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Nuove regole per la filiera agro-alimentare
A metà giugno scade il termine per adeguare i rapporti commerciali in corso alla disciplina di recente adottata: tra pratiche commerciali sleali e libertà negoziale (esigua) degli operatori.
di PAOLO ANGHEBEN, Diritto d’Impresa e Affari Legali, Confindustria Trento
L'Europa prima e l’Italia poi hanno predisposto un nuovo quadro di regole per le “cessioni di beni agro-alimentari” a partire dall’assunto che nella filiera agricola e alimentare siano estremamente frequenti considerevoli squilibri nel potere contrattuale tra fornitori e acquirenti.
Stiamo parlando di uno dei settori trainanti del cosiddetto “Made in Italy” e quindi la questione assume un rilievo tutt’altro che trascurabile; gli squilibri che hanno ispirato l’intervento normativo risultano particolarmente evidenti nel nostro paese a causa della grande frammentazione verso il basso della filiera produttiva, cosicché tali asimmetrie nel potere contrattuale non di rado sfociano in pratiche commerciali sleali.
Ciò accade nel momento in cui partner commerciali più grandi e strutturati cercano di imporre determinate prassi o condizioni contrattuali a proprio vantaggio, relativamente ad un’operazione di vendita: si tratta per lo più, nella narrazione corrente, di porre rimedio agli abusi derivanti dallo strapotere delle centrali della grande distribuzione.
Ora, a seguito di una direttiva europea del 2019, il legislatore si propone di mettere ordine nella disciplina formatasi nel corso dell’ultimo decennio, disciplina rimasta peraltro largamente disattesa almeno sul piano delle sanzioni previste e raramente applicate: l’ipotesi presa in considerazione è quella di un rapporto commerciale tra acquirenti e fornitori di prodotti agricoli e commerciali (B2B), con esclusione delle relazioni dirette con i consumatori, purché sia posto in essere da fornitori stabiliti nel territorio nazionale, indipendentemente dal fatturato di fornitori e acquirenti. I
n primo luogo si identifica un nucleo di principi ed elementi essenziali dei contratti di cessione come standard minimo: i contratti di cessione dovranno essere e rimanere conformi a principi di trasparenza, di correttezza, di proporzionalità e di reciproca corrispettività delle prestazioni.
Il contratto dovrà essere concluso obbligatoriamente per iscritto, anche nelle forme snelle di documenti di trasporto o di consegna, fatture, ordini di acquisto che facciano seguito ad un più esaustivo accordoquadro scritto a monte.
Elementi minimi che non potranno mai mancare nei contratti saranno l’indicazione della durata, delle quantità e caratteristiche del prodotto, del prezzo – determinato o quanto meno determinabile dall’inizio -, delle modalità di consegna e di pagamento; a sua volta la durata dei rapporti commerciali non potrà mai essere inferiore a dodici mesi, salve ipotesi specificamente individuate o deroghe motivate.
Ed è qui che interviene la parte se vogliamo più ostica della disciplina perché il legislatore predispone tre distinti elenchi di pratiche commerciali vietate, come tali suscettibili – qualora riscontrate in concreto - di travolgere accordi già stipulati: i primi due elenchi sono di diretta derivazione dalla Direttiva europea con la differenza sostanziale che le pratiche rientranti nel secondo elenco – a differenza di quelle rientranti nel primo, sostanzialmente non sanabili in alcun modo - rendono nullo il contratto solo se non sono state precedentemente concordate per iscritto dalle parti. Il terzo elenco è il frutto dello “zelo” del legislatore nazionale che aggiunge ulteriori ipotesi di pratiche commerciali sleali a quelle prefigurate dalla Direttiva europea.
Occorre a questo punto, anche a fronte di un generale inasprimento delle sanzioni, che ciascun operatore confronti analiticamente le proprie condizioni contrattuali con quelle inserite negli elenchi per non correre il rischio di veder dichiarati nulli gli accordi già stipulati.