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12 VdC, III, XV, 2, pag

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20 Ivi, pag

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le possibilità di costituirsi come sapere universale, sia pure in funzione ancillare. L‟universalizzazione del logos, non in quanto filosofia ma in quanto metodo, tecnica, di analisi universale costituisce l‟essenza stessa del cristianesimo come teo-logia, sapere primo ed ultimo del mondo umanodivino fondato sulla fede in Cristo, sull‟evento reale e storico del di-venire umano di Dio. In cosa consiste la “follia” del logos? Consiste nel trasferimento della potenza creatrice dall‟Uno-Dio all‟Essere, e appunto “è la potenza dell‟essere che conferisce la sua autorità alla posizione del pensatore gnostico”.619 L‟autorità di Dio deriva dalla sua auto-posizione di entità increata. “Io sono ciò che sono”, dice Dio di sé a Mosè. L‟Essere, invece, è creato da Dio, come esistente. Dio non esiste rispetto all‟Essere, se non appunto nella persona del Figlio, non a caso indicato da Giovanni e quindi dagli alessandrini come Logos. Il Cristo-Figlio è la presenza (parousia) di Dio, l‟esistenza di Dio, altrimenti trascendente. ma Cristo medesimo è generato da Dio, è Figlio; pro-viene da Dio. La differenza rispetto al Logos filosofico è che in Cristo è esplicita la autorità derivata, rappresentata dalla sua Persona umano-divina, mentre nel Logos filosofico l‟autorità divina è occultata e sostituita con quella dell‟Essere stesso. L‟assunzione della autorità paterna da parte dell‟immagine oggettivata di Dio costituisce il parricidio metafisico del razionalismo filosofico. La differenza insuperabile tra Creatore originario ed eterno e creatura temporale e finita, in ambito ontologico viene dialettizzata nei termini dell‟Essere e dell‟esistenza, indicando il primo come l‟unità universale della categoria e l‟altra come la presenza deterinata dell‟ente. L‟Essere presente, quale prodotto divino, diventa essenza produttiva, soggettività attiva: umanità. L‟uomo diveta creatore di mondo prendendo il posto di Dio. In questa sostituzione di Dio con l‟uomo, in questo umanesimo, si delinea la trama del pensiero razionalistico occidentale. Rispetto al rapporto uomo-Dio della fede ebraico-cristiana, l‟ontologia del pensiero filosofante opera la scissione dialettica all’interno dell‟Essere creatore, il quale pone il suo oggetto, ciè la sua creatura finita, come il prodotto di sé stesso.620 In questa auto-poiesi del Logos si manifesta la sua

619 E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, cit., pag. 96. 620 “Si commette l‟assassinio di Dio quando si interpreta speculativamente l‟essere divino come opera del‟uomo”: E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, pag. 104. 265

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stessa potenza, intesa come actio di una voluntas dominandi. La poiesi dell‟Essere è in questa attività creatrice di esistenza, che Gentile chiama “autoctisi”. La potenza dell‟atto poietico costituisce lo stesso divenire infinito dell‟Essere, la sua infinta attualità. Ma perché l‟Essere possa concepirsi come autore e produttore di esistenza deve coincidere con il pensiero che lo pensa, con il soggetto trascendentale, ovvero con la coscienza universale dell‟Uomo in idea. L‟Uomo universale, creando la realtà, di cui la coscienza fondante è l‟essenza, diventa l‟artifex della “verità di questo mondo” (Marx) e, sostituendo all‟autorità divina della teologia l‟autorità del Potere politico, anche il dominus mundi. Ma di quale mundus? Quello definito dall‟Essere stesso come sostanza universale, che Hegel chiama Spirito (Geist) e Marx “l‟essere-di-per-sé” (Durchsichselbstsein). Ecco che la fenomenologia dello Spirito disegna l‟andata spontanea e il ritorno consapevole del concetto, il cui viaggio della coscienza è un perenne anabasi che torna sulla rotta della “seconda navigazione” della sua catabasi, in quella “notte profonda dove l‟Io è uguale all‟Io” e avviene la “spiritualizzazione” della coscienza che diventa “soggetto” auto-cosciente universale, “scienza”, di cui parla Hegel nella Fenomenlogia. 621 Il destino di questo “eterno ritorno” della coscienza razionale al suo principio coincide con la parabola rivoluzionaria del Logos che torna tautologicamente al suo fondamento. Ed è questo viaggio della coscienza noetica, in cui il Logos perviene al ciò che Voegelin definisce “la costruzione del processo chiuso dell‟essere”,622 che Hegel chiama il “sistema”. La rappresentazione post-ideologica mondata di ogni finalismo escatologico, in cui il dinamismo dell‟Essere viene rappresentato “vuoto di ogni contenuto”, nei termini dell‟assoluta potenza dominante, manifesta “la natura della speculazione gnostica come l‟espressione simbolica di un‟aspettazione della salvazione in cui la potenza dell‟essere si sostituisce alla potenza di Dio e la parusia dell‟essere si sostituisce alla Parusia di Cristo”.623 La rivoluzione interna all‟ontologia razionalistica, che dalla teologia della Riforma si trasferisce nel campo della filosofia con l‟Illuminismo e quindi

621 Cit. da E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, pag. 123. 622 Ivi, pag. 98. 623 Ivi, pag. 99.

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con Marx, il cui fine è di “distruggere l‟ordine dell‟essere”,624 nasce dalla oggettivazione di quel Negativo che l‟ordine razionale aveva escluso dalla sua cosmo-logia. I reietti sociali del Logos, che Marx chiama “la classe operaia” in contrapposizione alla “borghesia” elitaria detentrice del Potere ordinativo dell‟ordine sociale, non sono che gli esclusi dalla ragione, la materia informe che il Potere politico modella a immagine della forma ideale di Stato razionale. La moderna “ribellione delle masse” non è altro che l‟espressione sociologica di quella reiezione, espressiva della logica del dominio del pensiero razionalistico, che al “deicidio dei teorici gnostici” fa seguire “l‟omicidio dei professionisti della rivoluzione”.625 Il fine della rivoluzione, proprio perché essa è condotta con gli strumenti della ragione di cui è informato l‟ordine da distruggere, coincide, e non può non coincidere – da qui la sua tragica necessità – con la restaurazione di un ordine razionale specularmente opposto a quello riformato, nel quale il Negativo escluso dall‟ordine antico viene a prendere il suo posto di Potere ordinamentale, diventando realtà positiva. E in questa positivizzazione del Negativo consiste l‟essenza razionale della struttura della moderna civilizzazione europea, “l‟ordine pigro” della sua civiltà liberale.626

8. “La gnosis è un sapere che sa e il cui annuncio si può riassumere così: chi è illuminato non ascolta più (via l‟antica fides ex auditu!), perché ormai ha visto”.627 La vista della mente, l‟idea, sostituisce l‟esperienza, riservata ai non illuminati, mentre coloro che vivono nella luce, gli illuminati appunto, non hanno più bisogno di esperire il futuro, ossia l‟ignoto avvenire, poiché esso, se vorrà avere un senso veritiero, non potrà che coincidere con la realtà del vero originario. La visione del futuro è la realizzazione dell‟inizio, sicché l‟interpretazione razionale del processo storico è vista come una progressiva opera di demitizzazione storicistica, che libererebbe gli eventi significativi dalla loro relazione col trascendente, secondando una dinamica immanentistica che riporta ogni

624 Ivi, pag. 103. 625 Ivi, pag. 116. 626 Ved. per uno sviluppo analitico del tema, C. Marco, L’ordine pigro, cit., vol. I, L’Europa civile, cap. III, pagg. 123-229. 627 E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Milano, 1991, pagg. 7-8. 267

evento al suo contesto intieramente umano. Questo “riduzionismo” umanistico-storicistico, “attraverso il quale si riduce una forma ignota ad una forma nota”,628 viene imputato alla mentalità gnostica, ma in realtà nasce dallo stesso processo di razionalizzazione della conoscenza e della prassi in cui consiste la essenza ideale della civiltà europea. Secondo gli gnostici antichi, l‟unica condizione naturale è lo stadio finale, coincidente con quello originario iniziale, in cui si aveva la koinonia del comunismo, dell‟androginia e della vita in comune, sicché la condizione di uguaglianza, in cui l‟inizio coincide con la fine, è la autentica.629 Ma l‟esigenza di riportarsi all‟inizio, annullando il tempo connettendo il presente all‟origine, è propria di ogni razionalismo idealistico, che fonda sull‟identità con l‟Essere la ragione della realtà dell‟ente presente alla coscienza.630 L‟unità, come funzione teoetica, è l‟uniformità delle determinazioni possibili dell‟Essere, e dunque l‟unità della molteplicità del suo apparire, e dunque della sua esperienza. Il Molteplice, come unità delle esperienze possibili, diventa realtà dell‟Essere in quanto forma ideale del Possibile. La riduzione del Possibile all‟Essere fa sì che l‟esperienza possa diventare oggetto della conoscenza; anzi, il suo contenuto privilegiato, poiché

l‟esperienza elevata al pensiero, è l‟unica, vera e legittima specie di conoscenza, mentre il mero pensiero concettuale puro che astrae dall‟esperienza, nella misura in cui vuole essere qualcosa a se stante, è in fondo un ideale rovesciato, un problema non solo irrisolvibile, ma posto in modo sbagliato.

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Nel Parmenide Platone pone l‟apparire (Erscheinen) come Essere (Sein). L‟apparire è oggetto del pensiero in quanto espressione empirica dell‟unità del Molteplice idealizzato, ossia inteso come forma del Possibile. In che

628 Ivi, pag. 25. 629 Ivi, pagg. 160-161. 630 Croce parla di “indissolubile nesso di vita e pensiero nella storia”, negli stessi termini gnostici dell‟identità della realtà passata attraverso la tecnica storiografica col modello ideale. Ved. B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1917), Roma-Bari, 1976, pagg. 19-36. 631 P. Natorp, Platos Ideenlehre, tr. it. cit., pag. 343. 268

modo il non-essere diventa parte dell‟Essere? Attraverso la riduzione eidetica all‟unità, cioè alla determinazione del Possibile come forma ideale, unità ideale del Molteplice. Dunque, reale è solo ciò che è ideale, ossia riducibile a unità formale. In verità, proprio tale reductio ad unitatem definisce la conoscenza come “apparenza” dell‟Essere, come suo analogon. L‟apparire diventa oggetto di pensiero, cioè realtà positiva, in quanto riferibile all‟unità ideale, alla forma del Possibile o Molteplice; ciò implica che l‟apparire di tale unità sia rappresentata come l‟estetica dell‟Idea, una sua determinazione empirica particolare, che a sua volta è ideale in quanto la sua realtà è giudicata secondo il suo fondamento onto-logico (“principio di realtà”).632 La parvenza (analogon) dell‟Essere è la apparizione (estetica) della Idea unitaria della Possibilità delle sue manifestazioni, de-finite logicamente dal concetto de-finitorio di ogni sua possibilità d‟essere ciòche-è. L‟apparire di ciò-che-è, è l‟apparenza dell‟Essere, cioè l‟apparenza della definizione ideale dell‟unità delle sue possibili esperienze: dell‟Essere e dell‟ente. Tutte le possibili apparizioni dell‟Idea sono le possibili esperienze dotate di senso ideale, ossia manifestazioni dell‟Uno-stesso che appare in tutte le sue possibilità fenomeniche (estetiche). Questa modalità di conoscenza oggettiva dell‟Essere non è che il modo in cui l‟Idea si rappresenta come reale: ma si conosce, attraverso le sue possibili manifestazioni, solo l‟Idea stessa, cioè la sua definizione unitaria fondamentale, assunta come totalità delle sue possibili determinazioni. Tale totalità è dunque solo ideale, cioè fondazionale, e dunque convenzionale, e legata alla sua credenza ontologica, e perciò soggettiva. Il Soggetto trascendentale pone l‟Essere come Idea e lo conosce come oggetto concettuale: niente è fuori dall‟Essere, posto come totalità ideale. Mentre l‟apparire è molteplice, (l‟Idea de) l‟Essere è lo stesso in ogni suo apparire. La positività dell‟apparire è legata al suo divenire altro, ossia altro dal suo essere oggetto di giudizio di realtà, ovvero di appartenenza ideale all‟Essere, laddove la positività dell‟Essere è nel suo fondamento di giudizio, che è una credenza ontologica, che determina la possibilità per l‟ente di appartenere all‟Essere. In questa possibilità di permanere attraverso (e nonostante) ogni apparire, l‟Essere trascende ogni realtà

632 Su questa bifocalità idealistica è pensata l‟estetica del Croce, su cui ved. C. Marco, Benedetto Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2003, pagg. 219-269.

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positiva dell‟ente, compreso il suo divenire interno alla possibilità d‟essere espressione dell‟Essere, che è il suo negativo-relativo o alterità, poiché la trascendenza dell‟Essere è relativa alla possibilità dell‟ente di apparire nella sua empirica positività, intesa dunque come appartenenza all‟Essere. Se chiamiamo “realtà” l‟apparire dell‟ente interno all‟Essere, cioè alla sua possibilità di appartenergli, l‟essere reale dell‟ente con-ferma l‟essere fondamentale dell‟Essere, che è la condizione della sua realtà positiva in quanto ente. Ma tale realtà o positività dell‟ente è solo ideale, cioè interna al suo fondamento ontologico, al fondamento del suo apparire come apparizione dell‟Essere ideale, e dunque apparizione a sua volta ideale, dove per “ideale” va inteso come legato alla sua determinazione concettuale, dipendente esclusivamente dal suo Essere, e non già dal suo essere reale in sé. La inseità della realtà fenomenica ha la stessa determinazione negativa della aristotelica materia prima, in-possibile fuori della sua forma ideale, cioè della sua determinazione ontologica necessaria. L‟inseità sarebbe dunque una realtà indipendente dal suo Essere, e perciò in-possibile. Infatti, la possibilità dell‟ente di essere altro da ciò che è per l‟Essere del giudizio è la sua negatività, che ne fa un ni-ente. Assumere la negatività come realtà meontica, fa del niente una realtà a suo modo positiva, la cui allotria possibilità d‟essere, trascende la realta ontica e la sua stessa necessità ideale di essere ciò-che-è. La trascendenza meontica è in-apparente, e dunque in-attuale, la cui possibilità limita la necessità deontologica dell‟ente a disporsi come oggetto dell‟Essere, e insieme la necessità ontologica dell‟Essere di costituirsi come l‟esclusiva realtà di senso dell‟ente. Ciò implica che la realtà che trascende sia l‟ente che l‟Essere sia negativa, e pertanto il trascendente meontico è l‟unità che include con l‟Essere anche ogni sua determinazione positiva. Non dipendendo dalla sua determinazione apparente, o realtà positiva, il Negativo trascende ogni realtà ontologica, includendola come possibilità senza esaurirsi in essa, costituendosi perciò quale fondamento originario comune all‟Essere e a ogni ente apparente. E in quanto fondamento assoluto, il Negativo conferma la relatività di ogni possibilità ontologica, la relatività di ogni essere dell‟ente. Non confinato entro l‟opposizione dialettica, ma assunto come il vero vettore di senso di ciò che è ontologicamente reale, il Negativo coincide col Trascendente, la cui funzione di metron della Necessità legata all‟Essere, lo costituisce come lo sfondo di Libertà in cui si muove ogni possibile determinazione ontica. Confermato nella sua Differenza dall‟Essere, il Trascendente dispiega la 270

sua realtà meontica come l‟in-esistente che limita ogni esistenza d‟ente, liberandolo dalla sua necessità d‟essere ciò-che-è e disponendolo alla libertà d‟essere altro. Tale alterità rimanda la relatività ontologica di ciò che è razionalmente reale al suo fondamento di verità originario, che non è l‟aitìa dell‟Essere, ma l‟arché del Kaos, da cui tutto ha origine. Il Dio dell‟Antico Testamento si fa buono, ma può anche essere terribile; si fa misericordioso, ma può anche essere implacabile; si fa presente all‟uomo, ma può anche restare ascondito. In codesta possibilità risiede la Sua libertà, che è trascendenza rispetto ogni finitezza, significatività oltre ogni significazione, futuro rispetto a ogni presente, soluzione rispetto a ogni decisione. Jahwe è libero di distruggere ciò che ha creato, di sciogliere ciò che ha legato, di essere e di non essere, di rivelarsi o ignorarsi. In tal senso, la realtà e storicità di Cristo è una possibilità, che l‟uomo può negligere ignorando l‟atto d‟amore divino, e perdersi senza che Dio lo salvi. Cristo è una possibilità di salvezza per l‟uomo, non una obbligazione legale: “farsi come Dio”, non significa diventare onnipotenti, cioè controllare ogni possibilità d‟essere degli enti, ma accogliere la possibilità di salvarsi in Cristo con la stessa libertà con cui Dio si è offerto per salvare l‟uomo dal gorgo del divenire cosmico del Kaos. Essere simile a Dio equivale a rientrare nel Kaos originario e decidersi in libertà per la possibilità. Nella prospettiva dell‟Origine, l‟Essere è solo una possibilità. Nella visuale della Differenza la Necessità che incatena gli enti all‟Essere per mezzo del Logos è una condizione meramente ontica, conseguente alla decisione ontologica. A questo punto interviene la domanda: L’essere dell’ente è la sua realtà ideale o empirica? Nel giudizio ento-logico le due realtà coincidono, e in questa coincidenza con-siste la sua verità ideale. Fuori del giudizio, nel pre-giudizio dell‟esperienza spontanea, le due realtà sono distinte e spesso separate, tali che per l‟una l‟altra non esiste ovvero è irreale. In questa condizione, il Molteplice si rivela come caos ermeneutico, per sopperire al quale il giudizio logico assegna alla realtà non omologabile uno spazio ontologicamente periferico ma non fuori della portata della ragione e perciò ascrivibile come limite alla sua postulata universalità: lo spazio della esistenza pratica, in cui è consentito alla libera volontà di esercitarsi fuori di ogni consegna teleologica; un recinto esistenziale dove tutto è possibile senza essere necessariamente razionalmente reale. È lo “stato di eccezione”, in cui la volontà libera di determinarsi, e perciò violenta verso le altre volontà, viene legittimata da una superiore legalità che la esonera dalla sua stessa necessità, che arretra di fronte alla spontanea fattualità, 271

salvo a sindacarne la razionalità della sua destinazione in sede di giudizio. Lo scopo di tale confinamento è di controllare le forze eversive dell‟ordine razionale dell‟Essere, assegnando alla rivoluzione una modalità di esercizio eslege ma neutralizzata dei suoi effetti extra-giuridici in quanto declinata in termini di istanza morale,633 inafferenti alle ragioni cogenti del Potere. La scissione tra Ragione e morale ha lo scopo surrettizio di liberare la volontà, quale economia della forza, dalle pastoie necessarie della legalità, facendo dello stato di eccezione un‟esistenza parallela e alternativa a quella dello Stato razionale, caratterizzato da dispositivi finalizzati al mantenimento della subordinazione dell‟uomo ad altri uomini. La morale, ossia l‟insieme delle relazioni “fondate sul sentimento dei doveri reciproci”, stabilisce un rapporto di collaborazione che “elimina la subordinazione, così come la subordinazione esclude la complementarità umana”, per cui “moralità e strumentalità si contraddicono radicalmente”, come l‟esterno visibile della volontà e l‟interno invisibile della intenzione, che disegnano due rispettivi modelli di civiltà: la civiltà della Ragione, “visibile, perché costituita di istituzioni, di meccanismi, di strutture esteriori, di oggetti misurabili”, di contro alla civiltà dell’Amore, “invisibile, fatta di sentimenti, di tenerezza, di emozioni, di cuore”.634 Mosè guarda l‟uomo dal di fuori, sotto la Legge, mentre Paolo lo guarda dall‟interno, dalla prospettiva della coscienza. 635 Queste due forme di civiltà rispecchiano due diversi orizzonti di coscienza, l‟uno indicabile come la “fase mitica”, l‟altro come la “fase razionalistica”. Nella fase mitica, la rappresentazione del mondo è di una una realtà compatta e unitaria, governata dalla forza di conservazione sinergica degli elementi dell‟Essere, dove l‟ordine è costituito dalla prevalenza delle forze del Kaos originario naturale. Kaos è la dinamica che spinge la vita verso la morte, la legge della Natura. La Legge è sconosciuta all‟uomo e perciò misteriosa e irrazionale, ma non priva di una sua intrinseca ragion d‟essere, che è però ignorata dall‟uomo e perciò ritenuta fatale, ossia necessaria e mortifera, dipendente dalla sola forza della Natura. Nella fase razionalistica non vi è più coesistenza tra contrastanti elementi

633 Ved. G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003, pagg. 37-43.

634 A. Labriola, Le crépuscule de la civilisation, cit., pagg. 141-145. 635 A. Orbe, La teologia dei secoli II e III, cit., vol. I, pag. 13.

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che spingono alla vita e, rispettivamente, alla morte in modo tragico, ma la scelta è compiuta in esclusiva per la vita, indicata come l‟Essere, opposto al non-essere della Morte. La dinamica della coscienza razionale procede nel senso della negazione dell‟originario fondamento caotico per la affermazione del prodotto ideale onto-logico. Ogni successivo grado ideale di sviluppo provoca la rimozione del suo fondamento, che viene rimosso a favore del suo pro-dotto: dalla forma ideale al formato reale. Il prodotto reale – il formato – viene assunto come l‟inizio di un nuovo processo di formazione, da cui si emancipa un nuovo prodotto, all‟infinito. Questa dinamica provocherebbe, se lasciata libera, un movimento a sua volta caotico e irrazionale, del tutto opposto e speculare all‟ordine razionale istituito, e che perciò va fermato fissando dei modelli stabiliti di forme istituzionali, che diventano i codici di significazione comuni a una determinata cultura fondativa di una civiltà storica. L‟ordine istituzionale consiste nella determinazione del limite del movimento, riconosciuto come legittimo entro un ambito di sviluppo prefissato, di valore significativo riconosciuto dal gruppo sociale. Fuori di tale ambito riconosciuto, il movimento produttore di senso diventa eversivo dell‟ordine socio-culturale stabilito. Tale ambito socialmente riconosciuto è assunto come “ragionevole” e legittimo, mentre ciò che vi eccede è giudicato irragionevole e assurdo, e perseguito come atteggiamento antigiuridico. La giuridicizzazione dell‟ordine sociale razionalizzato ha proceduto a scapito degli elementi morali della vita sociale, i quali, rimossi dall‟orizzonte valoriale pubblico, si sono coltivati in una privatezza inevitabilmente eversiva e antigiuridica. La rivoluzione, religiosa o politica che sia, ha sempre una legittimazione morale, che è negativa in riferimento al piano di realtà stabilito per decisione ontologica. Ma il fatto stesso di essere e di costituire una minaccia perenne all‟ordine politico costituito dimostra che la chiave di lettura utilizzata per la sua comprensione è inadeguata. La logica giuridica si spiega con la politica, ossia con l‟equilibrio delle forze economiche, ma tale equilibrio non spiega a sua volta la politica, perchè esso è di natura etica, il cui fondamento di legittimità è morale. Aver perciò costituito da parte del Potere razionale dello Stato moderno un ambito di libertà civili tendenzialmente giuridicizzato e del tutto de-moralizzato, ha provocato nel suo ambito la rimozione del fondamento politico e l‟elezione della sua relativa negatività in petizione positiva, logicamente eversiva. In altri termini, lo Stato di diritto, elevando la sfera economica a una esistenza autonoma dal finalismo etico, dichiarandola moral free, ha creato le 273

premesse rivoluzionarie della sua istabilità istituzionale, generando la risposta socialistica all‟individualismo economico delle libere volontà. In tal senso, l‟esito totalitario dello Stato di diritto moderno era inscritto nella sua stessa origine razionalistica. È il fondamento ideale razionalistico la premessa della sua autonegazione reale. L‟autonomia della volontà dal fine etico della politica, se libera l‟attività economica da ogni limite ostativo della sua pretesa universalità, la costituisce come concorrente alla pretesa legalitaria del Potere, a sua volta emancipato da ogni vincolo morale. Tra queste tre distinte sfere di validità ideale sussiste soltanto l‟unità comune che le trascende tutte, quella del Negativo, in relazione al quale ognuna di esse si costituisce come diversa dalle altre. Ma la sussistenza della Differenza entro l‟unità dell‟Essere fa del principio aristotelico di non contraddizione un postulato relativo all‟assolutezza dell‟Essere come totalità delle determinazioni degli enti, ma non può estendersi all‟ente in quanto tale, il quale può essere vero o falso nello stesso tempo in quanto diverso, poiché senza alterità, l‟ente non potrebbe neppure essere compreso nella verità del giudizio di ragione. Tale verità, nondimeno, è sempre relativa alla posizione ontologica, non è originario, ma deriva dal comune fondamento negativo, che è dunque la verità comune a ogni determinazione relativa e dunque l‟unica assoluta, rispetto alla quale la verità ideale è errore, opera di derivata rimozione del fondamento. “Se l‟errore viene sempre dopo la verità, sarà tanto più degno di studio quanto più scopre le sue comuni radici o fonti di ispirazione”.636 L‟alterità, essendo la trascendenza di ogni possibilità dell‟ente, elimina l‟assolutezza di ogni giudizio di realtà, riportando la sua pretesa universalità alla sua relatività rispetto al Negativo, che diventa la misura di ogni ontologica possibilità. La relatività dell‟ente, il cui manifestarsi costituisce la certezza della sua oggettività scientifica, eliminando dall‟Essere ogni pretesa universalità, delegittima anche la violenza riduttrice di ogni alterità possibile alla definizione della sua assoluta realtà. La realtà dell‟Essere, infatti, è la sua definizione, per cui il superamento della sua presunta assolutezza apre la parola definitoria alla sua relatività ideale, esponendola di contro alla possibilità della sua relativa alterità. La parola (Logos), aperta al linguaggio, cioè alla sua possibilità di definirsi altrimenti, apre il pensiero dialettico all‟originario linguaggio del Mito, dal

636 A. Orbe, La teologia dei secoli II e III, cit., pag. 18. 274

quale proviene ogni definizione. La verità del Mito non è una verità di ragione, asserita in opposizione a ciò che la nega, ma è una verità di fede, inerente alla totalità comprensiva di ogni differenza. E pertanto “la fede è il fondamento di ogni conoscenza. Essa diviene più luminosa nel conoscere, ma non è mai da questo dimostrata”,637 in quanto trascendente. La verità della fede è nella sua rivelazione, non nella sua intellezione, sicché ogni theo-logia, cioè giustificazione razionale della fede, è una partecipazione in lingua umana del Kerigma di Dio, la cui intuita esistenza va tenuta ben distinta dalla sua concezione, cioè dalla rappresentazione razionale di Dio. Se dunque il fondamento della Parola è la fede, l‟intuizione della verità è anteriore alla sua rappresentazione logica, come la creazione è anteriore all‟Essere e il Mythos al Logos. Questa originarietà, liberando l‟ente dalla necessità razionale dell‟Essere, libera altresì l‟ascolto della verità, ossia il racconto kerigmatico, dalle sue determinazioni logiche, poiché, nella coscienza della relatività di ogni determinazione razionale, “non si può fissare un limite tra ciò cui bisogna ubbidire e ciò che si può criticamente discutere, tra la rivelazione e l‟intelligenza della rivelazione”. La verità della fede precede ogni sua giustificazione razionale, e dunque anche “ogni linguaggio comunemente intelligibile”, poiché essa è fondata su se stessa, ed è “un punto di riferimento, che è, sì, inteso nella lungua, ma che non può comunicarsi in essa”. Perciò, “chi non crede nella rivelazione non può ottenere un concetto chiaro della rivelazione”.638 È la fede il limite trascendente della ontologia. L‟errore dunque consiste nella rimozione del fondamento della verità razionale, e quindi della inconsiderazione della relatività di ogni determinazione logica e nell‟assunzione della definizione concettuale come valore universale assoluto di realtà dell‟ente fenomenico. La definizione (che cosa sia) dell‟ente definisce l‟apparire dell‟Essere nella sua contingente possibilità temporale. Assumere la relatività come valore assoluto è errore, in quanto nessuna realtà positiva è assoluta, ma solo possibile nel tempo e dunque relativa rispetto alla verità trascendente del Negativo, la sola realtà assoluta rispetto a ogni positiva determinazione onto-logica. La Scrittura, che è Parola, rappresenta la realtà di Cristo come storicopositiva, come esistenza temporale, ma la Sua esistenza non esaurisce la

637 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, trad. it. cit., pag. 49. 638 Ivi, pag. 56.

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Sua esperienza spirituale, la Sua storia divino-umana, che può essere narrata ma non definita nei termini di una oggettività ideale-razionale. Solo la narrazione mitica può rendere la Parola spiritualmente espressiva della fede nella Sua verità.639 Solo la narrazione mitica può rendere la Parola espressiva in senso spirituale, aperto al Trascendente. La spiritualità non è altro che la consapevole appartenenza della positività dell‟Essere al suo fondamento negativo, alla sua Trascendenza, che è eternità rispetto all‟apparire dell‟ente nel tempo. Una Storia pragmatica, intesa come possibilità dell‟apparire dell‟Essere, è destinata a scontrarsi con la sua relatività, e dunque a perdere ogni pretesa di verità assoluta, confermata dalla stessa caducità delle istituzioni politiche della città dell‟uomo. Da qui l‟inevitabile crisi del razionalismo storicistico e della sua goffa lamentazione dell‟impraticabilità di far coincidere i fatti con le idee, possibile soltanto nel racconto storiografico, il moderno mito della corripondenza. Da qui inoltre la perdita di credibilità di ogni definizione della realtà dell‟Essere come valore universale assoluto, in cui il giudizio di interpretazione vanifica l‟oggettività del suo apparire ontico, facendo dipendere l‟ente dalla sua forma ideale, accreditando così l‟istanza metafisica marxiana espressa nella undicesima delle Tesi su Feuerbach. L‟identità di interpretazione, significato e forma, in cui il “fatto” scompare come materia in-forme, non è che un‟astrazione idealistica, in cui l‟ipotetico valore universale del giudizio categoriale rimanda alla presunta totalità dell‟Essere ideale, attraverso la rimozione dialettica di ogni limite alla sua affermazione teoretica e vigenza gnoseologica. È l‟istanza universalistica a costituire come limite ogni impedimento dialettico alla sua determinazione assoluta di realtà incontrovertibile. Tale limite si costituisce ascrivendolo alla opposizione logica un disvalore ideale, identificato col Negativo originariamente rimosso, tale che la sua esistenza negherebbe quella universalità necessaria all‟Essere di

639 La verità intesa come enunciato descrittivo empiricamente verificabile è dunque solo una credenza ontologica nella realtà della corrispondenza tra fatti ed enunciati. Il verità cristiana si declina invece come Storia esemplare della totalità incarnata nell‟Uomo. Sin dai primi seguaci e con Paolo, “Cristo riassumeva tutto nella sua duplice dimensione divina e umana. Verbo Figlio di Dio, paradigma dell‟uomo, mediatore salvifico tra Dio Padre e gli uomini, principio dello Spirito del nuovo popolo (chiesa). Per mezzo della sua venuta tra gli uomini nella pienezza dei tempi determinava il centro della storia, conferendole un significato definitivo”: A. Orbe, Loc. cit., pag. 12. 276

costituirsi come Tutto, e dunque da redimere o sopprimere. La vera realtà non è quella che si dà nella apparenza, ma quella del valore che la costituisce come realtà ideale, presente alla coscienza che la pensa come a sé presente nell‟attualità dell‟interesse storiografico, che risolve il mero racconto mitico (la “cronaca”) nell‟eterno presente della soggettività teoretica. Lo storicismo idealistico sostituisce la verità totale (trascendente e perciò mysteriosa) con la sua rappresentazione ideale, analogica, affermata come l‟unica reale. La riduzione ermeneutica del Tutto all‟Essere antepone l‟interpretazione come valore significativo al limite del Mystero della creazione, cioè dell‟Origine dell‟Essere, assegnando alla Parola, cioè al Logos, una funzione soteriologica che eleva lo strumento a fine. Questa operazione teoretica avviene attraverso la eliminazione concettuale del Negativo, quale irrazionale, e assegnando all‟oggetto di pensiero razionale il valore di “realtà” definita positivamente. Con la definizione concettuale si tracciano i confini dell‟Essere da ciò che lo trascende, giudicandolo in-reale, e dall‟informe crogiuolo dell‟esperienza della vita pratica, assunta come il deposito astratto di ogni superiore elaborazione ideale. È dunque intrinseco alla sua costituzione ontologica la destinazione nichilistica dell‟Essere, che ascrive al Negativo ogni sua opposizione, come se, dal punto di vista del prima e del dopo tale de-finizione, non fosse l‟Essere l‟equivalente opposto. Con la logica dell‟als ob, infatti, il Tutto si riduce alla verbalità dell‟interpretazione, alla quale ogni riforma logica non aggiunge niente di significativo, poiché non intacca il lato oscuro del fondamento ontologico. Eliminando formalmente la trascendenza del Negativo, l‟Essere afferma la sua totalità definendola nella distinzione da ciò che non è partecipabile della sua realtà universale. Poichè la definizione è la rappresentazione dell‟Essere, cioè dell‟oggetto pensato come ente di ragione, essa rimanda all‟Essere, alla sua totalità, come al luogo della vera realtà onto-logica, ogni esperienza difettiva del mondo fenomenico viene compensata da tale rimando alla totalità, alla stregua di una promessa di compiutezza presso il modello ideale perfetto ed eterno, di assoluta positività, dove non vi è motivo di divenire altro da sé, di mutare di essenza. La de-finizione è lo strumento teoretico per affermare una realtà de-finitiva, eterna. Si comprende bene la portata dell‟innesto che la prospettiva soteriologica cristiana ha operato entro la metafisica greca, al fine di fruirne come strumento tecnico di giustificazione della fede. Operazione quanto mai dubbia e azzardata che, con l‟eliminazione del 277

Negativo dall‟esperienza storico-conoscitiva, ha provocato l‟esclusione del Mystero dall‟orizzonte della coscienza e della Verità, e con esso l‟annessa sapienza, la consapevolezza della Differenza tra il determinato (contingente) e il Tutto (necessario), provocando la soppressione della distanza tra la coscienza e le cose, ridotte queste a oggetto e possesso del pensiero formalizzante che le rappresenta. La rappresentazione, pensata non già come rappresentanza analogica ma come “creazione” della realtà informe e astratta, la coscienza poietica del Soggetto trascendentale si sostituisce all‟onnipotenza di Dio, subendo la stessa sorte di rimozione. Il Soggetto prende il posto di Dio nella scala ridotta dell‟Essere, attribuendo alla realtà un significato giustificato razionalmente dalla “sublime tautologia” (l‟espressione è del Croce) per cui ogni ente rappresenta la realtà dell‟Essere, e dunque è l‟Essere stesso come ente apparente, sostituendo per convenzione logica ciò che non è presente. L‟Essere (assente) è (presente), mentre il non-Essere (il Tutto) non-è (presente): esiste solo l‟ente, ciò-che-è (to òn). Ma assegnare all‟ente il significato di Essere equivale a fare della definizione il luogo della verità. La rappresentazione della realtà, il suo significato razionale, prende il posto della Verità; la rappresentazione come Tutto, sostituendo il positum all‟arché, la Parola al Verbo. La Rivelazione come Cristo a Dio. Da qui consegue la rimozione della fede in Lui a favore della sua Chiesa, del prodotto storico del kerigma. “In principio era la parola, il Logos (...) tutto è divenuto per opera sua”: La Parola (umana) al posto del Verbo (divino), la Rivelazione dell‟Incarnato ha preso il posto di Dio, il Cristianesimo dell‟Ebraismo. Tutto (Dio) è (rappresentato dall‟Uomo) fittizio (Cristo). 640 Su questo “paradosso” si dispiega la cristologia, versione sacra della pagana ontologia.641

640 Sul docetismo di Marcione, ved. A. Von Harnack, Marcion. Das Evangelium vom Fremden Gott (1921), tr. it., Genova, 2007, pagg. 200-228. 641 “Poiché del Figlio si può parlare solamente in connessione con la rivelazione di Dio, e del Padre invece, in linea di principio, anche lasciando da parte la rivelazione, e poiché d‟altra parte il Nuovo Testamento ha per oggetto solo la rivelazione, nasce appunto il paradosso neotestamentario (intorno al cui chiarimento i teologi cristiani posteriori, muovendo da un punto di vista filosofico-speculativo, si sono affaticati invano), per il quale il Padre e il Figlio sono nello stesso tempo tutt‟uno eppure diversi”: O. Cullmann, Die Christologie des Neuen Testaments (1957), tr. it., Bologna, 1970, pag. 373.

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La crisi della metafisica classica trascina con sé anche la giustificazione razionale della fede che su quell‟impianto teoretico si era fondata, provocabdo l‟isolamento culturale della teologia cristiana, costretta a difendersi dal suo stesso prodotto ideale: il mondo moderno, il razionalismo e lo storicismo sociologico, insomma l‟ateismo quale rimozione dell‟origine cristologica del significato della Storia. Il significato della Parola, la sua esegesi razionale, divente il surrogato della fede, e la difesa del monopolio ermeneutico l‟impegno mondano suppletivo della evangelizzazione. Ma se la Verità esaurisce ogni possibilità, la definizione invera solo ciò che ha postulato a premessa del suo costrutto sillogistico. “Ogni” vuol dire anche il Negativo, che il giudizio logico esclude per metodo. La ratio misura la corrispondenza tra il postulato (l‟Essere) e il giudicato reale secondo ragione, ossia esistente. Ma cos‟è il Negativo, il me-on o ni-ente, se non ciò che trascende l‟ente? E cosa trascende l‟ente se non ciò che trascende la sua necessità d‟essere? Il Negativo è la libertà, che è la condizione della fede; è la speranza, che è la premessa del futuro; è il Mystero divino, che è il senso della Storia. Il razionalismo elimina dall‟esperienza umana la tensione verso la trascendenza del Finito mercé “la tecnica scissoria, dialettica, polarizzante, tendente a rompere la compattezza del sociale”, in vista di uan conflittualità immanente al processo storico, inteso e vissuto come trama polemica di interessi in competizione.642 Questa impostazione storicistica del poilemos come dimensione universale della esistenza umana e della convivenza sociale, non appartiene al solo marxismo, che traduce in rapporti di forza ogni esperienza socializzata e perciò “reale”, ma è propria della gnosi razionalistica, che oppone la sua onto-logia al Nulla, a ciò che non-è interno all‟Essere. La dialettica esclusivista e negazionista è ideo-logica in quanto onto-logica, razionale in quanto coerente al suo fondamento, a cui ogni ente riporta. L‟Essere, negando il Nulla, rimuove il suo fondamento arcaico e si fonda sul Nulla. La negazione dell‟opposto, che è la condizione d‟essere della realtà ontologica, si risolve in una negazione di sé: il parricidio è il modello metafisico della Ragione, che dopo aver negato il fondamento divino per affermare la storicità del Figlio, nega la Storia cristiana per affermare l‟ibrido Soggetto trascendentale, il quale

642 E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi, cit., pag. 136. 279

verrà a sua volta negato dalla Storia stessa, intesa come meta fenomenologia della volontà autopoietica, assoluta attualità dell‟autoctisi. Eliminando il trascendente l‟Essere () si rimuove l‟origine stessa dell‟Essere, preesistente ogni esistenza (). Come è stato giustamente affermato, “la via della negazione può condurre solo a una conoscenza analogica di Dio (che) si nasconde (ed) è ignoto, perché inconoscibile ()”.643 La strada razionale è preclusa. La conoscenza di Dio alternativa alla ragione umana “è la gnosi (salvifica) positivamente voluta e instaurata da Dio. Più che una via umana della conoscenza, si tratta di una via divina, resa accessibile all‟uomo al livello della Sua esclusiva conoscenza”. Tale via salvifica procede da Dio, “unico autore della salvezza. E non procede da Dio se non è Lui l‟autore della gnosi offerta all‟uomo. Nella prospettiva gnoseologica pagana, mutuata dalle grandi gnosi eterodosse del sec. II, la conoscenza divina, generosamente offerta all‟uomo, è comune a Dio e all‟uomo, eccedente le vie normali dell‟umano conoscere (...)”.644 Qual è questa gnosi alternativa alla ragione umana, di carattere divino? La conoscenza di Dio è possibile in quanto l‟uomo ha essenza simile a quella divina: “somiglianza sostanziale della mente umana con Dio”, ovvero “somiglianza qualitativa dell‟intelletto umano” con quello divino. 645 L‟uomo conosce il divino in sé stesso mediante il divino di sé stesso, scoprendo nel proprio interno “la preistoria e la metastoria dell‟individuo”, per cui la historia salutis rimane priva di basi: “la storia, in quanto tale, non interessa”.646 Ciò che importa è raggiungere l‟Infinito, attraverso una intersezione di scienza e salvezza, in cui predomina listanza soteriologica., sicché “gli ideologi pagani invitano a combinare un percorso concettuale con un altro non concettuale, per giungere all‟intuizione dell‟infinito”, che è la dimensione di Dio che, da ignoto, “si apre all‟uomo per attiralo a sé, senza rinunciare alla Sua superiorità”.647 La conoscenza per la salvezza è diversa dalla conoscenza esatta; questa è propria della dimensione dell‟uomo razionale, rappresentato da Abele,

643 A. Orbe, Loc. cit., pag. 25. 644 Ibidem. 645 Ivi, pag. 26. 646 Ivi, pag. 27. 647 Ivi, pag. 29.

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laddove la conoscenza di Dio è appannaggio dell‟homo religiosus, il credente amico della verità, custode dell‟anima spirituale, la cui specie è rappresentata da Set, capostipite della specie pneumatica, che possiede “la chiave del Verbo incarnato”, senza la quale “le Scritture sono religiosamente enigmatiche”.648 Per gli gnostici, come per Marcione, “prima della venuta del Salvatore nessuno aveva raggiunto la gnosi del vero Dio, nella quale consiste la Salvezza”, sicché il tempo dell‟Antico Testamento era stato “un tempo di ignoranza”.649 Evidentemente, l‟ignoranza era riferita all‟insipienza del significato analogico della Parola, che, in quanto interpretata in senso letterale o razionale, mancava del suo significato spirituale. La superiorità della ermenutiva analogica è nella sua inclusività nell‟ambito della Verità anche della interpretazione razionale. Infatti, il versetto (logion) ispirato da Jahwè, non era falso, ma aveva un significato diverso da quello ispirato dalla sapienza del Figlio, e “l‟uno e l‟altro veri”.650 La Verità spirituale, ispirata da Dio all‟uomo religioso o pneumatico, coglieva intuitivamente ciò che la coscienza dell‟uomo psichico poteva conoscere soltanto con la ragione umana (logos). La mente spirituale (nous, pneuma) non conosce per causas, ma con l‟esercizio della contemplazione (noesis, gnosis), in cui consiste l‟ascolto del Verbo divino, lo Spirito, per mezzo dell‟intelletto divino, che non è la ragione. Tra le due facoltà si pone la Rivelazione del Figlio, che supera l‟ignoranza veterotestamentaria risvegliando nell‟uomo per illuminazione la sua anima spirituale. “Venuto il Figlio nella pienezza dei tempi, rese possibile, con la sua mediazione, la conoscenza del Padre”.651 Il Mediatore consente allo spirito divino di comunicare, di unirsi nella reciproca conoscenza: di Dio, delle intenzioni umane; dell‟uomo, della verità di Dio. Questa conoscenza spirituale è intuitiva, non passa attraverso la parola (logos). La conoscenza attraverso la parola, compresa quella scritturale, è per mezzo dell‟intervento di un altro, ossia è una conoscenza per fede: fede, appunto, di un altro. La Parola evangelica è pur sempre parola umana, legata alla finitezza, che ha un suo proprio

648 Ivi, pag. 33. 649 Ivi, pag. 39. 650 Ibidem.. 651 Ivi, pag. 42.

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linguaggio cognitivo, quello appunto razionale, il quale deve trovare conferma nell‟altro per sussistere come linguaggio di verità comune, condivisa, pubblica, ecclesiale. La conoscenza del Padre è il Verbo di verità, l‟Origine preesistente ogni esistenza (), l‟Ordine preontologico da cui ogni cosa deriva, inattingibile dalla ragione. Cosa conosce la Ragione? Ciò che è comune in Natura, l‟essenza razionale in cui consiste la dinamica dei processo naturali. L‟essenza delle cose finite è appunto la loro ragion d’essere, la ragione della loro esistenza. Qual è la ragione della realtà finita? È la sua destinazione a finire. La ragione delle cose è la Morte, come destino universale, consustanziale alla loro finitezza. La ragione del mondo è ben diversa dalla Verità eterna, dalla realtà spirituale, che non è una “essenza”, ma la Trascendenza, ciò che va oltre la finitezza. Non essendo una entità, non è un concetto, ma una intuizione. La realtà di Dio è una presenza intuitiva. La conoscenza razionale (scienza) è imperfetta, relativa al Finito, a ciò che passa, scienza delle cause, intelligenza delle relazioni mezzi-fini, logica, economica, scienza della volontà, mentre la conoscenza spirituale (gnosi) è perfetta, relativa all‟Infinito, a ciò che è eterno. Il razionalismo è economismo, riduzione della conoscenza (e dunque del significato dell‟agire umano) a intelligenza razionale delle cause degli eventi empirici. L‟intelligenza razionale è la scienza, che è il prodotto della rimossa filosofia. Il sistema sociale economicistico, retto cioè dal principio di ragione economica, è il Capitalismo, la cui genesi è teologica, e nella theo-logia ha il suo fondamento rimosso di verità. La conoscenza razionale definisce l‟esperienza umana nei termini della sua esistenza finita; esistenza che è consustanziale alla esperienza umana, sicché la sua conoscenza è a suo modo conoscenza vera. La conoscenza razionale ha il suo momento di verità relativa nell‟autocoscienza del destino universale di morte. La rappresentazione storica razionalistica ha il suo senso universale nel destino cosmico di Morte. L‟unità razionale della storia del genere umano è nel suo valore di temporalità finita, che ha un terminus a quo iniziaòe e un terminus ad quem finale. L‟assolutizzazione della Finitudine come dimensione esistenziale è una trascrizione naturalistica della moderna cosmologia, regressiva rispetto alla sapienza spirituale, fondata sulla intuizione della Differenza. Per la Ragione, la conoscenza è uni-versalità, o legge dei rapporti causali necessari. Per lo Spirito, conoscenza è differenza tra Finito e Infinito. La verità del Padre è la Legge della creazione del mondo finito, destinato 282

alla Morte. La verità del Figlio è la rivelazione della Differenza tra salus carnis , derivata dalla fede psichica nella ragione, e salus animae, fede spirituale nella Salvezza, che salva dal destino di Morte. La conoscenza spirituale, comportando una metànoia, cioè un passaggio dal piano della finitezza o temporalità, a quello della eternità o pienezza escatologica, introduce nell‟unità del genere umano una frattura, una rivelazione della verità, non conseguibile per eduicazione (paideia), ma per illuminazione intuitiva. L‟intuizione spirituale è la conoscenza della verità come Differenza tra razionale e spirituale, tra legislazione causale e salvezza. Tale salto di conoscenza è il passaggio noetico all‟aldilà della salis spiritus o santità, che è la condizione di verità non confutabile empiricamente, perché trascendente. L‟Incarnazione cristica rivela lo Spirito eterno, la verità trascendente la realtà regolata dalle leggi naturali della ragione finita, e si manifesta come consustanzialità, riconciliazione del Finuito con l‟Infinito, del tempo con l‟eterno, dell‟umano col divino. Se la legge divina del Padre iveste la natura di tutte le creature, l‟elezione spirituale compete solo agli uomini di buon volontà, che intuiscono la Verità e vi aderiscono non con l‟ossequio alla Parola, ma con la testimonianza, che è l‟imitazione esistenziale della Storia di Cristo. Chi ha fede in Cristo non aderisce alla Sua dottrina, ma alla sua Storia, assumendola come paradigmatica di ogni storia umana, in quanto fondata sulla Verità, non sulla decisione ontologica. La Ragione pone la sua verità finita come decisione per l‟Essere. Lo Spirito rivela la Verità come adesione all‟Eterno. Nella conoscenza razionale c‟è identità di sostanza o essenziale. Nella intuizione spirituale c‟è analogia di eternità e di eskaton. Il Verbo, incarnandosi si fa Parola, racconto della Storia di Cristo, Mito. La Parola, de-finendosi secondo l‟Essere naturale della logica antica, diventa Cristologia, trasvalutazione religiosa della antica onto-logia. Il motivo gnoseologico della tesi gnostica fu rigettato dagli ecclesiastici come ereticale, ma in realtà l‟intero impianto metafisico della gnosi cristiana è una riabilitazione surrettizia della gnoseologia naturalistica pagana, la cui purezza modernamente riscoperta ha condotto, complice la Chiesa alla sua fedeltà al Dòkema anziché alla Verità rivelata, all‟ateismo della civiltà razionalistica post-cristiana. Da cosa potrà venire la salvezza del mondo? Da un nuovo inizio spirituale, di fede anziché di ragione. Nelle Leggi Platone asserisce che se per “natura” s‟intende “la 283

generazione delle realtà originarie”, la qualifica di “naturale” spetti più propriamente all‟anima che ai “primi elementi”, essendo questa anteriore a quelli.652 Egli parte dal dato d‟esperienza che “ogni realtà viene alla luce per via di trasformazione e di movimento e un essere è veramente sussistente solo finché permane se stesso, e quando invece si muta in un altro stato si distrugge definitivamente” . 653 Il movimento consta di due generi: “quello che ha la capacità di muovere qualcos‟altro, ma non se

stesso (...) e quello che sempre riesce a muovere sia se stesso che le altre cose (...) e che, quindi, armonizza in sé ogni principio attivo e passivo (per cui) in senso proprio è questo che merita il noime di cambiamento e movimento di tutte le cose che sono”.654 Il movimento primo di tutti i successivi movimenti è “il movimento che muove se medesimo”, che, non essendo mosso da altri, costituisce “il principio di tutti i movimenti” e quello “più antico”. Un essere, muovendosi da sé, è vivo, e dunque ha un‟anima ().655 E l‟anima non è altro che il nome che noi attribuiamo a “ciò che muove se stesso” ed è “principio () di movimento di tutte le cose”. Da ciò consegue che “l‟anima in noi uomini è venuta all‟essere prima del corpo (e) che per natura ha funzione di guida, mentre il corpo è guidato dall‟anima”, la quale è “causa () di tutte le cose”.656 Questa doppia nomenclatura esprime anche una duplice funzione: quella, per così dire, interna all‟anima, e concernente i “movimenti primari” (), quali i pensieri e le decisioni, e quella esterna, concernente i “movimenti secondari” (), ossia “i moti dei corpi”.

657 La “oscillazione del significato della parola „fondamento‟ o „principio‟ ”, era già stata notata da Carnap, il quale si decide a interpretarne il senso univoco in ciò che, essendo primo e “in quanto presupposto, determina la conseguenza conforme alla legge dell‟accadere”,658 che è la sua ragione, ossia la sua necessità. Pur trattandosi dell‟anima, prosegue Platone, il movimento che essa determina nei corpi, compresi quelli celesti, “è di natura analoga al movimento e all‟andamento dell‟intelletto, ossia ai ragionamenti, sì che quella si muove in sintonia con questi, allora risulta evidente che è

652 Platone, Leggi, X, 892 c. 653 Ivi, 894 a. 654 Ivi, 894 b-c. 655 Ivi, 895 b-c. 656 Ivi, 896 a-c. 657 Ivi, 897 a. 658 R. Carnap, Op. cit., pag. 457.

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l‟anima migliore quella che presiede a tutto il cosmo, e che lo guida sulla sua via”.659 La migliore è dunque l‟anima razionale, quella che è omologa all‟intelletto umano, ossia che consente una interpretazione razionale dei suoi movimenti. Il punto decisivo è questo: l‟omogeneità tra movimenti razionale e comprensione intellettuale e finalismo benigno. Infatti, “se questo movimento (cosmico) fosse senza senso e senza ordine, l‟anima sarebbe malvagia”.660 Il Bene, dunque, è la ragionevolezza del movimento dell‟anima cosmica quale legge universale, con la quale l‟intelletto umano deve mettersi in sintonia se vuole partecipare del suo bene, ossia deve uniformarsi alla legge di ragione. Ma qual è codesta legge? Le parole di Platone, per quanto elittiche, non lasciano dubbi: è la legge dell‟Ordine, inteso come “un‟unica regola”, una “disposizione prefissata” e una “logica prestabilita”.661 La “circolarità” del moto sta a indicare la corrispondenza tra l‟evento o movimento particolare e “tutto il complesso” cosmico, ossia cosmo-logico.662 Poiché non è possibile cogliere coi sensi la totalità cosmica, dobbiamo conseguire con l‟intelletto e con l‟intelligenza l‟anima che lo muove, riconoscendone la “natura divina”, che assicura “l‟ordine dell‟universo intero”.663 Tale Ordine universale, essendo intelligente, è riferibile a un “ordinatore” che lo governa col fine di assicurare che “alla vita del tutto sia presente l‟essenza della felicità”, a cui ogni uomo deve partecipare facendone parte organica.664 L‟idea dell‟Ordine è gerarchica, e spiega altresì il movimento stesso dell‟anima (o degli dèi che ne eseguono la funzione ordinatrice), ovvero dell‟intelligenza di “chi muove le pedine”, consistente nel “mettere il carattere migliore nel posto migliore, e quello che è peggiore nel luogo peggiore, affinché ciascuno abbia quel che gli tocca e la sorte conveniente”.665 Dunque, l‟Ordine consiste nella 1) gerarchia delle

659 Leggi, 897 c. 660 Ivi, 897 d.

661 Ivi, 898 b. 662 Ivi, 898 d. 663 Ivi, 899 b. 664 Ivi, 903 c. 665 Ivi, 903 d.

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funzioni, nella loro 2) regolarità, e cioè razionalità e giustizia, e nella coerente 3) corrispondenza di ogni parte al Tutto. Epperò qui sorge il problema di conciliare il modello dell‟Ordine ideale col movimento che, per quanto stabilito da leggi eterne e superiori, pare contraddirlo; infatti, se fosse un ordinamento universalmente cogente e necessario, perché mai un governo intelligente a regolarne il funzionamento? Ciò vuol dire che all‟interno dell‟anima esistono due pulsioni opposte: quella che afferma l‟Ordine legale-razionale, e quella che tende a negarlo, obbligando l‟azione correttiva dell‟intelligenza divina. L‟anima “buona” è quella che tende all‟Idea, non già al movimento, che pure è stato indicato, come abbiamo visto, con “la vita”. Se, dunque, il movimento è vitale, perché assegnare la bontà del fine all‟Ordine? La risposta è, nella sua essenzialità, molto semplice: la bontà del movimento non è nella sua dinamica, ma nel suo fine idealerazionale, senza il quale il movimento stesso sarebbe disordinato e maligno, cioè caotico. Sicché l‟intelligenza divina che muove il mondo ne indica la direzione salvifica, ma non crea il movimento, se non come motore correttivo, in quanto il movimento, cioè la vita cosmica, sussisterebbe ugualmente, anche senza la bontà dell‟intelligenza divina, ma in termini malevoli, caotici. Dunque l‟intelligenza divina che muove tutte le cose è distinta dal movimento spontaneo di esse, tale che “l‟anima migliore” interviene a correggere le pieghe spontanee della peggiore. Sicché il cosmo divinizzato non è la realtà naturale della vita spontanea originaria, la quale è in sé priva di intelligenza, ossia di fine teleologico, che costituisce l‟Ordine felice universale. L‟intelligenza che governa il mondo lo costringe entro le leggi divine della Ragione, che sono quelle stesse dell‟intelletto umano e che determinano il fine del movimento spontaneo nell‟alveo della logica necessità, che la dialettica discopre attraverso la pratica maieutica. Senza tale Ordine, ossia senza l‟intelligenza della necessità universale, il movimento ricadrebbe nel caos originario, nella confusione cioè di bene e male, di piccolo e grande, di giusto e ingiusto, di contingente e necessario. Il principio arcaico () viene posto sullo sfondo dall‟inizio logico () dell‟Ordine cosmico (), che lo rimuove nel suo nuovo fondamento, dando vita al movimento intelligente, che è la legge sovrana del governo divino dell‟universo. Di riflesso, il governo politico non può che rifarsi a questo principio d‟Ordine razionale, non certamente al movimento caotico privo di fine e dunque di felicità. La 286

metafisica greca nasce su questo fondamento onto-logico, e su questa rimozione dell‟origine caotica indicata come movimento maligno in quanto ateleologico e in-intelligente, insomma come il Negativo rispetto alla positività dell‟Ordine razionale universale. Questo “salto nell‟Essere”, come l‟ha chiamato Voegelin, non è che la scoperta dell‟Ordine come riferimento di ogni fenomeno empirico al suo modello organico ideale. E su questo modello si sviluppa la theo-logia cristiana, concependo un Dio onnipotente ordinatore del Kaos, che trae l‟Essere del mondo dal Nulla, pensato questo come Male, come privazione, come negativo, e Cristo come suo criterio ordinatore (Logos). La questione è che l‟anima (psyché) del mondo, il movimento della vita, che è la pre-condizione della razionalità, così come la Natura (physis) è la materia informata dall‟Idea, è in sé una sostanza, rispetto alla quale l‟Ordine è contingente e accidentale. In altri termini, il movimento in sé (dynamis) è come la materia prima aristotelica, un‟astrazione concettuale che la distingue dalla ragion pura, oppure è una sostanza che può sussistere anche senza ordine razionale (energeia)? In Aristotile psyché e physis non sono contrapposti come l‟Essere alla coscienza, ma sono correlati nei termini dell‟universale e del particolare. La physis è la condizione d‟essere dell‟ente, che rimane invariata sia nel suo essere che nel suo agire,666 mentre la psyché è la forma ideale () del corpo fisico, il luogo ideale () e finale del suo fondamento ().667 L‟identificazione del movimento vitale () col Male e col Negativo (privatio Boni), in quanto informe materia, implica la sua scissione dall‟unità originaria e la opposizione logica in relazione al prodotto formato (), che è un ente () idealizzato. La rimozione del Negativo consegue alla identità del “reale”, l‟ente formato oggetto di giudizio, col “razionale”, prodotto noetico, mettendo in antitesi il mondo naturale col mondo razionalizzato, ma considerando “vera” solo la loro unità ideale-reale di essenza ed esistenza. L‟Essere dell‟onto-logia è già l‟Idea dell‟Essere, prodotto della scissione e dunque derivato, così come il Christos-Logos è il Figlio di Dio. L‟identità del Figlio (Deus visibilis et imago Dei) col Padre (Deus

666 Aristotile, Phys., 192 B 13.

667 Aristotile, De anima, 429 A 27, 432 A 2. 287

absconditus et incomprehensibilis) resta logicamente problematica,

668 proprio perché la logica è stata assunta sia come criterio di giudizio, ossia di identità/distinzione dell‟ente con l‟Essere, che di realtà, cioè di determinazione empirico-fenomenica. Ciò che pare indubitabile è che l‟Incarnazione del Figlio, rispetto alla potenza divina del Padre, introduce nell‟Essere quell‟elemento di dinamicità spontanea, cioè di relazione con la corporeità e naturalità dell‟esistenza concreta, che il concetto aveva rimosso come negativa particolarità.

9. La pietà cristana verso il Negativo è l‟Amore (agape) della riconciliazione (Vesoehnung) della coscienza umana col mondo, che non risolve nel potere della Legge l‟ordine esistenziale, e dunque nella forma istituzionalizzata della struttura politica di Cesare, ma accoglie nella esperienza della fede quella particolare accidentalità individuale che non ha significato proprio e personale nella forma universale dell‟Idea. Questa pietosa accoglienza della singolare vicenda umana della persona nella valutazione della sua esperienza esistenziale come una realtà che trascende le singole manifestazioni delle sue azioni visibili, cioè della sua volontà, e coinvolge anche e primieramente l‟ambito della sua riposta coscienza, cioè la sua segreta intenzione, supera, con l‟oggettività del giudizio razionale, lo stesso criterio di giustizia della Legge, che giudica le opere umane, le res gestae, ma non considera, come invece fa l‟Amore, la vicenda dell‟uomo come storia spirituale nel tempo, comprendendola in rapporto alla salvezza eterna, che trascende la storia pragmatica (historia rerum gestarum). Tale caritatevole comprensione dell‟uomo spirituale inerisce la considerazione dell‟in-visibile, e dunque include quel Negativo, rimosso dal giudizio di ragione, dalla realtà onto-logica, pervenendo alla compiutezza propria della coscienza divina, che ha in Cristo il suo modello divino-umano, storico-escatologico, spirituale. Il rapporto tra il modello divino e quello umano permane all‟interno della Differenza tra il Finito e l‟Infinito, nelle sue diverse articolazioni, e perciò non si risolve in una identità, ovvero in una assimilazione logica dell‟altro, in senso, rispettivamente, teopanistico o panteistico, per riprendere la dicotomia di Przywara, ma si può ben rappresentare nei

668 “Non vi è contrasto più grande che fra Dio e immagine di Dio”: K. Kraus, Sprueche und Widersprueche (1909), tr. it., Milano, 1972. 288

termini di una analogia, del quale il pensatore gesuita polacco ha offerto una elaborata teoria.669 Egli, pur riconoscendo come imprescindibile a ogni discorso metafisico la “equazione esaustiva tra conoscenza ed essere, per cui la conoscenza non è altro che l‟essere in quanto portato ad espressione o, per meglio dire, l‟essere che manifesta se stesso (giacché solo in tal modo si esclude una tensione tra il „che cosa‟ e il „come‟”, muove “dal problema dell‟atto” per definire la struttura formale della metafisica, in cui una “meta-noetica immanente” si compenetra a una “meta-ontica” in cui “giunge ad espressione esplicita lo sviluppo delle categorie meta-ontiche immanente all‟atto”, in modo che “la coscienza e l‟essere sono reciprocamente connessi”, e in questa reciprocità far consistere “il problema supremo della metafisica”, poiché inerisce alla stessa “struttura del mondo”.

670 La panoplia noetica dei trascendentali (verum, bonum, pulchrum) deve trovare un focus metafisico (unum) di verità in cui “i punti di vista logico (“vero”), etico (“buono”) ed estetico (“bello”) trovino una “convergenza che trascende nell‟essere”, andando a costituire un “trascendentalismo metafisico”.671 Ma se l‟esse riguarda la metafisica in senso stretto, l‟unum riguarda invece la matematica, la cui questione dell‟Uno e del Molteplice costituisce “il supremo problema della forma di tutte le possibilità sistematiche”672 proprio della metafisica. Questa a sua volta può essere deduttiva (cioè a priori dell‟oggetto: dalla causa all‟effetto), ovvero induttiva (ossia a posteriori dell‟oggetto: dall‟effetto alla causa), ma comunque convergente sulla problematica dell‟oggetto, il “che cosa”, in senso ideativo (l‟ platonico: metafisica eidetica) o in senso reale (la  aristotelica: metafisica morfologica).673 Nondimeno, anche l‟ scientifico-reale, anche nella sua forma più rigorosa

669 “Il teopanismo è il fondamento formale della metafisica puramente a priori, il panteismo della metafisica puramente a posteriori”. Da questa “sciagurata alternativa” resterebbe per l‟Autore “un‟unica forma residua (dal punto di vista della questione del fondamento formale) che è la teologia cattolica”: E. Przywara, Analogia entis. Metafisica (1932), tr. it., Milano, 1995, pagg. 61, 62, 65; da ora AE. 670 Ivi, pagg. 16-17. 671 Ivi, pag. 21. 672 Ivi, pag. 24. 673 Ivi, pag. 30.

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() necessita di una impalcatura eidetico-deduttiva che ne chiarisca i presupposti che la sottraggano dall‟essere una “opinione incontrollata” (). Ciò implica dunque che il rapporto tra le due unità metafisiche va trovato nel luogo in cui “l‟hanno trovata Platone, Aristotele e Tommaso d‟Aquino: in una suprema reciprocità e compenetrazione”, tali che l‟eidetica si occupi, non di essenze in sé, ma degli “eide reali dell‟essere reale” di “questo mondo” (essentiae rerum), dei quali le forme pure kantiane e gli eide fenomenologici rappresentano “i limiti estremi” dei dati mondani. L‟incontro di morphé (la forma delle cose) ed eidos (l‟idea delle cose), diversamente dalla fenomenologia di Husserl, riabiliterebbe a suo dire l‟esistenza concreta, da essa messa “tra parentesi” per applicarsi alla “coscienza pura”.674 Il mondo concreto, egli afferma, lo è non solo in quanto “c‟è”, ma in quanto gli enti determinati e “con-cresciuti” nella intima reciprocità di essenza ed esistenza costituiscono una struttura che crescendo diventa “mondo” dove vige “la legge dell‟eterno oscillare che le unisce”, quella della “essenza dentrosopra l‟esistenza”, propria della “metafisica creaturale”.675 Nella polemica con Barth, il teologo protestante mette in luce la questione essenziale che condiziona gli sforzi, pur notevoli, del pensatore cattolico di articolare le forme eidetiche con una unità ontologica sostanziale ma anch‟essa formale che è l‟Essere, inteso inevitabilmente come struttura della Necessità. Invece, “per Barth l‟analogia tra il condizionato e l‟incondizionato non può concernere un essere che li accomuni al di là di qualsiasi dissimiglianza, ma nient‟altro che un agire. Vale a dire l‟agire determinato dalla decisione umana e l‟agire divino della Grazia”.676 Ma, se la prospettiva barthiana coglie indubbiamente il nucleo problematico della ideazione metafisica, che rende il formalismo ontologico, dopo la svolta dialettica hegeliana e la critica di Heidegger e Dilthey, ormai impraticabile, la sua indicazione gnoseologica, che partendo dai “segni” sensibili della presenza divina conduce alla “conoscenza indiretta di Dio nelle sue opere” , 677 trova, come abbiamo

674 Ivi, pag. 33-35. 675 Ivi, pag. 36. 676 P. Volonté, Introduzione a AE, pag. XVII. 677 K. Barth, Kirkliche Dogmatik, I/2, 243 sgg., II/1, 17 sgg.; tr. it., Bologna,1968, pagg. 32-34.

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visto, nella dinamica relazionale tra finito e infinito non in una struttura ontologica ma nell‟ “agire” di Dio e dell‟uomo. Rispetto alla risoluzione greca della dinamica spirituale nell‟Essere, la posizione di Barth è senza dubbio spiritualmente più avveduta in senso cristiano, ma neanch‟essa sfugge alla concezione dinamica propria dell‟ontologia, quella appunto dell‟agire come atto di volontà, che risolve nella positività oggettiva la fenomenologia spirituale678, escludendo dalla realtà dell‟Essere quanto non sia rapportabile all‟Essere, il  physio-logico che permane dunque a de-finire l‟orizzonte di senso della stessa relazione umanodivina, travisando in senso ontico l‟indicazione psychica platonica e stabilendo una identità formale tra coscienza ed Essere, inteso come essere della physis. Ed è propriamente la dimensione physio-logica a consentire l‟assolutizzazione delle forme eidetiche e la reificazione dei suoi prodotti ontici, in cui l‟aspetto formale e quello empirico diventano opposte prospettive ideo-logiche della essenza e dell‟esistenza legittimate teoreticamente dalla loro assolutezza. Da qui il carattere volontaristico della loro mobile relazione, che si determina nei modi del “come”.679 Che il legame tra Dio e l‟uomo passi attraverso la parola, quale “segno” privilegiato della coscienza, implica una comunanza tra “la parola di Dio” () e quella umana che, al di là della distanza tra la sophia e la philìa, sussista come possibilità della stessa relazione di partecipazione, sicché l‟esito per cui “l‟assolutezza di Dio si è a tal punto trasformata nell‟assolutezza della creatura, che la parola di quest‟ultima è parola divina: ” , 680 delle moderne filosofie assolute quali “teologie de-teologizzate”, è già inscritto nella premessa ontologica. Infatti, è pur vero, come sostiene Przywara, che “la filosofia in quanto tale è già teologia”,681 ma lo è nel presupposto che il fondamento della fede ontologica (che l‟Essere è) sia identificato con Dio (l‟Essere è Dio). Infatti, pur asserendosi che la metafisica sia in generale un “andar dietro le quinte” della physis, e quindi dell‟Essere, il carattere formale del suo costituirsi come “fondamento, fine e senso che agisce in esso” è, come ammette lo stesso Przywara, “in verità qualcosa di simile a un concetto

678 E. Przywara, AE, pagg. 59-60. 679 E. Przywara, AE, pag. 56. 680 Ivi, pag. 61. 681 Ibidem.

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limite positivo del movimento spirituale metafisico”, in cui lo stesso “Dio è oggetto nella misura in cui la creatura è oggetto”, poiché la misura della sua attività è quella stessa della filosofia, e quindi della logica.682 Sicché la distinzione che assegna Fides e gratia alla teologia, e ratio e natura alla filosofia, è puramente empirica e non metodologica, in quanto la natura formale dell‟oggetto persiste in entrambi i casi di “realtà”, con perfetta intercambiabilità della fides con la coscienza e della gratia con l‟Essere, intendendo il “soggetto divino dell‟atto” un “soggetto visibile”. Ciò ha legittimato la funzione ermeneutica decisionale della Chiesa, custode infallibile del del Verbo quale “parola positiva”, presentata e fissata nella forma di una “teologia ecclesiale della rivelazione”.683 Il carattere positivo della “realtà formata” determina il rapporto tra fides et ratio in termini gerarchici, con una prevalenza del “sopra” sul “dentro” che si traduce in una interpretazione autentica del pensiero sub specie theologiae (positivo ecclesiale, cioè ecclesiastica cattolica), con una interpretazione del credo ut intelligam agostiniano che risolve la fede nella espressione della sua intelligenza formale, e non nel senso che la fede sia la ragione dell‟intelligenza della realtà. Inoltre, la rappresentazione di Dio come Bene, che è concetto positivo, comporta che “qualsiasi teoria in cui il male viene presentato come contraddittorio all‟idea di un Dio buono sia dunque, in fondo, un ateismo”, 684 ossia la trasposizione di un giudizio logico in realtà ontologica. Infatti, non potendosi ammettere che il male proceda “dal bene, suo contrario”, si assegna al solo Bene valore di realtà, mentre all‟essere del male il solo valore di copula, di “legame logico di una proposizione vera”, non avvedendosi che questo comporta l‟ammissione di un Essere assolutamente positivo che, per essere comunque “incompleto, inarmonico, più o meno degradato”,685 non può, senza

682 Ivi, pag. 64. Sulla “ragione essenziale, o il concetto di ente”, ved. F. Suàrez, Disputationes metaphysicae (1597), Disputatio II.1, tr.it. di C. Esposito, Milano, 2007, pagg. 368-395.

683 Ivi, pagg. 66 e 67. 684 A.-D. Sertillages, La philosophie de S. Thomas D’Aquin (1940), tr. it., Roma, 1957, pag. 276. 685 Ivi, pag. 277.

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l‟elemento deficitario, essere Tutto, rimanendone fuori il suo “contrario”. Per impedire l‟attenuazione (remissio) dell‟Essere e a garanzia della sua pienezza soccorre la volontà, cioè la potenza dell‟azione, la cui economia è governata dal Potere, finalisticamente spirituale (la Chiesa) e operativamente politico (lo Stato). Questo ausilio deontologico, non potendo aggiungere all‟Essere la sua naturale positività, ne corrobora però l‟ “appetito” del bene, confermandolo nel suo essere nel contrastare il suo contrario. Ma se si ammette che “ogni essere manifesta un‟attività”,686 questa non può che derivare dall‟imperfezione del suo status naturae, ossia del suo stesso essere, che agisce in quanto imperfetto, sicché è nel fine verso cui tende l‟agire che si misura il rapporto tra bene e male,687 la cui contrarietà diventa complementare in relazione al Tutto, ossia alla relativa perfezione. Il fine dell‟Essere, cioè il suo Bene, è l‟essere stesso, mentre il fine contrario è la sua negazione (libido). Questa, si dice, “è un infinito; se ne può attribuire a un essere quanta se ne vuole senza che venga qualificato in alcun modo, né toccato in bene o in male”, poiché l‟assenza in sé non cambia la natura degli esseri. Infatti, “se l‟assenza pura e semplice di un bene fosse un male, quel che non è affatto sarebbe un male e quindi tutte le cose sarebbero cattive per il solo fatto che ciascuna non possiede ciò che fa la bontà di un‟altra. (...) Ben diversa è la privazione, che nega il bene in un soggetto che dovrebbe possederlo”.688 Si nega la sussistenza ontologica del male nell‟atto stesso di affermarlo esistenzialmente, lasciando impregiudicata la questione circa la (possibilità della) privazione del bene nella condizione che dovrebbe prevederlo. Agostino, spostando la questione sul piano della volontà, riferisce alla (libertà di) coscienza ciò che rimane inspiegabile sul piano dell‟Essere, inteso come sommo Bene. La volontà diventa il movimento della coscienza, la dinamica della fede come intelligere che parte dal credo (ut intelligam) e vi giunge (intelligo ut credam), trovando in fine la “veritas incommutabilis del Deus Verbum: dal credere all‟intelligere, al videre”.689 Il Verbo divino si rivela mysterioso (mysterium del Deus ignotus: “I miei pensieri non sono i

686 Ivi, pag. 58. 687 Agostino, Confessioni, 2, IV; De Libero Arbitrio, I, III 6-9. 688 A.-D. Sertillanges, Loc. cit., pag. 59. 689 Agostino, De Trinitate, IX, 1, 1, cit. da Przywara, AE, pag. 76. 293

vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie”), cioè opposto al profanum, e quindi occluso () al concetto (Begriff) della parola (). L‟ulteriorità della verità è un itinerario verso il Mystero, che però non coincide, come ritiene il teologo, con “la pienezza del concetto teologico”,690 ma con quell‟Infinito negativo (), contrario dell‟Essere, che tutto lo comprende, in quanto trascende il theo-logico. La sua compiutezza non è positiva meno che negativa, proprio perché è totalità, così come la sua infinita unicità non è il riflesso della molteplicità ontica, ma ciò che trascende ogni finitezza necessariamente molteplice, e lo stesso logos che lo forma. Compreso quello cristo-logico della Parola, di cui la Chiesa è depositaria. L‟ammonimento agostiniano del trascende te ipsum non si arresta al Soggetto trascendentale, ma arriva al se abnegare del Vangelo inerente ogni de-finizione dogmatica della Verità (theologia positiva), intesa appunto come reductio in mysterium (theologia negativa). Il senso della analogia come  esprime l‟esigenza di andare oltre () il in direzione di ciò che lo trascende. Ciò che trascende il  non è il suo “contrario”, ossia l‟altro (), il Male, poiché essi sono due, e perciò “ciascuno di essi è uno”, cioè una Idea.691 E in quanto unità ideale del Molteplice esprimono, ognuna, “una propria essenza stabile (...) per natura”.692 Non vi è unità ideale senza molteplicità sensibile, come non è un modello formale senza le diverse differenti particolarità delle sue empiriche manifestazioni, sicché “il discorso vero”, ossia l‟Idea, è vero sia “nella sua intierezza” che “nelle sue parti”,693 che sono le parole: le parole vere, sono espressioni particolari del discorso vero; le patrole false, lo sono del discorso falso. Vero e falso, sono due discorsi, due enunciati positivi, espressi in parole. Ogni parola esprime una cosa, che è “reale” se fa parte del discorso vero, e viceversa è “irreale” se parte del discorso falso o immaginario. Sia essa reale ovvero irreale, la parola esprime comunque, in quanto parola espressa, una entità, una essenza ontica. Tale essenza, o è un dato originario, che la parola semplicemente esprime, oppure è un significato

690 Przywara, AE, pag. 79. 691 Platone, Repubblica, V, 475 E-476 A. 692 Platone, Cratilo, 386 E. 693 Ivi, 385 C.

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convenzionale, che si dà col fatto stesso del suo nominarsi.

La coppia di significati di logos formata dai termini “concetto” e “cosa” definisce i confini di questa tensione. Interpretato come “cosa”, il logos è un concetto che include la cosa stessa. L‟essere (della “cosa”) è il suo proprio esser-manifesto (come “concetto”). In quanto “senso” (pre-dato ed emettente la “parola”), inoltre, in questa sua concezione limite il logos come “cosa” costituisce la regione dell‟onto-(logia), cioè di un “essere come senso” che può essere “appreso” “nella” ragione (intesa in senso passivo).

Questa è la dimensione hegeliana dell‟Essere come realtà onto-logica. Ma a questa concezione dell‟ontologia si contrappone un‟altra, “quella che interpreta il logos come “concetto” (Begriff), 694 in cui

Il logos, in quanto “parola” che viene posta nella pratica e che com-pone il “senso”, in questa sua concezione limite di “concetto” costituisce la regione dell‟(onto)-logia, cioè di una spontanea riconduzione dell‟essere (quale “materia”) alle categorie del “senso puro” (quali forme reali di asserzione) “per mezzo di” una ragione (intesa in senso attivo) che “intraprende” le “cose”.

Questa è l‟oggettività hegeliana del giudizio in cui “la struttura della cosa va interamente ricondotta alla struttura del concetto”.695 Ma è inevitabile che il logos abbia una valenza plurima e composita, poiché una forma pura di “logia” è di principio impossibile, andando a coincidere con la stessa essenza di Dio.696 La stessa dialettica, sia in senso platonicoaporetico, cui si rifà Kierkegaard, che in quello aristotelico-sillogistico, proprio di Hegel, rivela il movimento interno dello spirito che oscilla “tra una presa di distanza critica e la fusione quasi mistica con la verità”, la cui “legge fondamentale si chiama ”. Tra la illusione di una “logica” che ascenda alla regione divina e una “dialettica” che si

694 Sulle diverse accezioni di , ved. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi,, Milano, 1976, pagg. 51-54. 695 Przywara, AE, pag. 92. 696 Ivi, pag. 93.

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dibatte tra gli opposti irreconciliabili e la fusione mistica, la “analogia” si pone come “l‟intima soluzione di questo intrico” che supera la logica e la dialettica in una “logica creaturale” e nella relativa metafisica.697 Il rapporto fondamentale assolutamente formale proprio del  della “logica pura” è la “identità dall‟inizio alla fine”, quello proprio del  della dialettica è invece la “identità nella contraddizione”, mentre quello proprio dell‟dell‟analogia è lo “indirizzarsi per mezzo di un essere-indirizzati”.698

Al di là della specifica nomenclatura, anche nell‟analogia la verità si dispiega negli opposti e si concentra nell‟uno, sopra la quale dinamica si trova l‟assolutezza di Dio, presso cui il divenire si fa ordine, ossia Essere. La misura di tale ordinamento poietico è l‟aristotelico “principio di non contraddizione”, che costituisce lo “equilibrio proporzionato” tra il “tutto si muove” di Eraclito e il “tutto riposa” di Parmenide, in cui consiste appunto l‟analogia (), che è la “fondazione di ogni pensare nel principio di non contraddizione quale centro” dinamico immanente. 699 Essa consta della relazione tra la possibilità () e la realtà () intesa come fine (), ma sempre interna all‟Essere, cioè a un‟onto-logia, in cui aristotelicamente la realtà precede la possibilità, nel senso che lo sviluppo dinamico sia solo ed esclusivamente il fine del sé (), il fine di pervenire all‟inizio, al positum verum et bonum, che è l‟È divino, che “è ciò che è”, ossia solo se stesso. “In questo senso analogia significa analogia entis”, in cui “l‟attributo entis sta a indicare che il luogo decisivo dell‟analogia coincide con quanto espresso dal principio di non contraddizione: l‟è (vale) quale non non è (vale)”, e quindi costitutivo della “suprema struttura che include e informa ogni cosa”.700 Ma l‟aspetto più importante e ricco di conseguenze, non solo noetiche, della struttura tautologica della forma analogica dell‟Essere, è la conclusione nichilistica in cui si converte il sostanzialismo onto-logico, per cui la differenza tra l‟È divino e l‟è creaturale, se vuole mantenere la sua distanza incommensurabile (extra omne genus), deve concepirsi come

697 Ivi, pagg. 94-95. 698 Ivi, pag. 96. 699 Ivi, pag. 105. 700 Ivi, pag. 134.

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il Nulla rispetto all‟ente, tale che la communitas analogiae sia fondata sul Nulla. 701 L‟esito nichilistico del razionalismo theo-logico, col suo annesso “ateismo pratico”, come lo chiamava Maritain, ne costituisce la sua confutazione empirica più manifesta, che palesa l‟impercorribilità storicoculturale del sincretismo tomista del naturalismo greco e dello spiritualismo cristiano, acquisito dalla Chiesa come philosophia perennis. La trascrizione del Verbo divino nella parola del logos dell‟ontologia, rende cattolica la metafisica greca, reinterpretandola in senso religiosamente universale, ma a scapito del motivo autentico del Vangelo, l‟annuncio del Dio dell‟Amore, la cui dinamica non è l‟energia della volontà ma la carità della fede, che ha nella Storia di Cristo il suo modello eponimo, e nella Sua santità la fonte della analogia Amoris.

L‟amore non è un oggetto di conoscenza sensibile che si possa afferrare con uno sguardo o anche con un sentimento, bensì un avvenimento morale come lo sono l‟assassinio premeditato, la giustizia e il disprezzo: e questo significa tra l‟altro che è possibile fra tutti i suoi esempi una catena di comparazioni con molte varianti e con fondamenti di ogni genere, i cui estremi possono essere molto dissimili, anzi diversi fino alla contraddizione, e tuttavia sono legati da una assonanza che corre dall‟uno all‟altro. Trattando dell‟amore, si può dunque giungere fino all‟odio; e tuttavia la causa non è la famosa “ambivalenza”, il dualismo del sentimento, ma appunto l‟unità stessa della vita.702

Il grande scrittore austriaco coglie da par suo l‟essenza della questione amorosa, la sua irriducibilità a oggetto materiale e a dato cosale di giudizio, la sua natura molteplice e relativa alla natura stessa della vita spirituale, che è una in quanto unica e singolarmente dissimile da uomo ad uomo, e infine – ed è l‟aspetto più importante – il carattere trascendente di ogni sua manifestazione, che richiama simbolicamente altri eventi, altre “varianti” di una catena di “comparazioni” che, nella loro similarità, rivelano anche una loro ineffabile “contraddizione”,

701 Ivi, pag. 135. 702 R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1931), tr. it., Torino, 19 , vol. III, pagg. 85-86.

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quella appunto della vita spirituale come mystero che si fa storia vissuta, totalità escatologica che si dispiega nel tempo, in una travagliata congiunzione che non si esaurisce mai in una compiuta convergenza. L‟amore è malinconia divina, perché tende a quella divina infinitezza che è impedita dalla condizione umana, e che trova nell‟amore quella traccia d‟infinito che, nel travaglio ambiguo della platonica mancanza e sovrabbondanaza, s‟individua in una figura, in un nome, in una esistenza che l‟amore rende unica, individua, singolare. Come la Storia di Cristo, in cui il Gesù umano s‟interseca col Suo modello universale, eterno, simbolico, divino, da cui ogni valore nasce e ritorna come significato.

L‟amore si differenzia da tutte le altre risposte ai valori anche profondamente affettive, per il fatto che in esso la persona amata è tematica come persona nel suo complesso, che l‟amore si dirige ad essa e il ruolo dei valori e della bellezza complessiva dell‟individuo, per quanto sia stato grande nel motivare l‟amore, resta poi dietro alla persona come tale (e) la supposizione stessa di una persona che possieda la stessa bellezza complessiva qualitativa, non cambierebbe per nulla il fatto che noi amiamo questo individuo unico, che nessun‟altra persona potrebbe sostituire.703

La carità, a luogo della volontà energetica, è la qualità soprannaturale comune all‟amor Dei e all‟amor mundi, ma irriducibile a ogni sua manifestazione e destinazione, in quanto mantiene in sé quell‟anelito trascendente ogni dialettica formale e ogni contrasto esistenziale, e dunque ogni contraddizione e ogni obbligazione, in vista di una superiore riconciliazione della differenza di volontà e affetto, di carattere morale.704 La moralità dell‟amore è nella considerazione dell‟Altro come origine del valore dell‟Io e del “flusso di bonta” che si dirige a lui e che fa diventare “buono” il Soggetto, nel senso della “attualizzazione della bontà insita nell‟anima di colui che ama”, secondo una modalità in cui il dono dell‟amore verso il Tu risveglia l‟atteggiamento originario insito nel proprio animo che si traduce in una “intenzione benevolente” (intentio benevolentiae) universale.

703 D. von Hildebrand, Das Wesen der Liebe (1971), tr. it., Milano, 2003, pag. 249. 704 Agostino, Trattato sul Vangelo di S. Giovanni, XXVI, 4; da ora TVG. 298

Colui che nell‟amore cristiano al prossimo si dona all‟altro amando, diventa per lui “buono” a causa della bontà e dell‟atteggiamento fondamentale che dominavano in lui già prima del contatto con l‟altro. Non diventa perciò mai solo “buono” per quest‟uomo, ma potenzialmente per ogni membro del prossimo. Non può perciò nello stesso tempo amare un uomo e odiarne qualche altro.

705

L‟intentio benevolentiae è pertanto uno stato originario della coscienza antecedente ogni atteggiamento volitivo, per cui la sua sussistente potenzialità non è relativa alla manifestazione oggettiva di un‟azione qualificata come “buona” da un principio ideale, ma è inerente a una peculiare disposizione d‟animo di rovesciamento della prospettiva (metanoia) che privilegia la relazione moralmente asimmetrica con un Tu, la cui realtà totale è avvertita prima dell‟Io divisivo del cogito, che pertanto fonda la sua legalità di giudizio su quel fondamento originario, che non è ontologico e relativo all‟esperienza pragmatica, ma spirituale e inerente al destino di salvezza dell‟uomo, il cui fine non è l‟autodeterminazione del Soggetto trascendentale e politico-economico, ma l‟unione santa con Dio, limite di ogni hybris e senso (significato e direzione) della storia umana. Come ha profondamente rilevato Guardini,

Chi ha il senso del destino rigetta con particolare orrore l‟eventualità di essere lui stesso a determinare la propria sorte. Questo orrore contiene la convinzione che certe cose non le si deve volere e che non si vede sapere nemmeno se sono tenute in serbo per noi – oltre a qualcosa di più profondo, vale a dire un atavico timore del destino, la percezione di una rete di caese ed effetti che oltrepassa la sfera d‟azione individuale e che non si deve cercare di “predeterminare”. L‟uomo che sente veramente la potenza del destino non si appoggia né alle proprie capacità né alle potenze che giacciono nelle profondità del suo inconscio individuale, bensì a qualcosa che sta sopra di lui.706

Le implicazione di questa prospettiva di resa liberatoria a Dio di ciò che è

705 D. von Hildebrand, Loc. cit., pag. 647. 706 R. Guardini, Der Mensch. Grundzuege einer christlichen Antropologie, tr. it., Op. Om. III/2, Brescia, 2009, pag. 174.

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di Dio sono di immensa portata antropologica e storica, investendo la rappresentazione dell‟esperienza umana non più all‟insegna della finitudine fattuale, ma aperta al mystero del trascendente che incombe nella storia pragmatica come l‟impronta archetipa divina, inclusiva di ogni dicotomia metafisica, compreso l‟Essere e il Nulla divisi dal Logos, e orientativa di quella Versoehnung di verità e libertà che non si realizza in conformità di una forma ideale ma nell‟Amore, 707 quella lex scripta in cordibus nostris che per Agostino è la verità inscritta come lex interna nella nostra conscientia. Ma di quale coscienza si tratta? Per la coscienza naturale, cioè razionale del , essa consiste nella aspirazione (appetitus) alla “vita eterna e beata”708 in cui non c‟è l‟insidia della morte. “La vita felice si trova là dove il nostro essere non incorrerà nella morte. Il bene dunque, al quale aspira l‟amore, è la vita, e il male, che la paura fugge, è la morte”.709 L‟antitesi naturalistica di Vita e Morte trascrive simbolicamente quella metafisica di Essere e Nulla, intesi, rispettivamente, come eterna realtà e transeunte divenire. 710 Per la coscienza naturale, la vita è la sua rappresentazione, la rappresentazione del mondo senza il divenire, e quindi eterno. L‟eternità del mondo rappresentato garantisce l‟eternità della coscienza rappresentativa, indicata come “felicità” o beata vita. Il bonum di questa beate vivere è dunque la durata, e ha per riferimento dialettico il malum della condizione temporalmente finita dell‟uomo. È la dimensione razionalistica che fa da sfondo alla vita activa della politica, il cui scopo è di costruire e garantire strutture di convivenza sociale che durino, superando l‟edacità del tempo. La politica costituisce la risposta physio-logica alla condizione mortale dell‟esistenza umana. Contro la Morte, la Durata della città politica. Questa soluzione, ci dice Agostino, è illusoria, dal momento che ogni costruzione umana è destinata a finire. “Arderà pure il mondo, che fu

707 La citazione del testo è chiaramente dallo Spirito del Cristianesimo e il suo destino di Hegel, sul quale ved. di chi scrive Ragione, simbolo e tragedia e V. Mancuso, Hegel teologo (1996), Milano, 2018, pagg. 103-105. 708 “Ipsa est vita quae et aeterna et beata”: Agostino, Sermones, CCCVI, 7. 709 H. Arendt, Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation (1929), tr. it., Milano 2004, pag. 25. Da ora LbA. 710 Ivi, pag. 29.

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creato da Dio... Cielo e terra trapasseranno: che meraviglia, se un giorno una città avrà fine? E forse la città non avrà fine ora; pure un giorno la città avrà fine”.711 L‟amore mondano, “che si aggrappa al mondo”, a un mondo caduco e destinato ad arrendersi alla morte, “visto dal punto di vista dell‟uomo, di colui che è moriturus”, è un falso amore, che Agostino chiama, traducendo l‟orexis aristotelica, cupiditas.

712 Esso è caratterizzato dal desiderio di rendere eterne le cose destinate a perire, e dunque è soggiogato dall‟illusione di poter mutare il destino del mondo, spossessando in qualche modo il governo della Morte con le sue inesorabili leggi finali, usurpandone il potere sulle cose e sugli uomini. La città dell‟uomo è dunque il rifugio umano alla caducità della Natura, il fortilizio politico in cui regna la legge della durata, che ispira le azioni virtuose degli eroi. La stoltezza di tale inane impresa consiste nello operare inconsapevole dell‟uomo alla volontà surrettizia della Morte, che attende al varco le opere umane per falciarle con la lama del tempo. In tal senso, l‟intera metafisica naturalistica della sapienza pagana si fonda su una ontologia che, celebrando l‟Essere della vita, in realtà costruisce una struttura teoretica ed esistenziale predisposta per la Morte. Sicché, di converso, l‟analitica esistenziale che, come quella heideggeriana, mira a costituire l‟autenticità (Eigentlichkeit) dell‟Esserci nella consapevolezza del destino di morte, non soltanto “fallisce e nasconde se stesso” nel modo d‟essere-nel-mondo della “quotidianità”,713 ma inscrive l‟intera sua esistenza nell‟orizzonte di quella illusoria cupiditas mundi che caratterizza la vita naturalistica dell‟uomo adamitico pre-cristiano. Il modo cristiano di amare, invece, è quello che ha per dimensione l‟eterno, lo spazio infinito che si apre trascurando il mundus, non già prendendosi cura di esso, ma considerarlo alla stregua di un eremus.

714 La cura di sé (epimeleia) come cura del mondo-di-qua (Sorge), viene sostituita dalla cura del mondo-di-là, a cui tendere, indicata come caritas.

711 Sono passi notissimi del primo libro della Civitas Dei, riportati da A. Pincherle, Sant’Agostino d’Ippona vescovo e teologo, Bari, 1930, pag. 200. 712 H. Arendt, LbA, pag. 30. 713 M. Heidegger, Loc. cit., pag. 167. 714 Agostino, Trattato sull’epistola di Giovanni ai Parti, VII, I; Id., TVG, XXVIII, 9. Ved. H. Arendt, LbA, pag. 31.

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Dio è l‟Altro (Andere) da Sè in quanto totalità, alla quale bisogna tendere (inhaerere) per raggiungere la pienezza, la condizione della beatitudo, che costituisce il superamento della finitezza, cioè della vita-per-la-morte. La finitezza dunque è la condizione umana scissa dall‟orizzonte divino, che produce isolamento, non autonomia, del quale l‟amore è indizio. “La vita vuole incessantemente uscire dall‟isolamento mediante l‟amor che si esprime nella caritas e nella cupiditas poiché non possiede l‟autosufficienza”.715 Dunque, l‟affezione amorosa non è una “passione” , 716 un moto volontario dell‟anima, ma è un sentimento connaturato alla condizione umana, quindi un bisogno di completarsi nell‟altro. Se tale movimento tende all‟alterità anch‟essa finita come la soggettività, allora l‟amore ripiega sulla stessa condizione umana, eleggendo la finitudine come orizzonte di possibilità risolutive. Questa è l‟illusione che ha animato il sapere pre-cristiano, concentrato sulla dimensione dell‟Essere physio-logico, e che ha ispirato le res gestae delle imprese politiche, legate alla voluntas, intesa come volontà di potenza sul mondo, che si desidera in quanto non si ha potestas su di esso. La dinamica della potenza è di portare l‟altro a sé, il fori all‟intra me, acquisendo il mondo dal mondo e facendosi perciò mondo. “Vivendo nella cupiditas, l‟uomo diventa mondo”.717 Questo farsi mondo è una “fuga da se stessi” (dispersio) nell‟atteggiamento mimetico dell‟aderenza alla realtà esterna al sé della coscienza, coprendo coi rumores mondani la voce di Dio, che parla nella coscienza e che esige perciò l‟interrogante silenzio dell‟attesa della Sua parola. Solo in interiore l‟uomo in ascolto (se quaerere) conosce liberamente se stesso.718 Conoscenza di sé e conoscenza di Dio vengono a coinciderenella stessa parola della coscienza, poiché è nella ricerca di sé che s‟incontra Dio, ed è in questo itinerario che l‟homo interior si allontana dal mondo e partecipa alla aeternitas dell‟amore di

715 H. Arendt, LbA, pag. 33. 716 “L‟amore è un‟emozione dell‟anima cagionata dal movimento degli spiriti, che la incita ad unirsi volontariamente agli oggetti che sembrano convenirle”: R. Cartesio, Le passion dell’anima (1649), tr. it. in Cartesio, vol. I, Milano, 2018, pag. 195. 717 H. Arendt, LbA, pag. 34.

718 “L‟atto libero (dell‟ascoltante), preso nella sua essenza originaria, non è tanto il pore una realtà estranea o un‟opera, che nella sua alterità si oppone ad esso quanto un perfezionamento della propria essenza, una presa di possesso di se stesso e del reale potere creativo che si ha anche nei riguardi di se stessi”: K.. Rahner, Hoerer des Wortes (1937), tr. it., Roma, 2006, pag. 134. 302

Dio, che lo rende sempiterno.719 L‟attesa di Dio è oblio del mondo, delle sue ragioni, e dunque della sua propria modalità di conoscenza presente. In questa rimozione del mondo e in questo superamento della sua temporalità in vista e in attesa di ciò che va oltre la ragione del mondo, ossia il presente, consiste l‟oblio della propria finitezza nella trascendenza. In questo transcendere avviene la conversione (metanoia) alla fede, “l‟oltrepassamento della temporalità” nell‟eterno. Infatti, “se dimentichiamo il tempo, dimentichiamo la nostra mortalità, dimentichiamo noi stessi per l‟eternità”.720 Ma cos‟altro indica tale trapasso se non l‟abbandono della realtà dell‟Essere per la speranza di ciò che non è ancora (nondum), e dunque il già stato (ante) per il non-essere? La prospettiva ontologica viene capovolta: partire dalla Mancanza per definire l‟uomo, anziché dall‟Essere, intendendo l‟esistenza umana come Storia della Mancanza, quale percorso dal non-essere all‟Essere, che diventa così il posterius, anziché il prius. Ciò implica che la creazione dell‟uomo, diversamente da quella della Natura e delle altre specie viventi, sia in origine mancante, e a partire da questa infirmitas antropica muovere verso la speranza della compiutezza finale. E pertanto la comprensione della storia umana, quale ricerca della compiutezza spirituale nell‟orizzonte della Mancanza, costituisce una rappresentazione dell‟uomo opposta a quella della metafisica classica, fondata sull‟ontologia, cioè sull‟Essere come pienezza dell‟arché, la quale ha dell‟uomo l‟idea di una essenza in sé compiuta e solo da portare in evidenza, manifestandola come volontà d‟essere chi già si è in potenza. L‟energeia della volontà non è che la realtà attuale della potenzialità dynamica, il cui dispiegamento compiuto realizza ogni fine immanente all‟ente, confinato pur nella compiutezza entro la dimensione del Finito. È questo orizzonte a fare dell‟appetitus dell‟amore profano una modalità esistenziale interna all‟intrascendibile destino di morte. Così come la caritas, quale ricerca della compiutezza spirituale (beatitudo), trascende l‟amor mundi, anche la storia spirituale in senso cristiano non ha niente a che vedere con la historia rerum gestarum della prospettiva naturalistica. L‟amore in senso cristiano è un appartenere, anziché un possedere, quindi un dono di sé all‟Altro, non già una omologazione del dissimile a Sé.

719 H. Arendt, LbA, pag. 36. 720 Ivi, pag. 39.

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“Solo l‟amore mette fine realmente all‟abbandono dell‟uomo da parte di Dio, ossia non è un appetitus, ma espressione dell‟appartenenza a Dio (...) e solo in esso si ha un reale superamento della creaturalità dell‟uomo, del suo essere-mondo”.721 La conversione (metanoia) del naturale al piano spirituale non è un oblio di sé come carne () ma del sé come partecipe del destino di morte.722 La decisione a favore della appartenenza allo Spirito di Dio sottrae l‟uomo all‟appartenenza alla finitezza della Natura. Questa conversione non dà l‟immortalità, ma apre alla coscienza lo scenario dell‟eterno, il luogo del bene dove ogni cosa è Tutto e Tutto è ogni cosa, poiché il significato aderisce totalmente al significante, senza mediazione simbolica, luce da luce, vero da vero. La fruizione del mondo viene superata nella condizione del bene spirituale, nella beatitudine, che è lo stato in cui la Morte, e la relativa paura umana di essa, non incide più come ragione di vita, come motivo causale dell‟agire mondano, dal momento che la dimensione della temporalità è soistituita dalla coscienza dell‟eterno. Con l‟Essere viene superato così anche il tempo e la stessa cura del mondo (Sorge) e del sé come suo elemento più prossimo. Mi penso come mondo, dunque sono mondo. L‟analogia entis, che presuppone l‟autonomia del mondo, la sua compiutezza, viene superata dall‟analogia amoris, che suppone la finitezza del mondo e la sua fruibilità in vista della compiutezza spirituale.723 Lamore di sé, ossia del mondo di cui ci si sente parte, è cura del presente, e di sé nel presente, nell‟orizzonte della ragione (logos, ratio), della economia della vita. La dinamica dal nomos dell‟oikos al logos della polis disegna l‟intero percorso della coscienza entro l‟orizzonte della finitezza, che nella Durata risolve la sua Mancanza naturale (Mangelwesen), la quale è radicalmente diversa dalla infirmitas spirituale, in quanto il corr ettivo razionale della specie umana che Gehlen chiama “esonero”

721 Ivi, pag. 42. 722 Questo tema è stato affrontato da chi scrive nel suo saggio su Kierkegaard, previsto come n. 12 di “Coscienza storica”. 723 “L‟amor per il mondo, guidato dal fine ultimo, ha natura secondaria. Nel tendere al summum bonum, viene dimenticata l‟autonomia del mondo, del quale fa parte l‟amans”: H. Arendt, LbA, pag. 48.

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(Entlastung),724 inteso come la capacità umana di sopperire alle proprie mancanze fisiologiche con l‟immaginazione (facultas imaginandi), mira all‟integrazione nel mondo, non già all‟oblio del mondo. Non è la facoltà (Vermoegen) kantiana di rappresentare l‟assente sensibile rendendolo intuitivamente presente, 725

La navigazione della coscienza (che chiamiamo morale per distinguerla da quella razionale) nel senso della trascendenza della condizione naturale, ossia del superamento della originaria finitezza, ha per fine non già il conseguimento di un ordine politico-sociale (polis) corrispondente alla visione ideale del suo modello razionale (la città dell‟uomo), ma persegue il fine di una societas armonica di proximi per affinità d‟anima (ekklesìa), che si riconoscano non in un nomos comune ma in Cristo, verità vivente. L‟ideale aristocratico greco dell‟autarchia viene sostituito dal modello cristico della syn-pathìa, che pone l‟Altro come referente morale del Sé, sicché

il prossimo è collocato nell‟ordinamento del mondo accanto all‟io-sé, allo stesso livello. Ne consegue che io devo amarlo come me stesso. Il fatto che anch‟esso possa frui di Dio lo colloca nell‟ordine del mondo come prossimo. Il prossimo è tale solo in quanto si pone in relazione a Dio allo stesso modo di me stesso.726

Con una essenziale precisazione, che il “come” della relazione presuppone che il “me stesso” non sia il soggetto egoistico della storia pragmatica,727 della vita pratica nel mondo che si prende cura di sé, ma sia la persona spiritualmente convertita alla fede in Cristo, il Quale

724 A. Gehlen, Der mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), tr.it., Milano-Udine, 2010, pagg. 104 e 422. Sull‟argomento, ved. il mio saggio Verità e oggettività, in “Coscienza storica” n. 9. 725 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 151, tr. it., Bari, 1963, pag. 150. 726 H. Arendt, LbA, pag. 52. 727 E. v. Hartmann considera l‟amore come il sentimento che considera l‟amato come se fosse identito per essenza al proprio io, per cui l‟identificazione dell‟amato con l‟amante viene desritta come una estensione dell‟egoismo attraverso l‟assunzione dell‟altro nel proprio sé: Phaenomenologie des sittlichen Bewusstsein, cit. da M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie (1923), tr. it., Milano, 2010, pag. 94. Da ora WFS. 305

pertanto costituisce l‟elemento di comparazione al posto dell‟Io empirico dello amans. Il me che partecipa della Verità in Cristo non è più la misura dello amore del prossimo, misura che è costituita appunto da Cristo, il fondamento unitivo (koinonìa) della comunione spirituale ed ecclesiale. Tale fondamento non è essenziale, relativo alla essentia che accomuna gli enti all‟Essere, ma storica e inerente all‟esistenza di Gesù nel tempo, la cui fede nell‟Incarnazione di Dio nel tempo sostituisce la credenza ontologica nella totalità dell‟Essere. Nella dimensione spirituale della fede non si trovano enti di ragione di cui svelare la realtà, ma esistenze concrete di persone che hanno trovato la “via, la vita e la verità” nella Storia esemplare del Cristo, i cui momenti vissuti sono altrettanti exempla di storie particolari, di situazioni esistenziali in cui l‟uomo alla ricerca della compiutezza di sé in Dio in comunione col prossimo percorre la sua strada, singolare in quanto coscienza in ascolto, ed ecclesiale in quanto partecipata agli altri fedeli. Questa compiutezza non è la condizione dell‟Essere stabile dell‟eterno presente () di cui Plotino,728 ma è la stessa condizione umana vissuta esemplarmente nella prospettiva della eternità di Dio. La vita di Gesù non ha niente che non sia umano, essendo essa immersa nella carne e nel tempo, e quindi soggetta all‟edacità di ogni esistenza finita, dal destino mortale. La Sua eccezionale peculiarità risiede nella possibilità, ossia nella libertà, di trasvalutare ogni esperienza esistenziale alla luce dell‟eternità, agendo nella dimensione dello spirito (), anziche in quella della carne (). Non già che la carne non abbia il suo peso biologico nella esperienza della vita concreta, ma essa non è la ragione per cui si viva, avendo perso il senso della sua necessità incombente; un senso razionale interno alla sfera della economia politica. Nella economia della salvezza, invece, la ragione della carne non è decisiva, poiché la tensione vitale non è volta a garantire la sopravvivenza biologica o la durata delle forme culturali della coesistenza socio-politica, ma bensì a pervenire a ciò che “è migliore del mondo”.729 L‟autonomia individuale () dai bisogni naturali del mondo era nella tradizione greca, si pensi a Plotino, conseguita dall‟appagamento del desiderio () e dall‟allontanamento da ogni relativa attività

728 Plotino, Enneadi, III, 7, 3-9; ved. H. Arendt, LbA, pagg. 54-55. 729 Agostino, De Natura boni, I, 34.

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() tesa a procurarsi la libertà dal mondo. La  è appunto questo commercio col mondo di fuori () per conseguire il bene (), il cui luogo è lo spirito ().730 Questo Altrove rispetto al mondo è dunque già nella tradizione neoplatoniva in interiore homine, che è il luogo alternativo al mundum, inteso come “il complesso di coloro che vivono secondo la concupiscenza del mondo” e che per tale dipendenza “non sono in tale stato di grazia, da essere scelti (dalla gratia Dei) in modo da non far parte del mondo (ut eligantur ex mundo)”.731 Dunque la Grazia divina consiste nella elexio ex mundo, la quale non è altro che la  dello Spirito di Dio, che è amore, così come  era per Platone la  dell‟. 732 Ma in cosa consiste tale amore? “Amare è morire rispetto al mondo, e vivere con Dio”.733 Secundum Deum vivere consiste nell‟imitare Dio invece che il mondo, dunque l‟imitari è la struttura ontologica fondamentale della condizione umana, al di là del suo referente, recte ovvero perverse, 734 legata alla Mancanza. In senso ontologico, tale  si è sviluppata come ana-logìa, sul modo del logos, il cui arché è l‟Essere: l‟imitari onto-logico è riportare all‟essenza () ogni evidenza, mentre l‟imitatio Christi comporta il rapportarsi (ana) al Verbum, che è narratio, , , non . Una volta, l‟inizio, cioè il modello, era la Parola; poi, con la rivelazione cristiana, in principio c‟è Dio, che è Amore. E pertanto l‟atteggiamento mimetico della coscienza dell‟uomo va indirizzato verso questo nuovo e vero inizio (arché). E poiché aequari creatura non potest Creatori, 735 l‟imitatio consiste non già nell‟impossibile esse sicut Deus, ma nell‟amare, ossia nel porsi all‟interno dell‟orizzonte di coscienza dell‟eterno, escludendo da esso, non dialetticamente il ni-ente opposto all‟ente, ma la Morte, la dimensione della finitezza e la relativa paura quale sentimento condizionante la manchevole esistenza umana, che nella prospettiva spirituale della coscienza morale è la condizione originaria di

730 Plotino, Enneadi, VI, 8, 2-4; ved. H. Arendt, LbA, pagg. 56-57. 731 Agostino, TVG, CVII, I; cit. da H. Arendt, LbA, pag. 93. 732 Platone, Timeo, 38 a; ved. H. Arendt, LbA, pag. 121. 733 Agostino, TVG, LXV, I. 734 H. Arendt, LbA, pag. 94. 735 Agostino, TVG, XLII, 10.

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peccaminosità. La Mancanza umana è dunque il peccato originale della condizione morale dell‟uomo separato dalla Grazia di Dio, equivalente al de mundo esse dell‟uomo naturale, preda della cupiditas. Entro l‟orizzonte agapico dell‟eletto, ogni suo atto d‟amore (dilectio) è in se stesso compiuto, in quanto diretto al prossimo come a Dio, cioè in contemporaneità e in similitudine, per cui la prossimità ha il valore della . L‟amore in senso cristiano compie nel suo manifestarsi quella trascendenza mimetica del mondo in Dio, invano perseguita dal concetto, la cui assolutezza e universalità non poteva comunque oggettivare Dio; e la compie semplicemente restando se stesso, restando amore, tanto che diligendo fratrum, Deum diligit et dilectionem.736 La compiutezza realizzata dall‟atto di amore è conseguita nella in-distinzione di Sé, Dio e prossimo, che costituisce quell‟orizzonte di pienezza in cui Dio si fa Uomo e l‟uomo si fa Altro, in un connubio trinitario inclusivo e radicalmente diverso dal processo esclusivo della dialettica. Ciò avviene nell‟oblio di sé, inteso come Soggetto mondano interprete razionale del mondo. La razionalità e la soggettività sono i due aspetti correlati della coscienza finita autodeterminata, 737 che vede Dio e l‟Altro, il prossimo, nel modo della distinzione, cioè appunto della ragione. Il modo proprio dell‟Amore, inclusivo e spirituale, è quello morale, della compiuta totalità, in cui non vi è Sé senza Dio e senza l‟Altro: “totum exigit te qui fecit te”.738 La societas morale, diversamente da quella politica, non si basa sulla complementarietà del dare et accipere delle relazioni economiche, ma dalla comune condizione di fede, ossia di dipendenza da Dio in quanto peccatori. Questa condizione originaria (peccatum originale) fa degli uomini una comunità di eguali rispetto alla comune dipendenza dalla Grazia divina. Ed è tale koinonìa che induce gli uomini ad amarsi amando Dio “come se stessi”. Questo amor Dei celestiale è un collante morale unitivo del genere

736 Agostino, TVG, IX, 10; H. Arendt, LbA, pag. 119. 737 “Il soggetto è il centro da cui si originano tutti quegli atti che hanno in se stessi la propria validità; a esso è riconducibile l‟unità delle categorie su cui tale validità si fonda. (...) Dietro il soggetto non vi è più nulla a cui si possa fare riferimento, perché l‟atto stesso di fare riferimento può essere realizzato solo per il tramite delle categorie della soggettività (quale espressione) dell‟uomo-natura (Mensch-Natur)”: R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 225. 738 Agostino, Sermo XXXIV, 7; H. Arendt, LbA, pag. 128. 308

umano, diverso dal divisivo amor mundi, che origina la civitas terrena. 739 L‟appartenenza ad esso, conseguente alla fede che nutre l‟Amore spirituale, non è una condizione di destino naturale (generatione), ma una condizione elettiva, di libera determinazione personale (imitatione), conseguente alla Rivelazione cristica. La dilectio proximi “implica che l‟essere-insieme degli uomini nella comunità, da necessario ed evidente, diventa liberamente scelto e vincolante per ognuno (dal) comune essere-peccatori”.740 Il passaggio spirituale dall‟amor mundi all‟amor Dei implica una nuova forma di socialità all‟insegna della libertà morale di scelta pro Deo. La primiera condizione umana socialitaria era fondata sull‟auto determinazione dell‟uomo adamitico, privo della rivelazione divina e dunque fondata su una legittimazione puramente fattuale, priva della scelta di libertà per una diversa costituzione comunitaria. Solo la rigenerazione spirituale in Dio crea le premesse di una nuova socialità, non secolare, non legata al mondo storico (saeculum) indipendente da Dio.741 La dipendenza da Dio, conseguente alla Rivelazione divina, comincia a essere un motivo di libera scelta dell‟uomo a partire dalla fede in Cristo, la cui esistenza storica manifesta la possibilità dell‟uomo di trascendere la propria finitezza e ignoranza di sé, nel senso di un nuovo percorso di salvezza spirituale. L‟uomo diventa libero in Cristo: questo il significato meta-storico e universale del messaggio evangelico, la cui bontà dell‟annuncio risiede nella proclamazione al mondo della possibilità di emanciparsi con la fede dalla necessità del destino naturale di morte cui soggiace la condizione finita dell‟uomo. Vivere come se non ci fosse la Morte a determinare i modi della esistenza umana; e il come consiste appunto nell‟ordo amoris, in cui gli uomini non sono uguali di fronte al Potere della necessità e della legalità, ma di fronte a Dio, la dipendenza verso il Quale è in spirito liberatoria. L‟Amore, quale dipendenza liberatoria, liberando la coscienza umana dal principio di contraddizione, la libera anche dal Logos, secondo la metanoia paolina. Ed è appunto il logos a essere ispirato dall‟eros, “che

739 “Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, coelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui”: Agostino, Civitas Dei, XIV, XXVIII; H. Arendt, LbA, pag. 133. 740 H. Arendt, LbA, pag. 134. 741 Ivi, pag. 135.

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non sa nulla dell‟Altro nell‟altro, vedendo nell‟altro soltanto quello che è. Lo „ama‟ nella sua esistenza non-esistenziale, senza osservare che appunto questo è il „male‟ in lui. Mentre l‟amore è la permanente elezione e reiezione dell‟altro, l‟elezione di quello che egli non è (e questo è, nella sua totalità, il „male‟ in lui)”.742 Ma se la fraternità del genere umano, in quanto legata alla condizione genetica, deve portarsi alla condizione elettiva di libertà attraverso la fede, ispiratrice dell‟Amore spirituale in Cristo (caritas), perciò occorre diffondere la fede per totum orbem se si vuol amare Cristo (se vis Christum amare).743 Non vi è comunità elettiva senza amore, così come non vi è ekklesia senza la fede in Cristo. La societas cristiana non è dunque egalitaria alla maniera della comune condizione naturale, ma è costituita dalla libera scelta della fede, che emenda dal peccato e dal passato legame col mundum della civitas iniquorum, che costringe l‟uomo alla necessità della Morte. 744 La nuova koinonìa spirituale è dovuta alla fides che rende significativa la caritas come colleganza esterna rispetto al sentimento della coscienza interiore che la lega a Dio (conscientia coram Deo). Ma, proprio perché direzionata nel contempo a Dio e al prossimo, la caritas non perde il suo carattere singolare elettivo, sia in senso ricettivo che comunicativo, sicché la stessa communitas è una societas di singoli: uniti in Cristo ma come persone singole di fronte a Dio. Ed è questa peculiare singolarità a fare di ogni esperienza umana una storia spirituale unica nel comune riferimento mediatore alla vicenda paradigmatica di Cristo. Il paradigma cristico si fonda sulla coincidenza esistenziale di due elementi che la tradizione filosofica disgiunge: la vita contemplativa ( ) e la vita attiva (). Come riteneva Kant, “nessuno può sempre garantire che ciò che egli dice sia vero, giacché può sbagliare, ma ognuno può e deve garantire che la sua professione di fede è vera, giacché

742 K. Barth, Der Roemerbrief (1954), tr. it. G. Miegge, Milano (1962), 2002, pag. 436. 743 Agostino, Tr. epist. a Giov., X, 8; H. Arendt, LbA, pag. 141. 744 “La nuova vita socialis, fondata su Cristo, è determinata dal diligere invicem. L‟amore reciproco dissolve la dipendenza reciproca. Nella fede viene superata l‟appartenenza al mondo nel senso originario della civitas terrena e al tempo stesso viene superata la relazione reciproca degli uomini. In questo modo anche il riferimento all‟altro perde l‟ovvietà risultante dalla dipendenza”: H. Arendt, LbA, pag. 142. 310

egli ne è direttamente consapevole”.745 Ciò implicitamente vuol dire che la verità verte sull‟autenticità del Soggetto, mentre l‟errore inerisce a quella dell‟oggetto. Sono due dimensioni della realtà che sono considerabili secondo due diversi criteri di verificazione della loro autenticità, l‟uno basato sulla introspezione della coscienza, l‟altro sulla corrispondenza della rappresentazione coi suoi contenuti fattuali. Questo sviluppò nel tempo due indirizzi di ricerca, confermati da Cartesio, che Kant cercò di riunire. L‟intero impianto gnoseologico della Critica della ragion pura è fondato su un elemento irriducibile alla deduzione a priori, il dato sensibile, che costituisce, o meglio, sostituisce, la realtà esistenziale oggetto del giudizio razionale. In questo senso, l‟idealismo critico kantiano, in quanto comporta questo momento empirico, si costituisce come un realismo, distante da ogni idealismo assoluto, alla Wolff, che possiamo indicare con Gilson come un “realismo dell‟esistenza”.746 Ma proprio in considerazione della differenza tra ciò che si conosce (il visibile) e ciò a cui si crede (l‟invisibile), l‟esistenza umana non può essere omologata a uno solo degli aspetti in questione, poiché la realtà della coscienza personale rappresenta per l‟Altro l‟elemento invisibile al quale egli è tenuto a credere volendolo conoscere. La coscienza dell‟uomo, quale luogo della verità della persona, non si può mai conoscere come si conosce un elemento sensibile, ma soltanto per fede. Ossia, l‟esistenza dell‟uomo non è rappresentabile come una idea, in quanto esiste l‟uomo, non l‟idea dell‟uomo, così come, asseriva Florensky, esiste la Chiesa di Cristo, non già l‟idea di Chiesa.747 L‟esistenza dell‟uomo si rappresenta come una storia della persona la cui verità di coscienza è un mistero per l‟Altro; mistero che si rivela alla stessa coscienza personale nell‟incontro che essa fa con l‟Altro. La verità è dunque una rivelazione, la rivelazione della coscienza attraverso (la vita del) l‟Altro, che è Cristo. La verità rivelata da Cristo è quell‟elemento irriducibile all‟oggettività che è l‟Amore, inteso come presenza dell‟Altro nella coscienza, appunto come verità: l‟Altro come propria verità. La fede nella verità dell‟Altro è Amore.

Ciò che l‟uomo concretamente è e ciò che con lui si realizza non coincide

745 Cit. da K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., pag. 514. 746 Ved. E. Gilson, L’etre et l’essence (1948), tr. it., Milano, 1988, pagg. 184-186. 747 Cit. da P. Evdokimov, L’Orthodoxie (1959), tr. it., Bologna, 1965, pag. 173.

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dunque con la sfera apparente della oggettiva datità. (...) La nostra esistenza concreta è molto meno l‟effetto di una disposizione data una volta per tutte, e molto più un continuo e spontaneo processo di autoaffermazione, di quanto non si pensi di solito.

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Questo processo di autoaffermazione è “spontaneo” sia in quanto non determinabile dall‟esterno, ma interno alla coscienzae quindi inerente alla dimensione della verità, e sia in quanto atto di libertà. L‟autoaffermazione, ossia la consapevole determinazione della coscienza come fonte di verità, è una possibilità consentita alla persona dall‟Amore dell‟Altro, che non è dovuta a un condizionamento esterno e contingente, ma a una risposta che la coscienza si dà di fronte alla rivelazione della verità d‟amore: che tutto l‟essere dell‟uomo, la sua intiera esistenza, cioè la sua storia, ha valore. Mai come nel caso dell‟esistenza umana vale il principio di Hegel per cui “la verità è l‟intero”, che è la vita stessa dell‟uomo, in cui confluiscono ciò che la ragione ha distinto e separato. Perciò la facoltà della conoscenza d‟amore non può essere l‟intelletto, ma il “cuore”, sede simbolica dello amore in cui s‟incontra l‟Altro nella verità della coscienza. Nessuno come Dante ha compreso il valore dell‟incontro d‟amore, ossia il “nesso tra percezione di valore e amore come atteggiamento fondamentale del cuore”.

Non appena il cuore, attraverso l‟incontro con la persona amata, si scioglie, si sprigiona la forza della valutazione. Dato che tutto l‟essere ha valore, sa entrare anche in rapporto col cuore e venirne modellato. L‟esperienza amorosa di Dante fu davvero questa: che egli dopo l‟incontro con Beatrice entrò in contatto con l‟autenticoìa pienezza dell‟esistenza. Il suo eros è pienamente vissuto, ma non lirico, lontano dalla realtà, estraneo all‟azione; con l‟amore, piuttosto, si risveglia immediatamente la ricchezza di relazioni con cose e persone. La storia diventa viva, Stato e Chiesa diventano attuali, gli ordini del mondo risplendono ed esigono soddisfazione. Tramite l‟esperienza di Beatrice tutti i valori e le pretese di valori che riposano nell‟esistenza vengono attuati.749

Attraverso la conoscenza dell‟Altro, che per Dante è Beatrice, “la storia

748 R. Guardini, Loc. cit., pag. 338. 749 R. Guardini, Il carattere mondano della Divina Commedia di Dante, in La Divina Commedia di Dante. I principali concetti filosofici e religiosi, Op. Om. XIX/2, Brescia, 2012, pag. 203.

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diventa viva”, cioè si anima di amore partecipato in scala universale. L‟Amore ha la funzione analoga a quella del concetto, ma relativa all‟esistenza umana, così come la Divina Commedia rappresenta sub specie Amoris quell‟itinerario verso la verità che Platone rappresenta sub specie intellecti nel mito della caverna: l‟ascesa della coscienza verso la verità, che cristiamente è Agape, e non filosofica Aletheia. In entrambe le parole c‟è l‟alfa privativa. In a-gape indica la non appartenenza alla dimensione naturale, alla terra Gea, che nel caso privativo mantiene la radice dorica gae quindi l‟appartenenza a un‟altra dimensione, diversa da quella della necessità, propria degli elementi sensibili, che è la dimensione della libertà, in cui si decide in coscienza se seguir “lo mondo cieco”, vissuto “come se tutto movesse seco di necessitate”, oppure il “libero voler”, per cui “lume v‟è dato a bene e a malizia”. Due strade infatti può percorrere “l‟anima semplicetta che sa nulla”, essendo immersa nella Mancanza originaria: quella che porta “al mondo”, in cui la volontà è mossa da Necessità, oppure quella che conduce “a Deo”, caratterizzata dal libero arbitrio. 750 Questo percorso di libertà è “quel secondo regno dove l‟umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno” grazie alla virtù che “de l‟alto scende”, e fa sì che l‟anima, mondata di ogni necessità, gradisca la libertà “ch‟è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”,751 ricercandola a costo della stessa vita. Libertà, dunque, dal mondo e dalla sua legge di necessità, espressa come volontà d‟essere, potenza che muove ogni ente finito. Diversamente, la libertà è mossa dalla eterna Verità, che è Amore, attività del cuore che sente tutto intero il valore divino delle creature, non frantumando il giudizio sulle loro empiriche azioni particolari, ma considerandole alla luce dell‟eterno, spoglie di ogni carattere mortale, che ne vela la vista. Non è un caso che i grandi interpreti del mystero dell‟amore siano i cultori del , i creatori della parola libera dal significato necessario, necessitato dalla definizione logica, dal Logos che impone il suo potere coercitivo alla coscienza razionale, che conosce la realtà fondata sui dati sensibili. Un potere che esige un mondo ridotto a dati oggettivi, disponibili a essere collegati in nessi necessari, che impongono il silenzio alla possibile libertà. La luce a cui assurge la coscienza d‟amore non è quella

750 Sono versi tratti dal Canto 16 del Purgatorio, 66, 68-9, 75-76, 88, 108. 751 Dante, Purgatorio, Canto I, vv. 4-6, 70-72.

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