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Quando in guerra c'eravamo noi

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PANTERE GRIGIE

PANTERE GRIGIE

SPECIALE UCRAINA

QUANDO IN GUERRA C’ERAVAMO NOI

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LIVIA PANDOLFI

Solo 9 anni. Pochi fra le colline senesi per essere grandi, ma abbastanza per fare la staffetta partigiana, almeno una volta. Questa è la storia del Presidente onorario di CNA Pensionati, Giancarlo Pallanti, che nel 1944 mise a rischio la sua vita, inconsapevole ma non troppo, per portare armi e munizioni in cima al monte Quoio. Intorno a Siena i partigiani si rifugiavano fra i boschi e sulle montagne fra la città e Grosseto. Non erano i tedeschi a ucciderli ma altri italiani, fascisti, dopo averli portati alla Casermetta, la sede del partito nazionale fascista. Fucilati e via. Il papà di Giancarlo, un omone grande e robusto proprio come lui, alla fine dell’inverno del 1944 era scappato e si era rifugiato, insieme ai partigiani, proprio su quelle montagne che si animavano di luci durante la notte. Chi c’era fra i monti metalliferi? I partigiani? I banditi? Non era dato sapere. In città, però vicino al Duomo, teneva bottega il fabbro Berto Pianigiani, un amico di famiglia, che insieme agli zoccoli dei cavalli, gli attrezzi e gli strumenti

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di lavoro, teneva scorta di armi da portare lassù fra i boschi e i monti. Berto era comunista e partigiano, ma Giancarlo venne a saperlo solo dopo quando l’età della ragione consentì alla sua famiglia di raccontare per filo e per segno come erano andate le cose. Allora, negli anni ’40, i ragazzini erano tenuti all’oscuro di parecchie faccende, solo passi lunghi e ben distesi che c’era da fare per portare a casa il pane. Lo zio di Giancarlo, reduce della prima guerra mondiale, era rimasto unica sentinella della famiglia e con Berto si intendeva proprio bene, soprattutto se si trattava di dare una mano ai partigiani e a suo fratello disertore. Così una sera di marzo pianificarono un rifornimento di armi proprio al Monte Quoio dove resisteva un gruppo di uomini male armati e desiderosi di libertà. Però c’era un problema: bisognava schivare i posti di blocco fascisti di cui valli e strade erano disseminati. Lo sguardo dei due uomini si posarono allora su Giancarlo incaricato di vestire i panni di orfanello a copertura del viaggio. Con i sandali fatti di copertone delle macchine fasciste e i calzini grossi a coprire i piedini per il freddo, Giancarlo doveva seguire Berto e la sua bici carica di due bisacce. Sopra gli attrezzi di fabbro, gli innesti delle piante per fare i lavori, sotto munizioni, bombe e pistole. Il piccolo Giancarlo poteva salire sulla bici solo in discesa e i suoi poveri piedi si riempivano dolorosamente di sassi durante le lunghe strade sterrate del tragitto. Perciò non gli fu difficile proprio per niente tirare fuori tutti i suoi lacrimoni di bambino quando, arrivati all’incrocio del ‘Battellone’, fra le colline senesi della Val di Merse verso Grosseto, al posto di blocco fascista chiesero a Berto cosa ci facesse con quel bimbo coperto di polvere e stanco come un mulo. Piangi gli aveva detto Berto. Orfano di mamma, fu risposto, da portare alla fattoria Luriano di una contessa dove bisognava sistemare gli zoccoli di buoi e cavalli, per non lasciarlo solo in città e in pericolo. Occhio ai briganti, andate, dissero le guardie fasciste. E così dopo una notte a dormire in stalla Giancarlo salì di buona lena sino in cima del Monte Quoio, con Berto e il suo carico di armi. Lassù i partigiani informarono Berto che proprio fra i boschi si trovava il papà di Giancarlo che, una volta riconosciuto il figlio indotto a fare la staffetta partigiana, sollevò Berto afferrandolo al petto e sibilando che per fare una cosa del genere avrebbe dovuto essere avvertito. Il resto è storia, la liberazione e il ritorno a una vita serena che per Giancarlo è arrivata a 87 primavere. “Tornato a Siena ho visto e vissuto cose che a un bambino dovrebbero essere risparmiate – racconta Giancarlo – carichi di feriti gocciolanti di sangue, fughe da grappoli di cannonate in grado di arare campi interi, passeggiate sulle macerie dove affioravano resti umani. E dire che poi Siena fu risparmiata dalle bombe alleate”. “Oggi – conclude – immagino bene cosa sia costretto a vivere il popolo ucraino. La guerra è solo un vuoto a perdere, con la sua scia di morti, povertà, dolore, miseria dei civili e dei soldati costretti a combattere. Una guerra non è mai, ma proprio mai, la scelta migliore da fare”.

Giancarlo Pallanti

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LA PICCOLA VERA E IL SUO TESORO DA SALVARE

Un nome russo, strana coincidenza per una storia di guerra italiana datata 43-45. Le colline erano quelle sabine, le strade quelle battute dalla ritirata tedesca da Roma. I bombardamenti, invece, erano degli aerei alleati ad accompagnare la fuga nazista verso Nord. Lei, la piccola Vera aveva solo 4 anni, orfana di papà, ucciso in un disgraziato e fatale incidente ferroviario nella Napoli del 1942. Quando le bombe fioccavano, mano nella mano della mamma Agnese, lei correva via nel rifugio del paese, una grotta scavata nella terra vicino al cimitero. Lì dentro, insieme alle anime in pena per le povere case da salvare dalla furia del fuoco, si portavano le cose ritenute più preziose da preservare. Le cose trasportabili, certo, quando l’importante era scappare veloce. E in una notte di bombe Vera portò via la cosa più importante che ritenne fosse in casa: la cartella di scuola del fratellino più grande. A soli 4 anni decise che i libri erano i tesori più preziosi da difendere e li portò con sé nel buio della grotta. Oggi Vera ha 81 anni e per 40 anni ha fatto la maestra a due generazioni del suo piccolo paese dove quella notte ebbe chiaro il suo futuro.

NOI ALLORA COME IL POPOLO UCRAINO OGGI

Testimonianza di Ferdinando Marchioro Sono nato il 5 ottobre 1929, sono tra quelli che hanno vissuto l’ultima guerra che ha visto coinvolta anche l’Italia e, sinceramente, pensavo di non dovere essere testimone di altri conflitti così vicini al nostro territorio come quello che stiamo vivendo tra Russia e Ucraina. Mi sono subito immedesimato in parallelo all’evento vissuto in passato come testimone, con il sentimento che adesso vive il popolo Ucraino quando definisce e interpreta il termine “Resistenza” per definire quello che stanno oggi subendo. Come noi, anche il popolo Ucraino resiste tenacemente all’invasione scatenata sul loro territorio per impedirne la sopraffazione territoriale e culturale. Diversamente da noi però non rispondono ad alleanze esterne costituite, possono contare comunque su aiuti umanitari e l’accoglimento dei tantissimi profughi, donne, bambini e vecchi da parte di moltissimi paesi del mondo, che appoggiano così la scelta della resistenza Ucraina. Comunque si voglia vedere, la situazione attuale è terribile e drammatica. Mai avrei pensato di assistere, dopo 75 anni dall’ultima guerra vissuta, alla distruzione di intere città, a tanti morti, alla fuga di profughi a migliaia, alla fame e alla carestia, alla mancanza di prospettive e, soprattutto, togliere ai bambini la gioia dell’infanzia e futuro. Su tutto incombe anche lo scatenamento nucleare. Come dicevo, la Resistenza che io ho vissuto da ragazzo aveva come obiettivo scacciare chi ci toglieva la libertà di esprimerci e sentirci partecipi del nostro futuro a garanzia e tutela dei nostri figli. Lo stesso sentimento lo riconosco al popolo Ucraino, che così tenacemente e generosamente si mette a difesa del proprio futuro. Mi chiedo cosa e perché non si sia riusciti ad evitare una così grave e drammatica situazione, cosa spinge ancora e ancora l’egoismo umano a non rispettare il proprio simile, a dividere quello che il mondo ci regala e consegna con generosità. Nel mio cuore ho molta tristezza e da persona che ha visto tanto, spero solo di poter lasciare come testimonianza una sola bandiera, quella multicolore della Pace.

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