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La necessità di definire una nuova Supply Chain
La crisi ha rivelato la fragilità delle catene globali del valore. Il reshoring rischia di rendere il business meno competitivo, la digitalizzazione della Supply Chain sembra la soluzione più utile.
di DANIELE BERTI, Confindustria Trento
SONO MESI convulsi. Aprendo un qualsiasi quotidiano o guardando un qualsiasi telegiornale la notizia ricorrente è sempre la stessa: emergenza Covid-19. In molti paesi l’emergenza sanitaria galoppa, non lasciando tregua a sistemi sanitari già fragili come quello statunitense e quello brasiliano. Con l’arrivo dell’estate, almeno nel nostro Paese, le notizie relative ai contagi giornalieri stanno lasciando il posto alle ripercussioni economiche e sociali che il lockdown ha causato. Aggiornamenti e report delle fonti più autorevoli si susseguono senza sosta. Non è facile destreggiarsi tra numeri e cifre, anche a causa di una situazione talmente liquida che un’istantanea rischia di diventare obsoleta un attimo dopo averla scattata. L’ultimo documento uscito dalla Commissione Europea vede al ribasso le precedenti stime sulla crescita 2020 e 2021. Se ad aprile stimava che quest’anno il Pil dell’intera Ue si sarebbe contratto del 7,4%, adesso si spinge a un -8,3%. Questa stima si basa sull’assunto che non ci sia una nuova grande ondata di contagi in autunno. Qualsiasi futuro inasprimento delle misure per contrastare il coronavirus renderebbe quindi i dati ancora più negativi. In Italia la situazione si preannuncia più aspra che in qualsiasi altro stato dell’Unione: secondo la Commissione nell’arco dell’intero anno il nostro Paese dovrebbe lasciare sul terreno oltre l’11% del proprio Pil. In particolare, l’Italia ha subito una battuta d’arresto molto violenta causata dalla brusca frenata delle esportazioni. La presenza in catene di approvvigionamento molto lunghe, ha permesso nell’ultimo ventennio all’Italia di rimanere la seconda manifattura europea in termini di valore aggiunto. La frenata del commercio mondiale ha fatto precipitare la domanda e l’offerta mettendo in luce tutta la fragilità delle catene globali del valore che si sono andate ad affermare con la globalizzazione. Nel primo decennio del XXI secolo mutò intensamente la geografia dell’industria mondiale. La rivoluzione dell’information technology e l’entrata della Cina nella Wto (2001) accelerarono la globalizzazione consentendo di allungare le catene di fornitura e di trasformare l’economia mondiale in una fabbrica planetaria. Questo ha scosso le economie avanzate, mentre ha spinto la crescita di Paesi emergenti. Già prima che l’epidemia di Covid-19 fermasse il mondo, l’economia globale stava subendo forti scossoni. Per quanto riguarda il commercio internazionale, il 2020 si preannunciava un anno difficile, dato in particolare dalla guerra commerciale iniziata da Trump contro la Cina. Il Covid-19 ha accentuato queste difficoltà e ha il potenziale per invertire in modo duraturo le catene globali del valore. In una fase di crescente sfiducia e di crisi economica, le dipendenze da catene di fornitura troppo lunghe possono generare instabilità e ciò che aveva sorretto la moderna era di globalizzazione divenire inefficace e pericoloso. Il coronavirus ha accelerato il decoupling (disallineamento), ma la tendenza era già in atto. La Cina risponde per il 20% dell’export globale di beni intermedi per il settore manifatturiero. Se pensiamo che il virus ha deciso di attaccare in primis la Cina, la perdita di beni intermedi che si ripercuote su tutti i paesi è molto elevata. A causa dell’interruzione delle catene di fornitura, uno studio Unctad stima che l’Eu risulta essere l’area più colpita, con una perdita
di 15,6 miliardi di dollari attraverso la meccanica, l’automotive e il comparto chimico. Reuters stima che la crescita cinese si fermi al 4,5% nel primo quarto del 2020, tasso più basso dalla crisi del 2008: il rallentamento potrebbe costare 1,1 trilioni di dollari all’economia globale. Nel caso dell’Italia, la percentuale di valore aggiunto importato (beni intermedi importati) e inglobato nelle esportazioni è pari al 17% (Aguir et al., in Journal of Global Economic Analysis, 2019). Per comprendere la gravità della situazione, possiamo prendere in analisi l’industria dell’auto europea: uno studio del Financial Times pubblicato il 16 aprile e intitolato “L’anello più debole della catena di approvvigionamento minaccia il rilancio dell’industria automobilistica”, spiega come la maggior parte delle case automobilistiche siano pronte a ripartire, ma molte piccole aziende fornitrici sono ancora in lockdown o a rischio fallimento. Secondo un rapporto di Pwc, PriceWaterhouseCoopers, il 39% delle aziende pensa a ristrutturare il proprio network di fornitori e mercati. Come best practice vi è la necessità di conoscere approfonditamente non solo i fornitori, ma anche i fornitori dei fornitori, e così via. Il processo di digitalizzazione delle supply chain potrebbe rivelarsi molto utile, anche per possibili ricadute dal punto di vista sociale: prevenire i fenomeni come lo sfruttamento del lavoro minorile, dal momento che le aziende non potranno più permettersi di ignorare i rapporti indiretti. Ad essere in dubbio è l’intero paradigma fondato sul neomercantilismo basato su catene del valore molto lunghe (un terzo del commercio mondiale internazionale è composto da beni intermedi). La struttura economica è diventata tanto integrata quanto fragile. Le catene globali del valore sono andate sempre più articolandosi negli anni, diventando una caratteristica fondamentale, in particolare per le imprese di maggiori dimensioni. Secondo uno studio condotto da Dun&Bradstreet, delle mille imprese della classifica Fortune 1000, ben 938 hanno un fornitore “tier 1” o “tier 2” coinvolto dal virus. Unito a questo, il modello del lean management, produzione basata su costi ridotti al minimo grazie a una pianificazione quasi totale, mostra molte crepe: un’organizzazione efficiente si basa sull’eliminazione della ridondanza, che è la base della resilienza. La globalizzazione intesa come frammentazione del processo produttivo e localizzazione dove è più efficiente in termini di costi, sembra volgere al termine. Come evidenziato dal rapporto “The Great Unwinding” stilato dall’Economist, quante più imprese faranno la scelta di spostare la produzione verso catene di fornitura regionali indipendenti in America e in Europa, altrettanto duratura sarà la de-globalizzazione come risultato della crisi. Il reshoring causerà problemi nel breve e nel medio periodo rendendo il business meno competitivo e più elevati i costi per i consumatori. Inoltre, questo processo non garantirà davvero un’assicurazione contro possibili nuovi shock economici: catene del valore più corte vengono comunque spezzate da eventi dirompenti come il Covid-19, che aggrediscono in maniera sincrona tutti gli anelli della catena. I cambiamenti in atto aprono alle Pmi manifatturiere nuove opportunità di entrare in catene del valore regionale, mentre le imprese dominanti ristrutturano i loro network globali. In tal senso Germania e Nord Italia costituiscono già un’unica area europea di eccellenze lungo le catene di fornitura. Inoltre, le imprese possono cogliere questa congiuntura per trasformare il proprio modello produttivo: nel progettare la ripresa possono immaginare di ripensare le loro catene di approvvigionamento per tentare di renderle più locali, comportando così delle esternalità positive sul pianeta. Ricordiamo che la questione ambientale pende come una spada di Damocle sulla testa di tutti. Si tratta insomma di ripensare radicalmente a cosa sia il valore, oltre al suo significato econometrico, come misura antropologica della qualità della vita umana: le imprese stesse, in quanto soggetti prima antropologici che economici, possono essere i vettori di tale cambiamento.