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Intervista a Carlo Nordio Ex Procuratore Aggiunto di Venezia di Alessandra Ricciardi

i3 Intervista a Carlo Nordio , ex procuratore aggiunto di Venezia

di Alessandra Ricciardi Giornalista Italia Oggi

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“Iritardi nella giustizia civile e penale costano all’Italia 2 punti di Pil l’anno. Una Finanziaria”. Ecco perché riformare la giustizia è essenziale per il Paese ora che deve venire fuori da una crisi, quella indotta dal Covid, che ha messo a dura prova un sistema che non cresce da decenni. A dirlo è Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, negli anni Ottanta protagonista delle indagini sulle Brigate rosse venete e poi negli anni Novanta sui reati di Tangentopoli, presidente agli inizi del Duemila della Commissione per la riforma del codice penale. Nordio, oggi saggista ed editorialista, acuto osservatore dei fatti della cronaca e della politica italiana, spiega perché non si fece niente della sua riforma così come del resto non andò in porto quella proposta dal suo successore alla guida della Commissione, Giuliano Pisapia: «Io e Giuliano abbiamo pubblicato un libro, “In attesa di Giustizia”, dove discutiamo delle molte analogie e delle pochissime differenze tra i due progetti, che pur avevano avuto come committenti un governo di centrodestra e uno di centrosinistra. Ma anche il progetto Pisapia è rimasto lì fermo. Questo perché l’attuale politica non ha né la voglia né i mezzi per cambiare le cose». A un giovane studente di diritto che voglia diventare magistrato dice: «È la più bella professione esistente, perché è libera, ti fa conoscere la natura umana e ti permette di fare del bene». E dà alcuni consigli: «Aggiornarsi sempre, ma senza diventare un fanatico del diritto…farsi una buona cultura generale, perché si impara di più da una tragedia di Shakespeare che da un’intera biblioteca di pandette. E infine tener presente che le due doti più importanti, il buon senso e l’umiltà, non si imparano all’Università o nei corsi di specializzazione, ma solo dalla dotta ignoranza, dalla consapevolezza dei nostri limiti, e dalla comprensione di quelli altrui».

D. Autunno: stagione di riforme, almeno da pianificare, per intercettare i fondi del Recovery fund. Consigliere, parliamo della giustizia. Perché riformare la giustizia è oggi una sfida importante per il Paese?

R. La corretta e rapida amministrazione della giustizia è elemento essenziale di ogni democrazia. In Italia lo è ancora più perché i ritardi dei nostri processi, oltre a vulnerare le legittime aspettative del cittadino, costano al Paese circa due punti di PIL, allontanando gli investimenti e paralizzando buona parte dell’attività economica e produttiva. Non vi è dunque solo una ragione etico-politica, ma anche di convenienza, e direi di necessità.

D. Perché la riforma della prescrizione non aiuta?

R. Perché rallenterà ancor di più il corso dei processi. Dopo la sentenza di primo grado i giudici se la prenderanno più comoda, perché non dovranno più rispondere, come fanno ora, sulle cause della prescrizione. Questo sarà svantaggioso per le vittime dei reati, che dovranno attendere anni prima di ottenere, se dovuto, il risarcimento attraverso la sentenza definitiva.

D. Da decenni, tutti i ministri che si sono succeduti in via Arenula hanno cercato e spesso adottato misure per accelerare lo svolgimento dei processi. Dalla legge Pinto, che prevede tempi stringenti per la definizione delle liti e sanzioni in caso di inadempimento, ai numerosi tentativi di degiurisdizionalizzazione, cioè di risoluzione delle controversie fuori dal tribunale, all’aumento del costo delle liti. Ma la situazione non è migliorata. Perché?

R. Perché la lentezza dei processi non dipende dalla inerzia dei magistrati, che in Italia hanno un indice di produttività più alto rispetto agli altri paesi europei. Dipende dalla sproporzione tra mezzi disponibili e fini prefissi: nelle cause civili, tra il coefficiente di litigiosità e i magistrati addetti a risolvere i conflitti, e nei processi penali dal fatto che l’azione penale è obbligatoria e noi abbiamo un’infinità di reati, compresi molti bagatellari, che sono incompatibili con il numero delle persone addette alla loro gestione. Non parlo solo di giudici e procuratori, ma soprattutto di personale amministrativo, che si riduce sempre di più e non viene sostituito.

D. Ci sono tribunali che stanno rinviando le udienze, originariamente fissate a fine 2020, al 2021 o al 2022 in funzione dell’anzianità di iscrizione a ruolo. Così chi aveva una causa pendente dal 2014 dovrà aspettare fino al 2021 per la precisazione delle conclusioni o semplicemente per la discussione: sette anni per avviare la fase finale di un processo. Come si possono concretamente evitare situazioni di questo genere?

R. Adeguando le risorse – umane e finanziarie – al numero dei contenziosi. Questo non si è mai fatto, come se le risorse fossero una variabile indipendente rispetto al numero di procedimenti. È il tradizionale difetto del nostro Paese: arrangiatevi con quello che avete. Come fece Mussolini, mandando in Russia i soldati con le scarpe di cartone.

D. Quanto pesano i ritardi nella giustizia civile e in quella penale nell’economia del nostro Paese?

R. Personalmente ho coordinato un lungo e metodico lavoro organizzato dallo studio Ambrosetti, presentato a Cernobbio, raccogliendo statistiche e quant’altro serviva. I risultati sono quelli che ho detto sopra: ci costa 2 punti di PIL l’anno, una vera e propria legge finanziaria.

D. Quali sono le responsabilità della politica e quelle della magistratura?

R. La politica reca ovviamente le responsabilità maggiori, proprio perché non si è mai posta il problema del rapporto tra risorse e numero dei processi. La magistratura – che ripeto lavora molto, e qualche volta anche troppo su inchieste inutili – ha la colpa di essere, nella sua organizzazione sindacale dell’Anm, troppo conservatrice: ad esempio, opponendosi all’eliminazione della obbligatorietà dell’azione penale, che è sì scritta nella Costituzione, ma è incompatibile con il nuovo (del 1989) processo accusatorio. E poiché la Costituzione prevede di poter esser riformata, com’è avvenuto per la riduzione dei parlamentari, questa dovrebbe essere una priorità. Ma, ripeto, l’Anm non la vuole, come non vuole la separazione delle carriere, che pure è, anch’essa, consustanziale al processo accusatorio.

D. Lei è stato presidente della commissione per la riforma del codice penale. Mi racconta come è andata?

R. Il codice attuale è del 1930, è firmato da Mussolini e dal Re Vittorio Emanuele III, ed ha un’impronta essenzialmente etico-hegeliana, frutto dell’epoca e dell’ideologia allora dominante. Insomma non è un codice liberale. Noi abbiamo, tra il 2002 e il 2004, elaborato un nuovo codice, sia nella parte generale che in quella speciale, più un consistente pacchetto di depenalizzazioni, che avrebbe aiutato a ridurre le cause e quindi ad accelerare i processi più importanti. Quando abbiamo consegnato il lavoro al Ministro Castelli, il Parlamento aveva davanti a sé il tempo adeguato, circa due anni, per leggerlo, modificarlo se necessario, e magari approvarlo. Non ne ha fatto nulla, l’ha tenuto nel cassetto. Il governo successivo ha nominato una nuova commissione, presieduta da Giuliano Pisapia, che ha elaborato un progetto non dissimile dal nostro. Tanto che io e Giuliano abbiamo pubblicato un libro, “In attesa

di Giustizia”, dove discutiamo delle molte analogie e delle pochissime differenze tra i due progetti, che pur avevano avuto come committenti un governo di centrodestra e uno di centrosinistra. Ma anche il progetto Pisapia è rimasto lì fermo. Questo perché l’attuale politica non ha né la voglia né i mezzi per cambiare le cose. Una simile riforma richiederebbe infatti un’accurata discussione parlamentare, e oggi si preferisce legiferare alla giornata.

D. Delle tante inchieste di cui si è occupato, qual è stata per lei la più dura?

R. La più dura, ma anche la più gratificante, è stata quella sulla colonna veneta delle Brigate Rosse tra il 1980 e il 1982. Rischiavamo la vita, io stesso ho ricevuto varie lettere con la stella a cinque punte, ma sapevamo di rendere un enorme servizio al Paese, sentivamo di averlo tutto con noi, e la magistratura – con un numero enorme di assassinati in percentuale rispetto alle altre categorie – godette di un rispetto e di un prestigio immenso. Anche la mia inchiesta sulla tangentopoli veneta e sulle Coop rosse dal 2002 al 2008 è stata importante, anche se è stata osannata o criticata a seconda delle idee politiche di chi si esprimeva sulla mia conduzione delle indagini. Infine quella sul Mose, che io non ho condotto di persona, ma che ho coordinato come Procuratore Aggiunto. Avendo incarcerato un governatore di centrodestra e il sindaco di Venezia del centrosinistra abbiamo dimostrato un’imparzialità che, unitamente alla rapidità e al buon esito dell’inchiesta, ci ha procurato generali consensi. Il mio orgoglio maggiore è comunque che su trecentomila e passa ore di intercettazioni telefoniche e ambientali non un solo pettegolezzo è finito sulla stampa.

D. Nella sua esperienza quanto pesa l’appartenenza alle correnti nella professione di un magistrato?

R. Niente, se uno non ambisce a fare, come si dice, carriera. Fai il tuo lavoro e nessuno interferisce. Per quanto mi riguarda, ad esempio, non avendo mai fatto domande di incarichi direttivi (o sono stato nominato Procuratore aggiunto a 62 anni, spinto a forza dai miei sostituti, e sono andato in pensione per limiti di età con quella stessa funzione non proprio altissima) non ho mai avuto rapporti con l’Anm, salvo ovviamente l’amicizia personale con vari colleghi di tutte le correnti. È anche vero che nel ‘97 i probiviri dell’Anm cercarono di intimidirmi per le cose «eretiche» che scrivevo, e mi convocarono per dare spiegazioni. Ovviamente non li degnai di una risposta, e non successe nulla e continuai a lavorare serenamente. Ma le cose cambiano se un magistrato mira – legittimamente – a posti apicali. Lì la spartizione correntizia è ferrea. Non che scelgano persone impreparate o stupide: il Csm sceglie persone valide, ma sempre con una lottizzazione spartitoria implacabile.

D. Cosa direbbe a un giovane appassionato di diritto che vuole diventare magistrato?

R. Che per un laureato in giurisprudenza è la più bella professione esistente, perché è libera, ti fa conoscere la natura umana e ti permette di fare del bene. Gli consiglierei di studiare molto e di leggere tante sentenze della Cassazione, per assimilarne la logica e il linguaggio giuridico. Di prepararsi all’esame con fiducia, perché non ci sono trucchi né raccomandazioni. E una volta assunta la toga di aggiornarsi sempre, ma senza diventare un fanatico del diritto. Di farsi una buona cultura generale, perché si impara di più da una tragedia di Shakespeare che da un’intera biblioteca di pandette. E infine di tener presente che le due doti più importanti, il buon senso e l’umiltà, non si imparano all’Università o nei corsi di specializzazione, ma solo dalla dotta ignoranza, dalla consapevolezza dei nostri limiti, e dalla comprensione di quelli altrui.

D. Cosa spinse il giovane Carlo Nordio ad appassionarsi al diritto e a diventare magistrato?

R. Il senso della libertà. È una delle poche professioni dove non hai padroni, tranne la legge e la coscienza.

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