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Giuseppina senza paura

IL RACCONTO

di PAOLO MEDEOSSI tra i vincitori del premio letterario “Resistenze” organizzato da ANPI e CNA Pensionati di Tavagnacco (UD)

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Se non fossimo capaci di ravvivare la storia con qualcosa di personale, essa rimarrebbe sempre più o meno astratta, si riempirebbe di scontri di forze anonime e di schemi. Czeslav Milosz “La mia Europa”

Mi chiamo Giuseppina senzapaura, perché io non ho proprio mai avuto paura. Avere paura non serve. Annebbia le idee, rallenta le decisioni, getta nel panico. E invece io ho cercato di controllare questo sentimento, brutto e pericoloso, che sale dalla pancia e arriva alla mente togliendo lucidità. Sempre stata così, per quanto possa ricordare, perché lego le briciole di memoria a uno sguardo, a un sorriso. Tutte cose provate nel luogo che mi fece da culla e nel quale avvertii i primi slanci. C'è sempre un posto, in Friuli e ovunque, dove far cominciare il proprio cammino e sentirsi bene con quanto ci sta attorno. Da grande imparai a crearmi da sola questo mondo, ed era un dolce paesaggio di montagna, dove fare camminate ed escursioni con il mio Dino e gli amici del gruppo a

cui mi ero iscritta. Ma all'inizio, da bambina, la terra del cuore e del sogno era un'altra. Non dipendeva da me, ma da chi mi aveva trasmesso la vita. Questo mio luogo può apparire strano, insolito. Arrossisco a rivelarlo perché nessuno ci crede oppure ha un moto di stupito orrore appena lo dico. Per me invece è sempre stato un posto vivo, in cui starsene in pace, quasi fosse un grembo affettuoso o un'isola dove fare i conti con se stessi e con tutto ciò che si vuole essere. Insomma, io sono nata e ho vissuto dentro un cimitero, quello di Udine. Lo chiamano monumentale perché è stato progettato a inizio Ottocento da un importante architetto con un certo stile, che si nota ancora tra colonnati ed effetti speciali, anche se a me sono sempre piaciute le tombe discrete, pensate con un'umanità capace di porgere tanti messaggi. La mia preferita è una tomba che assomiglia a una chiesetta di montagna e infatti venne copiata tale e quale per accogliere due fratelli, morti giovani e che insieme ai genitori condividevano la passione per un paese delle nostre Alpi dove cucire progetti, sogni e allegria. Quella chiesetta mi dà una serenità profonda, che custodisco dentro di me, sempre, come quando mi perdevo a passeggiare trai vialetti contornati dai cipressi, sul cui tronco corrono gli scoiattolini con la codona in evidenza. Sono nata nel 1922, dopo che papà Gildo e mamma Armellina si erano sposati l'anno prima e il papà era stato nominato custode del cimitero andandoci ad abitare, nella casa dietro la chiesa. Quello, come dicevo, è stato così il mio luogo, come pure per i miei fratelli Duilio, nato nel 1923, e Gina, nel 1925. Tutti lì dentro mentre fuori delle mura l'Italia cambiava, si metteva in divisa, dipingeva parolone retoriche sulle facciate delle case, lanciava proclami. Echi, suoni, ordini che si propagavano fino a noi, ma noi vivevamo in un altro mondo, sospeso tra quello che eravamo e quello che saremmo diventati. Le mura del cimitero non limitavano la mia libertà, ma la proteggevano da quanto succedeva all'esterno, dove, da quanto potevo capire, era tutto un gioco a indossare divise, a sporgere il mento e alzare il braccio con gesti di assurda protervia. Mossette per mascherare debolezze e verità nascoste. I gerarchi bardati in nero sembravano uccelli del malaugurio. Per noi era diverso: il lavoro di papà era quello di dare una dignitosa sepoltura a tutti, di tenere pulite le tombe, di assistere le persone colpite dal lutto. Ma io, Giuseppina senzapaura, che la sera restavo lì dentro, dopo che i cancelli erano stati chiusi, respiravo tranquilla e camminavo dialogando con i volti che vedevo nelle fotografie sulle lapidi. Per me erano persone vere, vive. Ci si scambiava quattro parole, si discuteva un po' sulle scritte che i parenti avevano fatto tracciare nelle rispettive epigrafi per sintetizzare il significato di un'esistenza. Alcune erano esagerate e di solito appartenevano a personaggi in vista della città, che continuavano così a ricevere elogi sperticati. A me piacevano le dediche genuine, uscite dal cuore, capaci di esprimere il dolore per chi ci aveva lasciato. “Bella, vispa, graziosa”, era stato scritto per una ragazza, oppure “Pia, modesta e senza inganno”. Notavo anche questo: le frasi più commoventi erano dedicate a donne, perché attorno agli uomini c'era la tendenza a creare un'eco stentorea con parole del tipo: integerrimo, ardente patriota, anima accesa, modello di eletti sentimenti. Così volavano le giornate nel cimitero, il mio mondo, dove coltivavo senza paura una strana sensazione di libertà, tra storie che si erano spente, ma che lasciavano un ricordo, un monito, una lezione. Il problema era che intanto, fuori del nostro perimetro, quelle parate strambe con uomini in divisa dai ridicoli copricapi e dal mento in fuori, in atteggiamento da bulldog, si stavano trasformando in qualcosa di molto pericoloso. Lo percepivo da ragazzina attraverso Patteggiamento di insegnanti e istruttori, nell'adunata del sabato fascista, oppure quando accendevamo la radio dalla quale ci arrivava una valanga di parole scandite, urlate, isteriche, ben diverse da quelle pacate, consolanti, che ascoltavo in chiesa durante la messa celebrata da padre Cesario. C'era nell'aria una pericolosa esaltazione, e non bastava la sera chiudere i cancelli e rifugiarsi nel nostro piccolo, remoto, silenzioso, ordinato universo, che cercava di proteggere un barlume di verità e buon senso attraverso le vite di chi ci aveva preceduto e aveva qualcosa di utile da dirci. All'inizio la guerra si manifestò da noi soprattutto come un racconto che giungeva da lontano e

sembrava non riguardarci più di tanto. Erano le parole sconcertate, deluse, preoccupate, queste per nulla retoriche, di militari che rientravano dai fronti del conflitto e che poi le loro mamme narravano a mamma Armellina, quando venivano in visita alle tombe dei propri cari. La minaccia si avvicinava sempre più e le parate mostrarono presto l'altra faccia della falsità, trasformandosi in tragedia. Tutto cambiò anche per noi. Fare il custode in cimitero, in tempo di guerra, richiedeva un impegno particolare, per garantire un umano e cristiano rispetto dei morti e anche per affrontare i voleri dei padroni di turno. Quando apparvero i tedeschi, duri, alteri, c'era poco da discutere. Anche loro organizzavano i funerali in cimitero per i propri caduti. Pochi giorni prima della fine, nell'aprile del 1945, dentro le casse ci mettevano i sassi per fingere la morte di importanti ufficiali e coprirne la fuga. Io, Giuseppina senzapaura, vi racconto questa storia non per parlare di me, di papà Gildo o di padre Cesario, ma per dirvi cosa accadde la mattina di domenica 11 febbraio 1945. Se andate sull'ingresso del camposanto c'è una lapide che lo ricorda. Ventitrè partigiani, portati lì dal carcere di via Spalato, dov'erano rinchiusi, vennero fucilati. Io stavo dormendo, in casa, a poche decine di metri, con mamma, papà, mia sorella Gina. Udimmo una scarica di armi automatiche, poi un momento di silenzio e alcuni colpi di pistola di chi li stava finendo. E una voce si levò nitida, in italiano: “Comandante, ora possiamo stappare la bottiglia”. I fascisti autori del massacro bevvero il cognac e imposero poi a papà di lasciare i corpi come stavano, di non identificarli, di seppellirli in una fossa comune. Non avevano però fatto i conti con quelli del cimitero di Udine. Dentro quelle mura noi, durante il ventennio (come chiamano il periodo della dittatura), non avevamo rinunciato alla libertà, costi quel che costi. E così, assieme a crocerossine, parroco, sacrestano, necrofori, agimmo, accogliendo le mamme, le spose, le sorelle, dando ai ragazzi uccisi una giusta sepoltura. I tedeschi sbraitarono, minacciarono, ma in qualche modo riuscimmo a salvare papà e padre Cesario dalla deportazione. lo qui mi fermo. Sono una donna degli anni Venti, quella generazione che, tra lavoro e sacrifici, non ha potuto studiare o informarsi molto, ma alcune cose precise le so. E dico a voi tutti: approfondite sempre, informatevi, non fatevi ingannare, riflettete, non siate dei creduloni. Ora e mai. Vi parlo dal luogo dove sono nata. Ho avuto la fortuna di decidere da sola quando fare il breve tratto di vialetto dalla nostra casa alla tomba, dove sono accanto al mio Dino. E' successo domenica 4 febbraio 2018, poche ore dopo che, davanti al portone del cimitero, si era tenuta come ogni anno la cerimonia a ricordo dei 23 ragazzi uccisi. Ho ascoltato le parole dei discorsi, a chi me lo chiedeva ho narrato ancora una volta cosa avvenne quella mattina, poi mi è stato naturale tornare per sempre dentro la libertà che avevo conosciuta da bambina, protetta dalle mura, nel mio giardino segreto. Così sono diventata anch'io una foto e una scritta su una lapide. Ho agganciato con serenità l'ultimo anello della mia catena e ora mi fido di voi... Sappiate che noi partigiane siamo anche silenziose, un po' defilate, non sempre imbracciamo le armi, ma resistiamo. Ci siamo. Senza paura. Racconto tratto da una storia vera.

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