20 minute read
Chi ha ucciso i Neanderthal? UniBo indaga di Lorenzo Monaco
from IL CUBO - n.28 2020
by Circolo CUBo
Chi ha ucciso i Neanderthal? UniBo indaga
di Lorenzo Monaco
Advertisement
Chissà se, attorno ad un fuoco, i Neanderth al si sono mai raccontati di quella scimmia brutale e intelligente che si dice arrivasse nella notte distruggendo i villaggi e sterminandone gli abitanti. Forse no. Forse Homo sapiens non è mai stato un pericolo per i Neanderthal e le due specie hanno convissuto pacificamente – magari come due gruppi diversamente umani, capaci di intessere relazioni e matrimoni misti – e l’estinzione dei nostri cugini è dovuta ad altro. Chissà: una coltre di nebbia copre tutte le storie prima della Storia. Eppure la scienza sta provando a diradarla, un frammento alla volta. Sappiamo, ad esempio, che Homo neanderthalensis e Homo sapiens sono stati spesso intimi, scambiando i propri geni (il nostro genoma è circa per il 2% neanderthaliano); sappiamo che nei nostri mitocondri, organelli cellulati ereditati per linea materna, non c’è alcuna traccia genetica dei nostri cugini e che quindi, forse, i rapporti sono avvenuti soprattutto tra maschi neanderthaliani e femmine sapiens; sappiamo che i Neanderthal erano avanzati tecnologicamente (producevano strumenti litici e corde intrecciate), ma che forse non lo erano cognitivamente. Tanti sono i “forse”, ma quel che è certo è che circa 42mila anni fa, i Neanderthal sparirono dalla faccia della Terra, in concomitanza con l’avvento dell’ul-
tima era glaciale. Da qui la conseguenza: il clima diventato più freddo e arido in una manciata di secoli ha sfavorito i nostri cugini rispetto ai nostri diretti antenati. Molti studiosi ne sono convinti. Un recentissimo studio guidato da un team di scienziati dell’Università di Bologna però ha voluto verificarlo nell’area del mediterraneo. Gli studiosi hanno approfittato di un’area eccezionale, l’altopiano delle Murge, in Puglia. Qui le due specie di uomo hanno convissuto per almeno 3mila anni, da 45mila a 42mila anni fa circa, proprio il periodo in cui i nostri cugini sembrano svanire. E nel sottosuolo delle Murge sono disponibili veri e propri giacimenti di dati climatici, risalenti a decine di migliaia di anni fa. Si tratta di stalagmiti, le punte di roccia che emergono dal fondo delle grotte carsiche così abbondanti nella zona. “Le stalagmiti sono degli eccellenti archivi paleoclimatici e paleoambientali – ha spiegato Jo De Waele, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna – La loro formazione necessita l’infiltrazione di acqua piovana dall’esterno e questo le rende quindi un’evidenza indiscutibile della presenza o assenza di pioggia; inoltre, gli isotopi del carbonio e dell’ossigeno della calcite di cui sono composte danno indicazioni sullo stato del suolo e sulla quantità di pioggia durante tutto il loro periodo di formazione. Tutte queste in-
Jo De Waele, Scienze Biologiche UniBo
formazioni possono poi essere intrecciate con datazioni radiometriche che permettono di ricostruire con precisione nel tempo le diverse fasi di crescita delle stalagmiti”. Tra questi coni calcarei che conservano la memoria del territorio, uno si è rivelato particolarmente loquace: una stalagmite di 50 centimetri situata nella grotta di Pozzo Cucù nei pressi di Castellana Grotte che, interrogata con 27 datazioni ad altissima risoluzione e circa 2.700 analisi degli isotopi stabili del carbonio e dell’ossigeno, è riuscita a rispondere in merito al clima in cui è cresciuta (tra 106mila e 27mila anni fa: un vero e proprio record per un archivio paleoclimatico). Con una rivelazione piuttosto sorprendente: in quel periodo, non c’è stato nessun calo significativo delle precipitazioni e il suolo e la vegetazione sono rimasti sempre se non uguali, analoghi. In breve, il clima non è cambiato. “È dunque inverosimile che siano state drastiche variazioni del clima ad indurre la scomparsa dei neanderthaliani in Puglia e, per estensione, in Le grotte di Castellana (Ba) aree climatiche mediterranee simili”, ha concluso il ricercatore Andrea Columbu, primo autore dello studio. La ricerca ha così intaccato pesantemente teoria climatica che altrove sembra spiegare bene l’estinzione dei Neanderthal. Questi risultati, pubblicati sulla rivista di Nature Ecology & Evolution, rimettono però sul tavolo del dibattito un’altra ipotesi, quella tecnologica. “Secondo questa teoria sarebbe stata in particolare la tecnologia di caccia, molto più avanzata per l’Homo sapiens rispetto al Neanderthal, ad aver contribuito in maniera primaria alla supremazia del primo rispetto al secondo – ha spiegato il paleoantropologo UniBo Stefano Benazzi, anch’egli autore dello studio – inducendo così la scomparsa dei neandertaliani dopo circa 3.000 anni di convivenza fra le due specie”. Una teoria che considera Sapiens e Neanderthal come due specie animali che hanno insistito sulla medesima nicchia ecologica, in un’accesa competizione per le risorse. La nebbia persiste ancora, ma qualcosa stiamo riuscendo a scorgere.
Tra studio, Ultimate Frisbee e Gender Equity.
CONVERSAZIONE CON ANNA CESCHI, CAMPIONESSA EUROPEA E TRA I BRAVISSIMI DELL’ALMA MATER
di Antonio Lalli
LE CUSB SHOUT SONO STATE CAMPIONESSE EUROPEE DI ULTIMATE FRISBEE PER DUE ANNI DI FILA, NEL 2018 E NEL 2019. ANNA CESCHI È UNA DELLE COMPONENTI DI QUESTA SQUADRA CHE HA RAGGIUNTO RISULTATI UNICI E SENZA PRECEDENTI NELLA STORIA ITALIANA DI QUESTO SPORT. NEL 2020 HA OTTENUTO LA BORSA DI STUDIO PER MERITI SPORTIVI. L’HO
CONTATTATA E HA ACCETTATO DI DIALOGARE SULLA SUA ESPERIENZA.
D. Il 2020 è stato un anno particolare un po’ per tutti. Per te è stato di sicuro un anno importante, che ti ha portato al raggiungimento di traguardi significativi, come la laurea magistrale e il riconoscimento della borsa di studio per meriti sportivi tra i Bravissimi dell’Alma Mater. Entrambi però li hai vissuti dal divano di casa a causa dell’emergenza sanitaria. Come hai vissuto tutto ciò? Cosa hanno significato per te?
R. Allora, io sono tornata in Italia a dicembre, dopo quattro mesi di ricerca per la tesi alla Duke University in North Carolina negli Stati Uniti. Avendo finito gli studi non avevo più casa a Bologna dove ho studiato per l’università, quindi mi sono ritrovata a Padova a casa dei miei genitori dopo cinque anni senza aver vissuto insieme. Questo è stato abbastanza d’impatto (ride). Poi è scoppiata la pandemia che è stata una bella fregatura perché ho finito di scrivere la tesi, mi sono laureata ma il contesto generale ha abbassato di molto le mie aspettative emotive nei confronti di questo traguardo. È stato difficile godersi la laurea perché è stata una giornata non molto soddisfacente: ero a casa con i miei che tra l’altro si sono anche dimenticati di fare una singola foto decente, quindi non c’è alcuna traccia di quel giorno (ride). Per il resto però è stato molto bello concludere questo ciclo anche con la tesi che mi ha dato molta soddisfazione. Per quanto riguarda il premio, è stata anche questa una bellissima soddisfazione perché ho provato per tre anni a fare domanda per la borsa di studio ma purtroppo l’Ultimate non è riconosciuto dal CONI, per cui a livello nazionale non abbiamo alcun riconoscimento e per questo non riuscivo a prendere abbastanza punti per l’assegnazione della borsa di studio. Credo che quest’anno l’Università abbia cambiato i requisiti in modo da poter considerare anche sport minori e non ancora istituzionalizzati come l’Ultimate e quindi è stata davvero una bella sorpresa, non me l’aspettavo.
D. Il Covid-19 come ha influito sugli allenamenti e sulla routine sportiva?
R. Dal punto di vista mentale è stata una bella botta. Anche perché, come a tutti, è successo in pochi giorni e ti ritrovi ad avere una quotidianità anche scandita dallo sport che poi scompare improvvisamente. Devo dire che il nostro staff, i nostri allenatori e le nostre capitane hanno fatto un lavoro immenso durante la quarantena perché hanno lavorato tantissimo per proporci dei contenuti a distanza per concentrarci sulla tattica. Per cui ci siamo trovate una volta a settimana a fare allenamenti virtuali dove analizzavamo le nostre partite vecchie, gli errori, abbiamo rivisto tutti gli schemi. Inoltre, due nostre compagne: una con un background di studi in psicologia, l’altra con un’esperienza ad altissimo livello nell’Ultimate perché ha fatto parte della na-
zionale colombiana che è forse la terza più forte al mondo, giocando anche una finale del mondiale, ci hanno preparato un allenamento incentrato sull’aspetto mentale durante la performance fornendoci degli strumenti per riflettere individualmente sotto questo carattere. Insomma, mancava solo la pratica ma siamo riuscite a concentrarci su aspetti secondari che in realtà sono altrettanto importanti.
D.Le Shout, la tua squadra, è affiliata al CUSB (Centro Universitario Sportivo Bologna). Quanto è importante la presenza e il supporto del CUSB e dell’Università di Bologna?
R. Per noi è stato assolutamente fondamentale. Il CUSB e l’Università di Bologna come istituzioni di supporto sono molto più potenti e importanti della stessa federazione italiana (FIFD: Federazione Italiana Flying Disc ndr). Siamo molto fortunati perché essendo affiliati al CUSB riceviamo un supporto senza precedenti in Italia nel mondo dell’Ultimate. Il CUSB ha fatto di tutto per noi, ci ha aiutati a partecipare ad eventi veramente significativi, come il mondiale per club in Ohio di due anni fa. Un’esperienza unica in cui abbiamo avuto il pieno sostegno del CUSB, è sempre stato lì per noi sia a livello monetario che nel sostegno emotivo.
D. Dando un’occhiata alle squadre iscritte ai massimi campionati di Ultimate in Italia, balza all’occhio una grande presenza di società dell’Emilia-Romagna. Per esempio, nella Serie A femminile, su nove squadre cinque sono dell’Emilia-Romagna e quattro di queste proprio di Bologna. Sembra esserci una vera e propria cultura sportiva molto forte e capillare per quanto riguarda l’Ultimate. È così anche con scuole e attività per i più piccoli?
R. La sezione Ultimate di Bologna sta facendo un grandissimo lavoro in questo senso. I nostri tecnici si recano già nelle scuole medie e superiori, sia durante le ore di educazione fisica, sia attraverso l’organizzazione di corsi pomeridiani nel doposcuola una volta a settimana per un’oretta, un’oretta e mezza. Credo, ma non ne sono sicura, che a partire dall’anno prossimo l’obbiettivo sia quello di portare questa modalità anche alle elementari per cercare di abbassare l’età in cui si inizia a giocare. È un po’ difficile perché tutti i ragazzini hanno già il proprio sport preferito, se giocano ad alti livelli in altri sport è difficile che inizino ad avvicinarsi all’Ultimate. Inoltre, il disco non è un oggetto così immediato come la palla e anche dal punto di vista della manualità per un bambino delle elementari non credo sia così facile. Per quanto riguarda Bologna sì, l’Ultimate è assolutamente capillare, basta andare ai Giardini Margherita e trovi di sicuro qualcuno che lancia (ride).
D. A proposito di Bologna, che rapporto hai con la città e che ruolo ha avuto per te in questi anni?
R. Per me è stata un’occasione per iniziare una nuova vita. Mi sono iscritta a filosofia nonostante io abbia vissuto a Padova dove c’è un’ottima università, ma ero decisa nel voler affrontare l’esperienza di vivere fuori casa. Dal punto di vista della crescita è stata importantissima, mi ha dato l’opportunità di aprirmi, di conoscere persone nuove ma anche di mettermi in discussione in ambienti che non masticavo ancora. Anche iniziare a giocare a frisbee è stato un punto di riferimento fondamentale per me, al di là della routine che lo sport ti fornisce, anche dal punto di vista umano e sociale ho avuto la possibilità di incontrare tantissime persone. Poi Bologna è meravigliosa, quindi… (ride)
D. Com’è il rapporto con le tue compagne?
R. Siamo molto legate. Io sono molto convinta che condividere il campo crei dei legami emotivi molto forti, anche un po’ bambineschi se vogliamo. Ma giocare insieme e condividere l’obbiettivo della vittoria e della competizione crea un legame emotivo viscerale che è difficile da trovare in altre situazioni.
D. A ottobre ti aspetta l’inizio di una nuova esperienza di studi: il dottorato in Inghilterra. Ti spaventa il doverti allontanare da una realtà così solida come l’Ultimate a Bologna? Hai intenzione di praticare questo sport anche con le formazioni locali?
R. La mia idea è quella di continuare. Però in Inghilterra la questione è diversa: i numeri sono più
grandi rispetto all’Italia ma il livello è più basso, perché ci sono numerose realtà locali ma si gioca quasi solo per divertimento senza coltivare l’aspetto agonistico. Per cui, questa cosa mi spaventa un pochino (ride). Comunque, la mia idea è quella di allenarmi autonomamente soprattutto per la parte fisica, frequentare saltuariamente queste realtà locali per poi partecipare alla stagione internazionale della squadra di Bologna. Mi unirei a loro per le competizioni più importanti e mi allenerei con loro una volta al mese nel week-end. Anche negli anni passati è stato pensato in questo modo, per permettere a chi si è trasferito all’estero oppure in altre città d’Italia di allenarsi con la squadra, organizzando dei raduni durante il week-end. Un po’ all’americana, lì fanno molto così, allenandosi solo nel finesettimana visto che per loro è difficile riunirsi negli altri giorni anche per colpa dei tempi di percorrenza.
D. Quando hai capito di amare questo sport? E come e quando hai iniziato a praticarlo?
R. Io ho fatto 15 anni di basket, ho iniziato addirittura a 3-4 anni col micro-basket, per poi praticarlo a livelli anche abbastanza alti, nelle giovanili e a livello regionale. Però ad un certo punto non ce la facevo più, ero stufa e ho deciso di mollare. All’inizio ero alla ricerca di uno sport sostitutivo senza avere grandi aspirazioni agonistiche. Frequentavo la quinta superiore a Padova, ed in quel momento mi sono imbattuta nell’Ultimate. Ho iniziato a giocare a Padova dove c’è una società abbastanza numerosa e l’anno successivo, dopo essermi trasferita a Bologna, ho continuato a giocare. Ci ho messo due o tre anni a capire di volerlo praticare a livello agonistico, anche se sono una competitiva cronica quindi in realtà avrei dovuto aspettarmelo.
D. Raggiungere importanti traguardi negli studi e in parallelo competere ad alti livelli nello sport non deve essere stato affatto facile.
R. Sì, non è stato facile. Per esempio, in un periodo in cui mi allenavo tantissimo le mie coinquiline hanno iniziato a chiamarmi “LontAnna” perché praticamente non mi vedevano mai (ride). D’altra parte, però, la costanza degli allenamenti mi ha aiutato a costruire una routine ben precisa. Lo sport scandiva i miei tempi ed è stato davvero utile anche per l’organizzazione nello studio.
D. Con le Shout avete vinto il campionato europeo (EUCF: European Ultimate Championships Finals) per ben due volte di fila. Tra l’altro, nel 2018, siete state la prima squadra italiana in assoluto, per qualsiasi categoria, a vincere una competizione di tale livello. Come ci si sente a raggiungere dei livelli così alti? Quanto è stato difficile?
R. Vincere la prima finale è stato assurdo dal punto di vista emotivo per tutta la squadra. Già da prima che arrivassi io, era un traguardo che tutta la squadra rincorreva da diverso tempo. Per una squadra europea vincere quel torneo è davvero il massimo. Tra l’altro, nel 2018 abbiamo battuto le Iceni, le ragazze di Londra, che avevano già vinto per credo sette-otto anni di fila. È stata un’emozione fortissima, anche perché erano le stesse ragazze che negli anni passati ci battevano per moltissimi punti. Quindi è stato davvero uno scalare il livello piano piano nel corso degli anni con, tra l’altro, la consapevolezza di aver conseguito un risultato storico per l’Ultimate italiano. È stata un’emozione unica anche perché la partita è stata strana, ma quando hanno buttato dentro il disco finale c’è stata un’invasione di campo, eravamo tutte in lacrime. Insomma, fortissimo dal punto di vista emotivo.
D. È vero che riconfermarsi nello sport, dopo essere stati i migliori, è la cosa più difficile?
R. In realtà devo dire che non è stato così per me, perché la vittoria del 2018 è stata inseguita in maniera spasmodica, nervosissima, quasi ossessiva, come se questa conferma non arrivasse mai. Nel momento in cui questa conferma è arrivata la nostra mentalità è cambiata del tutto, abbiamo acqui-
sito una consapevolezza davvero unica che è stata fondamentale per il torneo del 2019. Scendere in campo con la consapevolezza di poter vincere e senza il peso di non dover dimostrare niente a nessuno è una sensazione diversa, che ci ha permesso di giocare anche meglio secondo me, eravamo una squadra molto più compatta e unita. Per esempio, nella semifinale contro le YAKA, la squadra di Parigi, siamo state sempre sotto, ma questa cosa non ha intaccato la nostra mentalità e abbiamo tenuto fino alla fine. Poi siamo entrate in campo in parità all’ultimo punto avendo la consapevolezza che sarebbe potuta andare in entrambi i modi, ma eravamo comunque sicure di quello che stavamo facendo senza che la paura ci paralizzasse.
D. Una delle caratteristiche di questo sport che mi ha completamente stupito è l’assenza degli arbitri che è prevista proprio dal regolamento. Le decisioni vengono prese direttamente dai giocatori in campo. Riuscite a gestire sempre questa responsabilità?
R. In realtà, credo che il sentirti responsabile dell’andamento dell’arbitraggio e della relazione con l’altra squadra sia un bell’allenamento mentale. Ci sono di sicuro partite in cui avremmo voluto un arbitro (ride). Sono capitati incontri con episodi molto incerti o partite in cui senti che le avversarie stanno strumentalizzando le regole. Però l’auto-arbitraggio ti permette sempre di avere un’altra occasione per ribaltare la situazione. Proprio per come è costruito ho la sensazione che nessuna chiamata possa condizionare in toto il risultato finale della partita. Per esempio, il regolamento prevede la possibilità di contestare una decisione o accettarla, quindi alla fine si è sempre in due a decidere. Soprattutto credo che dal punto di vista educativo possa essere vincente: insegnare ai bambini il doversi fidare dell’avversario nel bene o nel male e avere fiducia della sua buona fede. Infatti, la prima regola dello spirito del gioco (SOTG: spirit of the game in inglese ndr) è quella di credere nell’avversario. Già questo credere nell’umanità dell’altro, soprattutto in ambienti altamente competitivi, è un passaggio mentale molto difficile. Ora parlo in questo modo, ma venendo da quindici anni di basket mi è capitato tantissime volte di prendermela con l’arbitro. In quelle situazioni il processo di de-umanizzazione dell’arbitro è quasi naturale, vedi quella persona molto lontana da te e quasi come il nemico assoluto. Nell’Ultimate c’è in una situazione di reciprocità, non c’è una gerarchia, tutti i giocatori sono sullo stesso piano e condividono le responsabilità sull’andamento dell’arbitraggio, rendendo il tutto più umano.
D. Un tema che mi sembra ti stia molto a cuore è quello della gender equity. Prendendo lo sport più seguito e diffuso in Italia, ovvero il calcio, è palese l’enorme disparità di attenzione e di trattamento tra il calcio femminile e quello maschile. Tuttavia, nel 2019, il mondiale di calcio femminile ha avuto una rilevanza internazionale senza precedenti, dando visibilità anche a diverse calciatrici che spingono verso una direzione di maggiore equità tra gli sportivi, non importa quale sia il loro genere sessuale. Come vedi questa situazione nel mondo dello sport? Credi che qualcosa si stia muovendo? Quanta strada c’è da fare ancora?
R. Sicuramente c’è un’infinità di strada da fare. Avendo vissuto qualche anno all’estero, mi sono resa conto di quanto la società italiana, non solo nel mondo dello sport, sia indietro anni luce. Per
quanto riguarda il mondiale di calcio femminile è stato un caso fortuito che l’attenzione mediatica si sia concentrata su di esso, visto che la controparte maschile italiana l’anno prima non era riuscita nemmeno a qualificarsi facendo anche una figura piuttosto barbina. Tuttavia, è stato davvero importantissimo sotto alcuni aspetti, perché ha portato all’attenzione di un immenso pubblico il fatto che lo sport femminile esiste ed è presente. Dall’altro lato però, sul discorso della percezione che il pubblico ha sullo sport femminile c’è ancora tanto da fare. La maggior parte degli sport per diverso tempo è stata preclusa alle donne che sono state relegate ai cosiddetti sport “femminili”, legati ad un concetto di performance graziosa ed elegante. Scardinare questi stereotipi è davvero un’impresa. Se si guarda per esempio agli sport di squadra che prevedono un’espressione del proprio corpo tramite caratteristiche “maschili”, quali il contatto fisico alle volte violento ed un temperamento esuberante, l’occhio cerca sempre quei tratti di femminilità. Basti pensare allo sguardo sessualizzante con cui i media descrivono le calciatrici e le pallavoliste: prima di essere un’atleta vieni considerata una donna, e in quanto donna vieni vista come un oggetto sessuale che deve rispettare dei canoni di bellezza ben precisi. Per cui spesso finiscono sui giornali per gossip e non per il loro valore in quanto atlete. Se pensiamo a Serena Williams, una delle atlete più famose e importanti della storia dello sport, un talento assoluto, spesso criticata per il suo corpo che appunto non veniva ritenuto adeguato ai soliti canoni di femminilità, per cui per molti era difficile da accettare. Quindi in generale siamo ancora molto indietro, perché il discorso della femminilità imprigiona l’espressività corporea della donna. Un’espressione che di sicuro la maggior parte delle atlete si sono sentite dire è “corri come un uomo”, che da un lato è mortificante perché ti fa sentire brutta e non apprezzata come donna, dall’altro è un commento che pone all’apice della gerarchia dei valori l’essere uomo. Quindi un’atleta viene considerata valida solo nel momento in cui imita la performance di un uomo.
D. Per cercare di cambiare le cose credo sia fondamentale agire sul piano dell’educazione. Il progetto EUGEM (European Ultimate Gender Equity Manual, ndr), di cui fai parte, si pone un nobile obiettivo: quello di creare un manuale di coaching per l’Ultimate, che tenga conto delle differenze di gender e dei diversi modi con cui ci si rapporta verso i diversi generi. Puoi parlarcene un po’ più nello specifico?
R. Il progetto nasce assieme alla Federazione europea di Ultimate (EUF: European Ultimate Federation ndr), attraverso due donne che hanno scritto il bando e hanno vinto dei fondi dalla Commissione europea e dal progetto Erasmus. Noi come CUSB siamo stati l’unico club coinvolto direttamente, perché il resto delle adesioni è stato dato dalle federazioni nazionali di tutta Europa. Si sta cercando di scrivere questo manuale per coach che tratti tutte le tematiche possibili ed immaginabili riguardo l’inclusività e la gender equity. L’obbiettivo è quello di evitare qualsiasi tipo di discriminazione, basata sia sull’appartenenza di genere, ma anche sull’etnia, sulla nazionalità, sul credo religioso o sulla differenza socioeconomica. Per cui da una parte ci saranno delle sezioni sull’aspetto puramente pratico, con la presenza di semplici accortezze da applicare durante gli allenamenti per cercare di valorizzare il più possibile tutte le persone che
partecipano. Dall’altra parte verrà affrontata per esempio il discorso dei media e della visibilità, cercando di trasmettere dei messaggi positivi con l’idea che se uno non vede non può essere. Nel senso che se una bambina non si vede rappresentata nei dépliant o nei contenuti di comunicazione legati allo sport molto difficilmente penserà alla possibilità di diventare un’atleta. L’idea è quella di affrontare temi tabù, come ad esempio le mestruazioni per le atlete, o anche l’aspetto mentale per cercare di scardinare gli stereotipi che ormai si hanno interiorizzato. È importante anche far comprendere la propria posizione di privilegio all’interno di una comunità, cercando di dare voce a tutti costruendo un linguaggio inclusivo. È un progetto molto impegnativo e ambizioso, che credo verrà implementato sottoforma di una app inizialmente, quindi sarà più facile aggiornare nel corso del tempo dando la possibilità a tutti gli utenti di contribuire.
D. Il progetto è stato presentato l’8 marzo 2020. A che punto siete?
R. A fine febbraio abbiamo fatto un week-end intenso di brainstorming a Vienna. Ora il manuale sta prendendo forma, stiamo lavorando sull’indice e una delle due ideatrici del bando è incaricata della scrittura vera e propria del manuale coordinando tutti gli attori in causa. Ogni singola realtà proporrà una sezione scritta portando la propria esperienza. Il CUSB parlerà del recruitment, di come si coinvolgono le persone per giocare ad Ultimate ed in particolare come si trovano delle ragazze. Poi parlerà di come costruire una mentalità agonistica in una squadra femminile portando la nostra esperienza delle Shout e infine della tendenza all’oggettificazione e alla sessualizzazione delle atlete donne.
D. È un progetto che parte dall’Ultimate ma ha l’ambizione di ispirare anche gli altri sport?
R. Sì esatto. Magari meno sotto l’aspetto puramente pratico negli allenamenti, ma più sulla costruzione di situazioni di inclusività attraverso un tipo di linguaggio, attraverso la decostruzione dei privilegi.