Scrivo in GIALLO e NERO 2018

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I A e II A della scuola secondaria - I.C. Cavour Catania

Antologia di racconti gialli e horror 2017-2018


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II A - Scrivo in GIALLO


Scrivo in GIALLO e NERO

Scrivo in GIALLO e NERO Antologia di racconti collettivi gialli e horror

A.S. 2017-2018 Dirigente Scolastico dell’I.C. “Cavour”, Catania, Prof.ssa Maria Leonardi. Coordinatrice di progetto: Prof.ssa Cinzia Di Mauro. Autori: tutti gli alunni della I A e della II A.


Scrivo in GIALLO

scrivo in

GIALLO


Kornell AlĂŹ - Sofia Balsamo - Erika Cancilleri Antonio Caruso - Andrea Panascia - Alfio Sicurella

Furti a Manchester

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Io sono Dylan Blackport, sono un ragazzo molto intelligente, volenteroso, sempre sincero con le persone che mi stanno accanto, cercando di aiutarle sempre. Sin da piccolo, avevo un sogno: quello di diventare il detective più famoso al mondo. Con il tempo, facevo finta di essere un investigatore e di risolvere i misteri, e mi divertivo molto. A diciotto anni decisi di trovare un lavoro, che però mi doveva piacere veramente tanto. Lasciai allora la casa dei miei genitori in Oakey street, a Londra. Sfogliando i giornali, vedevo molte offerte di lavoro, ma nessuna di queste mi interessava particolarmente. C’era scritto: Cercasi uno spazzino all’edificio numero 24… oppure Cercasi un / una ragioniera. A quel punto mi dissi: - Io non sono molto portato per la matematica. Finalmente l’occhio mi cadde su un reclutamento proprio di Scotland Yard. Così, dopo un corcorso vinto diventai ispettore. Ma non pensavo che la mia carriera avrebbe preso questa svolta, quando raggiunsi il traguardo a cui tanto ambivo. Infatti, il tempo passava, ma la mia scrivania non faceva che riempirsi di scartoffie e incombenze burocratiche. Il commissario, Thomas Black, mi dava soltanto documenti da sistemare di casi ormai risolti o verbali da redigere. Fu così che decisi di fare il colloquio con il famosissimo Fred Maine, della stazione investigativa. Lui era un uomo sulla cinquantina con una grossa pancia e lunghi baffi gialli per la nicotina, perché

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fumava eccessivamente. Il suo passato era ignoto, si sapeva solo che aveva risolto il caso del diamante scomparso. Ci eravamo incontrati in un pub di Londra The May Flower Pub, uno dei più belli di Londra, con una vista sul Tamigi e sul Tower Bridge, con una bellissima passeggiata lungo il fiume. Io ho preso una beef Burger e una ‘’Abbot Ale’’ e il commissario solo una birra ‘’Spite Fire’’. Pensavo fra me e me: - E se poi non gli piace come rispondo alle sue domande? E se poi non sono in grado di fare il detective? Poi tuttavia gli parlai di quando avevo lasciato i miei genitori a York per inseguire questo mio grande sogno: diventare il detective più bravo al mondo. Fred Maine mi raccontò alcune storie: - Il mio caso più importante riguardò la scomparsa del diamante dove fu coinvolto anche il famosissimo boss Tony Pappalardo, che da come avrai capito era di origine italiana e ciò non mi ha reso vita facile. Alla fine della serata Fred chiamò il capo per comunicare che io ero ufficialmente il suo aiutante. Ero entusiasta anche perché aggiunse che dovevamo partire per andare a risolvere un caso impossibile: una serie di furti a Manchester e che saremmo partiti l’indomani. La notte non passò mai: nel mio appartamento sentii rintocchi della chiesa vicina scandire ogni ora e non mi aiutò di certo a prendere sonno, come se già i miei pensieri ossessivi sul da farsi per non trovarmi impreparato non bastassero. Finalmente il sole spuntò dietro quei palazzi del seicento. Era ora di partire. L’arrivo a Manchester fu abbastanza tranquillo. Viaggiammo col treno, partimmo nel primo pomeriggio e arrivammo di sera. Alloggiavamo al Britannia Sachas Hotel. Niente di particolare, contando la valutazione di tre stelle. Le camere erano anguste, ma il personale era gentile e per me era la prima volta in un albergo, perciò mi sarei accontentato di tutto. Dopo aver sistemato il mio minuscolo bagaglio (per la verità lasciavo molto poco anche a Londra, considerando che al mio lavoro non mi pagavano molto bene) andammo a cena. Il salone

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in cui cenammo era pieno di affreschi e il cibo fu veramente buono. Dopo il dessert Fred si allontanò col pretesto di fumare un sigaro. Ma mentre lo salutavo per rientrare in camera, vidi dal suo riflesso su uno specchio del corridoio che andava verso la cabina telefonica. Per il giorno dopo avevamo deciso che per identificare i ladri saremmo andati in due gioiellerie diverse, Fred a Chisholm Hunter, a Camford Court e io in George Street, alla gioielleria Tiffany. Quella mattina notai quanto Manchester fosse stupenda: un agglomerato di palazzi moderni che si aprivano su ampi spazi verdi ed enormi vie e viali. Mi chiesi come sarebbe stato vivere in un posto del genere. Di sicuro bellissimo. Comunque, arrivato in George Street interpellai i testimoni oculari, che io e il mio capo avevamo precedentemente chiamato per chiedere loro cosa avessero visto. L’unico che ebbe il coraggio di venire fu Jerome Brown, un cuoco di origini americane. - Buongiorno. - gli dissi. - Buongiorno. - ricambiò. - Lei è il signor Jerome Brown, giusto? - Sì, sono io. - Sono qui per chiederle riguardo al furto avvenuto qualche giorno fa qui alla gioielleria. Mi racconti tutto ciò che ha visto. - Dunque. Circa alle due di notte (sono sicuro dell’orario poiché io chiudo al mio ristorante all’una e mezza), mi sono trovato a passare di qui per tornare a casa mia, quando ho visto degli uomini proprio qui che stavano entrando nel locale. Così, mi sono nascosto. Sfortunatamente gliene posso descrivere solo uno, perché era l’unico che non era entrato e aspettava lì a fare il palo. Lui era alto e robusto e con la poca luce nell’area mi sembrava di vedere un anello che brillava. Non le so dire altro, poi sono scappato. Riflettendo sulla questione gli chiesi: - È sicuro di aver visto solo questo? E Jerome, con fare pensoso: - Mi lasci pensare. Mmm… Oh, sì!

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Mi ricordo anche un’altra cosa. L’energumeno aveva anche un tatuaggio di… Ehm, non ne sono tanto sicuro, ma sì, mi pare che raffigurasse un serpente attorcigliato su una spada. - poi continuando - Le ho detto tutto quel che sapevo; ora se non le dispiace dovrei congedarmi, sa, ho un ristorante da gestire. - e se ne andò. Andai ad ispezionare il locale. Naturalmente i gioielli erano stati rubati. Il locale mi sembrò la rappresentazione del caos: teche rotte, vetri sfondati, argenteria (caduta ai ladri per la fretta) per terra… Camminando nel locale trovai un anello particolare: non elegante come quelli in esposizione, ma più rude. Chiesi al direttore se quell’ornamento fosse della collezione in vendita, e, come previsto non lo era. Questo significava che se l’uomo che aveva visto il Signor Brown era rimasto fuori, più di una persona possedeva l’anello. Che cosa stava a indicare? Ad ogni modo chiamai dal telefono della gioielleria per raccontare a Fred ciò che avevo scoperto, ma non ricevetti risposta. Decisi di recarmi verso la gioielleria Crisholm Hunter in Cromford Court, avremmo dovuto raccorgliervi informazioni sulle altre gioiellerie che erano state svaligiate e che appartenevano allo stesso proprietario. Durante la strada pensai al mio capo che si trovava già lì per investigare e speravo in cuor mio che non fosse successo niente di grave. In poco tempo arrivai affannato alla gioielleria, prima ancora della polizia, appena entrai vidi il mio capo disteso a terra stordito da un colpo in testa, supposi, vedendo la vistosa ecchimosi. All’interno della gioielleria non c’era segno di lotta, sicuramente lo avevano sorpreso alle spalle, le uniche cose in frantumi erano le vetrine dei gioielli. Cosa strana era il modo in cui erano state rotte e rovesciate come se volessero far pensare ad uno scontro. La mia attenzione fu attirata da un lampo di luce e da un forte botto; guardando più attentamente mi accorsi che il lampo era partito dalla mano destra dell’investigatore che teneva in pugno una pistola. Mi avvicinai per

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aiutarlo, ma il capo non mi riconobbe, mi puntò la pistola in testa. Gli urlai allora il mio nome e che ero corso subito in gioielleria per vedere appunto se fosse successo qualcosa. A quel punto lui mi raccontò che due uomini incappucciati lo avevano assalito alle spalle e stordito prima che potesse reagire, poi non ricordava più nulla . Ad un certo punto notai dalla pelle bianca dell’anulare l’assenza di un anello, gli chiesi se gli uomini gli avessero rubato qualcosa, ma lui sviò il discorso e mi disse che si sentiva troppo stordito e voleva recarsi a casa. Detto questo se ne andò. In seguito andai ad interrogare i negozianti poco distanti dal luogo del furto e chiesi se si fossero accorti di qualcosa di strano, ma tutti mi risposero stranamente di non aver sentito né visto nulla di particolare davanti alla gioielleria. Allora chiesi se avessero fatto caso a degli uomini incappucciati o con una gran fretta, ma di nuovo mi risposero di non aver visto nessun altro al di fuori di un uomo, la cui descrizione mi fece subito pensare a Maine. Il portiere del palazzo di fronte avvicinatosi mi disse che aveva solo sentito il rumore di qualche vetro rotto, ma nulla che gli facesse pensare a qualcosa di allarmante. Mi trovai così in una faccenda particolarmente intricata, un caso che, da principio, sembrava facilmente risolvibile. Avevo proposto al mio capo se ci potevamo separare per seguire le indagini su strade diverse. Lui acconsentì, ma c’era qualcosa che mi spingeva a seguirlo. Lo vidi entrare in una pasticceria dove ordinò un bignè al suo tavolo e lo mangiò tranquillamente: tutto rientrava nelle sue abitudini. Ormai ne ero quasi sicuro e cosciente di aver avuto torto, quando osservai una cameriera che gli si avvicinò, avvisandolo di recarsi alla cabina del telefono. Dopo aver notato un discorso concitato, Maine uscì quasi di corsa dal negozio e fermò un taxi al volo. Riuscii a prenderne uno anch’io. - Signore dove devo condurla? - Segua quel taxi. - gli risposi trafelato. Quando il veicolo si fermò eravamo già in periferia, un’area della

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città molto popolata per la presenza di una florida attività tessile. Oltre alle fabbriche e ai depositi vi erano anche le abitazioni degli operai, tetri edifici di mattoni un tempo rossi ormai anneriti dai fumi delle ciminiere. Le fabbriche avevano messo in mostra il meglio dell’architettura del ferro post-rivoluzione industriale. Maine scese vicino ad un edificio abbandonato, i cui muri in mattoni erano crollati, lasciando a vista la struttura in ferro; doveva trattarsi di un’ex fabbrica tessile. Mi feci lasciare poco oltre per non destare sospetti. Sembrava non ci fosse nessuno nei paraggi. Io mi appostai dietro un vecchio muro da dove attraverso una finestra con una grata potevo osservare, senza essere visto. Dopo un po’ guardai più attentamente. Ad attenderlo c’erano due uomini. Non riuscivo a credere ai miei occhi: rimasi sorpreso che ci fossero due poliziotti del distretto, Jim e Rob, ed uno di loro teneva un grosso borsone in mano. Misi meglio a fuoco il binocolo e riconobbi il tatuaggio sul collo che rappresentava un serpente attorcigliato a una spada, corrispondeva proprio alla descrizione che Jerome Brown aveva dato di uno dei criminali della gioielleria Tiffany. A quel punto, sconvolto per i pensieri che mi affollavano la mente, con la massima attenzione, per non perderlo di vista osservavo ciò che stava succedendo. Correvo per la via, a tratti stretta, in cerca di un telefono. C’era una signora affacciata a un balconcino di un piano rialzato che guardava con interesse le mie azioni, spontaneamente le chiesi se avesse un telefono, ma lei, con aria stupita, rispose: - Pensa che io possa permettermi un telefono? Non vede che siamo gente povera?! Io subito dissi: - Mi scusi per la domanda un po’ inopportuna, ma ho molta fretta di telefonare. La signora con fare annoiato si ritirò e chiuse le imposte. Arrivai davanti a una palazzina modesta, ma pulita ed esaminai i nominativi sui citofoni nella speranza di trovare un nome familiare che mi inducesse a suonare. Tra tutti ne scorsi uno somigliante a quello di una per-

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sona che conoscevo. Pigiai il pulsante, dopo qualche minuto rispose un signore con la voce assonnata al quale posi la stessa domanda che prima avevo fatto alla signora. Il signore mi rispose: - Non ho il telefono perché non posso pagarlo, costa troppo. Provi a citofonare alla signora Baker che abita nel palazzo accanto. Giunsi correndo davanti al portone indicato e suonai il campanello. Rispose una ragazzina che, sentita la domanda, subito disse: - Io non posso aiutarla, ma provi ad andare dal dottore del quartiere, lui sicuramente ha il telefono. A quelle parole tirai un sospiro di sollievo. L’abitazione indicata era a pochi metri, pertanto giunsi subito a destinazione. Arrivai davanti all’unica dimora elegante che c’era in quel periferico quartiere. Suonai il campanello e una domestica, vestita con una raffinata divisa, mi accolse con garbo: - Cosa desidera Signore? Se cerca il dottore in questo momento non è disponibile perché sta visitando un paziente. Io, mi guardai intorno, e rimasi colpito dalla bellezza e dalla raffinatezza di quella casa in perfetto stile vittoriano: lunghissime tende di seta, tanti quadri scuri alle pareti, sontuosi divani ad angolo, tantissime poltroncine con tappezzeria chiara a fiori rosso scuro. Mi colpì maggiormente un grande affresco nella parete di fondo del salone che raffigurava un antenato del dottore, il quale sicuramente doveva essere stato di nobile stirpe. Mi affrettai subito a precisare: - Sono della polizia, devo chiamare i rinforzi. La domestica con garbo rispose: - Faccia pure! Che cosa è successo di tanto grave? Lei mi sembra un po’ turbato. Io ribattei: - Ho scoperto l’autore dei furti nella gioielleria Tiffany. Presi la cornetta, composi il numero e attesi un tempo che mi

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sembrò interminabile. Appena sentii la voce della centralinista mi precipitai a dire: - Mi passi cortesemente, con urgenza, il centralino di Scotland Yard perché devo comunicare una cosa molto grave. La centralinista con voce sottile e controllata rispose: - Non ho capito bene la sua la richiesta perché lei è stato troppo frettoloso nel parlarmi. A quel punto cominciai a innervosirmi perché temevo che i ladri potessero fuggire dal nascondiglio che avevo individuato. Con tono alterato e voce stentorea ripetei la domanda e finalmente mi fu passato il centralino di Scotland Yard e chiesi del commissario Black, l’unico di cui potessi fidarmi dopo quanto avevo scoperto. Raccontai quello che è successo e che avevo visto. Questi mi rassicurò: - Avviso subito il mio collega di Manchester, lei ritorni sul luogo dove si nasconde la banda, non si muova da lì, controlli la situazione e annoti tutti i particolari. Dopo qualche minuto, arrivò la polizia locale e iniziò a ispezionare il luogo; in fondo all’edificio abbandonato vide alcuni individui che discutevano animatamente i quali, accorgendosi della loro presenza, iniziarono a correre verso i sotterranei urlando: - Scappiamo! Ci hanno beccato! Comprendendo quello che stavano per fare e individuando quale potessero essere le vie di fuga, presi una scorciatoia e arrivai davanti all’uscita secondaria dell’edificio. Qualche istante dopo i ladri in fuga giunsero nello stesso punto. Estrassi la pistola e la puntai contro di loro: - Fermi, arrendetevi, per voi ormai è finita, non avete via di scampo… Mani in alto o sparo. Nel frattempo i colleghi mi raggiunsero e arrestarono tutta la banda che fu subito scortata in treno e trasportata a Scotland Yard. Il giorno dopo iniziò l’interrogatorio dei malviventi, il capo della banda, messo alle strette, raccontò la verità e i rapporti che lo legavano al mio capo.

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Egli, con spavalderia, proferì: - Noi abbiamo sempre fatto tutti i colpi insieme di comune accordo, abbiamo sempre spartito la roba in parti uguali, ma oggi… oggi Maine ha preteso il doppio della refurtiva e per questo gli abbiamo dato una bella lezione. A quel punto il commissario Black chiese: - Da quanto tempo conosci Fred Maine e come mai si è prestato a questo gioco? Rob disse: - Questa estate sono stato avvicinato da Fred, il quale avendo perso al gioco, aveva bisogno urgentemente di una grossa somma di denaro e mi chiese con insistenza di far parte della banda. Io, conoscendo la sua posizione, accettai subito perché le probabilità che i colpi andassero sempre a buon fine erano maggiori. Black capì subito che i miei sospetti erano esatti, che ero un giovane con competenza nel settore investigativo e pensò subito: - Si deve valorizzarlo! Fu così che pochi giorni dopo ricevetti la bella novità di essere stato nominato commissario di Scotland Yard. Tutte le maggiori testate giornalistiche scrissero lunghissimi articoli sul caso che assunse, nell’opinione pubblica, un enorme rilievo: tutti parlavano di questo giovane investigatore dotato di grande intuito e talento. Il giorno in cui mi arrivò la nomina esclamai: - Non posso crederci! È fatta! Sono un vero investigatore! Ora il mio sogno si è avverato.

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Samuele Deni - Eugenia Gambino - Matteo Liuzzo - Giada Mucimarra - Rula Norzi

Scatti di famiglia

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Dicembre 1935 Il natale era ormai alle porte ed a Bubury, sperduto villaggio inglese situato a Castswold, nevicava da giorni rendendo tutto più magico. A venti chilometri dal paese c’era una villa dall’esterno molto lussuosa e molto vasta, arricchita da molti addobbi di natale e di compleanno. Era la proprietà dei Rogers. Proprio il giorno dopo il piccolo Jimmy avrebbe compiuto otto anni! C’erano davvero tutti, tra parenti e amici per festeggiare il suo compleanno: la madre di Jimmy, una ventiseienne, alta e magra, capelli lunghi, biondi e chiari, occhi azzurri, molto simpatica e gentile, il padre, un quarantenne, basso, coi capelli neri e lisci, occhi marroni e molto magro, i suoi due migliori amici, Mark e Kelly, poi vi erano gli zii, la zia Mary, una trentunenne, bassa e grassa, con i capelli biondi corti e lisci, gli occhi azzurri, molto dolce e scherzosa, lo zio Jacob, un quarantenne, alto e magro, capelli castano chiaro, occhi verdi e con la barba e infine i cugini, Michelle e William. Mary, devota cameriera in quella villa, aveva un gran da fare ad occuparsi dell’accoglienza degli ospiti, delle pulizie straordinarie e delle indicazioni alle cucine. Era un’istituzione, nonostante il ruolo secondario che ricopriva, forse per la sua bonomia, il suo acume che

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risolveva qualunque problema pratico, per la sua eccellente memoria con cui riusciva ad accattivarsi le simpatie di tutti (ricordava che il tè preferito di zia Mary, il sigaro dello zio, quale dolcetto amassero i cuginetti…) o forse più semplicemente per il suo aspetto. Era tondetta, ma agile, soprattutto per la sua età avanzata che la rendeva ormai una “signorina attempata”, e possedeva il sorriso più accogliente che si fosse mai conosciuto. Quel giorno nell’ordine, dopo aver accompagnato i signori nelle camere e sistemato i rispettivi bagagli, le era toccato di pulire i tre bagni (quello con la vasca dorata era il vanto della signora Rogers), presentare il menu alla cuoca, rispolverare la favolosa biblioteca, portare gli ordini per le decorazioni floreali al giardiniere e rassettare il giardino d’inverno per il tè delle cinque, servire il pranzo, la cena. Arrivata a sera, quindi, nulla di strano se si addormentò con tutti i vestiti stremata da tutti questi lavori. Il giorno dopo ci fu una violente nevicata che diventò una bufera, mai vista negli ultimi dieci anni, ma in casa Rogers si registrava, comunque, un atmosfera festosa. Mary era più indaffarata che mai. Oltre a sbrigare tutte le sue abituali faccende, era stata incaricata dalla padrona di badare ai bambini scorrazzanti e eccitatissimi. In particolare Jimmy era molto felice, perché era il suo compleanno e c’erano tutti i suoi amici, cugini e parenti con lui. C’era il suo migliore amico Mark, che era basso e grasso con i capelli neri e ricci e una vera peste, la sua amica Kelly che era alta e magra con i capelli rossi e lunghi e di otto anni, suo cugino William, che era magro, alto, molto simpatico ed educato e sua cugina Michelle, bassa e magra, di dieci anni, molto a modo anche lei. Jimmy salì al piano superiore e andò nella sua cameretta a far vedere la sua nuova macchinina a pedali che aveva ricevuto quel giorno come regalo di compleanno da parte dei suoi genitori. Nel frattempo lo sguattero Paul seguiva le indicazioni del maggiordomo per sistemare il salone per i festeggiamenti.

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Finalmente la sera, a cena conclusa, la cuoca portò la torta, in presenza anche di tutto il personale della casa. Furono accese le candeline e spente tutte le altri luci. Prima gli cantarono la canzone di auguri e poi applaudirono. Ma quando Jimmy soffiò sulla torta e Mary si adoperava a riaccendere i candelabri, trovarono il bambino riverso sul tavolo in una pozza di sangue: lo avevano pugnalato alla schiena. La madre urlò e poi svenne. Il padre invece impallidì ma rimase comunque padrone della situazione. Loro corsero subito verso il bambino cercando di soccorrerlo ma non ci fu nulla da fare, per lui quel colpo fu letale. Il padre disse: - Prendete il telefono e avvisate la polizia. E il maggiordomo obbedì. Ma la proprietà era isolata dal villaggio e non c’era nessuno che avrebbe potuto aiutarli. Il commissariato purtroppo con quel brutto tempo non avrebbe potuto avventurarsi fin lì. Però Mary pensò che almeno così nessuno avrebbe potuto lasciare la villa. I genitori erano sconvolti e non ci potevano credere, incapaci di pensare o ragionare su chi potesse essere stato. Nel trambusto nessuno si rese conto di chi fosse uscito dalla stanza. O meglio furono in tanti ad uscirne per prendere stracci, acqua, bende… come ad esempio Sally, la cuoca, che prese delle stoffe per tentare di arginare la ferita di Jimmy. Mary fu talmente sconvolta da dover salire in camera sua per sciacquarsi il viso e prendere un calmante. Si concesse ancora alcuni minuti seduta sulle sponde del letto, volgendo lo sguardo alla sua amata, per quanto piccola, libreria. Nessuno lo sapeva, ma aveva comprato tutti i gialli della sua scrittrice preferita, Agatha Christie. Oh, come aveva amato il suo Poirot e la fantastica Miss Marple! Già, cos’avrebbe fatto proprio Miss Marple in quel frangente? Certo non si sarebbe persa d’animo né avrebbe avuto bisogno di cachet, come lei. Se ne vergognò, si rialzò con ritrovato vigore e si disse che sarebbe stata all’altezza della sua eroina: si sarebbe messa subito ad investigare per cercare di capire perché e chi avesse assassinato quel povero innocen-

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te.

Scese, quindi, trafelata le scale e entrò poco prima di Paul nella cucina attigua alla sala da pranzo. Paul era un ragazzetto di circa quindici anni, alto, non tanto magro, capelli castano e spettinati, un tipo molto riservato, a cui faceva da mamma, in mancanza della sua, da ormai due anni. Notarono, vicino al lavello, un coltello da carne, gocciolante come se fosse stato appena lavato. Appena la cuoca fece il suo ingresso, pallida come un fantasma, Mary le porse un bicchier d’acqua chiedendole: - Sally, hai usato per caso questo coltello, magari per le fasciature del piccolo? - Eh? - si girò verso la coltelliera - No, ci mancherebbe. Quello l’ho usato all’alba per gli affettati di lacerto. Perché? - Beh, perché qualcuno l’ha lavato da pochissimo. - e indicò l’acqua gocciolante lì accanto - E temo di sapere per cosa sia servito! Per poco Sally non svenne: - Gesù benedetto! - poi rivolto al ragazzo - Vieni, Paul. Già nel corridoio la cameriera si rivolse a Paul: - Chi secondo te può essere stato? Lui rispose: - Io sospetto che possa essere stato lo zio Jacob... non mi è mai piaciuto. - Effettivamente è il fratello cadetto e diventerebbe erede di tutte le proprietà, ma chissà tra quanti anni! - ribattè Mary - Oltretutto zio Jacob mi sembrava davvero sconvolto. Ritornata, quindi, nel salone si avvicinò al corpicino insanguinato, e osservando bene la ferita sulla schiena notò che era stata inferta da sinistra verso destra. L’assassino doveva essere un mancino e lo zio Jacob non lo era. I mancini presenti erano Dorothy, la cuoca, e Tom, il custode. Dorothy lavorava in quella casa da ormai trent’anni, dedicandosi sempre ai suoi manicaretti con allegria e diffondendola a tutto il personale, benché l’unica cosa che le desse la forza e la gioia era pensare

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che poteva crescere i suoi figli con il suo stipendio. Tom il custode tuttofare era stato assunto da poco, aveva poco più di vent’anni, alto e magro, bei lineamenti in cui spiccavano i suoi occhi azzurri, ma che non corrispondevano affatto al suo carattere brusco e ombroso. Paul aveva ricevuto da Mary il compito di distrarre la cuoca e il custode dandole il tempo di controllare nelle loro stanze e tra la loro roba. Quindi per intrattenere Dorothy, il ragazzo usò un metodo infallibile, le parlò dei suoi figli. - Allora Dorothy, come stanno i tuoi figli? - Benissimo, grazie! - rispose - Sai che… - ed eccola partire con il suo lungo e commovente discorso sui suoi cari. Intanto Mary riuscì ad entrare in camera della cuoca ma, dopo aver frugato velocemente fra le sue cose, non trovò nulla di interessante. Così rapidamente si spostò nella camera di Tom. Lì reperì due foto ingiallite nel cassetto del comodino in una piccola scatola, dove erano custodite anche una collanina, un bracciale e due foto. Nella prima c’era una donna molto giovane e bella con in braccio un bambino. Mary la riconobbe subito, quella donna era presente anche nelle foto in Biblioteca dove c’era il signor Rogers e tutti i camerieri di venti anni prima. Nell’altra foto c’era anche una dedica: “Alla mia Lucy” con la firma di un certo Henry. Mary doveva assolutamente scoprire la verità! Stava ancora riflettendo sul da farsi quando, improvvisamente, entrò in biblioteca il giardiniere, un omone anziano, dallo sguardo timido e gentile che cercava il maggiordomo. La cameriera sussultò dallo spavento, ma pensò che nessuno meglio di lui avrebbe potuto aiutarla a chiarire alcuni misteri, dal momento che lavorava per i Rogers da oltre vent’anni. - Proprio la persona di cui ho bisogno. - pensò. Gli venne incontro e mostrandogli la foto, disse: - Johnny, sia gentile, la prego, mi parli di questa donna. È davvero importante. - Oh Lucy, povera ragazza! Così dolce, bella, gentile ma tanto tanto sfortunata... - commentò il giardiniere mentre una lacrima gli

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rigava il volto - Prego si sieda, la storia che sto per narrarle è molto lunga e dolorosa. Rimase per qualche secondo in silenzio e poi cominciò: - Si chiamava, appunto, Lucy ed era stata assunta come cameriera dal “vecchio Rogers”. Il figlio Henry si era follemente innamorato di lei che era una donna molto bella. Era alta, magra, aveva i capelli chiari e gli occhi marroni. Avevano avuto un figlio, ma la famiglia di Henry non aveva accettato la storia e pertanto avevano costretto la cameriera a portare il bambino in un orfanotrofio con la promessa che comunque, lo avrebbe mantenuto economicamente. Poco tempo dopo il padre di Jimmy si innamorò di una ricca nobildonna, si sposò, cancellando dalla propria vita il figlio e la madre, che, nel frattempo, si era ammalata. Venne licenziata e, non avendo più i soldi per curarsi, morì. Appena il giardiere ebbe concluso, Mary riguardò le foto e il quadro le fu chiaro. Sconvolta ma fiera delle proprie indagini, corse in casa e grazie al maggiordomo sia la servitù che la famiglia fu convocata nel salone. Lentamente, ad uno ad uno, si misero seduti. Erano tutti tesi e preoccupati. Solo la signora Rogers sembrava indifferente, intontita dagli psicofarmaci. Poi Mary cominciò: - Signori, vi abbiamo riuniti qui perché conosco, finalmente, l’identità dell’assassino del piccolo Jimmy. Vi racconterò una storia: vent’anni fa, proprio in questa casa, è nato un bambino. Non fu una gioia per la famiglia e il motivo era molto semplice: il piccolo era il figlio dello scandalo. Il figlio dell’unico erede dei Rogers, Henry, e di una serva! Che vergogna! Che disonore! Il bambino venne portato in un orfanotrofio e la madre, malata, fu licenziata morendo poco dopo. - Sì, è tutto vero, - ammise il Signor Rogers - ma io l’amavo tanto. Fui costretto ad abbandonare lei e il bambino perché, altrimenti, la mia famiglia mi avrebbe tolto tutti i beni. Mi dispiace, sono un vigliacco e vivrò per sempre con questo rimorso.


La cameriera riprese a parlare: - Non le piacerebbe sapere che fine abbia fatto quel bambino, Signor Rogers? Guardi questa foto, la guardi bene… A quel punto la signora Rogers sembrò svegliarsi da un lungo torpore, fissò la foto che aveva in mano il marito e i suoi occhi incrociarono immediatamente quelli di Tom, il custode: lui e Lucy erano praticamente identici! Capì all’istante… Era lui l’assassino di Jimmy! Tom, confuso e cosciente di quello che stava accadendo, cercò di scappare, ma la signora Rogers, con scatto felino, prese la rivoltella del marito dal cassetto della credenza del salone e gli sparò ferendolo ad un braccio. Tom cadde a terra e perse i sensi. Finì in carcere per il processo, ma non si arrivò mai alla sentenza perché si impiccò prima.

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Susanna Belfiore - Federico Corda - Giovanna Cosentino - Ginevra LaganĂ - Luca Zappulla Federico Zerbo

Un caso per Babbos

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Angelo Babbos era un investigatore privato nella Zafferopoli degli anni ’50. Era un uomo sulla cinquantina, abbastanza alto e paffutello, aveva i capelli brizzolati come la barba e una sua particolarità erano i suoi piccoli occhi verdi ingranditi dai suoi grandi occhiali spessi. Un suo difetto però erano i denti gialli dati dal troppo uso della pipa. Era un giorno qualsiasi ed il sig. Babbos era seduto sulla sua poltrona d’epoca, situata davanti alla sua malandata scrivania. Sulla porta del suo ufficio c’era la scritta “BABBOS INVESTIGAZIONI” ma la “S” era alquanto sbiadita, quindi lo chiamavano tutti “BABBO”. Stava leggendo il giornale che parlava dei candidati a sindaco, quando una signora dall’aria di avere quattrocentoventicinque gatti in casa, si scaraventò nel suo ufficio urlando: - L’hanno rapito!!!!!! E l’investigatore ironico: - Chi il gatto? - guardò l’orologio quasi ridacchiando - L’ho visto buttarsi dalla finestra quattro minuti e ventisei secondi fa. E la signora irritata gli disse: - Mio figlio, Pinco Pallino!!! Il sig. Babbos le disse: - Tranquilla, signora, lo troverò. Lasci pure una sua foto e compili questo modulo. Quel nome gli era sembrato uno scherzo di cattivo gusto, ma successivamente gli occhi gli caddero sul giornale e il nome del primo candidato era proprio Pinco Pallino, quindi Angelo decise di prendere il suo cappello alla Sherlock Holmes che lo aiutava a concentrarsi. Così l’investigatore iniziò a svolgere delle indagini. Aprì il cas-

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setto dell’archivio dove si trovavano i casi risolti ma anche qualcuno irrisolto e rilesse quello appena depositato della cliente. La madre dello scomparso aveva scritto che da pochissimo si era trasferito in periferia, senza lasciarle l’indirizzo: pareva fosse in una zona troppo malfamata e che se ne vergognasse un po’. Inoltre gli aveva fornito l’indirizzo di un amico e collaboratore politico. Babbos quindi si recò all’Ufficio delle Imposte, un posto buio, polveroso, con il tetto cadente e un odore insopportabile di muffa. Qui trovò un’infinità di persone in attesa e un impiegato dall’aspetto trasandato che faceva intuire una qualche difficoltà finanziaria e una possibile disponibilità a favori in cambio di cibo o denaro. Babbos riuscì ad ottenere altre notizie sullo scomparso e nel pomeriggio andò a trovare il signor De Melio collaboratore politico e abile investigatore. Questi era un uomo sulla sessantina, basso, grassottello con capelli e barba nera, occhi verdi e piccoli, occhiali quadrati marroni e un neo sulla guancia sinistra. Aveva un carattere dolce e paziente ed aveva studiato molto, la storia dell’Italia era l’argomento preferito. La sua memoria era brillante e ricordava ogni cosa persino quello che aveva fatto in prima elementare. Finalmente Babbos lo trovò. - Babbos, cosa ci fai qui, vecchio mio? - lo salutò. - Caro Giovanni, quanto tempo! Sono venuto a chiederti se per caso hai fra i tuoi fascicoli qualcosa su un certo Pinco Pallino. Desidero sapere se aveva intrapreso relazioni complicate o affari illeciti. - Aspetta qualche minuto e controllo. Cercando nello schedario reperì qualcosa sul candidato sindaco. - Allora, caro mio, nel fascicolo non trovo nulla al riguardo, ci sono solamente indagini su assegni a favore del fratello che lo hanno portato ad una evidente difficoltà economica. Babbos dopo aver scambiato qualche parola lo abbracciò ed esausto se ne tornò a casa. Il giorno dopo fu la volta dell’Ufficio Registri, il luogo era più

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luminoso e più pulito rispetto al precedente già visitato, ma nonostante non ci fosse nessuno in attesa, un burocrate gli ordinò di mettersi in fila. Babbos continuando a parlare con l’impiegato, un uomo rozzo ma benvestito, riuscì a scoprire dopo ore di discussioni, l’indirizzo del candidato Pinco Pallino. Quindi, seguì la lunga anticamera alla Compagnia dei Telefoni per controllare se davvero avesse ricevuto una telefonata e da chi: prese nota dei numeri per accertamenti ulteriori. Finalmente, l’investigatore si recò nell’appartamento, manomise con un ferretto la serratura della porta d’ingresso e trovò il suo cliente legato ad una sedia (nonché mezzo intontito) come un pesce in una rete - perché proprio di una corda da pescatore si trattava. Immediatamente lo liberò e con altrettanta rapidità telefonò al commissario di polizia il dottor Montagneverdi. Montagneverdi era un uomo calvo ma di bell’aspetto, con un corpo muscoloso ma non troppo, gli occhi verdi, dai modi simpatici e affascinanti. Era amato da tutti e in particolar modo dalle vecchiette che vedevano in lui un supereroe, protettore della categoria degli indifesi. Mentre la polizia faceva irruzione nel locale di Pinco Pallino, Babbos si diede un’occhiata intorno. C’era un cucinino, un tavolo con quattro sedie, un divano letto con accanto un comodino, con sopra una boccia di vetro contenente un pesce rosso, una lampada, un bagno e infine un corridoio che portava su un piccolo balcone. Sgranò un po’ di mangime nella boccia, salutando il suo vecchio amico, il commissario Montagneverdi era vestito in giacca e cravatta e aveva un cappotto con delle maniche allungate e indossava una coppola. Subito il commissario con tanta felicità di incontrare il suo vecchio amico disse: - Salve investigatore Babbos! Un altro caso per noi, come ai vecchi tempi! E allora l’altro rispose: - Sì. Pinco Pallino, nel frattempo, iniziò a proclamare la sua innocenza, senza neanche sentire cosa avevano da dirgli i poliziotti, mostrando una sicurezza tale da far credere che avesse progettato tutto prima.

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Con quell’aria intelligente e furba diede proprio una brutta impressione. Così, Montagneverdi disse: - Lei è in arresto per tentativo di estorsione e procurato allarme ai danni di suo nonno. Subito l’ex rapito, ora presunto truffatore, con voce polemica e senza ascoltare cercò di giustificarsi: - No, non è vero, io non farei mai una cosa del genere! Il signor Pallino venne arrestato e portato in centrale e subito cominciarono a esaminare il caso. Il commissario Montagneverdi riferì a Gibbo e Babbos la situazione: - Penso che lui abbia voluto far finta di esser stato rapito per ottenere i soldi del riscatto, che avrebbe chiesto al suo nonno ricco. Abbiamo trovato tutto scritto su una lavagna del suo studio. Cercate di fare luce sul caso, di capire se è giusto o sbagliato ciò che dico. Ah, dimenticavo, Gibbo, sarai aiutato da un bravo investigatore mio amico, il signor Babbos. E allora in contemporanea, Gibbo e Babbos, dandosi una craniata per l’entusiasmo, presero il fascicolo e andarono ad esaminarlo. Nelle prime dichiarazioni il signor Pallino aveva parlato di una “Gola Profonda” che gli aveva dato appuntamento a casa sua. Gibbo subito disse possibilista: - Bah, se fosse vero, sarebbe stato questo tale a legarlo. Babbos aggiunse un’altra azione del personaggio misterioso: Ma prima lo avrebbe drogato. Il che spiegherebbe la sua lingua impastata… a meno che non parli come un imbecille di suo. Allora per fermare i due il commissario Montagneverdi aggiunse la sua: - Quel che è certo è che ha avuto una brutta nottata… guardate che faccia! Infine Babbos ebbe un’idea geniale: - Ma perché non gli chiediamo qualcosa? E gli altri in coro gli risposero: - Come hai fatto a pensarci?! Andiamo. All’interrogatorio per essere più minaccioso Babbos prese una

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mazza da baseball, giustificandosi: - Non lo picchierò, è soltanto per farlo parlare e per avere un aspetto piu minaccioso. Poi Gibbo si rivolse al signor Pallino: - Facciamo un patto, tu mi dai delle informazioni e io non ti faccio spaccare la testa da Babbos, ok? Ora dimmi: perché tu avresti chiesto i soldi del riscatto a tuo nonno? Impaurito quello balbettò: - I-io no-on ne s-so ni-niente di questa cosa. Non mi picchiate, ho detto la verità! Babbos chiosò: - Non mi quadra. Il commissario portò tutti fuori dalla sala dell’interrogatorio e pronunciò: - Un po’ gli credo, voi? Gibbo e Babbos subito all’unisono: - Sembra sincero. E il commissario: - Infatti, è un caso abbastanza difficile. Se avete nuove prove o cose che possono fare luce sul caso aggiornatemi. Al termine tutti quanti andarono nelle proprie case a dormire, perché era molto tardi. Il giorno dopo Babbos sarebbe andato dal ricattato, il nonno di Pinco Pallino. Questi abitava in Via Delle Zagare, una delle strade più prestigiose della cittadina, in una colossale e lussuosa villa. Babbos arrivò con il suo nuovissimo maggiolino (che sperava di pagare con la ricompensa del caso da risolvere), dinnanzi al cancello. - Molto sobrio. - pensò, guardando il cancello tutto rivestito di oro a 24 carati. Un maggiordomo, alto, magro, sui cinquant’anni, vestito in smoking lo accolse: - Benvenuto signor Babbos, il signore la sta aspettando. La prego, mi segua. Attraversarono il maestoso giardino, arrivando fino alla porta della villa, fatta rigorosamente in avorio, con serratura in platino. Al di sopra della porta vi era un grosso balcone, sorretto da due grosse colonne doriche di pregiatissimo marmo bianco. Entrarono. L’interno era pacchiano quanto l’esterno: le pareti erano ricoperte da lastre dorare, sul tetto vi era l’esatta riproduzione della volta di San Pietro,

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a eccezione dei due lampadari di diamante. Babbos era incredulo e schifato da tanta eccentricità e volgarità. Di fronte all’ingresso, accanto ad un suo busto d’oro massiccio c’era il basso e cicciotto settantacinquenne, nonché padrone di casa, Filiberto Callisto Eusebio Galeazzo Stanislao Zenobio Aristide Ugo Pallino. Entrarono nel suo studio e si sedettero. - Signor Pallino, che mi può dir riguardo a suo nipote? - Beh...eeee...eeee...eeeeeeeeeeetchùù. - starnutì; prese un banconota da diecimila lire e si soffiò il suo grosso naso a patata - Mi scusi. Ho raffreddore. Riguardo a mio nipote non ho molto da dirle. L’ho ritenuto troppo... “rivoluzionario”, perciò non l’ho sostenuto durante le elezioni. Temevo per la sua incolumità, capisce? Aveva un programma elettorale assolutamente onesto... il che non va proprio giù ad alcuni “politici quasi onesti”, che sono stati immischiati in alcune incriminazioni, come il suo rivale alle elezioni... mi aiuti, Babbos, non ricordo il nome... - Joe Pesce, mi pare, soprannominato “L’onesto”. Un bel soggettino, già guardandolo in faccia, puoi capire che non è un tipo a posto. - Comunque, come avrà capito, mio nipote non è abbastanza sveglio, per ordire un tale intrigo. A questo punto, non abbiamo più nulla da dirci. Quindi, credo che lei possa andar via... - Veramente... bisogna discutere della mia paga. Il vecchio lo guardò con i suoi occhietti sormontati dalle folte sopracciglia bianche: - Le garantisco che se trova il modo di scagionare Pinco Pallino, avrà più soldi di quanti ne possa immaginare! Babbos impallidì: doveva risolvere assolutamente questa indagine. Con l’aiuto di un suo vecchio amico poliziotto ormai molto vicino alla pensione, cercarono una prova per arrestare Joe.
Trovarono nei tabulati telefonici una registrazione di una chiamata di Joe verso il capo della polizia in persona. - Pronto, Alfonso? - Sì, sono io, chi parla?

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- Sono Joe, volevo chiederti di quella denuncia per corruzione... - Sì, aspetta, dammi il tempo di trovare il documento. Ecco! Ti ha denunciato un certo Pinco Pallino. - Mi prendi in giro?! - No, si chiama davvero Pinco Pallino. È anche il candidato alle elezioni di quest’anno. - Uhm... Grazie. Per questa informazione avrai centomila lire in più questo mese. In quanto a Pallino... mi occuperò io stesso di lui... Non era ancora una prova schiacciante, ma unita alla telefonata, partita proprio dalla villa di Joe a Pinco Pallino, prima della sua scomparsa, rappresentava una forte pista da battere. L’ufficio di Joe Pesce era situato all’interno di uno dei suoi palazzi più lussuosi. I locali in cui ricevette Angelo Babbos si trovavano all’ultimo piano ed erano i più belli dell’edificio. L’investigatore rimase affascinato dallo stile barocco delle stanze: tutti i muri erano intarsiati d’oro con finiture di colore rosso rubino; c’erano anche dei mobili dal valore inestimabile che sembravano provenire da un museo d’arte. L’unica cosa che stonava con quello splendido ambiente era il fumo che offuscava la bellezza di tutti gli oggetti presenti, proveniente dalla quantità industriale di sigari che il signor Joe fumava in continuazione. E proprio da dietro quella cortina di fumo apparve il politico. Il suo aspetto era atletico ed il portamento elegante, con i capelli lisci e neri rigorosamente pettinati con una riga centrale e baffi folti e lisci dello stesso colore dei capelli. Tuttavia, nonostante l’aspetto curato, il suo sguardo era inquietante: il suo occhio destro, sfigurato da un’enorme cicatrice con l’iride di colore bianco scarlatto, e l’altro color verde smeraldo lo facevano sembrare un uomo cattivo e crudele; inoltre, portava sempre con sé una rivoltella riposta nella cintola dei pantaloni. - Vuole favorire un sigaro? - chiese il padrone di casa. - La ringrazio, ma non fumo mai in servizio. - rispose a malincuore l’investigatore, costretto a rifiutare l’allettante offerta per mantenere

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il suo rigore professionale. - A cosa devo l’onore della sua visita? - Sto indagando sulla vicenda di Pinco Pallino e, per quanto mi risulta, lei lo ha chiamato qualche giorno prima della sua scomparsa. Saprebbe dirmi il perché? - Come saprà bene, il sig. Pallino si è candidato come sindaco alle prossime elezioni e io l’ho chiamato solo come gesto di cortesia tra colleghi, per augurargli buon lavoro. La spiegazione data da Joe Pesce non convinse affatto l’investigatore che, per curiosare in giro senza destare sospetti, si finse interessato all’architettura di quell’edificio. Mentre Babbos gironzolava per le stanze, notò sul volto di Joe un’espressione preoccupata, che non riusciva a mascherare dietro il suo viso sfregiato. Ad un tratto, vide dietro la scrivania una corda da pesca umidiccia, uguale a quella con cui era stato legato Pinco Pallino, insieme a una canna da pesca e un secchio, evidentemente un passatempo di Joe Pesce. Era proprio la prova che gli serviva per incastrare il vero colpevole del “finto rapimento” del sig. Pallino! - Allora signor Joe, mi corregga se sbaglio. Quattro giorni fa una telefonata parte da qua all’ufficio di Pinco Pallino. Questi sostiene di essere stato contattato da una non meglio precisata “gola profonda” per svelargli dei retroscena di corruzione. Gli dava appuntamento per poche ore dopo a casa sua. Non appena arrivato sul posto, però, il sig. Pallino, anziché il suo informatore, ha incontrato una persona che lo ha aggredito, addormentato con un etere e poi lo ha legato e rinchiuso nell’appartamento dove è stato ritrovato. E io sono convinto che questo aggressore sia stato lei! - Devo ammettere, ispettore Babbos, che ha davvero molta fantasia. Vorrei a questo punto che lei mi spiegasse anche il motivo di questa messinscena! - Glielo spiego subito! Tutta questa vicenda sin dall’inizio mi è

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apparsa strana e mi sono sempre chiesto per quale ragione una persona onesta come il sig. Pallino avrebbe dovuto fingere il proprio rapimento per intascare i soldi del riscatto, quando ormai era a un passo dal realizzare il suo sogno di diventare sindaco della città. Ho quindi parlato con il nonno dell’indiziato. - Mi spiega adesso cosa c’entra suo nonno? - lo interruppe Joe spazientito. - Beh, proprio suo nonno che avrebbe dovuto essere il più indispettito dall’accaduto ha, invece, difeso, a suo modo il nipote, spiegandomi che era troppo ingenuo e onesto per aver ordito questa truffa. Mi ha, inoltre, fatto riflettere sulle antipatie che la sua rinomata onestà gli aveva procurato tra i suoi avversari politici, che avrebbero potuto cercare di rovinargli la reputazione per fargli perdere le elezioni. - Baggianate! - intervenne il politico sempre più nervoso - Come se non ci fossero altre persone oneste al mondo! E poi non ho ancora capito io cosa c’entro in questa storia! - È semplice, signor Joe Pesce! Lei era il principale avversario politico del sig. Pallino e dunque quello che più avrebbe avuto da rimetterci dalla sua vittoria politica. Ed è per questo che ha inscenato il rapimento e reso pubblica la richiesta di pagamento di un riscatto, in modo tale da infangare la reputazione del suo rivale e fargli perdere le elezioni. - E quale prove avrebbe contro di me, caro ispettore? - ribattè con aria beffarda - Non penserà che la polizia crederà alla sua favoletta? - Non dovrà credere a nessuna favola, perché lei ha commesso un terribile errore! A quel punto il volto di Joe Pesce si fece scuro e preoccupato. L’ispettore si diresse verso la scrivania dell’ufficio e raccolse da dietro la sedia una corda da pesca umidiccia. - La sua passione per la pesca l’ha tradita e non ci vorrà molto alla polizia per accertare che la corda con cui è stato legato il sig. Pallino proviene da questa!

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Non riuscì neanche a finire di parlare che Joe tentò la fuga verso la scalinata, ma Babbos prontamente usò quella stessa corda per agganciarlo al lazo. Finalmente anche quel “Pesce” era ormai nella rete! L’indomani su tutti i giornali uscì questa notizia che sconvolse l’intera città. Babbos, risolto l’intrigo politico, riuscì pure a far vincere le elezioni a Pinco Pallino e Filiberto Callisto Eusebio Galeazzo Stanislao Zenobio Aristide Ugo Pallino che avrebbe dovuto ricoprirlo d’oro si rivelò un vero taccagno, pagandolo solo cento monete. Dopo qualche mese arrivò una telefonata che svegliò Babbos mentre dormiva sulla poltrona dell’ufficio. Lo squillo del telefono fece saltare in aria l’investigatore che, con gli occhi ancora pieni di sonno, come una tartaruga si precipitò ad alzare la cornetta per rispondere: - Pronto? Chi parla? La voce all’altro capo era grossa, rabbiosa e carica di odio: -Caro mio, tu e il tuo amico credevate di averla vinta? Angelo Babbos strofinandosi gli occhi, credendo ancora di sognare, chiese: - Ma lei chi è? Forse ha sbagliato numero? L’altro rispose: - Nooo! Non ho sbagliato, sto parlando proprio con l’investigatore Angelo Babbos. - Va bene, ma mi vuole dire chi è lei? - Io sono colui che avrebbe dovuto vincere le elezioni e invece mi ritrovo in carcere per colpa sua. Angelo Babbos meravigliato rispose: - Sei Joe l’Onesto, vero? Beh credo e spero che tu stia ancora al posto che meriti. Joe disse: - Vedi che mi hai riconosciuto? Ma stai tranquillo, tanto a breve tempo sentirai parlare ancora di me. La chiamata si interruppe bruscamente. Angelo Babbos grattandosi ancora la testa, si rese conto che doveva fare di tutto per bloccare i movimenti di quel delinquente. Cominciò a prendere appunti è a fare delle telefonate per verificare se Joe l’Onesto fosse scappato di galera

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ed ebbe la conferma. Ancora non credeva a quello che gli stava succedendo e decise di verificare di persona recandosi al carcere. Arrivato sul posto, appeso alla porta della cella dell’evaso trovò un bigliettino con su scritto “Ti è piaciuta la sorpresa? Il tuo pesce è scappato dalla rete!”. Questa metafora cominciava a stargli sui nervi! Esaminò gli indizi che aveva a disposizione. Si accorse che girando il bigliettino trovato vi era scritto: “1°Indizio: Tutto verde, grande e pieno di voci”. Angelo informò la polizia e con alcuni di loro si recò verso il parco. Naturalmente Joe non era lì, ma l’investigatore guardandosi attorno, per capire dove cercare, trovò attaccato ad un albero un altro biglietto dove c’era scritto “Bravo mi hai trovato!” e sul retro “2° Indizio: Conosci bene il posto. L’hai esaminato con cura. Lì hai risolto il tuo caso”. Angelo non ebbe dubbi e con la sua auto si precipitò verso il luogo in cui precedentemente aveva trovato proprio Pinco Pallino. Arrivati, la polizia aprì la porta con una spallata. Joe era lì, in tutta la sua altezza che lo sfidava con i suoi occhi strani, lo sguardo torvo e il sorriso beffardo, mentre puntava una pistola contro Pinco Pallino. L’investigatore trovò in un angolo proprio la canna da pesca di Joe, l’afferrò e lo prese all’amo strappandogliela di mano. - Oh, non di nuovo!- fu l’ultimo commento di quel grosso “Pesce” caduto definitivamente in trappola.

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Guglielmo Fassari - Alessio Gibilaro - Emma Lo Stimolo - Vittorio Ritrovato - Simone Spampinato

Tiergartenstrasse 4

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Berlino, primavera del 1942 L’eco delle bombe era lontana dalla capitale del Terzo Reich. La guerra imperversava, ma lontana dai suoi confini e nulla e nessuno sembrava poter interferire con l’ascesa della Grande Germania. I pomposi viali imperiali erano animati da “terrasse” alla francese rigogliose di tulipani olandesi e genarei parigini, a ricordo delle recenti conquiste. In ogni dove alle note di Lili Marleen i giovani danzavano spensierati sicuri di una vittoria a breve termine. Proprio tre di essi, conosciutisi alla scuola per sottufficiali, avevano avuto la fortuna di ritrovarsi di nuovo assieme a Berlino a protezione del Reichstag: Adam Müller era alto un metro e novanta, agile, biondino e con occhi azzurri, Thomas Fischer era alto un metro e ottanta, molto intelligente, aveva i capelli neri e gli occhi verdi, infine Albert Schulz era alto un metro e settantacinque, robusto, castano e con occhi neri, rispettivamente di venticinque, venti e ventun’anni. Allo sbocciare di quella primavera durante una uscita serale i tre incrociarono tre ragazze deliziose al bar Berlin. Si presentarono. La prima era Christine Borter di appena diciott’anni, alta un metro e ottanta snella bionda occhi marroni, l’altra era Barbara Mayer di vent’anni, snella, bionda, dagli occhi castani, l’ultima Helena Schierid, di ventidue anni, un metro e settantotto, la più rotondetta, castana dagli occhi verdi. Il più intraprendente tra loro, Adam, si fece avanti e offrì un cocktail a una del brioso trio, Barbara, che l’aveva colpito perché alta

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quasi quanto lui. Tra risatine e dialoghi romantici questi tre sottufficiali ebbero presto relazioni con le tre, che si rivelarono essere crocerossine. Non era insolito che Adam accompagnasse la sua fidanzata con l’auto fino al Charité Universitätsmedizin Berlin, l’ospedale presso cui lavoravano le ragazze. In una di queste occasioni, dopo averle dato un casto bacio sulle labbra, si atttardò con visto da lei ai piedi della scalinata d’ingresso per allacciarsi uno stivale. Sentì allora che la ragazza veniva raggiunta da Christine e Helena. Barbara chiese in un sussurro: - Hai messo nell’acqua quel che sai? Helena rispose: - Certo, ho fatto il mio dovere. La risatina quasi malefica che ne seguì non si addiceva per nulla alla Barbie che Adam conosceva. Si tacciò, però, di essere eccessivamente sospettoso e, pronto a dimenticare l’accaduto, si diresse verso il Reichstag. Albert si recò all’appartamento in Mitte Strasse che le tre giovani condividevano, per invitare Helena a cena il giorno seguente. Mentre parlava con lei si accorse che stava perdendo sensibilità alla gamba destra. Così si sottopose a un controllo da parte della crocerossina che però non trovò in lui niente di strano e gli disse che poteva avere una mancanza di zuccheri, e quindi gli offrì una barretta di cioccolato. Nei giorni seguenti i due si videro fuori a cena. Lui, una di queste sere, nell’offrirle una scatola di cioccolatini, di cui lei era golosa, la fece cadere, perché non riuscì più a reggerla. Così Helena lo portò in casa e gli somministrò una medicina per rafforzare i muscoli. Il giorno dopo, Albert, preoccupato, decise di ricoverarsi in ospedale. Dopo aver effettuati alcuni controlli, il medico responsabile, il dottor Peter Weler - un uomo di quarant’anni, snello, calvo con occhi castani, che lo sovrastava per altezza - fu costretto a rivelargli una triste verità. Con un’espressione seria iniziò a parlare: - Ho i risultati della

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visita di ieri, mi dispiace, Albert. - e gli porse il foglio col rapporto medico, per poi riprendere - Come vedi, abbiamo riscontrato delle gravi mancanze di sali minerali nel tuo organismo e, dopo varie analisi, siamo arrivati ad una conclusione. Abbiamo diagnosticato una distrofia muscolare in fase avanzata. Albert rimase sconvolto da tale notizia, così come i suoi amici Adam e Thomas, e anche le tre ragazze. Non appena lo seppero, tra loro calò il silenzio. Poi finalmente con fermezza Helena disse: - Mi prenderò cura di lui e non lo lascerò mai solo. Tutti apprezzarono il suo slancio e si sentirono, almeno in parte, rassicurati. Nonostante ciò, dopo una settimana Albert fu trovato morto nel suo letto di ospedale. I ragazzi furono chiamati d’urgenza dalla stessa Helena e di fretta arrivarono per capire cosa fosse successo, ma i dottori furono molto lapidari nel dichiarare l’avvenuto decesso e non risposero a nessuna domanda. Tutti si mostrarono distrutti per l’accaduto, ma una persona non ne sembrava molto colpita. Era Helena, che rimase per tutto il tempo in silenzio a guardarsi le unghie o a mangiare i suoi soliti cioccolatini. Adam, in particolare, che non si capacitava di quella fine così veloce, trascorse le ore successive alla morte dell’amico a chiedere informazioni in ospedale sull’accaduto e ben presto capì che era impossibile che una simile malattia potesse uccidere talmente in fretta, e questo fece sì che Adam si insospettisse molto. Dopo la morte di Albert, Adam, il più scaltro tra i tre uomini, decise di vederci chiaro, così finse di avere forti crampi addominali per i quali i medici furono costretti a ricoverarlo in ospedale. In effetti nel reparto del primario Peter Weler in cui lavoravano le ragazze si curavano altro genere di patologia, ma essendo Adam un amico intimo, fecero una eccezione. I primi giorni gli servirono per osservare i movimenti e le abitudini delle infermiere e di conseguenza elaborare un piano dettagliato, questo perché fu costretto a letto attac-

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cato alle flebo. Adam si era stancato della sua immobilità, vide passare Barbara e le chiese: - Buongiorno Barbara, quando pensi che portò alzarmi dal letto? Barbara rispose: - Adam, ho appena parlato con il dottor Weler, domani mattina cambieranno terapia e potrai finalmente metterti in piedi, ma ancora dovrai rimanere in reparto per alcuni giorni. - Meno male, Barbara, non ne posso più! E poi fortunatamente mi sento un po’ meglio. - Sono contenta, Adam, ora ti lascio però, perché ho tanti pazienti da accudire. Egli notò che le tre amiche infermiere avevano un comportamento insolito; passavano troppo tempo con le flebo dei pazienti ed erano le uniche a portare con loro una valigetta di pelle, che poi depositavano in sala riunioni. Cosa più inquietante era il fatto che tutti i pazienti seguiti dalle tre, prima o poi morivano. Finalmente Adam si potè alzare dal suo letto e cominciò a pedinare le tre crocerossine (cercava di seguirle ovunque), per non farsi scoprire faceva finta di fare una passeggiatina, di andare a trovare qualche altro paziente ricoverato, di andare in bagno, di cercare la stanza dei medici... Una mattina vide Helena che invece di prendere i medicinali nell’armadietto a disposizione di tutte le infermiere, tirò fuori una bottiglietta dalla valigia. Senza farsi vedere Adam la seguì ed esterefatto scoprì che iniettava nella flebo di un paziente il liquido della provetta. Tale paziente quella notte morì. A partire da questo momento Adam iniziò a frugare nelle stanze dei pazienti che stavano dormendo e nelle loro cartelle notò che tutti i pazienti avevano malattie genetiche: sclerosi, anemia falciforme, spina bifida, neurofibromatosi e anche ragazzi affetti dalla sindrome di Down. Questo lo fece molto insospettire e pensò: - Perché dei ragazzi Down sono ricoverati in ospedale?

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L’indomani assistette, nascosto dietro un paravento, al ricovero di un nuovo paziente, un giovane brunetto mingherlino che dichiarò di essere malato di fibrosi cistica e Weler ne fu quasi compiaciuto. Questi inizialmente pose le solite domande di routine, ma poi iniziò a fare richieste piuttosto strane: - Dove vivono i suoi familiari? E il ragazzo rispose: - Abitano a Genthin, una cittadina a un centinaio di chilometri da Berlino. - Ti verranno a trovare nel periodo in cui starai qui? E il paziente disse: - Non credo, hanno troppi impegni lavorativi. Infine Weler gli spiegò che, durante il suo soggiorno in ospedale, gli avrebbero somministrato una cura sperimentale piuttosto forte, che gli avrebbe potuto causare malessere e sonnolenza. Dopo esser rientrato nella sua camera Adam cominciò a chiacchierare con gli altri pazienti della stanza, per cercare di capire qualcosa in più su quella struttura. Il discorso virò in fretta alle lacrime a stento trattenute: c’erano almeno due morti al giorno in quel reparto. La mattina seguente l’ufficiale, approfittando del fatto che le infermiere erano a colazione, riuscì ad entrare nella sala infermeria e qui scoprì il mobile che conteneva le cartelle cliniche dei pazienti, ma ciò che più lo colpì era una carpetta nera con sopra scritto “PAZIENTI SOLI” e aprendola trovò una lista di nomi con data di nascita, alcuni dei quali erano cancellati con una riga nera. Adam si accorse che si trattava di persone anziane oppure di bambini. Nel corso della giornata i medici lo visitarono trovandolo in piena remissione. Sarebbe stato dimesso a breve. Doveva sbrigarsi. In contemporanea ai suoi compagni di stanza somministrarono delle pillole che li rendevano stanchi e indolenziti. Quella notte Christine aveva il turno per sorvegliare i malati. Adam aspettò ore ed ore sperando che lei si addormentasse e quando finalmente la sentì russare non riuscì a trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo. Raggiunse la sala riunioni e cercando tra i cassetti trovò i libri contabili dove erano annotate tutte le spese ospedaliere. Notò

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soprattutto la voce “STRICNINA” che veniva acquistata in grandi quantità. Uno scomparto nascosto conteneva, inoltre, la loro valigetta. Vi spiccava un documento chiamato “Aktion T4”. Morendo dalla curiosità Adam la aprì, ma ciò che vide scritto fu scioccante. Aktion T4 scoprì essere il nome del programma nazista - con sede operativa in Tiergartenstrasse 4 - che sotto responsabilità medica prevedeva la soppressione di tutti coloro che erano affetti da malattie genetiche e portatori di handicap (sia mentali che fisici), ovvero, vi si leggeva, “vite indegne di essere vissute”. La cartella gli cadde dalle mani. Era questo dunque, ciò che avevano fatto ad Albert, che avevano già fatto e avrebbero continuato e fare a migliaia di persone innocenti. Si sentì mancare le gambe e rovinò a terra, in preda al mix di emozioni creatosi nella sua mente, in cui però prevalevano l’ira incontrollata ed una notevole indignazione. In quel momento un pensiero, una parola si fece spazio nella sua mente in mezzo a tutta quella confusione: vendetta. E l’avrebbe avuta presto. Il pomeriggio seguente le tre infermiere decisero di prendere un tè con il dottor Weber per discutere della boccetta scomparsa a Christine (proprio quella sottratta da lui). Adam prese la bottiglietta dal nascondiglio e la svuotò nel bricco dove tenevano il tè, sicuro che sarebbe bastato per avvelenarli, e così fu. I quattro iniziarono a star male fin da subito e morirono nel giro di pochi minuti. Egli sfruttando la confusione creatasi, riuscì a scappare e tornò dal suo amico Thomas, gli raccontò tutto ed insieme andarono via dalla Germania, dopo aver cambiato i loro nomi, per andare a vivere in America. Se essere tedeschi voleva dire uccidere persone innocenti, allora non lo sarebbero più stati.

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Lorenza Armenio - Aurora CalĂŹ - Giulia Campisi - Giulia De Angelis - Giada Giammona - Andrea Signer

La serpe di Lyber

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La grande e solenne villa di marmo del professor Sean Mcmoore, storico militare di fama internazionale, era quasi malinconica quanto arrivò la polizia. Era stata chiamata da una domestica che aveva trovato qualcosa di agghiacciante. I due minacciosi grifoni di granito ai lati della porta fecero quasi terrore ai poliziotti mentre entrarono in quella specie di reggia, una delle vetrate accanto all’ingresso era infranta dall’esterno e uno dei rami del grande frassino vicino alla villa era tra i vetri all’interno della casa. Si ritrovarono in una stanza circolare con davanti imponenti scale di pietra che conducevano al piano superiore. Ai lati vi erano l’accesso per la smisurata biblioteca, il corridoio che portava al salotto con un caminetto a parete e più in là la cucina. Salirono e scale e davanti a loro vi era lo studio. Entrarono. Ai lati vi erano librerie a parete si accostavano bizzarramente a piedistalli con elmi vichinghi, armature samurai, katane e wakizashi e armi medievali. Tra la scrivania e la finestra lo trovarono. Grassottello, capelli bianchi, occhi azzurri e freddi, baffi a manubrio, vestiva una camicia bianca e un gilet rosso che seguivano le curve della pancia, i pantaloni di velluto penzolavano sui mocassini in pelle, e da una giacca a quadri. Era senza dubbio Mcmoore… il suo cadavere penzolava dall’asta da dove erano appese le tende. Fu dichiarato suicidio. Due giorni dopo arrivò un’altra scoperta. Un collega dell’erpeto-

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logo indiano Maham Mhogul lo trovò morto nel suo rettilaio. L’indiano sulla quarantina giaceva sul pavimento con una espressione triste, come un samurai che osserva il suo ultimo tramonto mentre era pronto a eseguire l’harakiri. Aveva capelli neri a caschetto e un pizzetto con la punta arricciata che rendeva tragi-comico il tutto, i suoi lunghi abiti tradizionali ricadevano pesanti e leggeri allo stesso tempo sul suo corpo magrolino.Vennero trovati due fori sul braccio sinistro dell’uomo e un cobra egiziano sotto un mobile che guardava i poliziotti guardingo. La teca della serpe era ben aperta. Venne definito il tutto come una tragica fatalità. Quindi, ci fu l’ultima macabra scoperta. Harry Londrick, giovane chimico. Era di bell’aspetto, alto, atletico e muscoloso, occhi di un verde luminoso, capelli bruni ricci. Indossava una camicia bianca, pantaloni di velluto, il tutto decorato da un lungo camice da laboratorio. Era seduto nel laboratorio dove lavorava, con la gola tagliata, un rasoio in mano, e con uno sguardo quasi nostalgico. Sembrava un re che guarda la sua città assediata e in fiamme. Dichiarato l’ennesimo suicidio. Tutti e tre abitavano nel villaggio scozzese di Lyber. Un piccolo villaggio sulla costa ovest delle Highlands, sovrastato da montagne e da una fitta foresta. Gli edifici erano mediocri e umili, data la povertà della popolazione, solo tre strutture erano ricche e imponenti: la reggia dell’ormai deceduto professor Mcmoore, la mastodontica San Michele, la chiesa gotica della cittadina, la roccaforte medievale in rovina nella foresta. L’immensa e altissima San Michele sovrastava, con le sue torri, i suoi pinnacoli, le sue vetrate e le sue statue la piazza principale del paese. Al suo centro si innalzava una fontana con due statue, un cavaliere che si proteggeva col suo scudo dal getto di fuoco (rappresentato dal getto d’acqua) di un famelico dragone. La povera popolazione era molto attaccata alla fede cristiana. Gli ispettori Dover e Priston discutevano del caso nel loro ufficio.

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Due stanze al secondo piano di una palazzina in stile barocco, poco curata ma splendida nelle sue fattezze. All’ingresso accoglieva i clienti la signorina Stevenson e nella stanza riscaldata da un caminetto sempre acceso e con un odor di legna bruciata misto a tabacco, Dover sedeva nella sua grande poltrona di velluto verde scuro, fumando la sua fedelissima pipa e Priston, come al solito, passeggiava nervosamente su e giù per il locale accarezzando con due dita la barbetta brizzolata. Dover rivolgendosi a Priston con un tono di voce pensieroso disse: - Sento puzzo di omicidio, caro Dover. Nessuno dei parenti o amici stretti ha mai raccontato di crisi depressive. - Effettivamente, perché togliersi la vita? E tutti e tre nel giro di pochi giorni! - Magari era questo il piano, far passare tre omicidi per tre suicidi. Verso mezzogiorno un appuntato informava i due della presenza del commissario Peters. Questo, era un uomo sulla cinquantina con un’altezza superiore alla media e abbastanza robusto. Si notava subito la sua bella pancia rotonda e soda messa in risalto dalle bretelle che, ormai già da tempo, avevano preso il posto della cintura. La pelle del viso era di colore scuro, bruciata dal sole e solcata da diverse e profonde rughe che indicavano un’esperienza lavorativa sulla strada più che ventennale. Entrando con passo spedito nella stanza, salutava frettolosamente i presenti e, dopo essere stato informato delle loro ipotesi, le bloccò perentorio. - Le vostre fantasie non sono per nulla convincenti. Quegli uomini erano distanti da Dio, sempre assenti la domenica in chiesa. Non credendo al suicidio come peccato mortale e in un momento di sconforto si sono tolti la vita per disperazione. Il caso è chiuso: “debolezza mentale”. La chiesa madre di Lyber si trovava antistante all’unica piazza della città, era in stile moderno e costruita in un’unica navata. Sui lati si aprivano sei grandi vetrate colorate che donavano all’ambiente un

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senso di accoglienza. In fondo, dietro l’altare, su sfondo dorato, era dipinta la figura del Cristo. Da lì tuonava la figura segaligna e giovanile, nonostante la sua mezz’età, di don Joseph. Lui era il parroco di quella chiesa da circa ventisei anni, conosceva molto bene i suoi fedeli e tutti i cittadini di Lyber. Era molto appassionato nel predicare il vangelo e rimproverava tutti quelli che se ne allontanavano. Si considerava responsabile delle sorti spirituali dei suoi parrocchiani fino al punto d’imporre la parola di Cristo. Quella domenica al culmine della sua omelia che avrebbe dovuto essere un suffragio di quelle anime, chiuse gli occhi e citò l’antico testamento contro gli adoratori di altri dei: - “Ecco il mio furore, la mia ira si riversa su questo luogo, sugli uomini e sul bestiame, sugli alberi dei campi e sui frutti della terra e brucerà senza estinguersi.” Quindi, in verità vi dico: nessuna pietà per i suicidi e i senza Dio! Costoro sono la serpe del viaggio di Lyber: il primo è la testa, il secondo è il centro, il terzo è la coda. Tra gli astanti vi era anche il professor Ian Delaney, un anziano collega amico di lunga data di Mcmoore, e un collezionista di armi antiche. Non era, però, uno dei fedeli, credeva a un qualche dio, ma le istituzioni ecclesiastiche non lo avevano mai convinto. In ritardo rispetto al Secolo dei Lumi era un philosophe lui e, a dispetto della moda dell’epoca, portava capelli lunghi, legati con un codino, e senza barba. Nell’abbigliamento aveva ceduto, invece, alla praticità contemporanea con stivali di pelle, pantaloni di velluto marrone, camicia bianca e un lungo soprabito. Era molto magro e lo appariva ancora di più in quel frangente, essendo profondamente toccato da quella perdita. Uscì fuori dalla chiesa a spalle chine. Più ci rifletteva e più gli sembrava impossibile che il professor Mcmoore si fosse tolto la vita. Lui amava il suo lavoro, la birra, le donne, la buona compagnia e aveva sempre parlato con disprezzo dei suicidi: “persone prive di coraggio” li definiva. Doveva vederci più chiaro. Senza altri indugi, si recò, quindi, alla

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centrale di polizia chiedendo se poteva vedere la salma. Lo ricevette il commissario Taine, un uomo basso, robusto, dai capelli neri, gli occhi verdi, con la barba che indossava un lungo cappotto troppo aderente per la sua corpulenza. Lo accolse mellifluo: - È meglio non vedere la salma di un amico. Sarebbe solo un’inutile sofferenza. Ian insistette: - So che non sarebbe opportuno, ma desidero vederlo. Taine, però, inventò una serie di scuse improbabili che insospettirono il professore. Nottetempo allora si introdusse di nascosto alla morgue e esaminò prima il cadavere di Mcmoore. Scoprì così che presentava dei segni impossibili per chi si fosse impiccato: la dilatazione della pupilla, le labbra ritratte, la colonna vertebrale a ponte. Controllò quindi anche gli altri due cadaveri ritrovando gli stessi effetti. Ian li conosceva benissimo, perché aveva assistito alla morte del suo labrador, dopo aver ingerito della stricnina con cui voleva debellare dei fastidiosi topi in casa. Lasciò quel luogo di morte e falsità e ritornato a casa si precipitò nel suo studio. In un vecchio tomo di medicina trovò le notizie su quel veleno: La stricnina è un alcaloide molto tossico che causava il blocco di particolari terminazioni nervose. Ora rimaneva solo da scoprire chi avesse avvelenato le tre vittime e perché. Iniziando ad indagare sul rapporto tra i tre defunti, vennero alla luce dei fatti molto interessanti. In particolare lo colpirono molto tre commenti specifici, che risultarono piuttosto simili: erano tutti e tre componenti della chiesa di padre Joseph, ovvero uomini pii che in teoria, di bugie non dovrebbero dirne, cioè una suora, l’arcivescovo e il custode della parrocchia. Suor Joy, donna piuttosto buffa per il suo fisico abbastanza basso e tozzo, e per la verruca che si ritrovava sul collo, gli raccontò del comportamento rigido che i tre assumevano quando erano assieme, e soprattutto quando erano davanti al sacerdote. Davano l’impressione

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come se stessero nascondendo qualcosa. Invece l’arcivescovo Thompson, essendo un tipo molto scorbutico, e a quanto pareva poco amichevole, probabilmente non voleva che sapesse i fatti suoi, o che lo riguardavano, quindi disse soltanto: - Litigavano con il prete, non so altro. - che simpaticone! Infine quello che seppe dargli maggiori informazioni, era il custode della chiesa, Edward. Brav’uomo, ma duro di testa, per convicerlo a parlare Ian aveva dovuto strapparsi i capelli... aveva paura di perdere il suo umile lavoro probabilmente. Dopo bel po’ di reticenze dichiarò che lui stando sempre in chiesa sapeva più o meno tutto quello che succedeva all’interno. Gli parlò, quindi, di un episodio successo poco prima che i tre morissero. Stava riordinando le ultime cose nell’altare, per la messa che si doveva tenere da lì a poco, fin qundo non sentì delle voci provenienti dalla sacrestia. Avvicinandosi, sentì chiudersi la porta, e iniziò quindi ad origliare, sentendo addirittura delle urla del prete e dei personaggi più conosciuti della città. Così Ian scoprì che i tre avevano avuto terribili e pesanti liti con il prete. Trascorsero così alcuni giorni in cui ad Ian sembrava di girare in tondo. Qualche lite di poco conto, infatti, non era di certo un movente per un delitto. E per il resto non emergeva null’altro di scabroso su questi tre integerrimi cittadini. Il professore decise, quindi, di recarsi in un pub alla ricerca di un criminale, Isaac Bultrod, famoso per fornire informazioni dietro un giusto compenso. Durante il tragitto, si accorse di essere seguito e spiato da tre figure losche, incappucciate e armate di randelli, però non lo fece capire loro. Non sapeva immaginarsi chi lo tesse pedinando o forse sì? Però, nel pensarci si diceva “ma non è possibile”. Durante la camminata si ritrovarono in un vicolo buio, così cercò di nascondersi, però non ci riuscì. Quindi i tre tentarono di colpirlo. Ian, per difendersi, fu costretto ad aprire il fuoco: due scapparono, ma il terzo rimase a terra morto.

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Proprio gli avventori del pub accorsi a quel rumore si radunarono intorno al cadavere, uno di loro tolse gli tolse il cappuccio e riconobbe un monaco. Iniziarono ad additare Ian come assassino, per cui Ian preso dal panico fuggì. Fu costretto a rifugiarsi nella foresta per tre giorni. Lì si trovavano le rovine di un castello costruito in pietra. Per la verità erano rimaste in piedi solo due torri, tra cui la più grande ospitava ancora una stanza enorme, forse quella reale, che lui scelse come giaciglio. La notte del quarto giorno andò direttamente a casa di Isaac, un ragazzo giovane, con capelli rossi, una camicia bianca gessata, dei pantaloni in velluto e delle scarpe di cuoio. Arrivato da lui gli mostrò la sua scarsella rigonfia di denaro e fu in fretta fatto accomodare in salotto, dove discussero proprio dei suoi assalitori. Isaac spiegò che erano della Congregazione di Sant’Andrea, a cui la loro parrocchia era devota. Richiesto, inoltre, sulla situazione finanziaria di Mcmoore, Mhogul e Londrick, raccontò di qualche loro piccolo debito contratto o presso artigiani per miglioria alla sua villa dall’uno oppure presso alcuni mercanti proprio per l’acquisto di alcuni esemplari rari del suo rettilario dall’altro o infine ai tavoli da gioco dall’ultimo. Ian disse: - Ok, perfetto. - al contempo pensando che nulla di tutto ciò giustificava il loro suicidio. Isaac ricordandosi di una cosa, prima di congedarlo, aggiunse: - Hanno messo una taglia di duecentosettantanove corone sulla tua testa, quindi ti conviene scappare lontano finché non si sistemerà tutto. Ian lo riteneva ragionevole, ma prima vi era la sua lealtà nei confronti dell’amico Mcmoore. Corse, quindi, verso la chiesa gotica. All’esterno i cupi guardiani garguglie lo osservarono pronte a ghermirlo. Lo accolse la vasta navata, con le sue lunghe vetrate e colori scuri: nero e grigio. All’interno si trovavano molti monumenti e quadri rappresentati i foschi castighi divini e le sofferenze della Passione. Per non farsi vedere da nessuno, Ian si muoveva guardingo. Do-

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veva conoscere la verità, ma era spaventato. Se non avesse trovato il colpevole che aveva mandato quei tre scagnozzi ad ucciderlo, prima o poi l’avrebbero catturato e sarebbe stato lui a penzolare da una forca. Certo di non essere seguito, entrò nella sacrestia, ispezionandola da cima a fondo. Vide un armadio: dentro c’erano diversi paramenti fino a quando trovò una boccetta che lo insospettì. Incuriosito, la prese e la annusò: era inodore; vi intinse, quindi, un mignolo e assaggiò quel liquido. Aveva un amaro persistente, proprio come aveva letto riguardo alla… - Stricnina, professor Dalaney, è proprio stricnina! Era entrato il prete. La sua voce suonò cavernosa e il suo sguardo minaccioso e sarcastico, mentre in mano teneva un pesante attizzatoio. Ammise con fierezza di aver ucciso i tre uomini: - Quella notte i miei scagnozzi fecero irruzione nella loro casa e li bloccarono con la forza. Poi continuò dicendo che avevano somministrato quel veleno, facendoli morire soffocati tra atroci sofferenze. Ancor peggiori attendevano quei senza Dio all’inferno! I suoi uomini avevano sistemato tutto per suggerire un suicidio. Quindi, il commissario aveva eluso i sospetti degli ispettori con la sua autorità. Infine tuonò: - Ho solo messo in atto la giustizia divina. Quegli uomini erano impuri e non meritavano di vivere. Ciò detto, si scagliò contro Ian. Questi nel frattempo si difese con una sedia che andò quasi in frantumi, ma che fece perdere l’equilibrio al prete, rovinando a terra. Ian prese un po’ di vantaggio e riguadagnò la navata, per scappare verso il campanile. L’uomo lo inseguì. Arrivati in cima l’anziano professore, per quanto ansimante, suonò le campane e così una grossa folla di credenti allertata da quel segnale di pericolo si radunò intorno alla torre. Poi costrinse il prete a spostarsi al di sotto. - Ti ucciderò, come ho fatto con gli altri uomini! - urlò il prete minaccioso. La sua involontaria confessione risuonò attraverso la campana e

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cosĂŹ tutti la sentirono. La folla rimase scioccata. Il sacerdote e i suoi scagnozzi vennero giudicati colpevoli di omicidio e impiccati il 12 agosto 1830. Che la serpe del villaggio di Lyber riposi in pace.

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Jacopo Cristaldi - Michela Fichera - Carmen Messina - Bianca Moncada - Matteo Musmeci

Le loup garou

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Jake Friday era ragazzino che viveva in Irlanda. Era magro, non tanto alto, con occhi verdi coperti da grandi occhiali; aveva un carattere gentile, socievole e molto coraggioso. Un giorno i suoi insegnanti proposero: - Ragazzi, vi vogliamo informare di un viaggio d’istruzione in Francia, nel paese di Locronan. Per informazioni potete invitare i vostri genitori a venire alla riunione per discuterne tutti insieme. A proposito, la riunione è venerdì 13 Marzo. I ragazzi rabbrividirono a pensare a quel giorno, dato che si racconta che sia un giorno pauroso. Ma dal volto gli studenti sembravano tutti molto interessati. Il venerdì i genitori andarono a informarsi, videro le foto e le docenti, spiegando il programma, dissero: - I ragazzi alloggeranno presso delle famiglie che hanno dato disponibilità. Le madri solo al pensare che i figli dovevano vivere per un mese con altre famiglie si rifiutarono. - Io mio figlio non lo mando. - disse la madre di Mark. - Se è per questo nemmeno io. - rispose in seguito la mamma di Sebastian. E così via. Solo una madre diede la disponibilità per fare andare il figlio a Locronan, era quella di Jake. Il giorno previsto per la partenza arrivò, i suoi genitori lo accompagnarono, così egli li salutò: -Ciao mamma, ciao papino; ci vediamo

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presto al mio ritorno. E i genitori in coro: - A presto, tesoro, divertiti. Dopo alcune ore di aereo Jake e la sua insegnante arrivarono all’ aereoporto di Parigi dove presero un autobus per arrivare a Locronan . Ad un certo punto il silenzio fu interrotto dalla professoressa: - Sei in ansia di vedere la famiglia dove alloggerai per tutto questo tempo? Jake fece un cenno affermativo con la testa, poi si schiarì la gola: - Se capito in una famiglia non armoniosa sarà un grande peccato per il viaggio. La professoressa lo rincuorò: - Non ti preoccupare, perché sono tutte brave persone. Arrivati al paese, il ragazzo si guardò intorno e vide che il villaggio era circondato da boschi e da monti. Si fecero strada tra la folla, giungendo a un cancello grosso che portava a un casa molto carina su due piani. Bussarono e presto il cancello e la porta della casa si aprirono e apparve una ragazzina dall’aspetto carino. Era di altezza media, magra, aveva capelli ricci e rossi e occhi blu. Entrarono. - Benvenuti presso la famiglia Promier, io sono Julie e lui è mio papà Pierre. Salutarono i padroni di casa: - Salve, io sono Jake Friday. Così l’insegnante lo affidò a quella famiglia. Nei giorni successivi Jake scoprì che Julie era altruista e gentile. Una notte, mentre tutti erano a letto, si sentì ululare, così il ragazzo andò a svegliare la ragazzina e le chiese: - Cos’è questo ululato continuo? Ella rispose: - È il Loup Garou. - così gli raccontò tutta la leggenda. Jake curioso la incitò: - Andiamo a vedere fuori! Julie tremante lo seguì, anche se nella sua mente era molto impaurita al pensiero di trovarsi faccia a faccia con il mostro. Presero una torcia e si immersero nel bosco. Raggiunto un punto ben illuminato dalla luna si sentirono gli ululati sempre più vicini. Esplorarono intorno a loro e videro il bosco cupo, profondo e ventoso; si girarono e

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videro una sagoma che agguantò una preda. I ragazzi non ci pensarono due volte se la diedero a e gambe. Finalmente a casa e chiusa la porta alle spalle, Julie prese in braccio il suo gatto e disse: - Non preoccuparti, gattino mio, non ti darò mai in pasto a quel brutto mostro. - posò il gatto e si rivolse a Jake - Ci siamo salvati per un soffio, ti voglio bene. Il ragazzo aggiunse: - Anch’io. Dopo quella notte Jake e Julie non facevano altro che pensare al lupo mannaro e a ciò che avevano visto. Jake aveva saputo da Colette, la bella bambina dai capelli color oro vicina di Julie, che le era sparita la cagnolina Lilly. - Pure a James è successa la stessa cosa - disse Colette - a lui è sparito il criceto! E poi Leila, Allison e Marc, i ragazzi del quartiere raccontarono la stessa identica storia: - Mi è sparita la gatta Sissi… Mi è sparito il pappagallo Raimbow… Mi è sparito il pitbull Roxy… -dicevano tutti. - Conosco la ragione di queste sparizioni… - pensò Jake, quindi rivolto agli altri - Ragazzi, io e Julie abbiamo visto una cosa l’altra sera, una cosa mostruosa. - Ehi Jake, ci vuoi mettere paura? Cosa avete visto? - Un lupo mannaro! - Oh! - fecero in coro i ragazzi - Non dire follie, Jake, i lupi mannari non esistono, sono invenzioni della fantasia di qualche regista horror di altri tempi. - L’abbiamo visto veramente, James. - disse seria Julie - Era una creatura orribile e stava mordendo un animaletto del bosco! - Oh mio Dio! - esclamò Colette - Allora la mia Lilli può essere stato mangiata da questo lupo mannaio. - Mannaro, Colette, si dice mannaro. - intervenne Allison. - Cos’è un lupo mannaro? - Secondo una leggenda - disse Marc il sapientone - è un uomo condannato da una maledizione a cambiare le sue sembianze umane

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nelle notti di plenilunio e a trasformarsi in un licantropo. Per placare il suo tormento può solo mordere un altro essere vivente, per questo lancia ululati alla luna. Se morde un essere umano trasmette la sua condanna. C’è solo un modo per ucciderlo, colpirlo al cuore con un pugnale di argento. - Marc, ma come fai a sapere tutto tu! Sei davvero un secchione! - Semplice sono un amante del genere horror, anche se i miei preferiti sono i vampiri. I vampiri sono… - Va bene così, Marc, dei vampiri parliamo un’altra volta. Ora, ragazzi, state calmi e ascoltatemi bene, perché carcasse di animali non ne sono state trovate. Se li avessi divorati sarebbe rimasto un osso, una piuma, una zampetta… E noi abbiamo visto che lo teneva in bocca e lo mordeva. Potrebbe esserci la speranza che i vostri animaletti siano ancora vivi! E così Jake convinse i suoi amici che l’unica strada era stanare il lupo mannaro la notte successiva di luna piena, sebbene a tutti adesso fosse venuta una fifa blu. I ragazzi presero una decisione: si procurarono da un rigattiere uno stiletto in argento e il ragazzo che tra tutti era il più coraggioso, decise che avrebbe affrontato il lupo. Giunta la notte, si riunirono alla fine del bosco e aspettarono illuminati dalla sfera luminosa della luna. Ecco che si avvicinò una figura umana che cominciò a contorcersi e gemere. Quell’ombra si ingigantì sempre più e cominciò a lanciare ululati strazianti. Eccolo: era lui il lupo mannaro! Poi cominciò ad odorare e sentì la presenza umana. I ragazzi spaventati fuggirono via ma il lupo li inseguì. C’era molto buio ed era tutto inquietante. Il lupo rendeva l’atmosfera ancora più paurosa perché stava diventando un essere sempre più mostruoso. Era veloce, ma loro si sparpagliarono. Mark cadde a terra, il lupo si avvicinava sempre di più. Ad un certo punto Jake sentì Mark gridare aiuto. Lui si era slogato la caviglia. Jake gli urlò: - Mark, sto arrivando!

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Jake lo sostenne e si nascosero dietro un cespuglio. Il lupo mannaro si fermò: Julie era proprio di fronte a lui. Lui si guardò attorno; vide uno scoiattolo, lo morse e contorcendosi e ululando ricominciò a diventare umano. Le loup garou non era altro che Pierre Promier, il papà della ragazzina, che raccontò la sua disavventura ai ragazzi. - Ero andato per lavoro in un paesino lontano, qualche ora di macchina e per sbaglio era finito in un bosco perché il navigatore mi aveva messo fuori strada dove in fondo vedevo una specie di castello diroccato. Per curiosità sono entrato e ho visto che era tutto coperto dalla polvere i mobili, i quadri… uscendo in giardino c’era una tomba, avvicinandomi perché sentivo una sorta di attrazione, in un lampo vidi un’ombra che mi passò vicino e mi ritrovai un morso sulla mano. Confuso e pensando che qualche strano animale mi avesse morso, risalii in macchina e me ne andai. Nei giorni seguenti mi sentii bene ed anzi vigoroso, il morso era subito scomparso come se non ci fosse mai stato. Ma la notte di plelinudio… una forza misteriosa mi trascinò fuori e mi fece andare nel bosco e lì avvenne la trasformazione. Quella notte vidi un coniglio e con una velocità impressionante lo acchiappai e gli diedi un morso, dopo un po’ ritornai in me. Turbato l’indomani tornai nel paesino e lì appresi la leggenda del loup garou, che era il signore del castello ora sepolto nella tomba, ma che gli abitanti avevano paura anche di nominare e a cui nessuno si avvicinava, perché si raccontavano storie terrificanti. Si interruppe un momento, scosso, e Julie abbracciandolo forte gli disse: - Ti voglio bene, papà. Il padre si commosse e le disse: - Anch’io ti voglio bene. - poi continuò la narrazione - Lo stesso giorno alle venti e tre quarti al computer, avevo scoperto che mordendo un essere umano avrei trasmesso la “sindrome di Swotsemburg” (colui che per primo ne fu affetto) cioè la patologia licantropa, mentre mordendo gli animali ciò non sarebbe avvenuto in quanto già bestie. Allora avevo preso selvaggiamente a

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mordere gli animali malcapitati … ma non sapevo che fine avrebbero fatto. Bisognava tornare in quel cupo rudere pieno di trappole e scoprire come sconfiggere la maledizione, ecco la soluzione finale. Il signor Promier e Jake col pugnale d’argento si avventurarono nell’infestato bosco e il giorno successivo arrivarono fino alla tomba. Il marmo nero copriva un rettangolo di terra largo circa un metro e di lunghezza doppia, su cui spiccava l’incisione del nome del signore del castello che lì giaceva. Il monumento funerario era dominato da un’inquietante statua bronzea di un pensatore, il cui sguardo puntato nel vuoto incuteva timore e ansia. Gli altri ragazzini, nel frattempo, aspettavano trepidanti nel paesino montanaro leggendario di Locroman. I due avventurieri coraggiosi ( forse il padre un po’ meno…) dovevano attendere quella sera di plenilunio… Al sorgere della luna, iniziò la trasformazione di Pierre ed uscirono tutti gli animali che erano stati precedentemente morsi selvaggiamente. Erano le ventitré e cinquantanove: la luce lunare ora disegnava ombre lunghe tutt’intorno e l’atmosfera era a dir poco agghiacciante. Il silenzio era interrotto solo dal verso di qualche lontano e solitario rapace notturno, oltre che dal battito impazzito del cuore dei due. All’improvviso uscì dalla tomba l’ombra inquietante del lupo. Iniziò il combattimento. La malefica ombra ebbe presto il sopravvento sul povero padre di Julie che giaceva inerte al suolo. Da un cespuglio sbucò il ragazzino che con il pugnale colpì l’ombra del mostro, che sparì rientrando nella sua dimora eterna. Il signor Promier tornò nelle sue sembianze umane come gli animali che furono riabbracciati dai loro preoccupati padroncini. La maledizione del Loup Garou era sconfitta per sempre. Jake Friday era ragazzino che viveva in Irlanda. Era magro, non tanto alto, con occhi verdi coperti da grandi occhiali; aveva un carat-

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tere gentile, socievole e molto coraggioso. Un giorno i suoi insegnanti proposero: - Ragazzi, vi vogliamo informare di un viaggio d’istruzione in Francia, nel paese di Locronan. Per informazioni potete invitare i vostri genitori a venire alla riunione per discuterne tutti insieme. A proposito, la riunione è venerdì 13 Marzo. I ragazzi rabbrividirono a pensare a quel giorno, dato che si racconta che sia un giorno pauroso. Ma dal volto gli studenti sembravano tutti molto interessati. Il venerdì i genitori andarono a informarsi, videro le foto e le docenti, spiegando il programma, dissero: - I ragazzi alloggeranno presso delle famiglie che hanno dato disponibilità. Le madri solo al pensare che i figli dovevano vivere per un mese con altre famiglie si rifiutarono. - Io mio figlio non lo mando. - disse la madre di Mark. - Se è per questo nemmeno io. - rispose in seguito la mamma di Sebastian. E così via. Solo una madre diede la disponibilità per fare andare il figlio a Locronan, era quella di Jake. Il giorno previsto per la partenza arrivò, i suoi genitori lo accompagnarono, così egli li salutò: -Ciao mamma, ciao papino; ci vediamo presto al mio ritorno. E i genitori in coro: - A presto, tesoro, divertiti. Dopo alcune ore di aereo Jake e la sua insegnante arrivarono all’ aereoporto di Parigi dove presero un autobus per arrivare a Locronan . Ad un certo punto il silenzio fu interrotto dalla professoressa: - Sei in ansia di vedere la famiglia dove alloggerai per tutto questo tempo? Jake fece un cenno affermativo con la testa, poi si schiarì la gola: - Se capito in una famiglia non armoniosa sarà un grande peccato per il viaggio. La professoressa lo rincuorò: - Non ti preoccupare, perché sono tutte brave persone.

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Arrivati al paese, il ragazzo si guardò intorno e vide che il villaggio era circondato da boschi e da monti. Si fecero strada tra la folla, giungendo a un cancello grosso che portava a un casa molto carina su due piani. Bussarono e presto il cancello e la porta della casa si aprirono e apparve una ragazzina dall’aspetto carino. Era di altezza media, magra, aveva capelli ricci e rossi e occhi blu. Entrarono. - Benvenuti presso la famiglia Promier, io sono Julie e lui è mio papà Pierre. Salutarono i padroni di casa: - Salve, io sono Jake Friday. Così l’insegnante lo affidò a quella famiglia. Nei giorni successivi Jake scoprì che Julie era altruista e gentile. Una notte, mentre tutti erano a letto, si sentì ululare, così il ragazzo andò a svegliare la ragazzina e le chiese: - Cos’è questo ululato continuo? Ella rispose: - È il Loup Garou. - così gli raccontò tutta la leggenda. Jake curioso la incitò: - Andiamo a vedere fuori! Julie tremante lo seguì, anche se nella sua mente era molto impaurita al pensiero di trovarsi faccia a faccia con il mostro. Presero una torcia e si immersero nel bosco. Raggiunto un punto ben illuminato dalla luna si sentirono gli ululati sempre più vicini. Esplorarono intorno a loro e videro il bosco cupo, profondo e ventoso; si girarono e videro una sagoma che agguantò una preda. I ragazzi non ci pensarono due volte se la diedero a e gambe. Finalmente a casa e chiusa la porta alle spalle, Julie prese in braccio il suo gatto e disse: - Non preoccuparti, gattino mio, non ti darò mai in pasto a quel brutto mostro. - posò il gatto e si rivolse a Jake - Ci siamo salvati per un soffio, ti voglio bene. Il ragazzo aggiunse: - Anch’io. Dopo quella notte Jake e Julie non facevano altro che pensare al lupo mannaro e a ciò che avevano visto. Jake aveva saputo da Colette, la bella bambina dai capelli color oro vicina di Julie, che le era sparita la cagnolina Lilly.

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- Pure a James è successa la stessa cosa - disse Colette - a lui è sparito il criceto! E poi Leila, Allison e Marc, i ragazzi del quartiere raccontarono la stessa identica storia: - Mi è sparita la gatta Sissi… Mi è sparito il pappagallo Raimbow… Mi è sparito il pitbull Roxy… -dicevano tutti. - Conosco la ragione di queste sparizioni… - pensò Jake, quindi rivolto agli altri - Ragazzi, io e Julie abbiamo visto una cosa l’altra sera, una cosa mostruosa. - Ehi Jake, ci vuoi mettere paura? Cosa avete visto? - Un lupo mannaro! - Oh! - fecero in coro i ragazzi - Non dire follie, Jake, i lupi mannari non esistono, sono invenzioni della fantasia di qualche regista horror di altri tempi. - L’abbiamo visto veramente, James. - disse seria Julie - Era una creatura orribile e stava mordendo un animaletto del bosco! - Oh mio Dio! - esclamò Colette - Allora la mia Lilli può essere stato mangiata da questo lupo mannaio. - Mannaro, Colette, si dice mannaro. - intervenne Allison. - Cos’è un lupo mannaro? - Secondo una leggenda - disse Marc il sapientone - è un uomo condannato da una maledizione a cambiare le sue sembianze umane nelle notti di plenilunio e a trasformarsi in un licantropo. Per placare il suo tormento può solo mordere un altro essere vivente, per questo lancia ululati alla luna. Se morde un essere umano trasmette la sua condanna. C’è solo un modo per ucciderlo, colpirlo al cuore con un pugnale di argento. - Marc, ma come fai a sapere tutto tu! Sei davvero un secchione! - Semplice sono un amante del genere horror, anche se i miei preferiti sono i vampiri. I vampiri sono… - Va bene così, Marc, dei vampiri parliamo un’altra volta. Ora, ragazzi, state calmi e ascoltatemi bene, perché carcasse di animali non ne sono state trovate. Se li avessi divorati sarebbe rimasto un osso, una

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piuma, una zampetta… E noi abbiamo visto che lo teneva in bocca e lo mordeva. Potrebbe esserci la speranza che i vostri animaletti siano ancora vivi! E così Jake convinse i suoi amici che l’unica strada era stanare il lupo mannaro la notte successiva di luna piena, sebbene a tutti adesso fosse venuta una fifa blu. I ragazzi presero una decisione: si procurarono da un rigattiere uno stiletto in argento e il ragazzo che tra tutti era il più coraggioso, decise che avrebbe affrontato il lupo. Giunta la notte, si riunirono alla fine del bosco e aspettarono illuminati dalla sfera luminosa della luna. Ecco che si avvicinò una figura umana che cominciò a contorcersi e gemere. Quell’ombra si ingigantì sempre più e cominciò a lanciare ululati strazianti. Eccolo: era lui il lupo mannaro! Poi cominciò ad odorare e sentì la presenza umana. I ragazzi spaventati fuggirono via ma il lupo li inseguì. C’era molto buio ed era tutto inquietante. Il lupo rendeva l’atmosfera ancora più paurosa perché stava diventando un essere sempre più mostruoso. Era veloce, ma loro si sparpagliarono. Mark cadde a terra, il lupo si avvicinava sempre di più. Ad un certo punto Jake sentì Mark gridare aiuto. Lui si era slogato la caviglia. Jake gli urlò: - Mark, sto arrivando! Jake lo sostenne e si nascosero dietro un cespuglio. Il lupo mannaro si fermò: Julie era proprio di fronte a lui. Lui si guardò attorno; vide uno scoiattolo, lo morse e contorcendosi e ululando ricominciò a diventare umano. Le loup garou non era altro che Pierre Promier, il papà della ragazzina, che raccontò la sua disavventura ai ragazzi. - Ero andato per lavoro in un paesino lontano, qualche ora di macchina e per sbaglio era finito in un bosco perché il navigatore mi aveva messo fuori strada dove in fondo vedevo una specie di castello diroccato. Per curiosità sono entrato e ho visto che era tutto coperto dalla polvere i mobili, i quadri… uscendo in giardino c’era una tomba,

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avvicinandomi perché sentivo una sorta di attrazione, in un lampo vidi un’ombra che mi passò vicino e mi ritrovai un morso sulla mano. Confuso e pensando che qualche strano animale mi avesse morso, risalii in macchina e me ne andai. Nei giorni seguenti mi sentii bene ed anzi vigoroso, il morso era subito scomparso come se non ci fosse mai stato. Ma la notte di plelinudio… una forza misteriosa mi trascinò fuori e mi fece andare nel bosco e lì avvenne la trasformazione. Quella notte vidi un coniglio e con una velocità impressionante lo acchiappai e gli diedi un morso, dopo un po’ ritornai in me. Turbato l’indomani tornai nel paesino e lì appresi la leggenda del loup garou, che era il signore del castello ora sepolto nella tomba, ma che gli abitanti avevano paura anche di nominare e a cui nessuno si avvicinava, perché si raccontavano storie terrificanti. Si interruppe un momento, scosso, e Julie abbracciandolo forte gli disse: - Ti voglio bene, papà. Il padre si commosse e le disse: - Anch’io ti voglio bene. - poi continuò la narrazione - Lo stesso giorno alle venti e tre quarti al computer, avevo scoperto che mordendo un essere umano avrei trasmesso la “sindrome di Swotsemburg” (colui che per primo ne fu affetto) cioè la patologia licantropa, mentre mordendo gli animali ciò non sarebbe avvenuto in quanto già bestie. Allora avevo preso selvaggiamente a mordere gli animali malcapitati … ma non sapevo che fine avrebbero fatto. Bisognava tornare in quel cupo rudere pieno di trappole e scoprire come sconfiggere la maledizione, ecco la soluzione finale. Il signor Promier e Jake col pugnale d’argento si avventurarono nell’infestato bosco e il giorno successivo arrivarono fino alla tomba. Il marmo nero copriva un rettangolo di terra largo circa un metro e di lunghezza doppia, su cui spiccava l’incisione del nome del signore del castello che lì giaceva. Il monumento funerario era dominato da un’inquietante statua bronzea di un pensatore, il cui sguardo puntato nel vuoto incuteva timore e ansia.


Gli altri ragazzini, nel frattempo, aspettavano trepidanti nel paesino montanaro leggendario di Locroman. I due avventurieri coraggiosi ( forse il padre un po’ meno…) dovevano attendere quella sera di plenilunio… Al sorgere della luna, iniziò la trasformazione di Pierre ed uscirono tutti gli animali che erano stati precedentemente morsi selvaggiamente. Erano le ventitré e cinquantanove: la luce lunare ora disegnava ombre lunghe tutt’intorno e l’atmosfera era a dir poco agghiacciante. Il silenzio era interrotto solo dal verso di qualche lontano e solitario rapace notturno, oltre che dal battito impazzito del cuore dei due. All’improvviso uscì dalla tomba l’ombra inquietante del lupo. Iniziò il combattimento. La malefica ombra ebbe presto il sopravvento sul povero padre di Julie che giaceva inerte al suolo. Da un cespuglio sbucò il ragazzino che con il pugnale colpì l’ombra del mostro, che sparì rientrando nella sua dimora eterna. Il signor Promier tornò nelle sue sembianze umane come gli animali che furono riabbracciati dai loro preoccupati padroncini. La maledizione del Loup Garou era sconfitta per sempre.

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Andrea DavÏ - Roberta Dell’Erba - Ilenia Ferro Matilde Ortoleva - Giuseppe Vitale

Monster House

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Vi racconto una vera storia horror del 1999, avvenuta durante la festa di Halloween a Londra, una grande città, piena di attrazioni turistiche come il Big Ben, London Eye, Buckingham Palace e il Parlamento. È una città frenetica, tutte le persone hanno un lavoro ed è pieno di gente che ha sempre molta fretta. Qui vivevano tre amici, Tom, Fred e Mary. Tom, era alto, magro, con occhi marroni, capelli corti e bruni, era un tipo simpatico, ma ignorante. Fred, era basso, grosso e portava degli occhiali blu, era socievole con gli altri, ma severo con se stesso e Mary, era alta, con i capelli biondi e gli occhi azzurri ed era molto allegra. Un giorno andarono nel loro negozio preferito di nome “Travestiti”, raffinato e colorato, ma con i prezzi bassi, situato al centro della città, e cercarono dei vestiti per la Festa di Halloween. Dopo un bel po’ trovarono tre bellissimi abiti che rappresentavano un fantasma, un pirata e una vampira. Il primo era bianco con degli occhi grandi sul volto, il secondo era nero, giallo e rosso, con una bandana sulla fronte e una spada sul fianco destro; il terzo, invece, era a strisce alterne fra il verde e il viola. Dopo averli indossati incominciarono a fare “Dolcetto o Scherzetto” girando per tutta la città. Decisero di andare prima nelle case dove abitavano gli anziani perché avrebbero gradito di più la loro visita. Infatti, tutti regalarono loro tante caramelle, un po’ al gusto di arancia e le altre al limone, i sapori tipici di queste delizie. Poi s’incamminarono

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verso alcune case abbandonate dove c’erano due persone che li fecero spaventare moltissimo. Il primo indossava una maschera da lupo mannaro e disse loro: - Vi mangerò tutti! Scapparono a gambe levate, ma poi li chiamò e consegnò loro dei biscotti fatti a mano. Il secondo, invece, imitò la voce da zombie e gridò: - Sono lo zombie più cattivo del mondo, quindi, vi strizzerò tutti i cervelli! A questo punto i ragazzi si nascosero dietro una siepe, ma capirono che era solo un costume quando il signore donò loro una manciata di dolciumi. Felici e spensierati continuarono a girare le ultime case rimaste. Quasi senza accorgersene, si allontanarono finché giunsero in periferia presso una casa mezza diroccata con i vetri delle finestre rotti, i muri lesionati e una grande porta di legno cadente e tarlata. La casa sembrava vuota, non rispondeva nessuno, ma i bambini volevano entrare a qualunque costo e per questo iniziarono a dare calci alla porta e a prendere a sassate le finestre. All’improvviso la casa si animò come a voler punire i ragazzi per il terribile frastuono subito. La porta si spalancò e i tre amici vennero risucchiati all’interno in un vortice di luce variopinta. Era un vero e proprio tornado che li sollevò dal pavimento e li fece girare intorno insieme a tutti i mobili, comodini, sedie e tavoli che iniziarono a ballare accompagnati da candele tremolanti e fuochi fatui. I ragazzi erano terrorizzati, non sapevano come fermarsi; Tom si aggrappò al lampadario ma questo si staccò all’istante dal soffitto, Mary provò a trattenersi alla ringhiera delle scale che però iniziò a muoversi anch’essa, obbligandola a lasciarlo. Anche Fred avrebbe voluto provare a salvarsi cercando di dirigersi verso l’uscita ma non riuscì a raggiungerla: il vortice era troppo potente. Tutto prese sempre più velocità fino a quando i tre ragazzi vennero scagliati a terra e si ritrovarono in una stanza polverosa dall’aspetto

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tetro, illuminata solo da vecchi candelabri. Tre pipistrelli volarono vicino la testa di Tom che urlò di paura. C’erano ragnatele dappertutto, alle pareti vecchie fotografie che sembravano osservare gli ospiti appena arrivati. I tre amici si guardarono senza capire esattamente cosa fosse successo e dove si trovassero. Fred stava per scoppiare in lacrime, ma subito Mary lo consolò, incitandolo a non lasciarsi prendere dal panico. Occorrevano infatti nervi saldi per riuscire a venir fuori da quella situazione. Avete già capito quello che stava succedendo? Un manufatto inanimato, fatto di mattoni e di calce, immobile e insensibile, si era trasformato in un mostro vendicativo e violento. Le finestre e le porte diventavano occhi feroci e bocche spalancate. Ormai prigionieri, all’interno della Monster House, i tre poveri ragazzi furono inghiottiti in una specie di cantina buia e paurosa, piena di ratti e scarafaggi. I tre amici, prima contenti ed entusiasti di festeggiare Halloween, si sentirono perduti per sempre. Tom disse: - Non vedremo più le nostre mamme e nostri papà! Fred aggiunse: - Nemmeno i nostri fratellini e le nostre sorelline! E Mary concluse con le lacrime agli occhi: - E nemmeno i nostri cari amici e compagni di scuola. Questa storia, cominciata nella festa e nella gioia, con scherzetti e dolcetti, si chiudeva nella disperazione dei tre protagonisti. Si seppe poi che non era la prima volta che questa triste metamorfosi si verificava. I tre amici (ma non posso anticipare il finale) lessero, in un giornale, che quella maledetta casa, nella nebbiosa periferia di Londra, si era altre volte (sempre in occasione della festa di Halloween) trasformata in un mostro che aspirava dentro di sé i bambini. Si trovavano ormai nel buio più fitto. Tom si rialzò, stringendo quel che credeva essere il braccio di uno degli amici. Una luce verdognola apparve all’improvviso ai suoi piedi. Urlò disperato: stava tenendo una mano d’osso di uno scheletro! Corsero tutti verso le scale che por-

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tavano al piano sovrastante, venendo colpiti da pipistrelli volanti che infestavano la casa. Arrivati al piano superiore videro che il pavimento era pieno di vermi che camminavano su altri scheletri. Delle enormi ragnatele, inoltre, tessute da altrettanto giganteschi ragni creavano delle reti vischiose tra una parete e l’altra. Fortunatamente un signore anziano alto, con una barba lunga e bianca e con un passo lento e zoppicante, e di buon cuore, entrava e usciva da molti anni da quella lucubre casa. Si accorse che i tre ragazzi erano rimasti intrappolati in quell’enorme camera buia sotterranea, scoperta da quell’anziano signore quando lui stesso era caduto laggiù in tenera età. Tom, Fred e Mary, indolenziti dalla brusca caduta, si guardarono intorno: ai loro occhi si presentò uno scenario agghiacciante. Presi dal panico, iniziarono a piangere e ad urlare in cerca di aiuto. Tom, il più coraggioso del gruppo, si assicurò che i suoi amici non fossero feriti. Diede loro un forte abbraccio e li incoraggiò ad alzarsi e di non preoccuparsi dei pipistrelli e di tutti quegli scheletri che stavano loro addosso. Erano nel buio più totale. All’improvviso i tre amici terrorizzati videro in lontananza una leggera luce che pian piano si avvicinava sempre di più e le loro ombre crescevano e si riflettevano nella stanza, tanto da sembrare animate. Avvicinatisi, si accorsero della presenza proprio di Mister John che, ogni notte di Halloween, entrava da una porticina segreta per salvare tutti i bambini che si bloccavano all’interno della terribile casa. Addio Monster House! Un taxi giallo, chiamato dal signore, li aspettava fuori per portarli a casa sani e salvi. Viva comunque la festa di Halloween!

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Alberto Anastasi - Vittorio Carrano - Guglielmo Dell’Aria - Andrea Sciacca - Francesco Zuccarello

Siamo soli nell’universo?

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Giacomo Melis era un bambino di otto anni che viveva nel sud della Sardegna, in una zona isolata in piena campagna dove le persone più vicine distavano circa tre chilometri. Era abbastanza alto per la sua età e di corporatura robusta; aveva un viso simpatico con grandi occhi neri, un bel nasino a patatina ricoperto da lentiggini e capelli castani che gli ricadevano sulla fronte; vestiva in maniera stravagante con magliette colorate e pantaloni larghi e comodi. Era spensierato, ingenuo e difficilmente teneva il broncio perché amava andare d’accordo con tutti e tutti gli volevano bene. Possiamo dunque dire che era un bambino felice. Frequentava la terza elementare nella scuola del paese vicino; aveva molti compagni, ma il suo migliore amico era il suo cavallo Fulmine, con cui faceva delle lunghe cavalcate. Mentre era al trotto o mentre gli spazzolava il manto nero, gli parlava di quello che gli succedeva a scuola: - Sai, Fulmine, oggi ho preso dieci nel compito di italiano! Avevo fatto un bellissimo tema su di te e ti avevo pure disegnato! Le sue giornate passavano in fretta divertendosi e scorrazzando per la sua tenuta. Tuttavia, se a prima vista Giacomo poteva sembrare coraggioso ed intraprendente, non avendo ancora superato l’età infantile, provava una profonda paura degli alieni perché qualche anno prima aveva visto un film horror sugli extraterrestri e ne era rimasto molto impressionato. In quella pellicola, ambientata in un futuro senza tempo, degli es-

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seri mostruosi provenienti da un mondo lontano, si erano impossessati della Terra e avevano scatenato una guerra con gli umani uccidendoli con i loro aculei spinosi. La scena che lo aveva turbato di più era stata quella in cui il capo ordinava di uccidere tutti i genitori dei bambini e con voce metallica e terrificante diceva: “Succhiate loro il sangue e deponetelo nelle brocche per la cena di stasera!” Si trattava solo di finzione, lo sapeva bene e cercava di farsene una ragione, eppure, spesso, quando si trovava da solo in camera nel cuore della notte, sebbene si sforzasse di non pensarci, quella scena gli si presentava davanti facendolo tremare di paura e causandogli un’intensa sudorazione. Allora si metteva ad urlare a squarciagola facendo svegliare, a volte, anche tutti gli animali della fattoria che cominciavano a scalpitare nella stalla generando in lui ancora più angoscia. In una notte d’estate, in particolare il 13 agosto 2017, la casa in fondo al viale, circondata dal variopinto ed immenso giardino, era illuminata dalla luna piena che con il chiarore faceva apparire la notte come se fosse giorno. Giacomo, mentre dormiva, immerso in un sonno profondo nonostante l’afosa nottata, fu svegliato da un rumore assordante ed improvviso, tanto da non capire se stesse ancora sognando o se quel rumore fosse reale. Era un frastuono potente, talmente intenso da far vibrare tutta la casa, quasi fosse un terremoto. Per quanto ancora addormentato, la curiosità mista alla paura lo spinse ad andare a controllare cosa stesse accadendo. Dopo aver perlustrato tutta la casa, decise di recarsi in giardino: forse il cane del vicino aveva scavato qualche buca, distruggendo come al solito il roseto che la mamma coltivava con tanta cura? Si accorse, con estremo stupore che sul prato verde della sua casa vi era uno strano ed enorme oggetto: una navicella spaziale. Essa era grande, di colore grigio, di forma rotonda, e sulla parte anteriore mostrava dei disegni o forse qualcosa di scritto, che naturalmente non seppe decifrare. Dalla navicella non si sentiva provenire nessun rumore e Giacomo

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rimase per qualche minuto sul da farsi. Pensava e ripensava: - Sto forse sognando? I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti da un assordante ticchettio: una delle aperture della navicella si abbassava lentamente come un ponte levatoio e, ad un tratto, tutto il giardino venne invaso da centinaia di orribili creature. Il bambino non credeva ai suoi occhi: erano quegli alieni che tanto terrore suscitavano nei suoi sogni ed immaginazioni. Si sentiva paralizzato e attirato al contempo. Erano proprio come li aveva sempre immaginati: il colore della pelle di un verde a scaglie che gli procurava nausea, dalle teste enormi, con solo un inquietante occhio dallo sguardo assente, una bocca sproporzionata (poco più piccola della già immensa testa). Inoltre, l’assenza di naso, le quattro enormi braccia, e la corporatura snella (per non dire scheletrica) e la statura medio bassa completavano una visione talmente ripugnante da suscitare nel protagonista una profonda repulsione. I visitatori si infiltrarono in casa Melis per mezzo del teletrasporto. Utilizzarono delle capsule tascabili che inibivano la mente delle persone, per prendere in ostaggio Emma e Filippo cosi da trasferirli a bordo del disco volante. Non riuscirono a prendere anche Giacomo perché le capsule non avevano effetto sui bambini. Per salvare i suoi genitori, Giacomo chiese di poter parlare con il capo degli alieni. Tra loro comunicavano con suoni sincopati, ma al bambino si rivolsero con voci metalliche. Così, dopo diverse conversazioni con gli altri alieni, il loro capo gli concedette un incontro nella sala presidenziale all’interno dell’astronave. Le stanze all’interno erano grandi, ricoperte da mantelli di color porpora e piene di strani macchinari con tanti bottoni colorati. Un lungo corridoio conduceva alla stanza presidenziale, la quale aveva la centro un tavolo in vibranio intarsiato color oro ed alle pareti dei dipinti che ritraevano tutta la dinastia dei capi alieni. Alien, capo supremo degli alieni si presento al colloquio e spiego a


Giacomo le ragioni del rapimento. - Siamo in viaggio nella galassia Buco Nero, enorme sistema stellare che comprende trenta pianeti, verso il pianeta Ghordnak, caratterizzato dal suo colore rosso perché incandescente. Nessun umano può raggiungere e sopravvivere a quelle radiazioni. Siamo diretti lì per combattere un popolo ribelle. Abbiamo deciso di entrare nell’atmosfera terrestre, ed atterrare nel tuo giardino, perché non vi era altra casa abitata nel raggio di chilometri e nessuno si sarebbe accorto della nostra presenza. Qui, abbiamo verificato una straordinari coincidenza: la natura del nostro carburante è molto simile a quella del vostro plasma, - e, visto che il terrestre non capiva, precisò - il vostro sangue. Giacomo fu condotto, quindi, nella sala dov’erano stati portati i suoi poveri genitori. Sembravano in fin di vita: avevano assunto un colorito livido e giacevano in un torpore simile alla morte in una specie di incubatrice. Dalle loro braccia e gambe si dipartivano dei tubi collegati ad ampi cilindri che, verosimilmente, stavano riempiendosi del loro sangue. In cambio della loro liberazione Giacomo fu così costretto a raggiungere l’ospedale più vicino con lo scopo di rubare delle sacche di sangue. Vivendo fuori città non poteva prendere i mezzi pubblici ed aveva una sola possibilità: utilizzare la sua vecchia e cigolante bicicletta e correre, zaino in spalla, verso l’ospedale Centrale, imboccando la circonvallazione. Quella strada era pericolosissima da percorrere con quel mezzo e veramente rischiava di essere investito da qualcuno o peggio da qualche TIR. Eppure continuò per alcuni chilometri. Ma il destino gli era avverso e si accorse di avere una gomma forata. Non poteva continuare a piedi e si fermò alla prima area di sosta in un autogrill. Incontrato un signore di mezz’età e dall’aspetto rassicurante, gli chiese un passaggio, mentendo e dicendogli che doveva procurarsi dei farmaci per sua madre che era in fin di vita. Quel signore non potè che assecondare la sua richiesta. Anzi gli promise che dopo

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lo avrebbe riaccompagnato a casa. Giunto all’ospedale, Giacomo prese un ascensore dentro il quale però rimase bloccato. Era solo, provò a suonare il pulsante che faceva scattare l’allarme, ma ci volle circa un’ora perché i tecnici intervenissero, mentre la sua disperazione era al culmine. Non sapeva esattamente che ora fosse ma sicuramente era sopraggiunta l’alba. Quando l’ascensore fu sistemato, Giacomo si ritrovò al decimo piano dell’edificio, nel reparto di Chirurgia; letta qualche indicazione che gli facesse venire un’idea, si nascose dietro il bancone dell’Accettazione ma sopraggiunse un sorvegliante. Il sole era già alto nel cielo e purtroppo era iniziato anche l’orario delle visite e l’Ospedale iniziava a riempirsi di gente. Il cuore quasi gli scoppiava ed appena il guardiano si allontanò un attimo raccolse tutto il suo coraggio e cominciò a vagare furtivo in cerca di una sala operatoria; lì di certo dovevano trovarsi custodite delle sacche di plasma. Finalmente si ritrovò alla fine di un corridoio da dove si poteva accedere ad una di esse. Per sua fortuna la porta non era bloccata ed intrufolatosi andò dritto verso quello che sembrava un frigorifero. Ne aprì lo sportello e finalmente, prelevato quanto cercava, lo nascose nello zainetto. All’impazzata scese dieci piani a piedi e cinque minuti dopo era seduto dentro l’auto del suo benefattore. In un tempo breve ma che gli sembrò un’eternità, i due raggiunsero casa di Giacomo ed egli chiese all’uomo di parcheggiare sul retro, di modo che non si accorgesse dell’astronave, lo salutò velocemente e corse verso la navicella dove potè riabbracciare i suoi genitori, scoppiando in un pianto liberatorio. Quelle oscure creature, avevano raggiunto il loro scopo e finalmente l’astronave si alzò in volo e scomparve tra le nuvole, per sempre, si augurò Giacomo.

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Manlio Centamore - Clelia Crisafulli - Edoardo Menghini - Sergio Motta - Carlotta Terrizzi

L’incubo di Alex

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Alex Dwye era un ragazzo di tredici anni. Aveva i capelli lunghi e biondi, i suoi occhi verdi erano quasi sempre coperti da un paio di occhiali da sole per darsi un tono di sicurezza, che in realtà non possedeva. Infatti, era solitario, piuttosto timido che non aveva molti amici, ma andava bene a scuola. Aveva un fratello più piccolo, George, un bambino di nove anni, il suo esatto opposto, dai capelli corti e neri e dagli occhi blu scintillante. Era vivace e amichevole con tutti. Gli piaceva particolarmente lo sport del calcio. Vivevano nel quartiere di Queens a New York, in una zona isolata e poco popolata, illuminata solamente da tre lampioni. Qui viveva anche Annie, coetanea e fidanzata di Alex. Esile e alta un metro e cinquantasei, aveva i capelli lunghi, scuri e occhi colore verde acqua. Le piaceva il Judo e andava molto bene a scuola. Nel quartiere abitava infine anche Sam, un loro compagno di classe nonché loro caro amico, nonostante fosse spesso prepotente e pigro. Aveva i capelli biondi e ricci, gli occhi grigi e portava gli occhiali. Alex aveva una terribile paura che lo perseguitava fin da bambino che proveniva da un’esibizione vista al circo quando aveva appena quattro anni dove, delle persone, truccate e travestite, gli avevano fatto provare una sensazione di inquietudine e terrore. Essi erano i clown. Lui provava in tutti i modi a superare la sua fobia, ma qualsiasi sforzo facesse sembrava inutile. Un giorno a scuola Sam, gli disse: - La tua paura dei clown è dav-

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vero infantile. E Alex rispose: - Ho provato a superarla ma non ci sono riuscito. L’amico aggiunse: - Sei proprio un bambinone! Alex si arrabbiò molto per quello che gli aveva detto il compagno, ma con il tempo non se ne ricordò più. Nel frattempo iniziarono le lezioni che per lui passavano velocemente. Finita la scuola Alex tornò a casa dove lo aspettavano “lasagne e cotolette”: era la giornata italiana. Durante il pomeriggio fece i compiti per il giorno successivo, alle ore sette in punto cenò e alle nove andò a letto come sempre. Quella notte fece un sogno che lo sconvolse: i suoi amici e George erano stati rapiti da clown con il sorriso e gli occhi bianchi da cui colava sangue, che li legavano con delle grosse catene di ferro a delle sedie, e li portavano in una stanza buia, illuminata solo da una lucina. Quei personaggi erano molto inquietanti, avevano una faccia piuttosto pallida, un naso color rosso sangue, denti aguzzi e portavano una parrucca riccia e voluminosa. Si svegliò trafelato e sconvolto, trovandosi nella sua grande stanza con le pareti blu, arredata con un letto a castello, una scrivania con sopra un computer. Carico di paure e terrore, con una sensazione di smarrimento e il corpo intorpidito, non capiva ancora se fosse stato un sogno o la realtà. Sembrava tutto così vero! Col volto pallido cominciò a pensare tra sé e sé: - Dov’è George? Cosa mi sta succedendo? Ho sognato fino a ora? Del fratello in casa non vi era traccia, quindi nonostante l’ora decise di mettersi alla ricerca di suo fratello, Annie e Sam. Bussò alle finestre delle loro camere e guardò al loro interno. I loro letti erano disfatti e vuoti. Così, ricordandosi dell’incubo, pensò di ripercorrere gli stessi passi del sogno, ritrovandosi nel vicolo all’incrocio con la 75th Avenue che era illuminato da un fioco lampione. Sulla destra vi era un’altra stradina che portava ad uno strano ingresso aperto. Al suo interno vi erano George, Annie e Sam, pietrificati dalla paura.

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I ragazzi lo videro, lo chiamarono e lo spinsero a raggiungerli. Alex sentì un brivido corrergli lungo la schiena. La paura gli bloccava le gambe, ma questa volta c’era in ballo la vita dei suoi amici e del piccolo George, non poteva lasciarli lì. Inoltre sentiva le loro urla e sentiva su di sé la loro sofferenza. Decise di fare capolino, nella penombra della stanza illuminata solo da una piccola torcia, cercando di capire come poterli aiutare a fuggire. Loro, infatti, erano legati con una lunga catena di ferro. Sembravano molto spaventati ed erano uno accanto all’altro, per farsi coraggio e probabilmente anche per riscaldarsi. Quella stanza buia, era insolitamente fredda e piena di umidità. Alex cercava di ragionare in contemporanea su come fermare quei mostri e tagliare la catena. Fortunatamente vide una vecchia cassetta degli attrezzi. Pensò che lì sicuramente avrebbe trovato qualcosa che gli potesse tornare utile. Strisciando per terra, cercando di non fare rumore, raggiunse la cassetta. Se i clown si fossero assentati ancora un po’, avrebbe in breve tempo liberato tutti e finalmente avrebbero potuto avvertire la polizia e finalmente sarebbe finito quell’incubo. Ma aprendo la cassetta ebbe una terribile sorpresa: era vuota. Lo sconforto lo prese e si domandò come avrebbe fatto. Passato il primo momento di sconforto, cercò con lo sguardo qualche altra possibile soluzione. Nel frattempo sentì un rumore di passi e si nascose dentro una grossa cassapanca. Al solo vederli, col loro viso bianco e la parrucca rossa, fu paralizzato dal terrore. Pensò all’assurdo di quella situazione. Tutti i bambini erano contenti e felici di vedere quegli strani personaggi truccatissimi: li trovavano molto divertenti. Invece, per lui erano sempre stati inquietanti. Quel loro buffo costume creava solo ansia e paura. Ma cosa volevano dai suoi amici? Perché li avevano legati e segregati in quella stanza ? Che fine avrebbero fatto? Lui da solo non sarebbe riuscito a concludere nulla. Doveva tornare indietro e avvertire la polizia e i suoi genitori. D’altronde la stazione di polizia era a qualche centinaio di metri da casa sua. Con una bella

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corsa, in qualche minuto sarebbe stato di ritorno. Scivolò nuovamente sul pavimento sporco ed impolverato cercando di non fare rumore. Sentì quei passi, ma stavolta molto più vicino. Il terrore lo attanagliò. Tornare indietro sarebbe stato inutile. Il rischio di trovarseli davanti sarebbe stato altissimo. Allora aspettò che i clown passassero, per poi con un balzo raggiungere la porta che lo avrebbe portato fuori. Nascosto, sentiva i passi sempre più vicini. Si rannicchiò fino a diventare piccolo piccolo. I clown passarono e non si accorsero di lui. C’era quasi riuscito. Purtroppo quella polvere, gli provocò un prurito irrefrenabile al naso e involontariamente starnutì. A quel rumore i clown si girarono e corsero verso di lui. Alex balzò fuori dal suo nascondiglio e corse a più non posso verso la porta. I clown fortunatamente non riuscivano a stare dietro alla sua velocità. Era arrivato alla porta. Pensò: - Grande Alex, ce l’hai fatta… Afferrò con tutte e due le mani la maniglia per aprire la porta. Qualche istante e tutto sarebbe finito. Ma aprendo la porta, ebbe la più brutta visione della sua vita, un clown gli si parò davanti, lo bloccò e lo alzò da terra tenendolo dal suo maglione. Alex cercò di liberarsi ma quel clown era troppo forte per lui, lo portò dai suoi amici. I clown con il loro sorriso inquietante e malvagio sghignazzando dissero: - Ti sfidiamo, Alex. Lui ripeteva tra sé e sé come un mantra: - Devo affrontare la mia più grande paura. Si volse intorno prima che la lotta estenuante avesse inizio. La stanza dove si trovavano era ostruita qui e là da fitte ragnatele, dal soffitto crepato colavano acqua e sangue; si intravedevano sagome dei clown, asce sporche di sangue e parrucche sparse per terra intinte di sangue. I clown con i loro artigli e i denti aguzzi graffiarono il ragazzo e lui con tutta la sua forza strappò le parrucche che non volevano venire via, come fossero dei capelli veri. E per tutta risposta lo decapitarono con una delle loro asce facendo

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schizzare il suo sangue sui muri della stanza: il corpo giaceva vicino ai clown e la testa ai piedi dei suoi amici. I clown si diressero verso George, Annie e Sam i quali impallidirono per la paura. Sam, il più furbo del gruppo, cercò di liberarsi dalle corde che lo intrappolavano. Annie capì le intenzioni di Sam e gli sussurrò: - Libera anche me quando puoi, ti prego! Sam afferrò al volo la richiesta di Annie e fece più piano possibile per non farsi scorgere dai Clown che discutevano sul tipo di morte da infliggere loro. Mentre Sam, riuscito a liberarsi, scioglieva George, i clown si voltarono cogliendoli di sorpresa. Sam pensò: - Siamo finiti! I clown sghignazzavano guardando i tre ragazzi e uno di loro disse: - È inutile non riuscirete a scappare e se lo farete vi troveremo! Annie si era finora trattenuta, ma adesso la preoccupazione la assaliva e la paura aumentava così tanto che a un certo punto si mise a piangere, cosa che lei non faceva mai. E tra le lacrime urlò: - Aiuto, aiutateci, ci vogliono uccidere. Poi il suo sguardo si abbassò nuovamente verso la macabra testa che giaceva ai loro piedi e svenne. Sam nel frattempo cercava di liberare anche Annie. Provò a scuoterla. Ma quei mostri non gliene diedero il tempo. Avevano deciso come finirli e si avvicinarono lentamente, tenendo in mano coltelli affilatissimi. Ed ecco, li accoltellarono diverse volte e dopo aver gettato a terra le lame insanguinate, iniziarono ad usare i loro denti aguzzi per estrarre dai ragazzi l’ultima speranza di vita, mordendoli ferocemente.

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Taira De Castro - Gaetano Ferrara - Maria Lidia Noto - Aurora Padellaro - Costanza Rosso

Giulia e Julia

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Era un piovoso pomeriggio di Novembre, la nebbia metteva una certa tristezza. Giulia, dodici anni appena compiuti dal carattere dolce ed educata, solare e gentile con i capelli castani e occhi verdi, si recò in una casa di Tropea: una città piacevole da visitare e piena di attività con piazzette accoglienti, dove aveva traslocato con la sua famiglia, in effetti, formata solo da un’altra persona. Infatti, il padre era stato trasferito da Catania per lavoro. Egli era un famoso architetto da poco vedovo e soffriva ancora molto per la morte della moglie, cercando di non trasmettere questa tristezza alla figlia. Giulia, dopo la morte della madre, aveva stretto molto di più i rapporti con il padre con cui si esprimeva più spontaneamente. Lei vide per la prima volta, un appartamento molto antico e buio. Entrando in casa, avvertì una sensazione di disagio e confusione, ma cercò di distrarsi, valutando fra le diverse stanze quella che poteva piacerle di più, come propria camera da letto. Scelse una camera col soffitto decorato da tanti angioletti, che popolavano il cielo in mezzo alle nuvole. Giulia sistemò la sua stanza e pensò di spostare il letto nella parete ornata da un meraviglioso affresco del 1700, addobbato da un ramo di rose rosse e rosa, che abbellivano una porticina, comunicante con un’altra stanza. Dopo il primo periodo, avendo osservato bene la casa, Giulia pensò che essendo stata costruita nel ‘700 doveva avere avuto molti inquilini. Stanca si coricò sul grande letto col baldacchino e prese sonno,

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ma qualcosa stava per turbarla molto. Infatti, si risvegliò di soprassalto e vide avvicinarsi una figura femminile e che si coricò accanto a lei e per tutta la notte rimase lì. Lei era una ragazzina come Giulia, aveva i capelli lunghi e ci si poteva perdere nei suoi occhi. Vestiva, però, con un abito settecentesco di pizzo bianco e una coroncina di rose candide e rosse le incorniciava la capigliatura. Nei giorni seguenti le visite si ripetevano e un giorno di questi Giulia decise di parlarle anche se un po’ terrorizzata all’idea: - C-ciao, io mi c-chiamo G-Giulia. Non si aspettava una risposta e neanche uno sguardo, ma il fantasma non tacque e disse: - Ciao, anche io mi chiamo Julia.” Stupita dalla voce calma e dolce del fantasma e dal fatto che aveva il suo stesso nome fu ancora più incuriosita di lei e continuò a parlarle: - Quanti anni avevi alla tua morte e, se posso, come sei morta? Ci fu un minuto di silenzio poi il fantasma raccontò: - Avevo dodici anni, ero in questa stanza che era la mia e stavo leggendo il mio libro preferito Una magica notte d’estate. Era estate e c’era caldissimo, decisi di aprire la finestra, vidi il mio amico, Giuseppe, e lo chiamai, ma non mi sentì, allora agitai le braccia, lo chiamai più forte ma persi l’equilibrio e caddi giù. All’inizio Giuseppe non capì che ero caduta, ma poi si girò e si spaventò. Chiamò i soccorsi ma quando arrivarono non c’era niente da fare: io ero già morta. La bambina non sapeva cosa dire. Ci fu un silenzio imbarazzante ma dopo qualche minuto Giulia parlò: - Ma come fai a sapere cos’è accaduto dopo la tua morte? Il fantasma rispose: - La cosa strana è proprio questa: non so come, ma lo so. Il sole stava sorgendo e mancava molto poco alla scomparsa della sua amica eterea, allora si scambiarono un saluto e il fantasma scomparve. Giulia non faceva altro che pensare a quella damina e alla sua coroncina di rose bianche e rosse.

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Di chi poteva trattarsi? Incuriosita per ciò che le era capitato, Giulia andò a cercare la storia di quel palazzo e dei suoi inquilini, di cognome Rodriguez, nella biblioteca comunale. Vi era un volume dedicato proprio al palazzo d’epoca dove abitava: Storia della dimora Rodriguez. Scoprì che quella casa nel 1768 era stata costruita da una nobile famiglia spagnola che aveva sei figli maschi ed una femmina che, come la sua amica, si chiamava Julia. Julia si era suicidata buttandosi dalla finestra. Al momento della tragedia aveva dodici anni. La madre, dopo la morte della figlia, cercò di colmare il dolore, ma fu tutto inutile. Non le importava più della sua vita, sembrava impazzita, viveva per strada e dovettero ricoverarla in un ospedale psichiatrico. Il padre vendette l’immobile, ma da quel momento cadde in disgrazie economiche fino alla bancarotta La ragazza restò molto turbata e si disse: - Oh Dio! Questa casa è maledetta! Saranno loro le inquietanti e macabre presenze nella mia stanza! Tuttavia non poté che rientrare a casa ed andare a dormire. Di notte si ripeterono le visite del fantasma di Giulia che dormiva al suo fianco, silenzioso e macabro. Poi si dirigeva verso la stanza accanto, apriva una porta cigolante e spariva alle prime luci dell’alba. Una notte la vera Giulia non riusciva a dormire, si sentiva soffocare. Cosa le stava succedendo? Si guardò intorno e vide che la damina era in piedi di fronte a lei, poi all’improvviso il suo bellissimo viso si trasformò e apparve deformato, aprì gli occhi grandi, tondi e le fece un sorriso terrificante. Giulia urlò a squarciagola, disgustata dalla scena orripilante, ma nessuno la sentì. Le mancò talmente l’aria che fu costretta ad aprire la finestra per respirare, ma perse l’equilibro e cadde nel vuoto. Il mattino seguente il padre si accorse che Giulia non era in camera, si preoccupò e la cercò in casa dappertutto, finché si accorse che nella sua stanza c’era del sangue sul davanzale. Si sporse e con le

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lacrime agli occhi vide il suo corpo sotto un albero. Sconvolto dalla notizia riuscì a stento a chiamare l’ambulanza e la polizia. Per Giulia non vi era più nulla da fare. Si chiuse in camera da solo e pianse a lungo in un angolo, inconsolabile. Così, lo trovò Aldo Bianchi, un importante commissario della squadra mobile di Enna. Era un signore di bell’aspetto, di quarantasei anni, dai capelli corti e castano scuro, gli occhi azzurri, attento al lavoro, ben visto dalla società, determinato, rispettoso verso gli altri e verso le regole. Egli era aiutato nelle indagini dal reparto dei RIS di Catania. Arrivati sul posto, videro la vittima con ancora il pigiama addosso ed entrarono in casa alla ricerca di qualche indizio, dove non trovarono niente di sospetto. Da ciò che trovò dentro la dimora, ed esaminando la scena, Bianchi dedusse che Giulia si era affacciata alla finestra, le era venuto un capogiro improvviso ed era caduta giù. L’inquirente, a quel punto, cercò anche dei testimoni oculari e si presentò così la vicina di casa, Kira Argent, una graziosa ragazza di diciassette anni, dai capelli neri e gli occhi azzurri, di carattere affettuoso e dolce, simpatica, determinata ed intrepida, diventata subito amica di Giulia. - Le dico subito che quella notte non avevo sonno e mi sono alzata intorno le due del mattino per prepararmi una tisana calda, ed è stato in quel momento che ho sentito un rumore strano, di cui però non sono riuscita a capirne la provenienza, perciò mi sono affacciata alla finestra. - affermò la ragazza piangendo addolorata. - Signorina - la incalzò Bianchi - le chiedo gentilmente di raccontarmi tutto ciò che ha visto o sentito ieri sera. - Signore, le posso giurare di aver visto, accanto al corpo della povera Giulia una damina vestita con un lungo abito settecentesco ed in testa una coroncina con rose bianche e rosse, che la guardava sorridendo. - Signorina, perché non ha chiamato immediatamente la centrale di polizia? - chiese il commissario. - Purtroppo, dallo spavento sono svenuta sul colpo e mi sono ripre-

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sa soltanto quando eravate già arrivati! - concluse la ragazza. Bianchi ovviamente non diede il minimo credito a questo racconto e la faccenda fu derubricata come un tragico incidente. La notizia, però si diffuse ugualmente. Il padre si trasferì nuovamente per allontanarsi da quegli orrendi ricordi e palazzo Rodriguez è ancora abbandonato.

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Ringraziamenti

Ringrazio il Dirigente Scolastico dell’I.C. Cavour di Catania, Prof.ssa Marinella Leonardi, per la fiducia al progetto; e tutti gli autori, anche giovanissimi, che hanno messo tutta la loro creatività e passione nel lavoro.

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Postfazione

L’avventura continua con il nostro laboratorio di scrittura collettiva. Sempre efficace questo strumento: fa toccare con mano le competenze acquisite sul genere in questione, fortifica lo spirito di gruppo e motiva anche i più recalcitranti ad approcciarsi ad una creazione letteraria. In particolare, la classe seconda, che ha studiato il genere del giallo, attraverso la lettura e l’analisi di un classico senza tempo, Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, ha dato origine alla prima parte di questa antologia. Un’eco di questo modello si è riverberato negli ambienti d’antan, in alcuni nomi di personaggi e persino nel narratore in terza persona con un punto di vista interno (e la presenza di qualche pregevole discorso indiretto libero). Un gruppo ha sperimentato una struttura narratologica altrettanto adatta col narratore in prima persona. La seconda parte è, invece, dedicata alla classe prima, sull’horror. Dopo l’unità dedicata a Lo strano caso del dottor Jekyll e signor Hyde, gli alunni hanno proposto dei racconti su alcune tipiche fobie: quella del buio, di Halloween, della metamorfosi e degli alieni. Sfide - è proprio il caso di sottolinearlo - che i più piccoli hanno affrontato con coraggio! Detto ciò, le fasi di elaborazione sono state quelle dell’edizione precedente. Ovvero, per prima cosa ho lanciato un concorsino di idee,

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sui temi e le tecniche stabilite. A seguire i partecipanti hanno elaborato una sceneggiatura dettagliata, suddivisa in tanti episodi quanti erano gli scrittori. Successivamente i ragazzi hanno lavorato insieme per le descrizioni delle ambientazioni e dei personaggi comuni. Quindi, ho assegnato a ciascuno un episodio da redigere per una lunghezza media di mezza facciata A4 in times new roman 12, (qui ridotto a “11” per necessità di stampa) al passato remoto. I ragazzi sono stati guidati nell’autocorrezione formale o di incoerenze contenutistiche. Non ultimo si sono confrontati anche con la ricerca di un titolo: evocativo, ma non rivelatore. Infine, i loro lavori limati sono stati corredati anche di copertine, da loro stessi progettate e realizzate. Una prova ardua, ma che ha dato davvero degli ottimi risultati. Bravissimi tutti i miei piccoli scrittori in erba  Cinzia Di Mauro

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INDICE Scrivo in GIALLO e NERO Scrivo in GIALLO 2 Furti a Manchester 3 Scatti di famiglia 13 Un caso per Babbos 21 Tiergartenstrasse 4 33 La serpe di Lyber 40 Scrivo in NERO 50 Le loup garou 51 Monster House 64 Siamo soli nell’universo? 69 L’incubo di Alex 75 Giulia e Julia 81 Ringraziamenti 87 Postfazione 88 INDICE 90

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Generi che catturano l’attenzione in modo totalizzante quelli di questa antologia. Thriller storici ambientati nei fascinosi anni ‘40, tra misteri di famiglia, gioielli rubati o angoscianti (perché veri) contesti nazisti, vi condurranno di suspense in suspense fino al disvelamento definitivo, anche se non sempre liberatorio. Piacevoli eccezioni saranno una Serpe di Lyber, nel lontano 1830, in cui seguiremo le tracce del primo racconto gotico, e la vena comica di Un caso per Babbos con visioni disneyane. E poi l’horror da non leggere prima di addormentarsi: non si assicura di prender sonno a seguire! Fantasmi, scheletri, clown malvagi, extraterrestri non proprio amichevoli, liberati dalla loro giovane fantasia vengono a popolare la nostra. Ma la funzione è sempre quella apotropaica della lotta alle nostre paure attraverso la scrittura e la riflessione sulle stesse. Comunque sia, queste storie mozzafiato vi intrigheranno dalla prima all’ultima pagina!


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