domanda: Non è che tua figlia cerca marito? Perché anche il mio padrone cerca moglie. E descrisse il suo padrone come un uomo bello e pieno di virtù, e che sarebbe stato un “buon partito” per sua figlia. Il Re disse: - Ci penserò... - e i due si congedarono. Visto che il “Re” dei macellai sarebbe passato presso dove viveva il giovane, il cane con gli stivali disse a quest’ultimo: - Spogliati e inizia ad urlare aiuto. Devi fare finta di essere stato derubato dai ladri e

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così il “re” non vedrà che sei povero, ti darà dei vestiti, ti farà sposare sua figlia e diventerai ricco! Il ragazzo, allora, entrò in acqua completamente nudo, però non si accorse che lì vicino c’era un cartello di pericolo che diceva: - Non immergetevi. Correnti pericolose. Non appena si immerse nel fiume, il figlio del panettiere cominciò ad essere trascinato dalle acque vorticose. Il cane, allora, disse: - Bravo bravo padrone, sei un bravo attore. - non sapendo cosa stesse succedendo nella realtà. Prima che il macellaio passasse di lì e potesse sentirlo urlare, il giovane era già stato sommerso senza speranza di salvezza. Il cane con gli stivali, che era pur sempre un tipetto avveduto e pragmatico, si disse: - Beh, tanto peggio per lui! Facendo spallucce, salì sulla carrozza del macellaio. Da quel giorno trascorse il suo tempo tra salsicce e cotechini, scambiando i suoi stivali per delle ben più comode babbucce.

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Rido alla Rabelais, Benni, Calvino e... Elizabeth Bennet

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III L - Rido alla Rabelais, Benni, Calvino e... Elizabeth Bennet


Monica Milanese - Piergiorgio Scavo Giuliana Scuderi

Le pillole di Santo Maddio

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Il signor Santo Maddio si risvegliò dal suo sonno e urlò: - Dove sono le mie pastiglie? Si guardò intorno e si ricordò che erano al solito posto, quindi con tutta la forza che aveva in corpo iniziò a rotolare nel suo letto matrimoniale fino ad arrivare vicino al comodino. Le due pilloline, quella rossa per svegliare le braccia ancora addormentate e quella blu per mettere in funzione il cervello, erano posizionate proprio sul bordo del mobile, così che lui, aprendo la bocca e lasciando cadere la testa esattamente sul punto prestabilito, potesse assumerle senza troppi giri della morte, di prima mattina. Ormai era allenato. Se sbagliava di qualche centimetro il bersaglio, rischiava di procurarsi un enorme bernoccolo sbattendo contro lo spigolo. Infine prese una terza pillola che stimolava le gambe. Si alzò in piedi e si sgranchì: una nuova giornata stava per cominciare! Santo era andato in pensione ormai da dieci anni dalla sua bellissima farmacia. Come la maggior parte dei vecchietti amava fare passeggiate al parco e chiacchierare con la vicina, però era molto spilorcio. Portava degli occhiali spessi come fondi di bottiglia che rimpicciolivano i suoi occhi marroni. Il suo cranio irregolare era bardato da radi capelli grigi che formavano una “fascia” che andava dalle orecchie alla nuca. I baffi, sottili e ben disegnati, che non tagliava mai erano un omaggio e ricordo della moglie - le piacevano tanto – passata a miglior vita due anni prima. Una rapida occhiata allo specchio del

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comò gli restituì l’immagine di un uomo anziano con molte rughe, piegato per via degli acciacchi e con il bastone in mano. Ma lui non si arrendeva, nossignore, al passare del tempo, voleva sempre essere in forma e avere vitalità in tutto quello che faceva. Proprio per questo assumeva i più svariati prodotti tra sciroppi, concentrati vitaminici, integratori, pillole e chi più ne ha, più ne metta. Abitava in una grande villa singola, con un solo piano, piena di cianfrusaglie, dai souvenir del viaggio in Sicilia ad una collezione di temperamatite esposta in salotto. La casa però, all’esterno appariva molto vecchia, con il tetto rosso cigolante, la porta marrone consumata e la staccionata bianca rovinata. Possedeva anche una Fiat 500 vecchio tipo. Viveva in un piccolo e tranquillo paesino con circa una centinaia di abitanti, San Scemo sulla costa ligure. Situato su di una grande collina isolata questo paese era così piccolo che in pochi chilometri quadrati era concentrato quasi tutto il centro storico e la periferia. Il parco Malanno, l’unica area verde presente in quella zona, era il punto di ritrovo degli abitanti, che avevano quasi tutti superato la settantina. Accanto al parco c’erano il supermercato e la posta dove il signor Maddio era solito andare. Santo, che si era appena alzato, andò davanti la dispensa e la aprì. Tutti i medicinali infilati uno sull’altro stavano quasi per cadergli addosso, ma la sua precisione nell’incastrarli perfettamente lo salvò. Prese lo sciroppo Fast-break-fast che lo aiutava a fare colazione. Questo medicinale gli dava la forza di un lottatore, l’agilità di un acrobata e la precisione di un uccello che fa i suoi bisogni sulle macchine appena lavate. Da quando aveva iniziato a farne uso, non frequentava più il corso di taekwondo insieme alla vicina di casa. Diede un pugno allo sportello della dispensa che si aprì, poi un calcio al cartone di latte e con una tale perfezione esattamente 10 dl di latte e giusto cinque gocce di caffè caddero dentro la ciotola. Con un balzo si arrampicò sulla credenza, prese il pacco di biscotti e lo lanciò sul tavolo, facendolo cadere all’impiedi. Fece colazione. Poi assunse

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la pastiglia per lavarsi i denti, in un attimo prese in mano il dentifricio e lo spazzolino e i denti furono puliti in venti secondi. Uffa, due in più dell’ultima volta! Assunta la pillola della vestizione sferrò un calcio all’anta dell’armadio, con una mossa lesta prese la giacca, la camicia, i pantaloni e si vestì. In meno di mezzo minuto era pronto per uscire! Poi prendeva la pillola per andare verso l’auto, una vecchia Fiat 500 molto graffiata. Prese la pillola dei riflessi e pe guidare andò alla posta. Dopo esser sceso, molto ma molto lentamente dall’auto, prendeva un’altra pastiglia. A cosa serviva? Be’, appena entrato, il povero vecchietto dovette togliersi tutti gli abiti, e ci voleva tanta forza per uno della sua età: prima il cappello, poi la sciarpa, poi i guanti, il giubbotto fino a rimanere con una magliettina a maniche corte con su scritto ”che caldo che fa”. Ebbene sì, la posta era stata ribattezzata “forno crematorio” mettendo in atto la soluzione finale di vecchi, bambini e malati. E, a proposito dei primi, doveva essere un’astuta manovra in tandem con l’INPS. Comunque appena qualcuno entrava, cominciava a spogliarsi e a mettere la roba negli appositi “barili”. Ma il vecchietto era altrettanto furbo. Dopo quarantatre tentati furti e furti di giacche, cappotti, cappelli e sciarpe solo lui, Santo Maddio riuscì ( dopo aver preso la pillola della logica) a capire che era meglio non mettere la roba nei barili in comune con tutto il paese. Proprio per questo metteva tutto dentro un enorme borsone rosso acceso che doveva pesare una tonnellata. Avrà preso la pillola della forza? Dopo aver discusso per un lungo tempo delle sue avventure da militare con il ragazzo della posta, molto alto e gentile, decise finalmente di cedere alle urla e lamenti delle persone in filo dopo di lui. Quindi, prese altre due pillole per rivestirsi e una per recarsi all’auto. Poco prima di aprire la portiera, un bambino lo pregò di allacciargli la scarpa, ma proprio quando Santo Maddio gli si avvicinò, dal nulla sbucò una ragazza alta magra e riccia. A colpi di taekwondo questa fece scappare il bambino in lacrime, per poi sparire… Voleva forse proteggerlo? Santo era un po’ sbalordito, ma entrò comunque in macchina. Prese di nuovo la pillola per la guida e si avviò verso il supermerca-

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to. Cercando parcheggio vicino a questo, vide la simpatica vecchietta della casa di fronte, Mariella. Aveva dei bellissimi capelli biondi (tinti ovviamente) e un vestitino con i gattini. Decise di prendere un’ altra pillola, ehm, no, era una mentina. Finalmente trovò parcheggio e scese dall’auto solo dopo l’ingresso di Mariella al supermercato. Prese una pillola per i muscoli facciali e cercò di sorridere. Dalle espressioni sconvolte della gente incrociata avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava per il verso giusto. Ma lui non ci fece caso. - Mariella! - disse con un tono che doveva sembrare normale Buon pomeriggio, tutto bene? - Oh salve… ma io non sono Mariella, e non ne conosco nessuna! - Che stupido! - pensò - Come ho fatto a dimenticarmi lo sciroppo contro l’amnesia? – per poi riprendersi - Scusi, l’avevo scambiata per qualcun’altra, arrivederci. Appena la sconosciuta/Mariella se ne andò, lui cominciò a prendere tantissime pillole contro l’ansia e la vergogna che lo stava divorando. Quando si fu calmato, comprò quello che gli serviva (si ricordò tutto grazie ad una lista) e, posate le buste in auto (altre tre pillole) andò al parco (due pillole) a guardare i cani correre e giocare. Si stava facendo tardi, prese la pillola per alzarsi dalla panchina e una per recarsi all’auto, prese un’altra volta la pillola per la guida e tornò a casa. Lì non gli restò che inghiottire la pillola per posare la spesa, quella per levare le scarpe e mettere le pantofole, per bere l’acqua, per guardare la tv fino a sera, quanda andava a dormire e prendeva una pillola per aiutare le palpebre a chiudersi. La ragione, però, per cui assumeva tutti questi farmaci era che se non li prendeva si sentiva un ottantenne, ciò che era in effetti. Più di una volta, provò a smettere, ma tutte le volte già alle 7.10, ovvero dieci minuti dal risveglio si sentiva un po’ acciaccato, alle 7.12 chiudeva gli occhi ogni secondo, alle 7.14 barcollava, all 7.16 strisciava perché non si reggeva in piedi e doveva per forza stare sdraiato e, già alle 7.18 si addormentava ancora prima di fare colazione. Quindi, ormai era praticamente dipendente dai farmaci. Neanche l’ex collega, che lavorava ancora in farmacia, si azzardava a dargli consigli per la sua

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salute, perché ogni volta che qualcuno lo rimproverava, lui si inacidiva e diventava scorbutico. Il 18 gennaio 2012 la sua vicina, Amma Mosi, una ragazza di trentasette anni nigeriana, alta, magra, riccia, sempre truccata, che ogni pomeriggio alle 18:39 aiutava il signor Santo a prendere le pillole per la doccia, bussò come al solito. Tre volte e mezzo, perchè la quarta era più leggera. Ma nessuno le aprì. Effettivamente era stancante aiutare un anziano signore ogni giorno 7 giorni a settimana, 30 volte al mese, 360 all’anno... Infatti le malelingue dicevano che ci andava ogni giorno perché il signor Santo la pagasse molto, o che ne pagasse ancora di più per qualche altro tipo di servizio, data la sua avvenenza. Ma c’era anche chi diceva che la paga sa ancora di più per altre doti, come il titolo di campionessa di taekwondo, sezione piuma, in modo che l’avrebbe sempre difeso. Infatti con la sua forza sfondò la porta con un calcio secco, entrò in casa e lo trovò disteso per terra nel soggiorno. A quel punto urlò non sentendo più il battito e i vicini arrivarono per pregare per la sua morte. Adagiarono il corpo sopra il letto. Abbassarono le serrande, accesero candele profumate e portarono molti fiori. Dopo qualche ora, però, mentre Amma stava chiamando le pompe funebri, il signor Maddio si mosse e, chi di gioia, chi di paura, tutti urlarono e piansero. Addirittura la signora Carla Carli gridò: - Un miracolo di Natale! E il signor Mauro Di Mauro rispose: - Ma non è Natale! E ancora Nella Nebbia affermò: - Infatti, è Pasqua! E Salsa Rosa disse: - Ma che dici, non è Pasqua! È San Valentino! E Maria Fortuna Incostante aggiunse: - Senti questa. Oggi non è San Valentino, è Santa Margherita d’Ungheria. È un giorno fortunato per gemelli, cancro, leone e pesci. Per toro e bilancia è proprio un giorno buio! A quel punto Amma affermò: - Ma il signor Santo è gemelli! - e scoppiò in lacrime di felicità. Poi il signor Santo affermò: - Non preoccupatevi, per sbaglio ho preso le pillole del sonno, sto bene, non sono morto! E così si levò un sospiro unanime, ma appena finì di parlare, ri-

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crollò di botto in un sonno abbastanza profondo. Allora tutti, orripilati da questa seconda e forse definitiva morte scapparono via, lasciandolo dormire tranquillamente. Ma sull’uscio della porta Maria Fortuna Incostante disse: - Scusate, mi ero confuse con le previsioni di ieri. Oggi è previsto che gemelli avrà un incidente! Il signor Santo Maddio si risvegliò dal suo sonno e urlò: - Dove sono le mie pastiglie? Si guardò intorno e si ricordò che erano al solito posto. Si alzò in piedi e si sgranchì: una nuova giornata stava per cominciare...

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Giuliano Puleo - Lorenzo Reganati - Davide Ruta

Carotrump Donald Trump’s Story

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Nella fabbrica situata nei sotterranei della Tordonalda era già partito l’ultimatum. L’originale robottino richiesto da Trump era pronto. Adesso non restava altro che presentare ai cittadini americani quella che di lì a poco sarebbe diventata la loro nuova mascotte. Fu scelta una piazza per l’occasione, la Trump Square. Proprio nel mezzo era da poco stata creata una statua che lo dipingeva come un lottatore di pugilato, con i guantoni, in pantaloncini e braccia che alzavano una di quelle cinture che si vincono alle competizioni. Trump e l’inventore della creatura che erano là a presentare salirono sul palco. Lo scienziato si avvicinò al microfono per ringraziare la sua ospitata a “Uomini donne e…” però non fece in tempo a finire che Trump lo interruppe: - Chi disse donna disse danno, vuoi per caso danneggiare la mia povera creatura? Sono OBESO di lavoro e tu la vuoi danneggiare? Come osi dire danno in mia presenza? SCENDI SUBITO DA QUI! - e il pover uomo obbedì. - Ottimo in un attimo. - commentò Trump. Aveva già molta confusione in testa e la presentazione lo confondeva molto. - Dopo tanto lavoro, dopo diversi problemi, via vai e molto altro … sono qui per presentarvi l’esclusiva mascotte degli USA, a mia immagine e somiglianza: Carotrump! Elencò le sue caratteristiche tecniche, ci mise circa venti minuti, ma era noiosissimo. La parte migliore venne invece quando passò alla visione della mascotte. Il creatore della creatura era tornato, ma sta-

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volta non aveva intenzione di dire la parola donna. - Senza ulteriori indugi, vi presento Carotrump, la carota migliore che c’è. – disse felicemente. La carota era sopra una panchina nascosta da un sipario improvvisato, naturalmente la battuta di Trump non impiegò molto ad arrivare: - Sopra la panca CaroTrump campa, ma sotto la panca Carotrump non crepa, ahahaha l’avete capita? Dopo ci fu il silenzio più totale. Sopra questa panchina c’era una carota di un colorito un po’ sbiadito, al posto della classica erbetta che ha una carotina, lei presentava un parrucchino biondo, una faccia coi lineamenti di Donald, degli arti, come i nostri, solamente molto più forti e veloci. Il creatore della creatura aggiunse inoltre che essa adorava distruggere frutta e odiava i Clintoniani. Essendo una carota in primis doveva essere un cibo nutriente, nessun problema! Carotrump sfornava delle carote totalmente normali, e anche gratuite! Fu annunciata inoltre una serie che avrebbe visto questa mascotte come protagonista, ma non fu detto altro. Tutti applaudirono. Alla fine della presentazione Trump decise di dare un ultimo insegnamento al proprio popolo: - Ricordate, amici, porta aperta per chi porta e chi non porta parta. Il presidente andò via sommerso dalle grida e dagli applausi. Subito dopo essere stato eletto, Trump aveva cambiato molte cose negli USA. Sin da principio stravolse ogni mezzocomunicativomassointermassonico ampliando la sua propaganda alla reteinternazionalsocietativaconnessa e alla tivùstatunitensemondialpriva in modo talmente violento che fece pensare al fascismo poiché nelle strade giravano squadracce popolarnazionalistifensive che passando una volta al giorno per ogni casa controllavano tutto ciò che gli americani cercavano sulla reteinternazionalsocietativaconnessa e guardavano alla tivùstatunitensemondialpriva. Ovviamente per fare tutto ciò ci volle del tempo e quando le leggi furono definitivamente approvate il presidente indisse una conferenza

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stampa per comunicare ad ogni americano le importantissime novità. Essendo quello per Trump un giorno molto rilevante, decise di vestirsi adeguatamente. Doveva indossare abiti nuovi, così comprò un completo... identico a quello di prima, che ormai indossava da decenni e che lui chiamava Trumposmokingdamiglioruomo e che era composto da: la solita giacca blu, la solita cravatta rossa, i soliti pantaloni blu ed il solito parrucchino biondo! Davanti a migliaia di persone Donald Trump iniziò a parlare atteggiandosi come un re: - Mio popolo, vi ho convocati qui senza arte né parte affinché tutti voi dopo oggi siate a conoscenza delle leggi che sarete obbligati a considerare comandamenti di D.I.O. che per voi significa Donald Indiscusso Onnipotente. Innanzi tutto ogni singolo socialamicoziosicoinfantiedadultidestinati dovrà contenere almeno una parte del nome del sottoscritto, per i più importanti è stato scelto da noi (ovvero me), Facebook dovrà chiamarsi Donaldbook, Instagram sarà Trumpygram, Snapchat invece Trumpchat eWhatsapp prenderà il nome di Donaldsapp inoltre se un utente dovesse pubblicare almeno una mia foto al giorno l’assistenza sarà obbligata ad aumentare di 10 il numero di seguaci al contrario chi oserà pubblicare foto offensive sul mio conto sarà bloccato per sempre. - si fermò qualche secondo perché impegnato a guardare il fondoschiena di una giornalista, poi disse tra sé e sé - Basta. Ricorda: chi dice donna dice danno e poi hai già tua moglie, lo sai che il troppo stroppica. Solo che essendo davanti al microfono lo sentirono tutti. - Ehi! Cos’è questo via vai di risate? Non vi azzardate a deridermi! Ricordatevi chi sono, io posso mandarvi dalle stelle alle stalle. Non vi importa dell’amore amaro che provo per questo paese? Adesso passiamo alla tivùstatunitensemondialpriva. I canali per bambini dovranno trasmettere ogni giorno 20 puntate e nei weekend una maratona de Le avventure di CaroTrump, un cartone sulla mia mascotte: un’affascinante carota dalle sembianze umane. Adesso vi esporrò la rivoluzione per l’istruzione. - si compiacque per la sua rivoluzione e

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per la sua rima - Questa è bella come delle fresche frasche perciò state attenti e cercate di non capire fischi per fiaschi. In qualsiasi scuola che sia pubblica o privata si studierà una nuova materia: The Trump’s history, che studia approfonditamente la mia vita. - detto ciò il presidente se ne andò. Usciti da un palazzo per fare degli sketch, Carotrump andò alla sua carousine mentre Trump prese l’elicottero per andare alla Tordonalda. Ad aspettare Carotrump invece c’erano due bottiglie di caropagne e l’autista Mr. Pattinson vestito con uno sgargiante vestitino arancione con righe verticali blu. Ad un certo punto Mr. Pattinson chiese a Carotrump, che si era servito abbondantemente di sei bicchieri di caropagne, cosa ne pensasse delle elezioni e la carota rispose: - Mi pare ovvio che sia stato Trump a vincere! - disse con voce moscia - E pensare che già mi aveva creato prima delle elezioni e tenuto dentro il laboratorio. - Cosa?! Allora ha certamente barato! - rincarò Mr Pattinson. A quel punto Carotrump sembrò impazzire: - Cosa intendi dire? - Ma non lo capisci che aveva pianificato tutto sin dall’inizio?! Lo sapevo che la Clinton avrebbe vinto! Lei e Obama sarebbero stati una coppia politicamente perfetta! - Brutto BEEEPP, ora te la faccio vedere io! Carotrump uscì fuori dalla carousine e lanciò delle shurikarote alle ruote. Mr Pattinson scattò fuori con notevole agilità prima che essa si schiantasse ed esplodesse. - Attenta, carota, io sono potenza e agilità, un incubo che ti tormenterà se … Carotrump che odiava i monologhi gli lanciò una granata carotesca che mancò l’autista. - Sta’ zitto, Pattinson, ed evita di rifare un altro monologo copiato da Trumpken! I due lottarono, ma Carotrump sbronzo non riuscì a mettere a segno neanche un colpo distruggendo, in compenso, mezza città.

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Trump, venuto a sapere della situazione, si fece portare Carotrump da duecento agenti che riuscirono a bloccare la carota. Ormai liberato nel salone della Tordonalda, fu al cospetto del suo padrone. - Be’, mio arancione amico, carta canta e tu dopo quel disastro non avrai più molta carta, mi intendo? - disse, mentre sceglieva un parrucchino adatto a quell’occasione. - No, la prego, non mi diminuisca il salario! - urlò la carota impaurita. - Hai capito fischi per fiaschi, ti toglierò la carta igienica dal bagno privato! - rispose Trump che sembrava essersi deciso sul parrucchino. - In realtà, io non ho un bagno privato, non lo uso neanche il bagno! - si lamentò la carota. - Hmmm, ogni riccio un capriccio, eh? Va bene, per rimediare al macello che hai combinato preparami uno spuntino che ho fame. - ordinò il presidente. - Vuole una carota? - No! - Una torta di carote? - Non basta, ho molta più fame! - Un burrito di carote con contorno di carote e succo di carote e infine gelato alle carote? - Mi vuoi far diventare pelle e ossa?!? - Che vuole allora, che mi ficchi io direttamente nella sua bocca?! A quel punto Trump sgranò gli occhi e sogghignò: - Buona idea! Improvvisamente inseguì Carotrump con un’accetta, ma la carota corse molto a lungo. Quando stanca, però, si nascose nel bagno, Trump seguì le tracce e l’odore del suo futuro spuntino e lì davanti al bagno diede un’accettata alla porta. Infilò la testa nella fessura. - Carotina, sono il trumpone cattivo. - Beeepp! - urlò Carotrump, che ricominciò a scappare. Alla fine Trump riuscì a dare un enorme morso alla carota e si

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ruppe tutte le ricostruzioni dentali. Carotrump, ormai in gran parte distrutto, andò via dall’America. Si trasferì in Baviera dove, in bretelle, pantaloncini e calzettoni, iniziò a vendere carote.

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Raksha Haradan - Lodovica Mauceri - Elisa Pechaycaren - Roberto Pirone - Emanuele Ravanelli - Francesco Trischitta - Alice Verdura

Dramma ai quattro formaggi

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In un bellissimo castello a forma di formaggio c’era un re di nome Luigi XCII, alla guida del regno della Luigiana Reggiana. Sua Altezza misurava meno di cinque piedi che compensava con un lungo mantello rosso e una barba bianca che arrivava al pavimento. Era sempre di buon umore tranne quella volta perché impegnato in un difficile calcolo di una nuova tassa sul formaggio. L’aveva chiamata “decima”. I sudditi avrebbero dovuto dare un decimo delle loro tome, ma quale complicata operazione avrebbe dovuto suggerir loro? Il monarca ostinato a finire il proprio lavoro, disse alle guardie di non voler accettare alcuna visita. Queste si misero immediatamente sull’attenti, prendendo posto incrociando le alabarde presso l’ingresso della sala. Nel frattempo che il re istituiva la propria tassa, il consigliere scoprì una vera gatta da pelare degna dell’attenzione regale. Aveva a che fare con Claudio naturalmente, un omone stupido e grasso, ma figlio del re Filippo, che aveva incendiato per la terza volta di fila il grano destinato al regno. Allora il vecchio consigliere ingobbito e sfregandosi le mani, con voce monotona disse: - Questa notizia farà prendere al re un infarto e non sia mai che muoia così io possa prendere il regno sotto il mio comando. Eccellente! I sorveglianti sentendo il consigliere si misero a ridere pensando che fosse pazzo. E il funzionario Baratto (di nome Lino), sentendo le loro risatine e le loro battute, sbraitò: - Quando io sarò il re della Luigiana Reggiana vi sbatterò in carcere e butterò via la chiave. Loro presi dagli spasmi muscolari causati dal troppo ridere gli

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risposero: - Lei? - e continuarono a ridere fino a che lo schizzato consigliere non entrò dentro la sala del re. Questo, impegnato com’era, non si accorse che l’altro fosse entrato. Ma quando vide l’ombra di una schiena incurvata rabbrividì al pensiero di avere quell’insetto di Baratto Lino vicino a lui e con aria disgustata gli chiese cosa volesse. Questi gli si accostò: - Una sola parola ho da dirle, mio signore, e quella parola è... Claudio! E al re venne quasi un mancamento: - Fammi indovinare: ha bruciato tutto il raccolto di un anno per la terza volta. L’altro replicò: - Esatto, mio signore. - per poi girarsi e andarsene, sogghignando sotto la barba. Al re allora venne un’idea geniale, cioè quella di farlo decapitare e ordinò: - Guardie! Tagliategli la testa! In tutta fretta arrivarono e gli chiesero a chi dovessero tagliare la testa. Mentre stava imponendo un comando, il consigliere che aveva origliato tutta la conversazione, ormai sulla soglia lo fermò e gli disse: - Sua maestà si fermi. Non può tagliargli la testa, perché lui è il figlio del re Filippo e non possiamo permetterci una guerra. Dopo il discorso il re per la furia iniziò a gridare: - Perché mi sono alleato con il re Filippo per denaro, se poi suo figlio mi fa andare in bancarotta?! Sono fuori di un milione! Maledetto lui e suo figlio babbeo! E qualcuno fece eco alle sue urla. Era la cuoca, una donnina paffuta e amabile, di solito, venuta a lamentarsi di Claudio che aveva rovinato le sue torte, cosa che accadeva spesso, ma non si era mai lamentata finora perché sapeva che il ragazzo aveva problemi. Tuttavia, quella volta non era riuscita a trattenere i nervi. Quelle torte le servivano per il festival del formaggio. L’avrebbe sicuramente vinto con la sua ricetta segreta che le aveva dato il giorno prima sua madre. - E lo stavo per uccidere quel maledetto Claudio. Si è salvato

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perché ha detto: “Una ricetta segreta? Se la dici, io ti dico il mio segreto. Se ti sviti l’ombelico ti cade il sedere! Ecco te l’ho detto. Dimmi il tuo.” E con quelle parole, mi sono ricordata del ritardato che era e mi sono trattenuta. Ma lo deve cacciare via mio sire, se no lo uccido. Ultimata la sua sfuriata, girò i tacchi e se ne andò. Il re aveva davvero un problema grosso, quanto quell’omaccione senza sale in zucca. Che fare? Quando ad un certo punto il suo pensatoio (altrimenti detto cervello) gli suggerì di mandarlo il più lontano possibile dal regno. Il consigliere che non era d’accordo gli disse che l’esilio o una pena capitale nei confronti di Claudio avrebbe condotto ugualmente alla guerra contro Filippo. - E poi - insisté il marchese - come giustifichereste il suo allontanamento senza un motivo preciso? Allora il re gli rispose che gli avrebbe affidato un compito impossibile al fine di fargli perdere molto tempo o sfinirlo. La questione del raccolto era già grave, ma questa delle torte del festival del formaggio del regno della Luigiana Reggiana era veramente inaccettabile. Passata mezz’ora Claudio finalmente arrivò nella sala del trono, dove il re lo stava aspettando. Al suo ingresso quest’ultimo sobbalzò perché lo vide vestito da pentolone. Gironzolava difatti con una zuppiera in testa e nient’altro addosso. - Che fai, scellerato? - gridò re Luigi. - Tutta zuppa, tutta zuppa! Un servitore spiegò che di tanto in tanto gli accadeva di credersi ciò che stava mangiando. Comunque, quando riuscirono finalmente a riportarlo alla realtà, sua Maestà disse: - Claudio, ti ho convocato qui per una missione, non solo per me, ma anche per il tuo regno. Claudio domandò: - Devo per caso concludere il lavoro nei campi di grano? Il re gridò all’inverosimile: - No, stupido! - e svenne. Claudio vedendo la scena andò nel panico, cominciò a fare avanti

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e indietro riempiendo secchi d’acqua per buttarli in faccia al re, urlando: - Ma, signore, non è ora di dormire! Sveglia! - e continuò… All’improvviso, mentre Claudio lo riempiva di schiaffi, il re si svegliò: - Maleducatissimo idiota! - inveì paonazzo, poi ricordandosi del modo per liberarsi di lui si calmò – Tu sai che io desidero con tutto il mio cuore il sacro Graal, anzi pretendo il sacro Graal e tu me lo troverai! Ma un attimo… perché cavolo sono bagnato?! Claudio si giustificò: - Ehm… si è messo a piovere. Il re contestò: - Dentro il castello piove adesso? Vai a cercare il sacro Graal e, mi raccomando, non tornare fino a che non l’avrai trovato. Claudio confuso rispose: - Va bene, va bene… vado, vado! Mah… scusi, cos’è il sacro Graal? Dove lo trovo? Luigi dubbioso disse: - Non so darti una risposta. Solo un prode come te potrà riuscire in questa difficile impresa. E ora vai! Il re Luigi XCII non aveva ancora finito il suo discorso che Claudio partì senza neanche salutarlo e andò in giro per trovare il Sacro Graal. Iniziò a chiedere alle persone del regno. Incontrò una signora: - Salve, mi scusi, ha per caso visto il Sacro Graal? E la signora gentilmente rispose: - No, mi dispiace. Claudio cercò il Sacro Graal per giorni e giorni, per monti e per valli instancabilmente. Alla fine chiese ad un vecchio saggio che gli indicò una chiesa rupestre difesa da monaci guerrieri. Questi gli dissero di accendere un cero votivo e di mettersi a pregare con loro. Così facendo sbadatamente ne fece cadere uno sull’altro, finché con effetto domino non diedero fuoco a tutti gli arredi e ai poveri eremiti che tentavano di domare le fiamme. Claudio, invece, dopo avere afferrato il calice fuggì sano e salvo. Nel frattempo alla corte si tenevano banchetti e festeggiamenti perché pensavano che Claudio non tornasse più. Ad un certo punto si sentì bussare. Le guardie aprirono e videro Claudio con in mano il

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Sacro Graal. - Salve. - disse Claudio. Le guardie lo guardarono e dissero: - Sei tornato? Che cosa ci fai tu qui? Claudio rispose: - Sì, e guardate cosa ho trovato! Le guardie decisero di portarlo dal re. Claudio entrò nella sala del trono; appena il re lo vide tenere in mano la santa reliquia, si sentì venir meno. Totalmente sbalordito dalla sua impresa, quindi, gli chiese qualunque oggetto da trovare pur di farlo allontanare dal suo regno. Prima di tutto gli ordinò di portargli un quadrifoglio che cresceva nella cima del monte Rasmar. E dopo tre giorni Claudio lo riportò ed il re iniziò ad arrabbiarsi. Lo incaricò anche di consegnarli la mappa della fine dell’arcobaleno ed anche un sacchetto di monete d’oro degli gnomi. Il re sapendo che questi oggetti non esistevano pensò che Claudio non tornasse mai più. Ma neanche passati due giorni lo stupidotto tornò con entrambi gli oggetti. Da quel momento re Luigi iniziò a pretendere di tutto: il corpo del capitano del Titanic, uno squalo dei Caraibi, la Monna Lisa in Francia, una foto della muraglia cinese, la casa di Sponge Bob, la scarpetta di cristallo di Cenerentola, la testa di un drago, una bacchetta magica, nonché il diamante perduto della città di Atlantide. Claudio per uno, due, tre mesi scomparve e il re pensò che non tornasse più e iniziò a fare festa nella piazza principale, ballando la tradizionale giga della grattugia. Improvvisamente la musica si fermò e anche le danze perché… Claudio era tornato! Ed eccolo apparire davanti al re e proprio con ciò che gli era stato chiesto. Sua altezza (si fa per dire) si stufò di affidargli compiti impossibili e quindi gli disse: - Puoi riposarti finalmente, mio prode suddito. - almeno fin quando non gli fosse venuto in mente un altro oggetto. Claudio, annoiato non trovando nulla da fare, prese un fiammifero e provò a incendiare un fazzoletto, ma tenendolo in mano si bruciò

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le dita e corse lasciando il fazzoletto a terra vicino ad un letto di foglie secche nel parco di Luigiana. Di foglia in foglia l’incendio si propagò dapprima sugli alberi, poi sulle casette e infine arrivò al palazzo reale che in poco tempo divenne una fonduta. Il re, inferocito, diede l’ordine a un suo funzionario di convocare Claudio davanti alla corte di giustizia per subire un processo per direttissima. Nel documento ufficiale il re scrisse: “Il qui presente Claudio, alias scemo del villaggio, ha l’obbligo di presentarsi alle ore 15:00 in punto alla corte marziale dove si decideranno le sorti dello stesso.” Il Consigliere, raggiunto Claudio lo salutò: - Buongiorno Claudio. Claudio ricambiò: - Ciao signor Consigliere! Come va la vita? Lui rispose seccato: - Come dovrei stare, se hai appena distrutto casa mia! Claudio non capì e chiese: - Io? E il Consigliere: - SÌ TU! Comunque la pagherai cara, AHAHAHAHAHA! Ci vediamo in assemblea, Claudio. - mostrandogli il proclama reale. - Aspetta un attimo. Devo essere lì alle tre? - Esasperato il consigliere urlò: - SÌÌÌ. Claudio si offese: - Perché si scalda così tanto! Bisticcio! - e si allontanò. Guardandosi intorno notò che il villaggio era distrutto e indignato chiese al panettiere chi fosse stato, ovviamente il panettiere glielo disse in modo cattivo, perché anche lui aveva perso tutto. Ma anche allora Claudio procedette ignaro delle proprie colpe al luogo stabilito per il processo. Alle 15.30 Claudio era già stato condannato alla pena di morte, ma mentre il boia stava arrivando il ragazzone, lasciato libero perché ritenuto incapace di una fuga, si allontanò per inseguire una libellula in un prato. Si diresse, così, fino al limitare del regno, dove incontrò una vecchina che aveva acceso delle candele, pregando per la salvezza

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della Luigiana Reggiana. - Ti aiuto io, signora? - fece appena in tempo a sentire la donna, quando con una manata goffa Claudio scaraventò a terra tutto l’altarino. Come sempre il giovane non se ne accorse neppure e riprese la via di casa. Il fuoco si propagò da lì ai regni vicini. Nel frattempo il re e la corte si misero alla sua ricerca, promettendo a chiunque glielo avesse portato una casa nuova e un milione di formaggini (la loro moneta). Dopo un po’ un paesano vide l’unico campo che si era salvato distrutto e chiamò sua maestà per avvisarlo. Non appena giunsero vicino al raccolto si sentì un boato: tutti i villaggi circostanti erano rasi al suolo. Il re disse affranto: - E ora che è successo? Per tutta risposta Claudio arrivò pieno di fuliggine e sorridendo beota chiese: - A n c o r a t u t t i q u i ? A l l o r a c ’ è u n a f e s t a !

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Jessica Arulappu - Flavio Battaglia - Karim Ben Amer - Gloria Fichera - Damiano Garofalo - Neha Mauracheea - Roberto Oancea - Sara VerzĂŹ

Un’avventura spaventosa

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Era una bellissima giornata d’aprile e la famiglia Montecarli aveva in programma un pic nic. Quest’adorabile comitiva era composta dal padre Mario, un giovane alto, magro, che si vestiva sempre in tuta, dalla madre di nome Maria, anche lei alta e magra con capelli neri, dal figlio maggiore Marco che era grosso e alto e dall’altro figlio Marcovaldo dai capelli neri e occhi bruni. Così si misero in automobile alle dieci in punto. Canticchiarono lungo una parte del tragitto, scherzarono serenamente tra loro, quando il signor Montecarli sentì la loro Fiat tossicchiare. Accostò ai margini della strada grattandosi la testa nervosamente. Un fumo denso usciva nel frattempo dal cofano: triste presagio. Lo aprì e lo richiuse con un tonfo dopo aver capito che il guasto non era la sua portata. Dopodiché si rivolse agli altri: - Venite, prendete il cestino e andiamo a fare il nostro pic-nic: la macchina si è rotta! Così tutti obbedirono e mentre camminavano ripresero a cantare una melodia allegra che sembrava non finire mai, nella speranza di divertirsi ancora di più. I Montecarli per fortuna al limitare del bosco intravidero una casa. Suonarono al citofono “Fumagalli” e vennero ad aprire il signor Fumagalli e la signora Fumagalli. Il signor Fumagalli di nome Flavio era grassoccio, occhi castani, capelli neri, odorava di alcol e, dato che il suo mestiere era lo spacciatore, cercò di vender loro della droga.

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La signora Francesca invece era bionda, occhi verdi, occhiaie, con pelle rosea, era una casalinga che usava vestiti anni ’50 ed era super perfettina. Infatti i Montecarli prima di entrare si dovettero levare le scarpe e mettere delle pantofole. Francesca disse: - Per caso vi site persi? O è successo qualcosa? Risposero: - Sì, ci si è rotta l’auto. Potremmo fare una telefonata, se non è troppo disturbo? Flavio li invitò dentro un po’ bruscamente e barcollando li precedette in salotto. La signora Montecarli per togliersi dall’imbarazzo aprì la discussione: - Pensi, volevamo solo far prendere loro un po’ d’ aria e guardi cosa ci è capitato! Voi avete figli? Francesca rispose: - Sì uno, ma ha un piccolo problema. Il signor Montecarli disse: - Mi spiace tanto. Possiamo esservi di aiuto? Al che la donna rispose serafica: - Oh no, grazie lo stesso. È solo leggermente impossessato. Il signor Montecarli quasi balbettando: - Non capisco… in che senso? E Flavio di rimando: - Nel senso che è posseduto dal demonio. - e vedendo l’espressione scioccata degli ospiti aggiunse - Non c’è da preoccuparsene. È rinchiuso in camera sue e comunque tra poco arriverà un esorcista. I Montecarli rimasero pietrificati, mentre i Fumagalli continuavano a parlare di loro figlio e del suo “problemino”. A un certo punto suonò il campanello e la padrona di casa cinguettò: - Oh eccolo, è arrivato il prete. - Con permesso. - gracchiò Flavio prima di alzarsi ad aprire. Quel giorno arrivò Don Franco e Flavio Fumagalli lo accolse e gli disse: - Buongiorno, Don Franco, come sta? Vuole qualcosa da bere? Un po’ di Maria?

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Don Franco disse: - Buongiorno, da bere no grazie, mi sono già servito uno scioppino prima di uscire. Ma un tiro lo farei volentieri. Francesca Fumagalli sorrise: - Sì, certamente. - mentre pensava E questo dovrebbe essere un prete, quale prete si veste con pantaloni stretti, indossa un parruchino biondo ed esce con il collarino aperto? Ma che stranezza! La famiglia Montecarli pensò: - Cosa? Un esorcista? Ma sono matti! Don Franco rivolgendosi ai suoi ospiti: - Che ne dite di cominciare? E Francesca da buona padrona di casa: - Sì, prego mi segua. Don Franco sprizzava allegria da tutti i pori fumacchiando il suo spinello: - Allora, dov’è il vostro figliolo? Flavio Fumagalli: Nella sua stanza. I Montecarli cominciarono a dire tra di loro: - Ma dove siamo finiti? Sembra di essere in un manicomio! Tutti insieme si avviarono verso la stanza del ragazzo e quando Don Franco ne aprì la porta esclamò: - Oh mio dio, non ci posso credere! Nella stanza buia di Filippo c’erano i mobili che volavano. Ma a quel punto il frate con fare professionale allontanò tutti e si mise al lavoro. L’indemoniato con vari tentativi provò a spaventare il frate nel quale la maria offerta dal signor Fumagalli iniziava a fare effetto. Così il ragazzo iniziò a girare la testa a centottanta gradi e il prete gliela fece girare a trecentosessanta. Poi Filippo vomitò, seguito dal frate per il gran disgusto. Quindi il ragazzo prese a parlare al contrario dicendo “erirom ived” (devi morire) e il frate gli rispose con un “ut ehcna” (anche tu). Continuarono in questo modo fino a quando salirono sul letto e vi saltarono sopra. Filippo sbattè la testa contro il soffitto e stava per ripiombare di schianto addosso al prete che, però, lo schivò di giustezza, facendolo cadere a terra.

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Solo allora Don Franco decise di uscire per riposarsi un po’. In sua assenza Filippo si avvicinò lentamente al suo letto e alzò le coperte. Vi trovò un’anziana signora (con una terrificante verruca) dai capelli grigi e dagli occhi verdi e con un dolce in mano. - Nonna, - gridò - mi hai preparato una torta! Nel frattempo il prete sentì una voce estranea parlare con Filippo. Incuriosito andò a vedere. Trovò la nonna del ragazzo intenta a tagliare la torta che aveva preparato. Con sguardo ammiccante si avvicinò con la scusa di voler assaggiare quel magnifico dolce: - Potrei avere anche io una fetta? - Ma certo, prego. - rispose la nonna. - È buonissima. Verrebbe nella mia parrocchia a preparare altri dolci per la festa del rione? - chiese il prete. - Con molto piacere. - disse la nonna con aria civettuola, sbattendo le ciglia. Poco dopo nel cercare il bagno, il figlio dei Montecarli s’imbatté in una scena disgustosa: vide infatti il prete intento a palpare la nonnina, che entusiasta della situazione lo baciava appassionatamente. - Signora? Signora? - urlava il bambino aspettando risposta. - Vai via, impiccione, e chiudi la porta. - gli gridò la nonnina con tono stizzito, per poi ricominciare a baciare il prete. Quella casa metteva inquietudine a tutti tranne che al piccolo Marcovaldo a cui sembrava di vivere un’avventura. Nel frattempo i Montecarli cercavano un modo di andarsene alla chetichella, le scarpe in mano per non fare rumore, abbandonando il cestino da pic-nic, trascinandosi il figlio minore, l’unico riluttante, verso l’uscita. Filippo, lasciati la nonna e il frate in amorevoli occupazioni, era di passaggio mangiando una mela. Si girò e vide che gli ospiti stavano tramando qualcosa. Lui si nascose dietro la grande scala, e per poco non scivolò sulla dentiera dell’anziana signora che sbaciucchiandosi le era caduta. I Montecarli stavano scendendo lentamente, facendo scricchiolare le

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antico impiantito di legno. Allora lui uscì da lì sotto, e sbarrò loro la porta. Come un indemoniato qual era, allungò per magia i lacci delle sue scarpe e vi legò saldamente tutta la famiglia, che da quel momento poteva muoversi tutta insieme a minuscoli passetti. Fatto ciò ritornò, come se nulla fosse, nella sua stanza. A un certo punto Filippo inghiottì, inghiottì e inghiottì ancora fino a gonfiarsi all’inverosimile. Poi con uno sforzo diabolico, diventando rosso in volto diede aria al deretano. E mentre riprendeva le sue dimesioni originali, la stanza fu scossa da un boato fortissimo e un turbine vorticoso si impadronì del prete che iniziò a volare, ma nonostante questo riprese l’esorcismo. Dopo mezz’ora Filippo tornò normale, se normale possa dirsi un ragazzo con gli occhi rossi da drogato e un tic nervoso al collo che gli faceva muovere la testa di scatto. Comunque fosse, nel frattempo il demonio entrò nella nonnina. E anche lei si ritrovò a volteggiare insieme al prete. Nel frattempo il nipote afferrò la nonna per una gamba e riuscì a tirarla giù. Il prete prese della corda e la legarono al letto. Frate Franco cominciò la sua preghiera, ma la luce andò via nella stanza già molto buia. La porta iniziò ad aprirsi lentamente. Il prete spaventato a morte saltò tra le braccia di Filippo. Bamm!!! La porta si aprì di scatto e la luce ritornò: erano, i signori Fumagalli. Esplosero in un corale: - No, ancora! - annoiato nel vedere nonna Filippina con gli occhi rotanti e la lingua blu. - Diamine, la nonna è posseduta! - urlò il signor Fumagalli. - Non preoccuparti, Flavio, il caro frate Franco ha già esorcizzato il dolce biscottino al miele della mamma. - disse la signora Fumagalli guardando Filippo - Di certo non avrà problemi con la nonnina. - continuò. - Mi spiace signora, ma non posso. - disse il prete. - Perché?! - urlò ancora il signor Fumagalli. - Mi avete pagato per un solo esorcismo. - rispose il prete. - Se è per questo possiamo pagarla di nuovo. - disse la signora

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Fumagalli. - Ok. Fa € 1000. - € 1000! Lei è pazzo, per Filippo ne abbiamo pagati solo € 500! - aggiunse sempre gridando il signor Fumagalli. - Beh… vede, quello era il prezzo ridotto per bambini, la nonna deve pagare quello per adulti. - Babbo, il prete ha ragione. - disse Filippo. Il signor Fumagalli, al punto quasi di strapparsi i capelli, contrattò: - € 600 e basta. - No, io ho detto € 1000. - € 800. - € 1200. - € 1000. - Ok, € 1000 mi vanno bene. - confermò il prete ridendo. - No! Aspetti. Forse mio marito stava scherzando… - riprese insicura la signora Fumagalli. - Senta, sa che le dico? La nonna può restare così! - concluse quel grassone del marito, ormai stufo. - Ma… Flavio. - balbettò la moglie. - Basta, Francesca! - urlò il signor Fumagalli. - Ok, vedo che i miei servizi non sono più graditi. - disse il prete per rompere la tensione - Io me ne vado, andate in pace. E lei, signora, - rivolgendosi alla vecchia - vada al diavolo! Tutti rimasero a guardare la nonna che si era buttata a terra dal ridere. La famiglia Montecarli, che nel frattempo si era liberata dei lacci, approfittò del rumore prodotto dalla risata della nonnina per sgattaiolare fuori dalla stanza. Quasi all’ingresso il signor Montecarli bisbigliò alla moglie: Andiamocene da questa casa di pazzi. - E come? A piedi? - chiese la moglie sempre bisbigliando. - Sì, tutto pur di andare via! Detto questo uscirono silenziosamente da quella casa.

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Ringraziamenti Ringrazio il Dirigente Scolastico dell’I.C. Cavour di Catania, Prof.ssa Marinella Leonardi, per la fiducia al progetto; e gli autori, anche giovanissimi, che hanno messo tutta la loro creatività e passione nel lavoro.

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Postfazione

Ed eccoci al secondo appuntamento con la scrittura collettiva. Al di là di antecedenti letterari di fama da cui trarre ispirazione, il mio obiettivo era ed è rimasto quello di far scrivere, anche ai più giovani e inesperti, dei racconti lunghi, ispirando loro la passione per la letteratura. Inoltre, un’ulteriore difficoltà è stata imposta dal Leitmotiv del comico, scelto per quest’anno. È più facile, infatti, toccare le corde del tragico che comprendere e riprodurre le tecniche che muovono al riso. Eppure con qualche astuzia di buon artigianato ci siamo riusciti. In particolare, la classe prima, che padroneggiava il genere della fiaba, è stata guidata al suo capovolgimento parodico. Suddivisa in gruppi da quattro (mettendo in evidenza le sue parti strutturali: introduzione, situazione complicante, svolgimento, conclusione), ognuno di questi ha scelto una delle celeberrime storie dei Grimm, Andersen o Perrault rendendola niente affatto edificante e tutta da ridere, che ha dato origine alla prima parte di questa antologia. La seconda parte è, invece, dedicata alla terza, a cui ho reso il percorso un po’ più complesso. Si tratta per l’appunto di alunni che da un lato scrivono insieme a me da più di due anni e che, inoltre, quest’anno hanno affrontato proprio il genere comico tanto elaborando una pièce teatrale, quanto leggendo e analizzando Baol di Stefano Benni. Proprio a tre di loro ho chiesto un racconto alla Benni (diventato

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Carotrump), usando la tecnica dei neologismi e della paronomasia. Ho tratto spunto dal personaggio Gurdulù, del Cavaliere inesistente di Calvino, nel lanciare il soggetto dello “stupido del villaggio” (Dramma ai quattro formaggi). L’ampollosità di Rabelais è presente ne Le pillole di Santo Maddio, in cui tre alunni hanno lavorato sulle figure retoriche dell’iperbole e dell’accumulazione. Infine, sono tornata un po’ all’inizio del progetto con la parodia horror di Un’avventura spaventosa, già fatta comporre da Jane Austen a Elizabeth Bennet nel suo Orgoglio e pregiudizio. Detto ciò, le fasi di elaborazione sono state quelle dell’edizione precedente. Ovvero, per prima cosa ho lanciato un concorsino di idee, sui temi e le tecniche stabilite. A seguire i partecipanti hanno elaborato una sceneggiatura dettagliata, suddivisa in tanti episodi quanti erano gli scrittori. Successivamente i ragazzi hanno lavorato insieme per le descrizioni delle ambientazioni e dei personaggi comuni. Quindi, ho assegnato a ciascuno un episodio da redigere per una lunghezza media di una facciata A4 in times new roman 12, (qui ridotto a “11” per necessità di stampa) con scelta narratologica della terza persona onnisciente al passato remoto. I ragazzi sono stati guidati nell’autocorrezione formale o di incoerenze contenutistiche. Non ultima hanno affrontato anche l’ardua prova della ricerca di un titolo: evocativo, ma non rivelatore. Infine, i loro lavori limati sono stati corredati anche di copertine, da loro stessi progettate e realizzate. Quindi, che dire? Questi ragazzi tra i dieci e i tredici anni hanno dato veramente il massimo e si meritano un grande plauso tanto da me quanto da voi lettori

Cinzia Di Mauro

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INDICE COMICA-MENTE Antologia della risata

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Fiabe tutte da ridere 2 Il bell’… anatroccolo? 3 Diavoletto rosso 9 (ovvero A chi diciamo in bocca al lupo?) 9 Porky, Porki e Porkee 15 Raperonzolo e l’inganno degli ortaggi 21 Ciccioli d’oro 27 Biancaneve tecno e i sette prof. nani 34 Il cane con gli stivali 41 Rido alla Rabelais, Benni, Calvino e… Elizabeth Bennet Le pillole di Santo Maddio Carotrump Donald Trump’s Story Dramma ai quattro formaggi Un’avventura spaventosa Ringraziamenti Postfazione INDICE

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Cosa può accadere se vestiamo l’adorabile Cappuccetto rosso dei panni di una peste senza freni? E se l’esclamazione “ma Dio Santo!” diventa l’ossessivo compusivo signor Santo Maddio? E ancora se il parrucchino pel di carota di The President ispira la mascotte carotesca Carotrump? Può succedere di iniziare a ridere per non fermarsi più, fino all’ultimo rigo… e oltre! Tra parodie, stupidi del villaggio, giochi di parole, non sense, iperboli e neologismi, non è facile comprendere le tecniche della comicità, tantomeno padroneggiarle nella scrittura. Eppure questi ragazzi dai dieci ai tredici anni hanno dimostrato di esserci riusciti eccome. Hanno riso alle loro stesse trovate nella fase ideativa, prefigurandosi l’effetto finale, quando il miracolo della composizione narrativa si sarebbe avverato. L’ironia e la risata sono spesso armi indispensabili per difendersi dalle difficoltà della vita, un ottimo rimedio per non soccombere quando tutto fuori di noi è grigio. E allora? Forza! Che aspettate? Aprite quest’antologia e mettetevi a… ridere.


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