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21 Ved. a proposito H. Arendt, Vita activa, cit., pag

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pace”,444 ricordando il passo della Civitas Dei in cui si tratta della pax augusta. 445 Ma ciò che è più interessante per noi è la chiara consapevolezza della assimilazione del monoteismo teologico-politico col “principio monarchico della filosofia greca […] adottato dalla Chiesa durante la sua espansione nell‟Impero romano”,446 per cui la posizione di Agostino sarebbe nella continuità con la teologia trinitaria dei padri greci, e nella rottura con la teologia politica ellenistico-giudaica, il cui “concetto propagandistico” fu secondo Peterson “adottato dalla Chiesa”, pur essendo sostanzialmente un corpo estraneo, giudeo e pagano. L‟ammissione non è da poco, anche se come suggerita dalla dialettica del discorso ed estorta come una confessione grave ma esimente da altre più gravi e incombenti sciagure come il neo-cesarismo hitleriano di quegi anni. Da essa, però, divrebbero discendere alcune conseguenti considerazioni di ordine teoretico e morale, relative all‟impianto ideologico che fa da sfondo non soltanto all‟idea di Chiesa nel mondo, ma a quella di Stato del mondo. Se, infatti, il connubio ibrido tra universalismo statalistico pagano e cattolicesimo cristiano avvenne in nome della pace, ossia dell‟ordine mondano “possibile ai mortali”, tale finalismo irenico non potrebbe giustificarsi, non sulla base di una empirica verifica di inefficacia del pactum scieleris tra Chiesa e Stato, come si evidenzia nel riferimento agostiniano all‟età di Augusto evocato dal Peterson, ma sulla indicazione molto più significativamente pregnante di CD XIX, 17 in cui si distingue nettamente tra la “pace terrena”, intesa come “l‟accordo degli umani interessi nel settore dei beni spettanti alla natura degli uomini soggetta al divenire”, e la “vera e unica pace della creatura ragionevole”, indicata nella “unione sommamente ordinata e concorde di avere Dio come fine e l‟un l‟altro in lui”, già in questa terra. A quale pace, dunque, si riferiva la Chiesa romana alleandosi all‟Impero? Solamente la prima prospettiva poteva ingenerare l‟errore di considerare storicamente possibile il connubio teologico-politico, ma se questa fu la prospettiva di Eusebio, non è la prospettiva escatologica di Agostino. Essa, nondimeno, non costituì la frattura decisiva all‟interno dell‟ecumene ecclesiale cristiano, dal momento che la Chiesa,

444 E. Peterson, Der Monotheismus, tr. it. cit., pag. 70. 445 Agostino, CD, III, 30. 446 E. Peterson, Loc. cit., pag. 71.

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perseguendo una sua strategia di confronto con le potenze mondane di carattere politico-religiosa, la rese inattuale, neutralizzandone la enorme carica teologico-messianica. Non soltanto in riferimento ai modelli strutturali la Chiesa offrì allo Stato secolare l‟emulazione della sua forma istituzionale, ma anche in riferimento ai processi di neutralizzazione delle intestine aspirazioni escatologiche, le quali, nella prospettiva della pace politica assumevano le sfumature di istanze rivoluzionarie, che come tali andavano osteggiate. L‟intero processo di secolarizzazione avviato nel moderno, alla luce della prospettiva escatologica, si manifesta come un suo progressivo ripiegamento a favore della logica della finitezza del razionalismo filosofico, che, liberatosi in virtù del suo essenzialismo universale di ogni mediazione metafisico-religiosa tra ideale ed effettuale, si dispiega teoreticamente come scientismo tecno-logico e politicamente come universalismo della sovranità, ovvero come democrazia. In questo processo storico, soprattutto a seguito della strategia mimetica adottata dalla Chiesa per resistere agli urti del mondo profano adottando di volta in volta l‟ascesi come compensazione escatologica all‟avvento mancato e la doppia morale per giustificare l‟assolutezza e irreformabilità del mondo,447 l‟elemento negativo della critica agostiniana alla città terrena ha prevalso nettamente sull‟elemento positivo del messaggio escatologico del teologo afro-latino, nei termini di un confronto tra un modello etico-politico che aveva esaurito la sua spinta vitale, quello romano, e un modello condendo cristiano che avrebbe dovuto garantire quella solidità eterna che invano perseguì l‟Impero di Roma. Rispetto all‟offerta cristiana di rifondare l‟Impero su basi universali nuove e divinamente garantite, la prospettiva escatologica assunse il valore di una ideologia politica di legittimazione del Potere mondano. Così come la scissione dei sue due elementi costitutivi – la fides cristiana e la ratio politica – nella rappresentazione plastica del conflitto tra Chiesa e Stato fu la controprova del loro instabile patto per la pace. Per la Chiesa antica, il mondo non era un concetto cosmologico, un còsmos, ma veniva equiparato allo Stato e ai suoi ordinamenti, sicché era essenzialmente “un concetto politico, sociale, storico”448 unitario e

447 E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, tr. it. vol. I cit., pagg. 143-145. 448 E. Troeltsch, Loc. cit., pag. 199.

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invariabile, abitato dalle stesse persone che sono “pellegrine” e straniere alle sue regole. Da qui l‟alterno atteggiamento verso di esso, quietistico e ascetico, di condanna e di compromesso. Agostino contesta la stessa realtà dello Stato definito dalo Scipione di Cicerone come res publica, “perché mai fu cosa del popolo”, intendendo questo (nel De Republica 1, 25, 39) come “l‟unione di un certo numero d‟individui messa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli interessi”. Ma, si chiede il teologo, come può sussistere uno Stato di diritto senza la giustizia? Questa “infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo”, e dunque non può essere giustizia quella che “sottrae l‟uomo al Dio vero e lo rende sottomesso ai demoni infedeli”, ossia quella affermata dal diritto dello Stato pagano. La “vera giustizia”, per Agostino, non è quella affermata dal diritto quale normativa conforme agli interessi di convivenza, ma quella del diritto conforme a giustizia, “pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l‟unione d‟individui messa in atto dall‟uniformità del diritto e quindi neanche il popolo secondo la definizione di Scipione e di Cicerone”.449 Non è l‟unione giuridica che crea l‟unità del popolo, ma la giustizia, ossia il principio morale, che è quello divino, e il sacrilego tributo agli idoli praticato dai Romani.450 E dunque le stesse decantate virtù con le quali si “può esercitare il dominio sul corpo […] sono piuttosto impulsi che virtù”, poiché anche quelle considerate comunemente come virtù morali, se provengono dall‟uomo, sono nient‟altro che “impulsi” della carne. Solo “il principio” che la carne fa vivere e che “non deriva dall‟uomo, ma è superiore all‟uomo” può essere considerata vera virtù.451 E se lo scopo dell‟unione tra gli uomini è la pace, la “pace propriamente nostra si ha con Dio anche nel tempo mediante la fede” operante nell‟amore. Solo questa infatti, con l‟ausilio della grazia, può dominare gli impulsi naturali dell‟uomo, e non la ragione, anche se “sottomessa a Dio”, esposta com‟è alle lusinghe della vita. La giustizia è pertanto è quella che tende alla “pace finale”, in cui “la nostra natura, liberata per mezzo della non soggezione alla morte e al divenire, non avrà più impulsi”, e dunque la stessa ragione non sarà più necessaria, in quanto sarà Dio a domnare

449 Agostino, CD, XIX, 21.1. 450 Agostino, CD, XIX, 21.2. 451 Agostino, CD, XIX, 25.

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sull‟uomo e l‟anima spirituale su corpo, in una generale letizia di vivere nella pace del sommo bene.452 Ogni diversa vita sarà contraria contraria alla pace e dunque di guerra, “come l‟infelicità è contraria alla felicità e la morte alla vita”. Ma cos‟è tale guerra, qual è la radice del dolore di vivere nella condizione politica? La guerra più grande, e dunque paradigmatica, afferma Agostino, è “quella in cui la volontà è contraria all‟inclinazione e l‟inclinazione alla volontà, in modo che simili contrasti non cessano con la vittoria dell‟una sull‟altra”,453 in quanto entrambe sono soggette al dolore che le avvince. La guerra, dunque, è la disarmonia tra la natura benigna, creata da Dio, e l‟inclinazione malvagia dell‟uomo che deflette dalla luce della verità divina. Il che significa che la condizione di vita armonica può conseguirsi solo attraverso l‟appello all‟aiuto di Dio, cioè con “la preghiera” finalizzata alla redenzione. I due ambiti considerati da Agostino possono anche insistere su una stessa unità sociologica, quale fu l‟Impero cristiano, in quanto la relazione tra le due civitates è inerente a due distinti livelli di coscienza, uno istituzionale e razionale, l‟altro trascendente e spirituale. Ciò che vulnera la prospettiva agostiniana neutralizzandone lo sirito escatologico è la riduzione della dialettica tra potestas politica e auctoritas morale, per riprendere la dicotomia schmittiana,454 a quella delle diverse funzioni interne all‟orizzonte politico della rappresentanza e del contemperamento degli interessi sociali intesi come “pace”. Infatti, una tale dialettica presuppone ciò che la natura trascendente del referente divino non può ammettere, ossia l‟uguaglianza ontologica dei due elementi conflittuali, tale da garantirne la composizione sintetica. Di contro, la concezione agostiniana della Giustizia non figura come parte in conflitto ma come limite al conflitto in virtù della sua insuperabile alterità trascendente, l‟amor Dei; e trascendente appunto ogni parziale amor sui. In Agostino, in cui è chiara la consapevolezza che “chi è qualche cosa è custode dei comandamenti di Dio, e chi non lo è, è un nulla”,455 “la chiesa quale istituzione diviene il segno visibile della verità che custodisce e da

452 Agostino, CD, XIX, 27. 453 Agostino, CD, XIX, 28. 454 C. Schmitt, Teologia politica II, tr. it. cit., pag. 48. Ved. il perspicuo commento di G. Lettieri, Riflessioni cit., pagg. 249 sgg. 455 Agostino, CD, XX, 3.

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cui, nello stesso tempo, è trascesa”.456 Tale visione dualistica di Agostino, in cui “l‟elemento teologico si pone anche politicamente e storicamente sul piano della rappresentazione secolare, pur non risolvendosi affatto in esso”, consente che la “liquidazione del politico avvenga anche politicamente” attraverso il trasferimento visibile e universale del sacro “dallo stato alla chiesa”, la quale così, nello stesso momento in cui diventa “una nuova potenza politica mondiale, simul è confessata come realtà assolutamente escatologica”, assegnandole Agostino un carattere “teologico-metapolitico” per cui “la chiesa espugna il mondo ma lo abbandona, trascendendolo” in nome della “sua irriducibilità al politico” e operando un “movimento dialettico di vera e propria Aufhebung o retractatio del politico nell‟ecclesiastico [che] libera politicamnte – cioè sul piano storico della rappresentazione – lo spazio del teologico come altro, assolutamente trascendente”, in senso ontologico e spirituale, e in tal senso la sua teologia della storia va a delineare una “via intermedia tra il teologicamente puro rimproverato a Peterson e il teologicamente immanente di Schmitt”.457 Il tema che poneva Schmitt in Teologia politica II a proposito del rapporto tra teologia e politica sul piano politico, nel quale a suo dire era impossibile “liquidare teologicamente una grandezza politica o una pretesa politica”, implicava una “identità strutturale dei concetti teologici e delle argomentazioni e cognizioni giuridiche”458 che era essa stessa un portato teologico, prima che di tipo giuridico dal quale si stabiliva Schmitt. Infatti, inerisce all‟essenza del cristianesimo come fenomeno storico-culturale, ovvero come fenomeno scatologico. Nel primo caso, la si risolve in una   sociologica, all‟insegna della virtus () religiosa, nell‟altro caso in un  escatologico che ha per esito la laetitia () dell‟armonia spirituale. Le due condizioni non si escludono sul piano dell‟esistenza ma su quello del diverso livello di coscienza. Il livello storico risolve l‟esistenza umana nella fatticità della presente condizione temporale, in cui l‟Essere è ciò che logicamente è e non-è ciò che logicamente non-è. In questo ambito fenomenologico è

456 M. Rizzo, CeD, pag. 105. 457 G. Lettieri, Riflessioni cit., pagg. 252-253. 458 C. Schmitt, Politische Theologie II (1970), tr. it. di A.Caracciolo, Milano, 1992, pag. 17.

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possibile la “identità strutturale” del teologico col politico, di cui trattava Schmitt. Nel livello escatologico, invece, il presente è vissuto come “l‟annuncio” () liberatorio dal mondo “che Dio è la luce e presso di Lui non vi è alcuna tenebra” ( ) (1 Io. 1,5), cioè è un presente temporaneo. Infatti, come ha chiarito Bultmann, in questa situazione spirituale la “gioia escatologica è certamente già presente [ma] con altrettanta certezza essa è al presente ancora temporanea, ancora in attesa del compimento”.459 Se sul piano politico “l‟Altro si rivela fratello mio e il fratello mio nemico”,460 sul piano escatologico l‟opposizione tra “la luce” () della Rivelazione e “le tenebre” () della condizione in divenire, non indica soltanto la dialettica tra la parte divina in lotta contro la parte profana, “ma anche l‟opposizione delle età che proprio mediante l‟evento escatologico della Rivelazione si sono profilate con chiarezza”,461 per cui chi si ponga in rapporto polemico col fratello ristagna in una condizione tenebrosa, che è appunto quella propriamente politica. L‟eone della Luce, in senso escatologico, indica il superamento del conflitto fratricida, in quanto il livello in cui si pone la coscienza illuminata dalla fede cristiana è quello contrassegnato dalla  e non dal . E‟ chiaro che la posizione teologico-politica nella quale si posiziona Schmitt nella polemica con Peterson, “rivendicando il carattere eminentemente e insuperabilmente storico, secolare della rivelazione cristiana”,462 appartiene al livello di coscienza storicoculturale, e non già a quello escatologico, del cristianesimo, in cui prevale la “visibilità e pubblicità”463 della Chiesa istituzionale, anziché l‟attesa messianica dell‟evento soteriologico, che fa della  ecclesiale una socialità in- e non anti-politica. Nella prospettiva escatologica, non è in discussione la storicità del , cioè l‟elemento naturale dell‟evento cristico, che si compendia nella storia della passione di Gesù, ma la risoluzione in esso della Rivelazione, che non considera l‟elemento in-visibile della resurrezione

459 R. Bultmann, Die drei Johannesbriefe (1967), tr. it., Brescia, 1977, pag. 35. 460 C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, tr. it. cit., pag. 92. 461 R. Bultmann, Loc. cit., pag. 55. 462 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 250. 463 C. Schmitt, Politische Theologie II, tr. it. cit., pag. 40. 171

dalla tenebra della condizione mortale, e quindi del confitto proprio della socialità politica, testimoniata dalla fede escatologica. Senza l‟elemento escatologico, testimoniato dalla fede nella resurrezione, lo stesso fenomeno sociologico del Cristianesimo storico, diviso tra ascetismo e teocrazia, appare solo nella prospettiva polemica con la empirica realtà statuale.464 La prospettiva storicistica non coglie l‟essenziale “inversione” (umkehrung) della tensione escatologica operata da Agostino dall‟universale all‟individuale, in cui “l‟attenzione è rivolta al destino dell‟anima, e il tempo della fine viene sostituito dall‟ultimo giorno della vita umana”.465 Nella prospettiva terrena non è possibile costruire alcun futuro, poiché l‟attesa del futuro sarebbe comunque interna all‟eone del divenire. L‟unico futuro è quello dell‟eskaton, sicché ogni tempo interno alla vigilia è un presente dilatato, un tempo dell‟assenza della Luce e dunque indistintamente pre-eterno, entro il quale la durata della città terrena, qualunque sia la sua conformazione socio-politica, è transeunte, perché comunque introduttiva all‟avvento della città divina. In tal senso, l‟Impero romano rappresenta simbolicamente la città terrena, e nello stesso senso esso non può avere una durata diversa da quella segnata dall‟eone della città terrena, la cui fine coincide con l‟avvento di Cristo nella parousia. Non avrebbe senso accelerare il processo escatologico, legato alla imperscrutabile volontà di Dio, ma l‟uomo di fede può, in questo intermezzo temporale, solo adattarsi al mondo cercando di portarlo sulla vita della Luce che vedrà compiutamente solo alla fine dei tempi storici. In questa più o meno lunga epifania, il compito della fede è restare in ascolto, in attesa del segno della grazia divina, durante la quale “il tempo storico acquista nuova dignità”, legata alla “promessa dell‟Eterno” e alla “indeducibile novità del compimento” che nell‟incarnazione di Cristo trova il suo momento rivelativo, tale che “la rigenerazione del tempo non avviene a prezzo del suo svuotamento, ma grazie all‟irruzione del nuovo di Dio accolto dall‟uomo nella sua libertà”, che qualifica il tempo, “reso nuovo dalla decisione di fede di fronte alla parola dell‟annuncio e all‟offerta della grazia. La buona novella, caratteristica del cristianesimo, è la salvezza della storia, non la salvezza dalla storia”, che non vuol dire una semplice “salvezza nella storia , per

464 E. Troeltsch, Loc. cit., pagg. 218-226. 465 J. Taubes, Abendlaendische Eschatologie (1947), tr. it., Milano, 1997, pag. 111. 172

la quale cioè il tempo resti soltanto lo „scenario‟, il „theatrum gloriae Dei‟[ma] di una redenzione del tempo storico operata dalla grazia del Dio vivente entrato in esso e dalla libera accoglienza dell‟uomo, vero soggetto e protagonista della storia”.466 La storia dell‟uomo, di ogni singolo uomo, nella prospettiva cristiana, non è più una mera realtà empirica, le cui gesta sono manifestazioni di una astratta norma universale, ma l‟immagine finita e dolente dell‟ “universale concretum et personale” del Cristo.467 L‟evento cristico apre l‟esperienza dell‟uomo alla decisione di aderire alla Rivelazione, e dunque di convertirsi alla speranza della fede redentiva, ovvero di attardarsi nel tempo dell‟ignoranza di Cristo, precedente la grazia dell‟Incarnazione. Una decisione che qualifica di eternità il tempo dell‟uomo, “facendone una creatura di frontiera, soccorsa certo dalla Grazia, ma responsabilizzata nel modo più alto di fronte alla serietà e al peso delle proprie scelte concrete, inesorabilmente cariche di futuro”. 468 Lo spazio della scelta soteriologica, fondata sulla fede nella libertà dell‟auto-affermazione divina nel mondo, è l‟altro aspetto dell‟orizzonte esistenziale in cui è compreso lo spazio politico, regolato dal principio economico di necessità. Lo spazio trascendente della fede all‟insegna dell‟eterno, co-esiste ma non coincide con lo spazio della dimensione naturalistica dell‟esistenza, dominata dal tempo della finitezza, in cui lo scopo è di pervenire al compimento della sua necessità, e non certo di liberarsi da essa. La liberazione dalla necessità consiste nella refutazione del piano astrattamente universale nel quale si pone ogni principio di realtà razionale che voglia affermarsi come valido, a favore del piano della concretezza singolare in cui si pone la fede escatologica cristiana, in cui ogni esperienza esisteziale viene accolta come una “imitatio Christi” avente il significato e il valore di una “comunione con Lui nella storia della salvezza del mondo, per la forza dell‟amore che vince il dolore e la morte”.469 Il remedium non è l‟universalità della norma, giustificativa della necessità del caso particolare, ma la rappresentatività simbolica dell‟evento singolare portatore di storia in

466 B. Forte, Teologia della storia, Cinisello Balsamo, 1991, pagg. 15-17. 467 Ivi, pag. 18. 468 Ivi, pag. 20. Si ricorda che l‟eternità è spirituale, mentre temporale è la durata. 469 B. Forte, Op. cit., pag. 17.

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quanto fautore di storia. La Storia di Cristo, come eventum singularis, è l‟exemplum di ogni possibile storia singolare, nella cui vicenda esemplare “è come narrata la storia della storia […] l‟eternità nel tempo, la verità nella singolarità della Sua persona”470 che diviene modello etico di condtta nel mondo. La politica cristiana è l‟ubbidienza alla propria natura spirituale entro la condizione temporale della finitezza, non soltanto della civitas terrena ma dell‟uomo stesso come essere naturale. scegliere pertanto in senso spirituale non equivale a rinnegare la finitezza umana, ovvero il mundus humanum della città politica, ma anteporre a ogni suo scopo economico-politico il fine trascendente della salvezza escatologica. Ed è tale trascendimento del fine a desacralizzare la città politica inserendola nell‟economia della salvezza spirituale. Il punto di sutura del teologico col politico è costituito dall‟identificazione della salvezza spirituale di ogni uomo di fede con la salvezza della Chiesa quale corpus mysticum Christi, facendo della Chiesa il luogo della Storia. E‟ questa identità di Storia e Chiesa a rappresentare “il rischio presente nella teologia agostiniana della storia”, e non già la centralità di Cristo come “norma universale e centro escatologico del tempo, nella sua singolarità attualizzata dallo Spirito Santo”, in quanto la “negatività e peccato” di stare “al di fuori di Cristo”,471 è la condizione pagana di chi permane nell‟orizzonte temporale dell‟eterno presente dell‟esistenza naturalistica, dove “tutto ricomincia dal suo inizio in ogni istante”,472 e dove appunto non vi è storia spirituale ma soltanto successione di eventi più o meno memorabili. E‟ l‟amor Dei a consentire la lettura storica della vicenda umana, altrimenti consegnata all‟eterno ritorno dei divenir naturale. Ed è questa lettura dalla prospettiva dell‟Eterno a emancipare l‟esistenza umana dalla necessità dell‟ universalismo razionalistico della concezione pagana, rispetto alla quale la svolta cristiana non consiste nella sostituzione dell‟Impero, quale polis universale, con la Chiesa, quale ecclesia catholica, ma nella sostituzione del Logos universale del pensiero pagano con il concretissimum Logos personale di Cristo. L‟identificazione della cristianità con l‟Impero romano, e dell‟Imperium con l‟auctoritas carismatica è un portato ideologico della teologia politica

470 Ivi, pag. 18. 471 B. Forte, Op. cit., pag. 21. 472 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Roma, 1968, pag. 118. 174

alessandrina, intesa a riscattare la fede cristiana, per un verso, dall‟ignoranza e rusticitas della massa dei fedeli denunciata da Celso, e per l‟altro dall‟egemonia intellettuale gnostica.473 Ed è a questa interpretazione che va fatto risalire al concetto di Grazia “il teologicopolitico universalmente rappresentativo”, non ad Agostino, per il quale “l‟autentica escatologia [non] è la [sola] grazia”,474 ma è anche la fede che l‟attende da parte dell‟uomo concreto nella sua intierezza, e dunque anche dell‟essere naturale abitante lacittà politica. la dialettica, pertanto, si traspone sul piano dell‟agire temporale, ossia su quello congiunto del suo significato storico in senso spirituale, e quindi morale ed eterno, ovvero in senso politico della sua razionalità pratica. Solo nella dimensione della concretezza singolare è possibile la lettura escatologica dell‟esperienza esistenziale, laddove ogni visione universalistica traspone in termini spiritualistici la concezione naturalistica della vita umana collettiva, dalla quale non può emergere (e da qui la sua necessità) l‟irriducibile elemento singolare rivendicato dal cristianesimo (che è follia e irrazionalità nella prospettiva razionalistica). Rispetto all‟elemento trascendente della singolarità, ossia alla concreta esistenza umano-spirituale, ogni istituzione è terza, si tratti della Chiesa o dello Stato, in quanto istituzioni naturali e come tali non sacralizzabili perché meramente funzionali alla tenuta (katechon) del mondo. poiché ciò che rileva, ai fini soteriologici, è la destinazione dell‟ordine mondano, questo non può essere assunto dal punto di vista cristiano come fine in sé, ossia idolatrato alla maniera greco-romana e pagana, ma valutato in merito al suo grado di funzionaità. Infatti, l‟Imperium romanum ha acquisito un suo specifico valore storico entro l‟economia della salvezza divina in quanto scenario irenico in cui si è ambientata la Rivelazione. In questo senso, se la posizione del giurista è orientata verso l‟ordine profano condito, e quindi verso il suo mantenimento attraverso la legge, la posizione del teologo è invece orientata verso l‟ordinamento divino condendo, aperto cioè alla sua (e della legge) destinazione trascendente. La confluenza organica del teologico e del politico attraverso il sistema giuridico cela una intima e irresolubile contraddizione che, per quanto occultata, esplode nell‟atto della dis-formità cui è chiamata la decisione

473 M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, cit., pag. 48. 474 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 254.

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della fede. Una posizione indirizzata verso l‟ordine dell‟istituzione – sia la Chiesa o lo Stato – non risponde a un appello di fede, poiché tale appello non può essere finalisticamente umano, dettato dall‟amor sui profano, ma deve rispondere a un appello trascendente, ossia di coscienza. In tal senso, la posizione di quanti hanno difeso la Chiesa contro la Riforma in nome della Chiesa stessa, fuori di ogni appello alle istanze di trascendenza che la motivavano il moto protestante, appare chiaramente idolatrica, e del tutto analoga alla difesa dell‟ordine politicogiuridico katechontico avanzata da Schmitt. Essi si posero infatti in una posizione analoga alla difesa a quella degli Ebrei difensori della tradizione religiosa autoctona di fronte alla predicazione meta-etnica della escatologia cristiana, la cui simbolica posizione contra legem non può essere circoscritta al solo ambito religioso dell‟ebraismo e non estesa a ogni ambito ecclesiastico o di tipo profano. Non già per relativizzare in una astratta equipollenza la tradizione sacra e profana, ma per ribadire quanto di ogni ordinamento razionale rimanga insuperabilmente altro rispetto al piano della salvezza, ossia al fine escatologico, non sistematizzabile e normalizzabile entro un sistema di neutralizzazioni delle sue istanze giudicate politicamente eversive dell‟ordine costituito. La dialettica agostiniana del sacro e del profano può apparire “antinomica”475 e simile a quella del politico, mentre è radicalmente diversa, in quanto la negazione del piano attuale non avviene per posizione antitetica ma per affermazione del piano della trascendenza, ontologicamente diverso dal piano dell‟immanenza profana in cui si colloca il criterio politico. In questo senso possiamo dire che la teologia agostinana sia, come quella del Cusano, “copulativa”, nel senso che la negazione e l‟affermazione della realtà di Dio è fondata sulla Sua trascendenza di ogni finitezza, che impedisce l‟assolutizzazione di ogni finitezza e di ogni determinazione finita.476 Ogni richiamo alla molteplice

475 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 256. 476 A proposito delle atrocità della guerra tra cristiani e musulmani in occasione della presa di Costantinopoi (29 maggio 1453), N. Cusano nello scritto per La pace nella fede scrive che “una grande moltitudine di uomini non può esistere senza grandi differenze, e che quasi tutti sono costretti […] a sottostare con soggezione servile ai re che li dominano” e ugualmente a prestare ascolto a “profeti e maestri diversi” da Dio stessi inviati “alle diverse nazioni”, sicché “questa contesa avviene per causa di [Dio], l‟unico che essi venerano in ogni cosa che sembrano adorare. Difatti in ogni oggetto che l‟uomo 176

finitezza non viene fatto per spirito relativistico ma appunto per stabilire la differenza tra l‟ordine mondano, costituito sulla possibilità umana, perfettibile, dall‟ordine divino immutabile, istituito sulla verità, che abita in interiore homine e non in una istituzione oggettiva e politica. Da questa radicale differenza discende inoltre la diversa articolazione della grazia divina, conferita sempre alla persona concreta, sia l‟umile o l‟imperatore, rispetto allo stato di eccezione del sovrano schmittiano, che trasgredisce invce l‟universalità del sistema, cioè la impersonale regola comune. La grazia è “anticosmica” non in quanto eversiva dell‟ordine mndano stabilito, ma in quanto lo trascende, sicché la sua incidenza non è eccezionale rispetto alla norma universale, ma normale in quanto singolare e priva di un valore erga omnes. Finché si è “nel tempo”, infatti, è inevitabile “la mescolanza di buoni e cattivi”, mentre la loro “separazione avverrà certamente nel giorno del giudizio”.477 La similitudine che si stabilisce nell‟atto di grazia singolare è simbolica, e non ha valore cogente come quella della fattispecie giuridica. In tal senso, dal punto di vista cristiano, non vi è ordine spirituale che non sia personale, cioè interno alla storia di ogni singolo uomo, per cui la proiezione epica della storia agostiniana della salvezza dell‟umanità è la rappresentazione di una teocrazia della speranza dopo la fine del mondo pagano in dissoluzione. Finché si è nel tempo, Cristo “viene alla sua Chiesa, cioè nei suoi membri, uno a uno, di volta in volta, poiché tutta intera è il suo corpo”.478 La sapienza pagana, per stolta superbia idolatrica, ha creduto di introdurre attraverso la ragione il “giudizio

sembra dsiderare egli non ama se non il Bene che [è Dio], ed in ogni cosa che egli indaga con ragionamento intellettuale non ricerca che la Verità che [è Dio. Che cosa cerca il vivente se non di vivere? E che cosa l‟esistente se non di esistere? Tu [Dio] dunque, che sei il datore della vita e dell‟esistenza, sei quello che tutti variamente cercano con diversi riti e denominano con diversi nomi, poiché come realmente sei in Te stesso resti ignoto a tutti ed ineffabile. Infatti Tu, che sei l‟infinita potenza creatrice,non sei nessuna delle cose che hai creato, né la creatura può farsi un concetto della tua infinità, non essendovi proporzione alcuna tra il finito e l‟infinito. Ma tu, Dio Onnipotente che resti invisibile ad ogni spirito, ti puoi rendere visibile a chi vuoi nella misura in cui puoi essere compreso”: De pace fidei (1453), in Opere filosofiche, Torino, 1972, pagg. 621-622. 477 Agostino, CD, XX, 5.2. 478 Agostino, CD, XX, 5.4.

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universale” nel tempo finito della insuperabile molteplicità, ponendo l‟immagine ideale al posto del vero Dio. La stessa Chiesa, che è “regno” del Figlio nel tempo, è costituita da singoli regni, quanti sono i santi, 479 ed è costituita da unità di popoli,480 una unità plurale di moltitudini, e non da una massa omogenea. Non foss‟altro perché alla Chiesa appartengono “anche i morti”.481 Essa è dunque una comunità dis-organica, permixta, alla quale appartengono i buoni e i malvagi, che Cristo giudicherà alla fine dei tempi.482 Ed essa, che è una unità solo in senso escatologico, come ogni organismo collettivo, non può essere redenta dalla grazia, che opera soltanto sulle coscienze singolari, in interiore homine. La caratteristica della sua unità, fa della Chiesa una comunità essenzialmente diversa da quella politica dello Stato e non assimilabile ad alcun Potere secolare per il limite connesso al carattere trascendente del suo principio unitario, il Cristo. Nell‟eternità l‟anima e il corpo saranno collegati “in un modo che il legame non sarà sciolto dall‟incessante scorrere del tempo né spezzato dal alcun dolore”, sicché anche la morte sarà “perenne” se l‟anima non avrà Dio.483 Superiore al corpo è “l‟anima pensante, dalla cui efficienza il corpo ha vita e funzionamento e può subire il dolore senza subire la morte”, e perciò è “immortale”. Nell‟eternità il corpo aderirà all‟anima per sentire senza fine insieme a questa, poiché è l‟anima a far soffire il corpo, il quale “non soffre se è esanime”.484 Non tutti i fenomeni naturali sono spiegabili dalla ragione, ma la stessa attribuzione delle pene e della grazia resta un  non accessibile all‟uomo, e ciò dovrebbe indurre i “censori della fede” a credere per fede e non per ragione a quanto asserito dalle Scritture, “sebbene di tali opere di Dio manchi la spiegazione del sentimento e del pensiero umano”,485 poiché Egli “può conseguire effetti che ai pagani sembrano incredibili, ma sono fattibili dalla sua potenza” meravigliosa “che supera ogni cosa meravigliosa e con la sapienza dell‟agire, dell‟ordinare e del lasciare agire perché muove al

479 Agostino, CD, XX, 9.1. 480 Agostino, CD, XX, 7.3 e 4. 481 Agostino, CD, XX, 9.2. 482 Agostino, CD, XX, 20. 483 Agostino, CD, XXI, 3.1. 484 Agostino, CD, XXI, 3.2. 485 Agostino, CD, XXI, 5.2.

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fine tutte le cose con l‟atto meraviglioso con cui l‟ha create”.

486 Ed essendo “la volontà dell‟eccelso Creatore la natura di qualsiasi essere creato”, qualunque “portento non avviene contro natura ma contro quella natura che a noi si manifesta”,487 poiché “come non fu impossibile a Dio creare le nature che volle creare, così non gli è impossibile trasformarle, perché le ha create, in quel che vuole”.488 L‟onnipotenza divina, non essendo soggetta ad alcuna restrizione, è essa stessa motivo di incertezza esistenziale per l‟uomo, il quale, dotato di ragione, può conoscere soltanto razionalmente e non divinamente. Tale sovranità assoluta di Dio sarebbe terribile per l‟uomo se non fosse animata dall‟infinita bontà del Creatore, la quale è l‟oggetto di fede del credente. Ciò vuol dire che il processo provvidenziale del mondo, per quanto travagliato e inspiegabile sia, è sorretto dalla bontà divina, alla quale è tenuto a credere, anche contro ogni umana evidenza, il cristiano, che della fede fa il suo criterio di discernimento. Se invece la fede e la speranza si lasciano soppiantare dalla certezza che all‟uomo può venire vichianamente soltanto dai suoi prodotti, allora ogni suo sforzo e ogni sua opera saranno all‟insegna della ragione umana e alla sua fallacia e finitezza. Nella prospettiva della fede, l‟elemento escatologico è lo stesso volere benigno di Dio, per quanto imperscritabile, mentre invece, dall‟angolo di visuale della ragione umana, l‟escatologico è una “potenza anticosmica, terribilmente temuta come necessaria distruzione dell‟ordine mondano e delle gerarchie senza le quali non si danno né religione né società”.489 Ma la questione essenziale è: perché Dio dovrebbe intervenire a distruggere l‟opera umana ispirata al Suo volere? L‟interrogativo sposta il senso della storia dal piano escatologico a quello umano razionale, affidando all‟uomo la responsabilità dell‟ascolto di Dio. Ciò implica che la neutralizzazione della “emergenza apocalittica”, ovvero della “affermazione progressiva dell‟anarchia atea contro ogni forma di ordine metafisico, giuridico e politico”,490 riguarda le scelte della volontà umana, e non il capriccio di Dio, ossia l‟ordine mondano e non il piano provvidenziale. Ed è questa circoscrizione delle responsabilità alla libera

486 Agostino, CD, XXI, 6.2. 487 Agostino, CD, XXI, 8.2. 488 Agostino, CD, XXI, 8.5. 489 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 256. 490 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 257.

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determinazione umana a suscitare in Agostino, così come anche poi in Schmitt, il tema del rapporto tra il criterio autoreferenziale del Potere, che è l‟ordine politico, e il criterio trascendente che è la salvezza spirituale. Orbene, “il rapporto schmittiano tra archetipo teologico e immagine giuridico-politica” è il portato della cultura del rispecchiamento idealistico del divino nel profano, di formazione alessadrina ma che non è quella di Agostino. Quella cultura, infatti, ammette come possibile la corrispondenza tra piano provvidenziale e piano storico, e dunque della identità di Spirito e ragione, che è propria della Weltanschauung pagana assimilata dalla teologia di Eusebio, ma che non è quella agostiniana della differenza. Se “il problema di Schmitt è quello di riconoscere come l‟ordine secolare e spirituale tramandato dal Medioevo e comunque resistente all‟età moderna è radicalmente messo in crisi, posto „in questione da una classe rivoluzionaria‟”,491 significa che il giurista, pur consapevole delle umane responsabilità, intende farvi fronte umanamente, risolvendo all‟interno dell‟ambito delle razionali possibilità umane, la mancanza di fede, cui vorrebbe far fronte con strumenti politico-giuridici. Ma è esattamente questa credenza nelle umane possibilità risolutive del dramma esistenziale di ogni singolo uomo a esautorare Dio e a sconfessare l‟incidenza dell‟eskaton nella storia di quel dramma. Infatti, l‟idea del katechon schmittiana era collegata alla difesa dell‟ordine della civiltà cristiana europea, messa in crisi dalla secolarizzazione del pensiero, che riteneva privo di ogni legittimità teologica. In realtà lo sconvolgimento moderno non metteva in discussione il piano divino ma metteva soltanto in risalto l‟inanità della posizione teologico-politica romano-alessandrina, con la sua pretesa di costituire la forma oggettivata della civiltà cristiana. Ciò che Schmitt, diversamente da Heidegger e da Jaspers, non aveva compreso, infatti, era che l‟età moderna non inaugura ma porta a compimento una rottura ontologica, un paradigma metafisico su cui poggiava la struttura aristocratica della civiltà europea e la sua immagine del mondo, per cui a tramontare non era stato solo il Medio Evo o il feudalesimo e ad essere minacciato non era solo ciò che ne costituiva il retaggio moderno, ma una Weltanschauung che “aveva dominato per più di due millenni”,492 ossia la visione del mondo greca,

491 G. Lettieri, Riflessioni cit., ibidem. 492 O. Brunner, ALeG, pag. 129.

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che in Platone aveva trovato il suo massimo rappresentante filosofico, e contro le cui dottrine si appuntarono a suo tempo le critiche antirazionalistiche di Agostino, la cui teologia mirava a distinguere, e non a unificare, storicamente le due città, quella dell‟uomo e quella di Dio. Schmitt, di contro, voleva persistere nella loro risoluzione in una organica compagine teologico-politica, chiaramente paventata invece da Agostino. Sia Platone a suo tempo che Schmitt nel nostro hanno avuto la chiara percezione della crisi del cosmo teologico-politico e della conseguente dissoluzione dei valori metafisici che ne sostenevano l‟ordine eticopolitico. Entrambi, in guise diverse ma convergenti nel fine, hanno predisposto una teoria katechontica dell‟ordine politico affidata alla ratio excludendi, rispettivamente, della dialettica del logos e della decisione del politico quali categorie universali costitutive della totalitaria unità del molteplice. Ed entrambi hanno fondato il loro principio totalitario unitario sulla de-mitizzazione del Logos, attraverso la rimozione del fondamento mitico della mito-logia politica, di cui la teo-logia politica è la versione post-cristiana. Tale rimozione consiste nella sostituzione dell‟unità esistenziale dell‟Essere, ottenuta per fede religiosa, con l‟unità razionale, ottenuta dialetticamente per necessità logica, considerata epistemicamente più forte perché universale, valevole erga omnes, diversamente dall‟antica unità religiosa, distinta per luogo e tempo in una miriade di credenze teologiche particolari. Tale sostituzione dell‟unità mitica con l‟unità razionale è avvenuta attraverso la distinzione teoretica tra vero e falso, cui corrisponde la distinzione politica tra amico e nemico, attraverso ciò il metodo dialettico quale criterio normativo di esclusione, per negazione logica, dell‟Altro dal Sé. “La costruzione di un concetto giuridico procede sempre, per necessità dialettica, dalla sua negazione”.493 La negazione dell‟Altro consiste nella negazione del Molteplice, che è appunto “altro” rispetto all‟unitario Sé della coscienza noetica. Ma tale “negazione” è esistenzialmente una soppressione dell‟Altro irriducibile alla assimilazione al Sé, operata per trasformazione ontologica del Molteplice all‟Uno, intesa come necessità razionale. Il grado di riducibilità dell‟Altro al Sé, cioè all‟assimilazione, è il dato di razionalità dell‟ente molteplice rispetto al suo principio unitario o

493 C. Schmitt, Il concetto di politico, tr. it. in Le categorie del politico, Bologna, 1972, pag. 95.

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categoria. La razionalità consiste pertanto nella credenza nella trasformabilità del diverso (Molteplice) all‟uguale (Uno); credenza che è il principio di fede del razionalismo, il suo fondamento fideistico. La fede cristiana, pur affermando l‟unità esistenziale delle due nature ontologiche nella persona di Cristo, afferma l‟insuperabile differenza ontologica delle due nature nell‟uomo, e quindi la vanità di ogni pretesa monistica avanzata dal Logos filosofico. Da qui discende la critica agostiniana del falso monismo ontologico (in realtà meramente logico) pagano condotta in nome del dualismo cristiano, confutatore di ogni riducibilità razionalistica dell‟umano alla mera esistenza politica, fondamento invece dell‟antropologia greco-romana. Ciò che fu per il razionalismo di Platone la mitologia arcaica fu la teologia cristiana per il razionalismo moderno: una teoria dell‟ordine cosmologico della rispettiva civiltà, entrata in crisi dissolutoria per esaurimento del suo fondamento onto-antropologico. Ma se unitariamente la cosmologia presa di mira da Platone fu quella di Omero, la teologia presa in considerazione dalla teoria di Schmitt quale referente politico dell‟età cristiana non è quella escatologico-trinitaria di Agostino, ma quella teocratico-monistica di Eusebio, il cui paradigma secolaristico era entrato in crisi, provocando il disordine dell‟età moderna denunciato dal giurista.494 Ma il dis-ordine era la conseguenza della pretesa omologazione del diverso all‟uguale propria del Potere politico monarchico pagano, che riduceva a un‟unica realtà ontica ciò che era insuperabilmente diverso ontologicamente. Tale pretesa si basava a sua volta sulla ignoranza della nozione di Eterno, confusa con quella della naturalità. Quella nozione, abbinata all‟Essere divino anziché alla natura temporale, introduceva la nozione del potere eterno di Dio, superiore a ogni transeunte Potere umano sul quale si basava la città terrena. Il Logos divisivo pagano fu sostituito al Logos inclusivo dell‟agape, che nell‟Altro

494 Dell‟indebita confusione dei due referenti teologici fu vittima anche Peterson, che giunse a negare, per una corretta interpretazione teologica, la realtà storica della corrispondenza del teologico col politico sulla quale insisteva giustamente Schmitt, pur sbagliando nell‟attribuirla all‟intera tradizione teologica cristiana. Anzi, se la Chiesa potè salvarsi dal tracollo moderno del modello eusebiano fu dovuto ad Agostino, la cui teologia, irriducibile a ogni teoria della “pura fatticità del politico”, provvidenzialmente non fu adottata dal cattolicesimo come dottrina ecclesiastica ufficiale.

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non vedeva un nemico ma un fratello in Cristo. L‟amore consente di vedere nell‟Altro non già, come nel giudizio razionale, la oggettiva parte del bene distinta da quella del male, ma la sua personale intierezza, la concreta esistenza di una singolare storia spirituale. L‟Altro, infatti, non è considerato oggetto di pensiero, creazione della ragione umana, ma soggetto spirituale creato da Dio, e come tale soggetto alla Sua potestà, e non alla disponibilità assoluta del Potere politico. Entro la dialettica tra bene e male in senso razionalistico, il mediatore è il Potere (dello Stato), ma il mediatore tra il bene e il male in senso spirituale è Cristo, il Quale non è un‟idea astratta, bensì una realtà concretamente storica e compiuta. Ed è la compiutezza dell‟esistenza umana modellata sul paradigma di Cristo a rendere inutile la auctoritatis interpositio nello status civilis tra l‟ideale giuridico e il reale contesto politico.495 Nell‟esperienza storica di Cristo, infatti, non c‟è cosa che non sia stata compiuta, compresa la vittoria sulla morte, ossia il trascendimento della condizione naturale, il massimo della potenza al quale aspira la applicazione tecnologica del sapere profano attraverso i “miracoli” della scienza. Ma l‟amore cristiano non vince la morte negandola, alla maniera razionalistica, bensì comprendendola nell‟esperienza dell‟uomo come evento escatologico. Il “miracolo” divino non è quello di assolutizzare il positivo razionale contro il negativo dialettico, formando un mondo unitario per universale esclusione dell‟alterità, ma di amare il negativo come parte del sé totale, e non come l‟Altro da negare. L‟unità razionale è solitaria, l‟unità spirituale è solidale. Se l‟ordine dell‟unità solitaria è garantito dal Potere che decide secondo diritto, l‟ordine solidale è governato dall‟amore che comprende e non giudica, superando con la carità ogni criterio di diritto. La insistenza di Agostino sulla onnipotenza di Dio non voleva però sottolinearne la assoluta gratuità, poiché Dio era guidato dall‟amore verso le Sue creature, ma la bontà, di cui invece erano perloppiù privi gli uomini incapaci di trascendere la loro natura animale, che si muoveva nella paura, anziché nell‟amore, dell‟Altro. L‟ordine della paura era appunto quello politico in cui ristava ancora la coscienza di Schmitt, entro la quale il katechon assumeva una accezione razionalistica di remedium mali interamente consegnato alla volontà umana, la stessa che

495 C. Shmitt, Teologia politica, in Loc. cit., pag. 55.

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aveva provocato la dissoluzione dell‟ordine, senza alcun appello alla grazia né alcun trascendimento morale. Nel concepire il katechon in termini politici consisteva la barbarie contro la quale Agostino aveva eretto il baluardo della fede escatologica, per cui “Dio compirà gli atti che ha preannunziato di compiere sul corpo degli uomini perché non lo trattiene alcuna difficoltà, non l‟ostacola una legge di natura”.496 Né una costituzione umana e neppure un ordinamento politico possono impedire la potenza divina, e di converso neppure sostituirla o rappresentarla sotto forma di plenitudo potestatis regale o papale.497 La persona, del

496 Agostino, CD, XXI, 8.5. 497 A proposito della dittatura sovrana, Schmitt scrive che essa “vede in tutto l‟ordinamento esistente una qualcosa da rimuovere completamente con la propria azione”, al fine di “imporre una costituzione ritenuta come quella autentica” (Die Diktatur (1964), tr. it., Roma-Bari, 1975, pag. 149). Ma che cosa era da rimuovere, e cosa avrebbe reso autentica una costituzione? Da rimuovere era il dis-ordine delle volontà individuali (pluriversum) non uniformate alla fattispecie legale (universum), ossia la stessa libertà di azione e di pensiero dei singoli. Di conseguenza, l‟ordine da instaurare era quello in cui vigesse universalmente la legge del sovrano negatrice delle volontà individuali. E dunque il discrimine tra il modello e la possibilità di conseguirlo è dato dal grado di universalità del Potere; è l‟universalità della vigenza il della giustizia del Potere razionale. L‟efficacia del Potere, come parametro di verità dell‟ordine politico costituito, di per sé non ammette alcuna limitazione morale (ab-solutus), e da qui la sua idolatrica analogia “rovesciata” con l‟onnipotenza divina. Ma l‟insuperabile contraddizione reale di ogni ideale è nel suo bisogno di oggettivarsi per dare esistenza alla sua essenza, e nel caso del Potere, la sua forza “costituente” deve essere rappresentata sempre da “l‟altro da sé” (Loc. cit, pag. 152) che la de-finisca negandone l‟in-finitezza. Questo non avviene nella consustanzialità divina di Cristo, il Quale non rappresenta l’immagine formale (repraesentatio, ) di Dio, che rende “visibile” la sua “assenza” nel senso della “pubblicità” (Schmitt, Verfassungslehre (1928), tr. it., Milano, 1984, pag. 277), ma ne è l‟immagine spirituale (), che non è quella pubblica dell‟esistenza politica, ma quella interiore della realtà trascendente, che, in quanto tale, si costituisce come limite () in-rappresentabile di ogni Potere finito e di ogni ordine costituito, cioè di ogni dimensione “pubblica” della sovranità che assuma come “principio spirituale” il Logos politico (Schmitt, Loc. cit., pag. 280), anziché il  caritativo. In tal senso, la Chiesa in quanto comunità di fede, non può essere “persona giuridica depositaria dello spirito giuridico” romano (Schmitt, Roemischer Katholizismus und politische Form (19252), tr. it., Milano, 1986, pag. 47), né come istituzione può mai rappresentare la potestas divina in termini di Potere secolare. Solo il Dio dei filosofi e dei teologi romano-alessandrini infatti è infinito “potere costituente”, mentre il Dio cristiano di Agostino è auctoritas di Governo, che 184

paradigma cristico come della storica singolarità di ogni uomo, non si può rappresentare in guisa di un‟Idea platonica in quanto essa non è una realtà compiuta ma una esistenza spirituale avvolta nel mistero, la cui singolarità richiede una interpretazione del senso del suo svolgimento non assimilabile ad alcun processo biologico naturale. Questo elemento spirituale imponderabile del singolo uomo, che ne costituisce la cifra della trascendenza, impedisce che alcuna forma di vita sociale possa assimilare la sua irriducibile singolarità a una qualche particolarità di un determinato insieme collettivo idealmente definito, che possa compendiare l‟intierezza della sua esistenza risolvendola in una formale integrazione unitaria, quale la Chiesa o lo Stato, la cui unità formale non può costituire un analogon della storia esistenziale dell‟Uomo. E questa è la ragione essenziale per cui non possa una istituzione rappresentare una realtà trascendente, cioè una esperienza storica avvolta nel (perché

nessun sovrano terreno, papale o imperiale o popolare che sia, può legittimamente rappresentare alla stregua di un archetipo ideale di potestas razionale, ossia come modello formale di unità totale di essenza ed esistenza di un ordine mondano giuridicamente totalitario da conseguire. Per Agostino, anzi, la stessa unità politica vagheggiata dalla filosofia attraverso lo Stato, è un idolum idealistico destinato sempre a smentirsi nella realtà, sicché, paradossalmente, la migliore costituzione è quella che non esiste. Da qui il carattere negativo e provvisorio di ogni forma di Stato (C. Galli, Genealogia della politica, Bologna, 1996, pagg. 251 sgg.). Ciò che si può rappresentare è un‟idea, ma l‟idea di Dio non è Dio, per cui si può rappresentare il Potere (potestas), legato alla funzione astrattamente personale, ma non il Governo (auctoritas), legato al carisma concretamente singolare. La “singolarità dell‟uomo”, non “si fonda”, come invece ritiene Schmitt, “soltanto sul fatto che Dio lo mantiene nel mondo e perciò nella comunità” (Die Sichtbarkeit der Kirche (1917), tr. it. in Roemischer Katholizismus, tr. cit., pag. 79), ma sulla concreta totalità del suo essere divino-umano aperto alla trascendenza. Il modello esistenziale di tale totalità è Cristo, la cui infinita “trascendenza” non può essere “il contenuto della rappresentazione”, come invece vorrebbe Schmitt, in quanto il contenuto della trascendenza non è razionale, ma spirituale, mentre “rappresentare significa far presente un‟idea, impersonificarla, incarnarla” (M. Maraviglia, La penultina guerra, cit., pagg. 105-121), e quindi quel contenuto è Dio stesso, che non è un‟idea e non è perciò rappresentabile (M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Brescia, 1990, pagg. 248 sgg.). Il cattolicesimo di Schmitt, risolvendo nella dottrina politicistica della guerra universale la dottrina spiritualistica dell‟amore universale cristiano, porta a compimento dialettico la teologia romano-alessandrina, confermando a suo modo il rovesciamento nell‟opposto reale di ogni astratta posizione razionale. Ved. C. Marco, L’ordine pigro, cit., t. II, cap. XIV, pagg. 1001-1067.

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fondata sul) Mistero.498 Sarebbe stato pertanto insulso confutare la Weltanschauung pagana conservando l‟idea di Stato che ne rappresentava l‟oggettivazione reale. E così come la struttura imperiale romana franò all‟evidenza delle sue contraddizioni e alla maturazione delle sue ingiustizie, tutte riassunte nell‟accusa complessiva di idolatria dell‟amor mundi, parimenti era in crisi manifesta la struttura teologico-politica formata dall‟innesto “contro natura” dell‟ “ulivo selvatico” pagano nell‟ulivo sano cristiano.499 L‟elemento spurio dell‟innesto storico non era relativo alla potenza della struttura politica imperiale, ma alla giustificazione razionale e non escatologica del movente cristiano, teso ad affermare la salvezza della Chiesa identificata con quella di ogni suo singolo membro. Ma proprio le

498 Il conflitto amico-nemico, quale risvolto della polarità dialettica tra essere e nonessere, è esterno all‟unità composta della singolarità dell‟uomo in quanto non è armonizzata all‟interno della coscienza singolare, per cui la prevalenza dell‟elemento naturale su quello spirituale della personalità produce l‟inimicizia, che, primadi esser contro l‟Altro è rivolta contro il sé spirituale. Viceversa, la prevalenza nella coscienza dell‟elemento spirituale genera l‟amicizia, ossia il riconoscimento dell‟Altro che è in sé, del “prossimo”. La  interna a ogni coscienza, non può essere rappresentata nel suo processo, in quanto agisce in interiore homine in modo singolare e imponderabile, ossia misterioso, ma sono rappresentabili soltanto le proiezioni ideali dei due momenti, astratti dal processo della coscienza, facendo della Chiesa l‟immagine, appunto ideale, dello Spirito e dello Stato l‟immagine ideale della Natura che sono congiunte e confliggenti in ogni singola esperienza esistenziale dell‟uomo concreto. L‟unità, che i fiosofi ricercavano nell‟Idea, non può interessare la parte naturale dell‟uomo, che è tale proprio i quanto conflittuale, e dunque non può pervenire dalla politica negatrice dell‟Altro, ma interessa e può pervenir solo dall‟anima spirituale dell‟uomo, dunque come unità ecclesiale in senso evangelico, in cui la dimensione naturale-conflittuale viene superata dalla coscienza agapica, attravers la mediazione di Cristo, che costotuisce il paradigma alternativo all‟unità formale dell‟Idea razionale e all‟unità giuridirico-politica dello Stato. L‟unità spirituale tra gli umini duventa possibile in quanto lo Spirito è Uno e lo è in ogni singolo uomo. ed è questo il senso profondo dell‟unità divina, del monoteismo cristiano, che il razionalismo alessandrino ha inteso in senso idealistico e razionalistico nella sua teologia politica. La ragione è conflittuale e lo spirito è unitario, per cui dalla politica non può pervenire l‟unità ma solo il conflitto. A questo punto si comprende come la “decisione” di cui tratta Schmitt non sia altro che il Governo spirituale che conduce ad unità il molteplice politico-razionale delle relazioni naturali ossia conflittuali, che ogni tregua pattizia può momentaneamente sedare ma non trascendere né risolvere. 499 Agostino, in CD XXI 8.5, riprende un passo di Rm 11, 17-24. 186

ragioni del come se nascondevano la fallacia di quelle mondane e umane ragioni. Infatti il mondo in genere, compreso quello umano-naturale, essendo “creato dal nulla è a priori privato di un suo proprio essere”,500 e non è punto eterno, come invece pensavano i filosofi pagani, per cui tutto ciò che è terrenoè soggetto al divenire, è mutabile, ed è questa la ragione per la quale l‟uomo, di natura debole e imperfetta, ha bisogno della redenzione spirituale. La volontà spiritualizzata interrompendo il ciclo cosmico naturale lo destruttura ontologicamente, modificandolo nel senso moralmente redentivo di un nuovo ordine spirituale, costituito dai rinati in Cristo. Questa comunità di redenti cristiani è la Chiesa, non già lo Stato, che è la comunità naturale dell‟antropologia aristotelica, e che come tale non può durare per sempre. Frenare dunque l‟ordine costituito per paura del domani significa non coltivare la speranza cristiana nella provvidenza ma il culto idolatrico del prodotto umano: un ritorno al paganesimo. In tal senso, il culto schmittiano del Reich tedesco è anticipato dal culto cattolico della respublica christiana, prodotti entrambi della sacralizzazione idolatrica del Potere umano. “Proprio perché del tutto identificato cn l‟ontoteologico, il teologico-politico risulta del tutto riassorbito nel politico”. Infatti, ciò che interessa Schmitt è “soltanto la difesa dell‟ordine metafisico, politico e giuridico mondano”, con l‟evidente accezione totalitaria dell‟ideale politico, la cui universalità consiste nel “subordinare a sé qualsiasi altro valore, anche quello religioso”.501 Schmitt non si avvede che confinando la fede alla sfera privata il Potere politico ribadisce il suo carattere altro da quello della verità, destinandosi a ricercare la durata dell‟atto di forza, cioè la sua efficacia, in antitesi all‟eternità del giudizio morale. Ma l‟assolutismo del politico emancipato dal morale, rende la sua dicotomia oppositiva del tutto interna alla finitezza mondana, privandola di quella legittimità morale che per Agostino costituisce il tratto caratteristico deteriore della civiltà pagana, incapace di vedere il “tutto nel frammento” della singola esistenza umana. Solo Dio può “trasformare le nature”, l‟uomo invece può solo pervenire a trascendere la propria. Questo limite sostanziale della realtà umana acquista valore di monito sia nel campo teoretiche che in quello delle

500 Ved. K. Loewith, Significato e fine della storia, cit., pag. 186. 501 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 258.

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relazioni sociali in considerazione che “la vita dei mortali è di per sé tutta una castigo”,502 al quale l‟uomo da solo non può porre rimedio, poiché è conseguenza dell‟ “infame peccato compiuto nel paradiso terrestre”, e quanto l‟uomo della nuova alleanza cristana realizza di nuovo per riscattarsene appartiene alla speranza di poter “mortificare con lo spirito le opere della carne”.503 Ossia non c‟è alcun rimedio naturale che possa sanare il peccato d‟origine, salvo l‟espiazione spirituale attraverso l‟esempio di Cristo, Figlio di Dio che “rimanendo immutabile assunse da noi la nostra natura per assumerci in essa e conservando la propria atura si rese partecipe della nostra debolezza”, affinché partecipassimo del Suo bene eterno. Ed è questa partecipazione all‟eterno la vera “pace alla quale [l‟uomo] anela nelle lotte incessanti di qesta guerra, in cui la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito alla carne”.504 Ecco il senso dell‟intestina escatologia, del trascendimento della dimensione naturale nella quale si manifesta il conflitto delle opposte tensioni, che alla sapienza profana possono apparire quelle della dialettica oggettiva del pensiero razionale, ma che in realtà sono di natura ontologica, e pertanto non risolvibili in alcuna sintesi pacificatrice che non sia alla fine dei tempi. Nel tempo, dunque, il conflitto naturale non è redimibile all‟interno del suo orizzonte esistenziale da alcun remedium politico-giuridico-razionale, ma solo trascendibile mercé l‟intervento della grazia, che, consentendo all‟uomo la metanoia spirituale, gli consente di superare la logica del “predominio” per pervenire al piano della coscienza agapica, alla “vera virtù che si ha nella fede in Cristo […] il Mediatore di Dio e degli uomini, che si è reso partecipe della nostra mortalità per renderci partecipi della sua divinità”.505 Proprio la teoria schmittiana del politico e della sua pretesa nomotetica totalitaria illuminano significativamente sui termini, contenutisticamente indifferenti, della sistematica razionalizzazione universalistica della tecnica dialettica dell‟esclusione, che, assurta a  di conoscenza e di giudizio, ed emancipandosi dalla paternità del suo fondamento di fede, non riconosce più alcun limite, pretendendo l‟onnipotenza che è solo

502 Agostino, CD, XXI, 14. 503 Agostino, CD, XXI, 15. 504 Ibidem. 505 Agostino, CD, XXI, 16.

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divina. La filiazione mitica del logos trovava nel nomos la sua sanzione politica e nella religio la sua legittimazione sacrale. La rescissione razionalistica del legame mitico ha assorbito il sacrum nel nomos e trasvalutato questo nel rito della legislazione. Ma la costituzione cristiana del Mistero come fondamento del Logos divino, destruttura il sistema mito-logo-poietico antico svalutandone sia l‟intima sacralità, ritenuta fabulosa, che la possibilità correttiva delle umane debolezze attribuita alla socialità. Agostino, infatti, criticando la tripertita theologia di Varrone506 sostituisce il fondamento di verità rivelata all‟equilibrio tradizionale delle rappresentazioni del divino, inutili per il filosofo, indispensabili per l‟incolto. “Estendendo a tutti la possibilità di un incontro con il divino nell‟uomo interiore, che di Dio porta l‟impronta più e meglio del cosmo stesso, che proprio per l‟uomo è stato creato, l‟antropocentrismo cristiano spazza via, con la necessità del nomos teologico-politico, la distinzione tra i molti e i pochi, tra i veri sapienti e il volgo”.507 Ciò non perché la visione cristiana aderisse a un insensato e astratto egalitarismo, ma per la ragione più semplice e più profonda che le differenze sociali e qualitative di ognuno non avevano rilevanza nell‟ambito spirituale, nel quale ciò che contava non era la rappresentazione della realtà di cui era diversamente capace ogni uomo, e dunque la sua attitudine noetica, ma l‟esperienza di vita espressa nella sua storia esistenziale, in relazione al grado di prossimità al modello divino. Nel momento in cui diventa rilevante la storia personale dello spirito umano, che continua anche post mortem, l‟immagine pubblica dell‟uomo, secondo il criterio umano della sua posizione nel mondo, perdeva tutta la sua pregnanza agli occhi della fede, e con essa ogni teologia politica, che è “teologia del visibile”.508 La questione teologico-politica si presenta con la necessità di destinare alla Chiesa una sua immagine formale, cioè istituzionale, e spirituale, cioè mistica, “distinta da quelle politico-civili tradizionali, con ciò venendosi concretamente a collocare nelle dinamiche dell‟esperienza mondana” e determinando così un rovesciamento “nel rapporto con il

506 Agostino, CD, VI, passim. 507 M. Rizzi, Teologia politica: la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione, in Il dio mortale, cit., pagg. 282-283. 508 M. Rizzi, Teologia politica, cit., pag. 285. 189

visibile”, tale che “è la rappresentazione terrena del tempio celeste a determinare l‟ordinamento della chiesa sensibile”. [Ivi, pagg. 288 e 290.] Posto che la Chiesa visibile il tòpos della manifestazione della realtà spirituale oggettiva, anziché l‟interiorità della coscienza il luogo della testimonianza soggettiva,509 resta incerto per Agostino se sia sulle macerie della Chiesa che si rivelerà l‟Anticristo di 2Tes, 4, oppure se egli si sostituirà alla Chiesa, ovvero se sia una “moltitudine di uomini che a lui appartiene come capo”.510 In ogni caso, pur attribuendo all‟Impero romano l‟allusione di Paolo a chi trattenga l‟Anticristo e alla perseveranza dei sinceri cristiani il disvelamento della falsa fede di quanti si nascondono nella Chiesa ma sono pronti a ubbidire a Satana,511 Agostino assicura che “Cristo non verrà a giudicare i vivi e i morti, se prima non verrà il suo avversario, l‟Anticristo, a trarre in errore i morti nell‟anima”.512 Agostino sposta la fonte della legittimazione del Potere politico dall‟Imperium di Roma, ossia dalla sua tradizione, all‟auctoritas divina, inserendo la potenza romana entro l‟economia della salvezza

509 “Visibilità, mediazione e carattere pubblico della presenza rappresentata: queste sono state le caratteristiche specifiche della rappresentazione cattolica che si è contrapposta ad gni connotazione del trascendente in termini di „totalmente altro‟ e di Deus absconditus, ad ogni pretesa di immediatezza carismatica dello Spirito e ad ogni privatizzazione della relazione Dio/uomo in interiore homine. Rappresentazione in senso cattolico ha significato, al contrario, dare presenza alla persona dell‟Assente nella concreta visibilità del „successore apostolico‟, nel carisma d‟ufficio giuridicamente connotato; da questo punto di vista, la rappresentazione cattolica ha costituito il modello archetipico dell‟istituzione europea. E‟ attraverso tale concetto che si sono tracciati i caratteri peculiari del rapporto trascendente/mondo nell‟eone cristiano, caratterizzato da un fondamento teistico e non dall‟immediata identità di divino e cosmo come nell‟eone antico. La rappresentazione di un‟assenza mantiene un‟incolmabile distanza tra rappresentante e carattere trascendente del rappresentato. Senza Incarnazione non sarebbe stata possibile alcuna rappresentazione e senza cristianesimo non si sarebbe data alcuna autorità teologico politica. […] Solo la teologia teistica cattolica ha potuto sviluppare una centralità del concetto di autorità, quale presenza dell‟eterno sul mondo. Rappresentare non ha significato semplicemente rendere visibile l‟invisibile, ma tradurlo istituzionalmente in autorità sulla condizione del tempo”: Epimeteo, Finis Europae. Una catastrofe teologico politica, Napoli, 2007, pagg. 23-24 e 27. 510 Agostino, CD, XX, 19.2. 511 Agostino, CD, XX, 19.3. 512 Agostino, CD, XX, 19.4.

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escatologica, privando così l‟esperienza mondana della conquista del mondo conosciuto dalla sua presunta assolutezza ed eternità. La forma romano-imperiale, quale ratio politico-istituzionale del mondo civilizzato, diventava funzionale al telos soteriologico della fides cristiana, in nome della quale assumeva senso storico-religioso l‟impegno della Chiesa al mantenimento delle strutture di potere profane quale argine alla dissoluzione della civiltà cristianizzata. Tale impegno ostativo al disfacimento caotico è ciò che si intende per  come “forza qui tenet” di 2Tes, la forza frenante “in grado di trattenere la fine del mondo […] contro lo schiacciante potere del male”.513 L‟Anticristo è l‟informe forza spersonalizzata dello Spirito in funzione soteriologica, che usurpando il governo paterno del Verbo, nega anche la realtà trascendente del Figlio a favore di una assoluta mondanizzazione del Regno. Egli elegge a nemico l‟ordine trinitario, misconoscendone la funzione rappresentativa del potere istituzionale e di converso della sua forza frenante. Tale forza, nondimeno, non era quella del Potere politico qui talis, incarnata dal Cesare (= cesarismo come unitarismo del Potere contro la frammentazione della delle spinte nazionali o sociali) ma dell‟imperium christianum, il quale, rispetto alla potestas di quello romano pagano, aveva l’auctoritas del sacerdotium, ossia la legittimazione sacrale della fede in Cristo (il monarca imperiale rappresentante e custode dell‟ordine divino).514 La “unità dinamica e conflittuale” della potestas dell‟imperium e dell‟auctoritas del sacerdotium costituivano “il proprium della costruzione politica medievale”, che entra in crisi “con la separazione delle due istituzioni di

513 C. Schmitt, Der Nomos der Erde, tr. it. cit., pagg. 43-44. 514 “Il cristianesimo ha significato per l‟Europa l‟instaurazione di un fondamento trascendente di autorità e una sua configurazione spaziale. Lo spazio europeo è sorto sulla base del concetto teologico politico di istituzione. Il principio dell‟Ecclesia vivit lege romana ha senza dubbio costituito un elemento discriminante, ma il nucleo metafisico è sempre rimasto l‟evento dell‟Incarnazione del Padre tramite il Figlio. Questo è stato il centro dell‟Europa, il suo asse portante, la sua natura specifica. Da tale centro è dipesa la formazione di uno spazio e non vicevesa; non si sono rivelati eterminanti confini naturali o nazionali, ma il  del dogma trinitario ha tracciato e consacrato una frontiera”: Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 65. In tal senso, l‟istituzione imperiale connessa a quella ecclesiale costituiva il modello ordinamentale specifico della civiltà europea cristiana.

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Chiesa e Impero, avvenuta nel XIII secolo, attraverso la loro definizione di societates perfectae ed autonome”, preludendo al “superamento del Medioevo”.515 Nella costituzione della respublica christiana l‟imperium ispirato dalla fede escatologica non era, come si è detto, una mera potestas politica, fondata sulla forza, ma era “un incarico proveniente da una sfera radicalmente diversa da quella della regalità”,516 in quanto tributario di “caratteri innegabilmente spirituali e religiosi, e riguardava la funzione escatologica dell‟autorità civile, appunto la sua funzione catechontica”, la quale presupponeva “l‟unità delle due sfere dell‟autorità spirituale e del potere temporale, unità certamente differenziata al suo interno, e quindi complessa, dinamica e conflittuale, ma che permetteva comunque un collegamento e una relazione profonda”, costituendosi come “tramite della compatibilità tra storia ed escatologia”.517

6. La dicotomia, o se vogliamo la dialettica, di realtà naturale e ordine morale è possibile individuarla in interiore homine oppure tra enti politicamente organizzati, cioè tra collettivi sociali. Il conflitto interiore assegna alla sfera dell‟invisibile la risoluzione dell‟agire conforme a una delle due tendenze, per cui l‟azione umana manifesta la deliberazione in uno o altro senso. Viceversa, l‟oggettivazione sociologica del conflitto tra entità politiche organizzate ne destina la soluzione all‟esito dello scontro, alla conseguenza del bellum. Nel caso individuale, la fenomenologia storica è concentrata sui facta, oggetto del giudizio dell‟interprete sulla loro essenza razionale; nel caso collettivo, di contro, il giudizio di valore è assegnato impersonalmente dall‟esito stesso della lotta, cioè dal risultato oggettivo ottenuto dalla prassi bellica. Qui il giudizio si concentra sulla fattibilità dell‟intenzione, anziché sul factum dell‟azione individuale, lasciando perciò indeterminato il giudizio in quanto non determinabile il processo avvenimenziale dei facta collettivi. Ed è esattamente tale indeterminazione avvenimenziale a procrastinare il “giudizio universale” alla “fine dei tempi”, ossia al termine dei processi storici collettivi, mentre restano alla portata del giudizio fattuale le vicende dei singoli uomini, di cui è possibile misurare le conseguenze

515 M. Maraviglia, La penultina guerra, cit., pag. 243. 516 C. Schmitt, Loc cit., pag. 46. 517 M. Maraviglia, Loc. cit., pagg. 244 e 249. 192

reali. La filosofia, quale criterio di giudizio universale, si propone di far diventare oggetto della sua analisi razionale i singoli avvenimenti umani, assegnando loro un valore appunto “universale” che essi, in quanto tali, non hanno, e trasformandoli perciò in realtà simboliche. La differenza tra il valore effettuale dell‟agire umano e il suo valore simbolico stabilisce la distanza tra il livello di coscienza naturale e il livello di coscienza ideale dell‟uomo. Ma in cosa consiste tale differenza? Cos‟è il naturale, cosa l‟ideale? “Naturale” è il comportamento che persegue l‟istinto della sopravvivenza e che pertanto pone il proprio sé come fine di ogni azione e di ogni agire. L‟Altro, nella prospettiva naturalistica, è visto come l‟ostacolo ovvero lo strumento della vita. Ogni cosa vivente è in funzione della vita e tutto è in funzione di tutti. Qui l‟esistenza è ripiegata su se stessa, senza barlumi di trascendimento della vita biologica, segnata dalla lotta universale alla sopravvivenza. L‟essere della natura è tutto e solo in ciò che è, nella sua assoluta immanenza. Non c‟è disegno, né scopo ulteriore alla affermazione dell‟esistenza. Per la loro regolarità e prevedibilità, i fenomeni naturali devono essere dapprima adottati per poi essere adattati alla vita umana, rispetto alla quale essi sono funzioni strumentali. Questa conversione dei fenomeni naturali dallo scopo spontaneo al fine umano è opera della ragione strumentale, che costruisce un mondo umano dalla congerie dei fenomeni naturali, qualificandolo per il suo fine specifico di servire l‟uomo. L‟umanizzazione della natura costituisce la sua razionalizzazione in mondo. Il mondo umano è quella porzione di natura razionalizzata e trasformata in tòpos culturale. Il mondo è il luogo della natura culturalizzata dall‟agire dell‟uomo. Ma l‟agire funzionale non è che un servizio reso dall‟uomo alla stessa natura, poiché l‟impegno profuso a dominarla l‟assume comunque come antagonista imprescindibile, ossia come la necessità della vita umana. La dimensione alla quale l‟uomo è legato imprescindibilmente, lo comprende nella sua necessità di essere naturale. L‟uomo, da essere naturale, lotta per affermare sé contro le forze della natura. Esso è dentro tali forze naturali come una delle tante forze che si ostacolano e si combattono. La natura dunque è il regno della lotta di tutti contro tutti, il luogo del pòlemos. La ragione polemica consiste appunto nel distinguere ciò che avversa l‟uomo da ciò che l‟aiuta a vivere, in quanto addomesticato o innocuo. La distinzione primordiale tra l‟amico e il nemico dell‟uomo è la funzione primaria della ragione strumentale che agisce entro le forze 193

cieche della natura. Il principio distinguente è la luce della ragione umana che diventa cultura, sapere tràdito, tradizione. La tradizione è il modo culturale di rapportarsi alla natura vincendone le forze funzionali all‟esistenza umana. La natura, rispetto alla varietà dei modi culturali di assevirla, è l‟Essere che non muta e che tutto comprende, da cui tutto viene e tutto ritorna. In considerazione della inevitabile morte dell‟uomo, che pure ha vinto momentaneamente la natura, l‟esistenza umana appare tanto preziosa quanto assurda. Preziosa, in quanto asservisce la natura ai suoi scopi pratici; assurda, in quanto soccombe di fronte all‟Essere naturale. L‟inganno leopardiano della madre che si rivela matrigna rappresenta il destino stesso dell‟uomo come essere naturale. Il modo di uscire dalle tenebre dell‟ingannevole esistenza naturale è quello di pensare l‟uomo emancipato dalla necessità delle forze della natura, quale essere spiritualmente libero, non soggetto quindi alla fatalità della morte. Rimuovere l‟ostacolo naturale della morte, significa per l‟uomo acquisire un‟essenza divina. Finquando tale essenza rimane di carattere nominale, essa può essere identificata con ogni essere di natura, che in virtù di tale identificazione viene divinizzato, sia una cosa, un animale o un essere umano. Gli dèi non sono che proiezioni naturalistiche di tale identità immortale. L‟idealismo greco appartiene a questa fase del pensiero umano, a questo orizzonte di coscienza naturalistico. Esso infatti concepisce l‟Idea come un ente di natura dotato di qualità divine: immortalità, perfezione, unità, etc. Entro l‟orizzonte identitario idealistico il valore di ogni ente è la sua appartenenza all‟Unità dell‟Essere che tutti li comprende e che costituisce il valore massimo. Tutto ciò che è riportabile all‟unità essenziale ha valore, il resto è negativo, non-essere. Col Cristianesimo nasce la frattura della coscienza umana dalla natura attraverso il suo trascendimento. Non si tratta più di pensare l‟ente come essere divino, ma di pensare il divino come Altro dall‟Essere naturale, e quindi dallo stesso uomo in quanto essere inscritto nella necessità della natura. Non più la forza divina come super-umana, ma come altra rispetto all‟umano. E poiché l‟esistenza naturale, compresa quella umana, è carattrizzata dalla lotta per la sopravvivenza, cioè dal polemos, la forza divina altra da quella naturale non è ciò che soverchia l‟altro ma ciò che l‟include senza annientarlo come Altro, ossia lo ama nel suo essere Altro da sé. La divinità intesa come alterità rappresenta il mondo, non più come forza maggiore, ossia potenza, ma come espressione simbolica 194

dell‟eterno, di ciò che è altro dall’essere naturale. Tale pensiero dell‟Altro dall‟essere naturale, se supera l‟idolatria dell‟ente tributario di divinità, divinizza l‟Idea quale simbolo dell‟universalità, unità ed eternità ontologica, non trascendendo del tutto quindi dalla concezione della dvinità come suprema potenza. Il Dio dei filosofi è un‟Idea di Dio, un simbolo dell‟Uno eterno. La conseguenza dell‟assunzione del punto di vista simbolico quale criterio di giudizio delle azioni umane è di assegnare ad esse un valore assoluto e dunque autonomo dalla complessiva esperienza esistenziale dell‟autore, che perde ogni realtà di fronte all‟unica considerazione delle sue azioni. Entro questo orizzonte di coscienza, l‟elemento rilevante è il fenomeno, e non il travaglio esistenziale che l‟ha determinato così e non altrimenti, per cui ogni giudizio di valore non è altro che lo stesso valore riconosciuto nel fenomeno che lo rivela, ossia è una tautologia in cui l‟essere degli enti è lo stesso Essere di cui gli enti sono realtà fenomenica. Questa modalità simbolica di concezione della realtà è propria della filosofia, ossia del razionalismo idealistico, che vede nei fenomeni ideali la stessa Idea che li riconosce come tali. Ed è la stessa modalità che, trasferita in ambito reigioso, consente di vedere lo Spirito o Dio stesso in ogni singola creatura umana, con la conseguenza di sacralizzare la persona umana negandole ogni concretezza esistenziale, abolendo, alla stregua idealistica, la differenza tra la dimensione divina e la dimensione creaturale. Orbene, l‟estensione in senso universale di questo orizzonte di coscienza idealistico ai fenomeni collettivi è all‟origine teoretica della teologia politica, ossia della considerazione simbolica dei processi storici dei gruppi sociali politicamente organizzati in termini di elementi della dialettica spirituale in lotta reciproca per affermare il Bene contro il Male. Tale universalizzazione idealistica del livello di coscienza simbolica è possibile solo a condizione di rimuovere la differenza ontologica tra il piano di realtà effettuale o storico e il piano di realtà escatologico, unificando e confondendoli in una stessa fenomenologia storicospirituale, originariamente assegnata solo alle singole esperienze esistenziali dell‟uomo quale testimone della fede, e non alle astratte collettività socio-politiche. La rimozione della differenza ontologica consiste nel disconoscimento nella realtà umana di ciò che non appare, ossia del Mistero dell‟esistenza umana, che precede ogni singola azione dell‟uomo e che è all‟orizzonte delle azioni collettive, ossia dei processi storici. Considerando rilevante per il giudizio razionale solo ciò-che-è, 195

ossia il fenomeno attuale, l‟agire umano viene reciso da ogni legame con il trascendente e concatenato ai soli avvenimenti empirici, moralmente neutri e perciò giudicabili secondo l‟arbitrio interessato dell‟interprete. Ne consegue che la teologia politica, eliminando la differenza tra il piano della coscienza individuale e quello della realtà fenomenica, rimuove anche la differenza tra la fede in Dio e l‟obbedienza a Cesare, con tutto ciò che ne consegue sulla determinazione dei rapporti umani. A partire dal misconoscimento del proprium della realtà assegnata a Cesare, cioè della dimensione di vita naturale, il “destino” che per Kierkegaard incombe sull‟uomo che per Hobbes era lo status naturae e che Schmitt denomina “il politico” ciò che per gli antichi Greci era il polemos, il conflitto, la possibilità che l‟uomo uccida l‟altro uomo. Da questa consapevolezza nasce la necessità di regolamentare il male, ossia l‟offensività potenziale dell‟uomo, in termini razionalmente accettabili.518 Da questa normazione nasce il giudizio di “pericolosità” dell‟uomo, che non ha alcun significato immediatamente politico, in quanto non indica una posizione bellicistica, ma solo una determinazione morale, che legittima l‟esistenza dello Stato.519 Ma il giudizio morale consiste nel definire come politico quanto non compreso nell‟essere dello Stato quale realtà etica, che dunque dev‟essere presupposta all‟esistenza politica. non in senso temporale, ma in senso appunto morale. E‟ l‟essere morale che definisce l‟essere naturale come dinamica del politico, e quindi il politico come l‟essenza dinamica dell‟essere naturale. Ma se tale essere naturale non viene trasceso da un punto di vista altro da quello dell‟ontologia naturalistica dell‟idealismo classico, il politico rimarrà la condizione insuperabile entro quell‟orizzonte di coscienza. Infatti, la soggettivazione dell‟agire storico come azione individuale, perdendo ogni riferimento istituzionale col trascendente, lo relegava nell‟intimità in-mediata della coscienza, facendo dello Stato una proiezione idealistica di luogo dell‟universale eticità, ossia di una sua rappresentazione mitologica,

518 “Schmitt contrassegna come presupposto ultimo della posizione del politico la tesi della pericolosità umana: quanto ferma è la pericolosità umana tanto lo è la necessità del politico”: L. Strauss, Anmerkungen zu C. Schmitt, Der Begriff des Politischen (1932), in G. Duso (a cura), Filosofia politica e pratica del pensiero, Milano, 1988, pag. 324. 519 Ivi, pag. 325.

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spacciata come realismo politico. 520 L‟uomo, da essere naturale, lotta per affermare sé contro le forze della natura. Esso è dentro tali forze naturali come una delle tante forze che si ostacolano e si combattono. La natura dunque è il regno della lotta di tutti contro tutti, il luogo del pòlemos. La ragione polemica consiste appunto nel distinguere ciò che avversa l‟uomo da ciò che l‟aiuta a vivere, in quanto addomesticato o innocuo. La distinzione primordiale tra l‟amico e il nemico dell‟uomo è la funzione primaria della ragione strumentale che agisce entro le forze cieche della natura. Il principio distinguente è la luce della ragione umana che diventa cultura, sapere tràdito, tradizione. La tradizione è il modo culturale di rapportarsi alla natura vincendone le forze funzionali all‟esistenza umana. La natura, rispetto alla varietà dei modi culturali di assevirla, è l‟Essere che non muta e che tutto comprende, da cui tutto viene e tutto ritorna. In considerazione della inevitabile morte dell‟uomo, che pure ha vinto momentaneamente la natura, l‟esistenza umana appare tanto preziosa quanto assurda. Preziosa, in quanto asservisce la natura ai suoi scopi pratici; assurda, in quanto soccombe di fronte all‟Essere naturale. L‟inganno leopardiano della madre che si rivela matrigna rappresenta il destino stesso dell‟uomo come essere naturale. Il modo di uscire dalle tenebre dell‟ingannevole esistenza naturale è quello di pensare l‟uomo emancipato dalla necessità delle forze della natura, quale essere spiritualmente libero, non soggetto quindi alla fatalità della morte. Rimuovere l‟ostacolo naturale della morte, significa per l‟uomo acquisire un‟essenza divina. Finquando tale essenza rimane di carattere nominale, essa può essere identificata con ogni essere di natura

520 Campioni di tale storiografia idealistica sono la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e la Storia d’Europa nel secolo decimonono di B. Croce, in cui il resoconto drammatizzato degli avvenimenti storici viene trasvalutato in intemporale racconto mitico, dove la coscienza critico-politica dell‟autore fa le veci del giudizio universale del Deus absconditus che aveva lasciato allo storico la responsabilità vicaria di attribuire alla realtà oggettiva il bene (la libertà presente) e il male (la rivoluzione futura). L‟esito di tali rappresentazioni fu la rimozione della realtà del negativo, ossia la incomprensione razionale della rivoluzione industriale e di quella nazionalistica, espressioni di quella culturale dell‟Europa post 1848 che si andava emancipando dalla struttura teologicopolitica che aveva retto le sorti della sua civiltà per un millennio.

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Il modo di uscire dalle tenebre dell‟ingannevole esistenza naturale è quello di pensare l‟uomo emancipato dalla necessità delle forze della natura, quale essere spiritualmente libero, non soggetto quindi alla fatalità della morte. Rimuovere l‟ostacolo naturale della morte, significa per l‟uomo acquisire un‟essenza divina. Finquando tale essenza rimane di carattere nominale, essa può essere identificata con ogni essere di natura, che in virtù di tale identificazione viene divinizzato, sia una cosa, un animale o un essere umano. Gli dèi non sono che proiezioni naturalistiche di tale identità immortale. L‟idealismo greco appartiene a questa fase del pensiero umano, a questo orizzonte di coscienza naturalistico. Esso infatti concepisce l‟Idea come un ente di natura dotato di qualità divine: immortalità, perfezione, unità, etc. Entro l‟orizzonte identitario idealistico il valore di ogni ente è la sua appartenenza all‟Unità dell‟Essere che tutti li comprende e che costituisce il valore massimo. Tutto ciò che è riportabile all‟unità essenziale ha valore, il resto è negativo, non-essere. Col Cristianesimo nasce la frattura della coscienza umana dalla natura attraverso il suo trascendimento. Il miracolo dell‟Incarnazione dell‟Eterno (Dio) nel tempo (umanità), stabilendo una conciliazione tra l‟Essere divino e la realtà finita attraverso la mediazione del Cristo, ne afferma al contempo la insuperabile differenza ontologica, confutando il principio di identità e non contraddizione che è a fondamento della metafisica naturalistica greca, ripresa in età moderna da Spinoza. L‟identità di Essere ed ente, che il naturalismo poneva come principio razionale di realtà, viene assunto dal pensiero cristiano come evento eccezionale e miracoloso, punto universale. Non si tratta più di pensare l‟Essere dell‟ente come divino, ma di pensare il divino come Altro (l‟Eterno) dall‟Essere naturale (temporale), e quindi dallo stesso uomo in quanto essere inscritto nella necessità della natura. Non più la forza divina come super-umana, ma come altra rispetto all‟umano. E poiché l‟esistenza naturale, compresa quella umana, è carattrizzata dalla lotta (polemos) per l‟affermazione dell‟identità ontologica e la negazione della contraddizione dualistica, cioè della differenza ontologica, la forza divina altra da quella naturale non è ciò che soverchia l‟altro omologandolo al sé, ma ciò che l‟include comprendendolo senza annientarlo come Altro, ossia lo ama nel suo essere Altro da sé. La divinità intesa come alterità rappresenta il mondo non più come forza maggiore, ossia potenza, ma come espressione simbolica dell‟Eterno, di ciò che è Altro dall‟essere naturale. Tale pensiero dell‟alterità, se supera l‟idolatria dell‟ente 198

tributario di divinità, e quindi confuta il politeismo antico, adottando però il principio identitario della logica naturalistica, finisce per divinizzare l‟Idea quale forma dell‟universalità e unità ontologica, non liberandosi del tutto quindi dalla concezione pagana della divinità come suprema potenza (dynamis). Il Dio dei filosofi è un‟Idea di Dio, un‟immagine dell‟Unità razionale del Molteplice, ma non è il Dio trascendente del dogma trinitario. E adorare il simulacro () di Dio, è idolatria anch‟essa. La visione naturalistica dell‟uomo è al fondo una concezione bellicistica, che legittima razionalmente la teoria dello Stato come luogo della regolamentazione del politico e il cui limite teoretico è simmetrico a quello della visione spiritualistica che è all‟origine della concezione pacifistica della convivenza umana. Le opposte concezioni hanno in comune l‟astratta universalità delle loro visioni ideali, e la conseguente oggettivazione di un elemento esistenziale dell‟esperienza umana a scapito della negazione dell‟altro, sicché, se lo statalismo riduce tutta l‟esperienza umana a politica, lo spiritualismo conduce all‟anarchia individualistica. Entrambe sono visioni unilaterali, in quanto prive della conoscenza della concreta esistenza umana, che si alimenta della dialettica dei due compresenti elementi, e quindi la loro unilaterale rappresentazione antropologica, pur se “reale”, basandosi su dati di fatto, non è “vera”, anche se, in virtù di quei dati di fatto, non è del tutto falsa. E ciò che è indistntamente vero e falso è il contenuto del Mito, del quale la stessa filosofia greca è una rielaborazione logicamente coerente, ma pur sempre mito-logica, in quanto ha inteso la verità della realtà dell‟uomo nei termini dell‟universalità dell‟Idea, e la concretezza esistenziale in termini di una corrispondenza dell‟esistenza all‟essenza ideale. Questa è la ragione per cui il contrasto tra le due dimensioni ontologiche della coscienza umana è stato inteso razionalisticamente come solo travaglio morale se interiore, mentre se esteriore e fattuale solo come conflitto politico, secondo il principio fallace della “doppia verità”, in sé contraddittorio, in quanto l‟ammesso pluralismo elimina la differenza tra ciò che è vero e ciò che è solo creduto, e quindi il principio di stesso di realtà come identità di essere ed esistenza. Se l‟elemento fattuale viene distinto, in quanto oggettivo, dal principio morale soggettivo, e inteso nel senso della assolutezza universale, il valore politico risulterà comprensivo del conflitto morale di ogni singola coscienza, per cui la forza del suo principio essenziale, il polemos, sarà di 199

conseguenza l‟unica legge che governa il cosmo, sia la realtà naturale che il mondo umano. Se, viceversa, è il conflitto morale che viene oggettivato in entità formali, allora ogni lotta politica perde il suo valore fattuale contingente e relativo, e quindi componibile entro una visione comprensiva delle singole istanze partciolari, per assumerne uno assoluto e appunto morale, incomponibile senza apparire ignobile. Politicizzando la morale, la si nega come valore universale, mentre moralizzando la politica, la morale perde il suo valore essenziale di determinare il limite eterno insuperabile dalla forza contingente, facendo di questa una potenza illimitata, sacrilega in quanto a imitazione di quella divina. Soltanto la coscienza della differenza irriducibile del piano morale, interiore ma eterno, dal piano naturale dei contrasti politici legati ai bisogni materiali, può garantire un rapporto di giustizia nella verità che nessuno dei due astratti elementi può da solo assicurare. Infatti, ogni aspetto della vita naturale non può mai comprendere il “giusto” o il “buono”, né tanto meno rappresentarlo se non simbolicamente, cioè per analogia, ma mai sostanzialmente, perché trascendente. E poiché il piano coscienziale appartiene evangelicamente a Dio, esso non è negoziabile né coercibile, come invece è sempre il piano relativo dei rapporti umani, il cui conflitto è perciò sempre sanabile con la buona volontà. Ogni identificazione del valore eterno con la cosa che idealmente la simboleggia sarebbe pertanto idolatria quanto la venerazione di un uomo come Dio, scambiando Cristo con un Imperatore. La negazione razionalistica del fondamento fideistico, così come la kenosis del Padre nella figura razionalizzata del Figlio e nella conseguente cristologia storicistica, provocano una surrettizia riabilitazione del Mito, il quale “tende a sostituirsi alla persona trascendente, esaurendola in sé e impossessandosi della sua autorità fondativa”, non limitandosi “a riprodurla” ma assumendosene “i poteri”.521 Ciò comporta che la tensione dialettica non è più tra alterità interne a una stessa matrice ontologica, ma tra diversità uni-versalizzate e concepite come espressione reale di una intrinseca dialettica la cui polarità negativa è il Nulla, rispetto al quale ogni astratta determinazione positiva viene radicalizzata dalla sua stessa assolutezza. Si apre in questo modo lo spazio dialettico del politico, che sin dalle origini greche si

521 Epimeteo, Finis Europae, Napoli, 2007, pag. 230. 200

determina come confine antropologico in lotta con il negativo trascendente la propria mondana positività. “Al tempo storico senza Dio” della moderna società secolarizzata, la rappresentazione negativa dell‟Altro assume la fisionomia estremistica del nemico ideologico, il negativo assoluto inconvertibile alla propria causa positiva, mentre “il trascendente”, reinterpretato in chiave di immanente processualità infinita, “non funge più da elemento costitutivo, ma da forza motrice dell‟agire mitico”,522 sicché “la teologia priva della mediazione politica si rovescia in mito, la politica senza un referente teologico genera guerra civile”.523 Il moderno processo di civilizzazione non è altro che la traduzione sociologico-istituzionale del movimento di razionalizzazione anti-dogmatica dei fondamenti teologici della cultura europea e la loro parallela sostituzione con nuovi statuti mitico-politici. Compromesso “l‟ancoraggio trascendente, […] le istituzioni si consolidavano nel loro meccanismo di autotutela quali gabbie razionalizzate, così come i valori decadevano da ogni loro pretesa metafisica. Lo spazio europeo, sempre rimasto intimamente estraneo al concetto di mondo, mostrava esaurita la propria forza istitutiva teologico politica”.524 Da quanto affermato, ne consegue che l‟immagine dell‟Altro che è in noi è una ipostatizzazione di uno degli elementi costitutivi della coscienza umana, che si mostra “amicus” nell‟atto della conciliazione di sé col mondo esterno, e viceversa “hostis” nel caso del conflitto della contraddizione. L‟amicizia, pertanto, è l‟appartenenza organica alla dimensione naturale, entro la quale il conflitto è condizione spontanea e innocente, perché inscritta nell‟ordine della necessità della sopravvivenza. In tal senso, l‟inimicizia è il rapporto conflittuale con l‟Altro, estraneo all‟ordine spontaneo del gruppo biologico, che insidia il proprio status naturae. L‟articolazione della dialettica politica sorge all‟interno del gruppo umano, in cui la divisione tra sottogruppi insorge come possibilità di una diversa destinazione razionale della vita sociale, e dunque all‟interno di una realtà emancipata dal destino naturale. In tal senso, il destino del conflitto politico è tanto poco naturale quanto esso sia razionale. Di contro, esso è proprio della condizione della possibilità,

522 Ivi, pag. 231. 523 Ivi, pag. 235. 524 Ivi, pag. 233.

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e dunque della libertà umana, e quando Schmitt considera quella del politico come la condizione conflittuale “naturale” dell‟uomo, in contrapposizione a quella “civile” hobbesiana della pacificazione, in realtà la situa in un ambito in cui la natura umana è già cultura, in quanto interna alla possibilità che manca alla condizione di necessità propria dello stato naturale. Posta la condizione umana come intrinsecamente conflittuale, il “giusto” (aequus) è il contemperamento delle due tendenze attraverso il reciproco riconoscimento, mentre l‟ “ingiusto” (iniquus) è l‟indebita prevaricazione dell‟uno sull‟altro, che crea “disordine” (), contro il quale deve intervenire un provvidenziale “potere frenante” (), che stabilisce il Governo morale sull‟operare dell‟uomo. La proiezione sociale di tale Governo morale è l‟ordinamento ecclesiale, che affianca il Potere dello Stato nella regolamentazione del conflitto tra i gruppi politicamente concorrenti. Lo “hostis” in senso schmittiano “non è il concorrente o l‟avversario in generale [ma] è solo il nemico pubblico”,525 cioè riconosciuto come l‟Altro dalla comunità morale, che lo qualifica come “colui che esprime la negazione del modo di esistere di un altro”.526 E la esprime nel modo politico, ossia relativo alla determinazione razionale dell‟affermazione-negazione, secondo quindi una idea di socialità, che non va confusa con il valore morale. La modalità di esistenza dell‟uomo storico può essere cambiata, essendo qualità del suo divenire temporale, per cui la “negazione” modale è l‟oggetto della  politica. Ciò che invece non può essere cambiato, e perciò non è oggetto di contesa, è l‟essere dell‟ “altro” come persona spirituale e creatura divina. Questo riconoscimento implica la trascendenza dell‟Essere spirituale, non confondibile con l‟idea naturalistica di unità del molteplice, quale la sostanza di Spinoza. Infatti, la compresenza di natura () e spirito () non annulla la loro differenza, che è la differenza tra Dio e l‟uomo, ma implica la mediazione del Cristo, che, quale Persona divina, è fondamento della persona umana. Ed è la mediazione di Cristo a impedire il rapporto diretto di Dio con l‟uomo, ossia la loro confusione idealistica, che a nnullando la separazione tra Creatore e creatura porterebbe una

525 C. Schmitt, Glossarium (1991), tr. it., Milano, 2001, pag. 111. 526 M. Nicoletti, Sul concetto di “Teologia politica” in Carl Schmitt, in Il dio mortale cit., pag. 340.

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cristologia monofisita e alla conseguente divinizzazione razionalistica dell‟uomo (homo homini Deus). L‟unità di Dio, pensata come Idea naturalistica, è potenza infinita che si riflette nell‟ordine necessario del cosmo razionale come necessità della realtà sostanziale totale, in cui, come in Spinoza, “realtà e perfezione si sovrappongono”. “Sostanza significa allora il complesso delle leggi e delle relazioni necessarie dei modi che seguono all‟unità”, così come “all‟identità ella sostanza fa riscontro un cosmo composito, in cui ogni soggettività appare modalità necessaria della potenza della sostanza”, con Dio che “non si colloca al di sopra delle leggi, ma si manifesta quale ordine geometrico naturale”,527 immutabile ed eterno. Il superamento della mediazione cristica rimuove lo spazio dogmatico teologico-politico continentale, entro il quali si erano riuniti in una stessa persona giuridico-religiosa la dignità morale e la sovranità politica, dando l‟abbrivio a una plurivoca rappresentazione mitopoietica spacciata per Rationalisierung mondialistica della Zivilisation occidentale in versione marittima. La conseguenza politica di tale organicismo della totalità sostanziale o umanità è l‟impossibilità moralistica di pensare il rapporto con l‟Altro in termini di libera relazione di possibilità, ma sempre in termini di necessità quale prodotto della catena di causalità, per cui, radicalizzando l‟istanza monistica del tutto spersonalizzata, “l‟alternativa tra struttura dogmatica istituzionale e ratio di una sostanza metafisica, tra teologia politica e sistema sociale si esprimerà infine nell‟alterità Europa o democrazia”,528 con l‟inversione della fonte della potestas da Dio al popolo, dal diritto divino al diritto della società. Nella prospettiva sociale, la legge naturale è l‟impulso utilitaristico a confermare la potenza del sistema sostanziale attraverso la tutela del proprio interesse, cioè del proprio potere. “E‟ la stessa tendenza umana all‟utile che sovrappone aspettativa del singolo e legge civile”, ossia “governo della moltitudine” (democratic government), che costituisce un terminus ad quem, “quale effetto dell‟adattamento reciproco delle singole volontà a un potere unico e condiviso”, anziché un dato originario a quo. Infatti, “l‟esistenza precede il cogito, come la libertà la ratio, e la democrazia si esprime quale libertà ed eguaglianza

527 Epimeteo, Finis Europae, cit., pagg. 291 e 292. 528 Ivi, pagg. 294 e 296.

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ridefinite metafisicamente”.

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La democrazia, quale governo “il più naturale e il più conforme” alla attività della sostanza, e quindi alla “libertà” di ognuno, non può ammettere alternative al suo sistema, per cui lo Stato, secondo Spinoza, “con qualunque mezzo a sua disposizione, può di diritto costringerlo o all‟ubbidienza o all‟alleanza”,530 sicché la determinazione del “nemico” non è interna allo jus publicum ma esterno alla ratio dello jus societatis, in una prospettiva assolutistica di esclusione/inclusione dell‟Altro ove l‟alternativa alla guerra, al pari del suo risultato, è la integrazione impolitica nella struttura ontologico-sostanziale del sistema democratico, poiché “non esistono alternative alla necessità causale del mondo”, intesa come la stessa “potenza infinita di Dio”, rispetto al quale “ogni comportamento conflittuale, ancor prima che irrazionale, appare inefficace, in quanto per il soggetto ogni possibilità di modificazione di una tale struttura si dimostra già preclusa ab imo”.531 Alla “unicità metafisica” del cosmo democratico totalitario niente resta esterno ma “tutto si tiene, da Dio all‟uomo, dalle leggi naturali al potere civile”. Il regno della libertà democratica è segnato dalla fine dello Stato politico e l‟approdo a “un assolutismo senza sovranità, nella forma di monismo sociale”,532 “dotato di una potenza ordinaria, cui non necessita più alcuna decisione straordinaria”, essendo il mondo che ha condotto a compimento la “oggettivizzazione sociale”, ossia “la radicalizzazione del monismo” idealistico, che, “tramite un rigorismo etico e logico, si rivela una forza inesauribile di razionalizzazione della società”.533 La ratio non è determinazione ed esplicazione della revelatio quale criterio ordinativo del mondo, ma ne prende il posto, per cui, a prescindere dalla rappresentazione concreta della trascendenza nell‟Incarnazione, “Dio regna grazie a chi governa e il Regno di Dio è quello in cui giustizia e carità hanno vigore di legge e decreto”.534 Diversa da quella messianica è

529 Ivi, pag. 301. 530 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, XVI, 197, 9; cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 302. 531 Ivi, pag. 304. 532 Ivi, pag. 303.

533 Ivi, pag. 304. 534 Ivi, pag. 306.

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la prospettiva cristiana della “responsabilità” dell‟uomo, non in quanto soggetto empirico ma quale rappresentazione visibile del trascendente, di fronte al mondo. Infatti, la “Rapraesentatio in absentia contemplava la verità dell‟Incarnazione” rendendola “sempre presente” nella “persona” umana quale imago Dei. Ciò comporta che la rappresentazione istituzionale non è desumibile da né definiscibile entro un rapporto puramente formale inerente alla titolarità di diritti in capo a una “persona”, in quanto questa non è un mero soggetto di diritti ma “Traeger di una rappresentazione dall‟alto”, intesa come “visibilità del divino” e dunque come “mediazione tra autorità divina e potestà del mondo“. La “Persona” di Cristo, rappresentando la trascendenza di Dio, diventa rappresentante della stessa Sua autorità (auctoritas), e quindi la fonte di legittimità di ogni Potere mondano (potestas). Da qui l‟inconsutile rapporto tra Cristo e il Suo corpo mistico, la Chiesa, la quale costituisce lo spazio istituzionale del charisma veritatis nel mondo sotto forma di ordinamento giuridico, e dunque per Schmitt “l‟archetipo dell‟unità politica”.535 Ma da qui anche la insuperabile differenza tra l‟Autorità, intesa come “rappresentazione trascendente nel mondo”,536 espletata dal Governo, e l‟esercizio della forza sociale da parte del Potere politico dello Stato, senza la quale differenza veniva a compiersi il trionfo della malefica risoluzione unitaria di regnum e di sacerdotium in una supposta societas perfecta, in cui “nella reductio ad unum di regno e sacerdozio, si poteva scorgere il compimento escatologico, ossia l‟unità del mondo quale avvento dell‟Anticristo”.537 L‟antitesi al fondamento cristologico si manifesta, coerentemente al presupposto rappresentativo di natura politica, come suo speculare rovesciamento della potestas, la quale non trova più la sua origine in Dio, ossia nell‟autorità trascendente, ma nel popolo, cioè nel collettivo sociale, la impersonale società, la cui opinione pubblica legittima la sovranità di un Potere senza auctoritas fidei, che si costituisce come una pura forma giuridica (potere coercitivo) senza fondamento di verità (relativismo positivo). Col ristabilimento della dòxa quale fonte di legittimazione del

535 Ivi, pagg. 311-312. 536 Ivi, pag. 317. 537 Ivi, pag. 319.

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Potere, si riabilitano tutte quelle forme di comunicazione retoriche che la logica filosofica aveva confutato contestandone il fondamento mitico e non scientifico, ossia il loro carattere non universale. Con la rinascita di una mitopoiesi nell‟ambito della vita pubblica, e dunque del contesto politico, il pensiero filosofico, privato del suo fondamento di verità teologico, è tornato ad essere, al pari della fede in quel fondamento, ciò che era in origine, ossia un esercizio di virtù privata, senza alcuna rilevanza pubblica, la quale era stata acquisita alla filosofia attraverso la sua connessione funzionale alla fede cristiana quale “discorso su Dio”. La crisi del fondamento cristologico del sapere si manifesta anche come crisi del discorso sulla fede. Il sapere filosofico, illudendosi di acquisire uno statuto epistemologico autonomo da quello garantito dalla fede cristiana, viene a perdere con l‟antico nesso cristologico ogni rilevanza pubblica, legata alla struttura teologico-politica della rappresentazione nello spazio cristiano. L‟ordine teologico del mondo cristianizzato ha costituito non solo la premessa dogmatica del suo governo politico, consentendone il mantenimento dell‟Ordnung istituzionale giuridicamente stabilito, ma anche il fondamento della sua elaborazione esegetica con gli strumenti teoretici della filosofia. La dissoluzione di quell‟ordine ha comportato anche il venir meno della rilevanza pubblica del fondamentale oggetto filosofico, la Persona divina, e con essa anche dell‟elemento divino presente nell‟uomo, pensato in termini universali. L‟elemento trascendente della persona singolare, che l‟emancipa dalla empirica individualità naturale, è la sua appartenenza al corpus mistycum Christi, coincidente storicamente con la sua rappresentazione istituzionale. Su questa coincidenza si fonda la teologia politica della Cristianità europea erede dell‟Imperium romano, il cui campione è Eusebio, “posto da Peterson nel punto visibile in lontananza di una falsa teologia politica”,538 e non Agostino, fautore invece della irreducibilità della civitas Dei all‟Ordnung politico. In ogni caso, il pensiero teo-logico della essenza trascendente della persona, divina e umana, è stato elaborato per mezzo della filosofia, la quale pertanto ha funto nell‟ambito della cristianità da logos pubblico, da linguaggio della mediazione () istituzionale. In questo senso, la “decisione” politica interna allo spazio teologico-politico cristiano ha rivestito anche il carattere del giudizio filosofico, e in questa

538 C. Schmitt, Politische Theologie II, tr. it. cit., pag. 15. 206

strutturale connessione va intesa la dialettica istituzionale tra Chiesa e Stato, parallela a quella teoretica tra fede e ragione. La teologia politica, pertanto, prima di una “decisione sul mondo” all‟interno della “questione del nemico”,539.] è una decisione sull‟essere del mondo, interna alla questione metafisica, ossia alla struttura ontologica dell‟Essere. La logica dialettica, fondata sul principio di identità e non contraddizione, pensava l‟Essere come Natura, e non come l‟Essere di Dio, la cui natura trinitaria mal si conciliava con la tecnica binaria dell‟opposizione dialettica, che pure è stata utilizzata dalla teo-logia e dalla conseguente ratio politica quale theologia civilis. E‟ chiaro a questo punto che Peterson e Schmitt si riferissero a orizzonti teologici diversi; Schmitt a quello pre-moderno antecedente alla frattura della Riforma, di retaggio romano-alessandrino, mentre Peterson si riferiva alla tradizione post-tridentina, segnata, sia pure polemicamente, dalle correnti protestanti, che trovavano in Paolo (Lutero) e in Agostino (Calvino), e non in Eusebio e in Tommaso, i loro comuni auctores. Il senso spirituale e religioso della Riforma era stato per l‟appunto la “liquidazione” della teologia politica come chiave di lettura esegetica del Nuovo Testamento. Rispetto alla posizione post-moderna di Peterson, quella di Schmitt appare ancora interna alla frattura del moderno, alla crisi del sincretismo scolastico, che l‟inerzia istituzionale stava consumando sino alle estreme conclusioni pratiche della finis Europae. Il dramma storico della Chiesa cattolica, che si rifletteva nel dramma intellettuale di Schmitt, consisteva nella rimozione logica della Riforma, considerata fenomeno ereticale e politico rispetto all‟universo totalistico della teo-logia romana, e come tale da negare anziché comprendere, alla stregua di ogni opposizione logica. L‟in-comprensione di Schmitt del senso anti-logico della Riforma si determina come catastrofismo apocalittico e radicalismo ideologico del tutto privo di evangelica speranza, incapace perciò di superare la crisi del cristianesimo europeo interpretandola alla luce della sua responsabile incongruenza teologico-politica, consistente nella credenza nella insuperabilità dell‟eone politico, e quindi nella problematica fede cristologica nella intrascendibilità dell‟orizzonte del politico, foriera della moralizzazione delle posizioni politiche, ognuna delle quali si pone contro ogni altra come rappresentante della totalità. Nelle parole di Schmitt, “ogni potere è

539 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 319. 207

trascendente, il trascendente è il potere”.540 Conseguenza di tale posizione è l‟identificazione teo-logica della verità con l‟Uno della metafisica idealistica, e il conseguente pensiero della rappresentanza come forma istituzionale, la cui autorità carismatica è legata al monopolio esegetico della verità. Il carattere politico della autorità della Chiesa è dovuto alla necessità di prevedere, ai fini della propria sussistenza carismatica, un antagonista dialettico interno al proprio orizzonte di coscienza, depositario della potestas politica verso la quale è possibile definire l‟auctoritas ecclesiale come istanza trascendente. Ma proprio tale necessità di dialettizzare il carisma sacerdotale con il potere mondano fa sì che “il cristianesimo della Chiesa cattolica appaia costitutivamente e indissolubilmente politico”, e tale che “disarticolare un aspetto dall‟altro significa ridurre la teologia a una corrente di pensiero tra le altre e subordinare la politica a una prassi amministrativa del mondo”, confondendo una tradizionale Weltanschauung di una istituzione storica ormai giunta al suo redde rationem con “la rottura nell‟unità trinitario del divino”, e la stessa “neutralizzazione del trascendente”541 operata dalla teologia politica come la conseguenza passiva del venir meno del suo , detentore monopolistico del trascendente, anziché come la sua origine attiva, suppostamente katechontica, giungendo surrettiziamente a smentire per supponenza umana, assieme al significato religioso della Riforma, lo stesso provvidenziale piano divino che l‟aveva ammessa, interpretando il moderno come l‟Ausnahme anziché l‟esito apocalittico coerente della destrutturazione dell‟ordo  cattolico come Erledigung del cosmo cristiano. Da un lato l‟identità del Padre col Figlio, e dall‟altra la decisiva emancipazione cristologica dalla tradizione ebraica paterna hanno incubato una intrinseca contraddizione strutturale della teologia che, contenuta all‟interno dell‟ortodossia, è esplosa prima con la Riforma come conflitto teologico tra confessioni cristiane, proiettandosi quindi come dramma politico tra gruppi cristiani, la cui posta in gioco era la de-finizione dell‟, nella oggettivazione istituzionale cattolica, ovvero la sua libera e astorica soggettivazione in interiore. La posizione istituzionalistica di Schmitt, “nel tentativo di riagguantare la cristologia dentro l‟unità politica

540 C. Schmitt, Glossarium, cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 324. 541 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 321. 208

ordinamentale del trinitarismo”,542 riflette l‟istanza unitaria dell‟ordine politico attraverso una visione stasiologia della trinità, giustapponendo e risolvendo le dinamiche pneumatiche in termini di conflittualità logicopolitica. Questa operazione assumeva implicitamente il fondamento trascendente all‟interno della cristologia cattolica, istituzionalizzando, per così dire, il motivo escatologico nell‟ambito della storia della Chiesa, oggettivando nella forma istituzionale il processo di salvezza spirituale agostinianamente previsto in interiore homine, concependo quindi la Chiesa stessa come Storia, cioè come “escatologia realizzata”. All‟interno di questo orizzonte storico immanentistico, in cui la trascendenza dell‟ordinamento positivo era identificata razionalisticamente con l‟idealità formale della istituzione storica sacralizzata, col , ogni posizione metafisica veniva interpretata in termini polemici e ogni articolazione teoretica tradotta in posizione politica. In questo senso, “Schmitt, pur aprendosi al problema dell‟origine della forma, resta condizionato dal pensiero della forma, che è al suo culmine problema dell‟unità, e perciò dal pensiero dello Stato […] Perciò si ha la centralità nel suo pensiero dell‟elemento istituzionale per quanto riguarda lo Stato così come la Chiesa”.543 Il razionalismo di tale posizione schmittiana è confermata dall‟esito contraddittorio della sua iniziale posizione, che volendo disgiungere l‟essenza del politico dalla sua moderna forma statuale finisce per congiungerlo alla archetipipa forma ecclesiale, sovrapponendo la questione teologica del monopolio esegetico a quella della “legittimità”, cioè del monopolio della forza. Il limite teoretico di una tale impostazione idealistica è l‟incidenza convergente del teorico sul pratico come sforzo di adeguamento del concreto molteplice all‟unità ideale della “verità”, che, eliminando ogni spazio di movimento interno alla processualità fenomenica proria alla sfera pratica, impedisce il trascendimento della legalità dogmatica riducendo la libertà della prassi nei termini della esecutività di un sapere ridotto a tecnica o a scienza avalutativa. La inibizione della libertà della sfera pratica, dal punto di vista esistenziale delle singole persone

542 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 326.

543 G. Duso, Filosofia pratica o pratica della filosofia? La ripresa della filosofia pratica ed Eric Voegelin, in Filosofia politica e pratica del pensiero, cit., pag. 177. 209

costitutive dell‟unità statuale, implica la pulsione legalistica della loro astratta risoluzione rappresentativa entro lo schema formale dell‟ordinamento istituzionale dello Stato, venendo così a perdere il carattere di singolare totalità comprensiva dell‟essenza spirituale destinata a Dio e non a Cesare, e quindi a una rappresentazione impolitica trascendente la relazione comando-ubbidienza. La rappresentazione politica, infatti, immanentizzando la trascendenza, “la perde”.544 La considerazione o meno della libertà spirituale nei rapporti sociali, e la conseguente distinzione dei rapporti esistenziali dai rapporti propriamente politici, stabilisce il discrimine tra il Potere (Herschaft) politico, basato sui rapporti di forza (Macht), e il Governo spirituale (Regierun), fondato su ruoli carismatici. Questa differenza apre un vulnus in ogni teoria democratica, in quanto determina la possibilità di una rappresentanza elettorale nei soli termini di un mandato privatistico, sia pure di rilevanza pubblica, degli interessi di gruppi sociali in reciproca competizione e riconoscimento, mentre una autentica rappresentazione dei valori trascendenti sotto forma di interessi comuni richiede una titolarità carismatica del tutto svincolata dalla rappresentanza degli interessi particolari, e legata al solo vincolo del riconoscimento pubblico. Ma la pubblicità del vincolo carismatico è molto diversa dalla sua accezione di senso politico. Mentre infatti il riconoscimento dell‟auctoritas carismatica è in funzione della sua rappresentazione del comune valore trascendente il Potere politico, l‟istanza di legittimità che essa avanza nei confronti della potestas inerisce al riconoscimento di una sua limitazione, ossia di una sua determinazione formale, una sua legalizzazione. Se, dunque, il ruolo carismatico immanentizzato in una forma istituzionalmente prescrittiva perderrebbe la qualità trascendente della sua rappresentazione, viceversa la funzione potestativa non istituzionalizzata perderebbe la sua efficacia politica. E come il Potere trova la sua legittimazione temporale nel rapporto verso il Governo che lo limita, determinandolo entro la sua sfera istituzionale, parimenti l‟esercizio della sua potestà ha il suo momento di inveramento nella relazione col suo fondamento () veritativo trascendente, con “l‟origine dell‟essere”. La dialettica tra Potere istituzionale e Governo carismatico, ovvero la “tensione tra l‟ordine reale della società e l‟ordine della coscienza”,

544 G. Duso, Loc. cit., pag. 183.

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inibisce l‟implementazione di un costrutto teorico in un ordinamento socio-politico perfetto che ne sia il riflesso ideale, che sarebbe possibile solo a condizione di una “immanentizzazione del fondamento emerso nella coscienza”, ossia a condizione della rimozione/misconoscimento della differenza tra “l‟apparato concettuale prodotto dalla società per il suo funzionamento”, cioè la sua struttura giuridico-istituzionale, e la “rappresentazione noetica di una realtà esistente” in immagini simboliche indicanti “l‟esperienza della coscienza”,545 quale era il filosofare in senso greco, inteso appunto come “esperienza del trascendente” e non una mera concettualizzazione formale del Bene ().546 A partire da questa premessa teoretica, Voegelin critica la dottrina costituzionalistica di Schmitt, per il quale

costituzione non deve significare né la concreta esistenza politica di un popolo né una particolare forma di esistenza politica, e neppure una forma fondamentale o una legge fondamentale che costituisca lo Stato come un‟unità giuridica [e] neppure qualche speciale legge costituzionale. Si tratta invece della decisione totale con cui la totalità di un‟unità politica determina la propria particolare forma di esistenza.

547

Per Voegelin, “la trasposizione del principio della purezza metodologica nel campo della scienza umana è inattuabile”, in quanto “l‟ambito di indagine” scientifica presenta degli “elementi costitutivi particolari” che impediscono alla ricerca di compiersi “solo in base ai suoi propri princìpi”, ma deve costituirsi nel senso di una “imitazione del modello”.548 Da qui la colleganza con la “teoria della decisione totale” di Schmitt, il quale nega la derivabilità delle norme costituzionali “da una norma contenutistica superiore”, dipendendo il suo contenuto “dalla situazione politica e sociale presente al momento della loro nascita”.549 Tale assunto, nondimeno, per quanto “liberi la sfera normativa dal suo

545 G. Duso, Loc. cit., pagg. 186-187. 546 Ved. E. Voegelin, Plato (1966), cit. da G. Duso, Loc. cit., pag. 190. 547 [E. Voegelin, Die Verfassunglehre von Carl Schmitt. Versuch einer konstruktiven Analyse ihrer staatstheorischen Prinzipien (1931), tr. it. di G. Zanetti in Filosofia politica e pratica del pensiero, cit., pag. 292. 548 Ivi, pag. 293. 549 Ivi, pag. 294.

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inopportuno isolamento metodologico” in cui l‟aveva confinato la dottrina pura del diritto kelseniana, riconducendola invece “al fondamento dell‟esistenza politica dove questa empiricamente si trova”, introduce un elemento di conoscenza trascendentale “come principio originario dell‟unità del diritto”, il “concetto di dovere”, che “tronca radicalmente ogni questione sul fondamento esistenziale delle norme”, in quanto rileva la validità del diritto “in virtù dei postulati conoscitivi”.550 Il fondamento oggettivo di validità è per Schmitt la “volontà”, la quale “indica una entità esistente in quanto origine di un dovere” e la cui “potestas o autorità consiste nel suo essere”.551 L‟essere politico unitario di un popolo è lo Stato, nella cui esistenza fattuale risiede la sua stessa legittimità, sicché per Schmitt “una costituzione è legittima, cioè riconosciuta non solo come situazione di fatto, ma anche come ordinamento giuridico, quando è riconosciuta la forza e l‟autorità del potere costituente, sulla cui decisione essa si basa”.552 La legittimità è valore etico, inerente alla convinzione sulla necessità dell‟imperatività dei contenuti giuridici, mentre la vigenza, ossia l‟essere del potere, è una condizione fattuale, la cui unità strutturale non è data dall‟esistenza dello Stato, in quanto “un‟unità dello Stato si dà solo nella sintesi della scienza politica” come “concetto tipologico”.553 Per la costituzione delle varie forme di Stato, secondo Schmitt “agiscono due principi formali: il principio di identità e quello di rappresentanza”, che consentono congiuntamente al “popolo” di pervenire ad unità politica.554 L‟obiezione che Voegelin muove alla dottrina schmittiana è di trascurare “per principio” l‟elemento personale dell‟attività politica, che non può mai involgere “l‟intera esistenza” dell‟uomo, per cui è “un‟illusione credere che attraverso determinate forme d‟atto […] si giunga più vicino [che attraverso altre] all‟esistenza in quanto tale”, la quale va distinta, per il suo carattere trascendente, dalla specifica esistenza politica.555 L‟unità trascendente di un popolo, che “comprende

550 Ivi, pag. 295. 551 C. Schmitt, Verfassunglehre (1928), cit. in Ivi, pag. 296.

552 Cit. in Ivi, pag. 299. 553 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 301. 554 Ivi, pag. 303. 555 Ivi, pag. 305.

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tutte le persone”, non può identificarsi con l‟empirica unità politica, poiché se ogni persona, avendo un suo status politico, “rappreseta l‟unità politica”, nessuna di esse né “tutti i singoli presi insieme sono l‟unità politica”.556 Ora, chi “rappresenta e concretizza il principio spirituale dell‟esistenza politica” per Schmitt è “solo chi governa”, la cui funzione lo distingue da un mero “mandatario” o da un “aggressore” esterno.557 Si giunge così al cuore concettuale della dottrina schmittiana, il concetto di rappresentanza. “Rappresentare – egli sostiene – significa rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente. La dialettica del concetto consiste nel fatto che l‟invisibile è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente”. La natura della rappresentanza politica è l‟esistenza dell‟unità politica di un popolo, distinta dalla mera “esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che vivono insieme”.558 Tale differenza viene individuata da Schmitt nel comune riconoscimento dei membri del popolo dell‟esistenza della loro unità ideale, lo Stato. Nella democrazia, questa unità ideale del popolo non è incarnata da un uomo solo, quale “immagine” dello Stato, come è il re monarchico. “Il sovrano democratico è – anche quando sia caratterizzato da una differenza qualitativa enorme – solo uno del popolo, un individuo qualsiasi che è al potere” solo perché gode della fiducia popolare. Al popolo appartengono “i non privilegiati” per posizione economica o sociale o educativa, quale la borghesia prima della Rivoluzione francese e il proletariato nello Stato borghese, e dunque il suo complessivo valore è una Negatività, la mancanza di una immagine formale, 559 legata al presupposto della “uguaglianza sostanziale” dei membri dello Stato. Questa uguaglianza ha un carattere immanentistico, in quanto ogni attività politica resta interna all‟omogeneità sostanziale dell‟unità statuale. Quindi se l‟identità coincide con “l‟effettività dell‟uità politica del popolo”, al di là di ogni differenza qualitativa, l‟uguaglianza sostanziale non è che la stessa omogeneità democratica del popolo, ossia col suo “amorfismo”, che ne

556 Ivi, pag. 304. 557 Ivi, pag. 305.

558 Cit. in Ivi, pag. 306. 559 Ivi, pag. 309.

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indica la “genesi liberale, distruttrice della forma”, anche se la realizzazione della democrazia si fonda sulla “illibertà”, intesa come “esclusione e repressione radicale dei non uniformi”.560 Orbene, questa stessa posizione politica, in quanto inerisce alla volontà del Potere, e non implica la condizione fattuale, razionalizzata in immagine idealtipica di Stato, costituisce quella unità simbolica assente formalmente dallo Stato, sostituendo alla negazione liberale del politico la posizione ideo-logica. Questa posizione del negativo come realtà positiva rappresenta ideologicamente l‟idea assente nella concreta esistenza storica dello Stato, i cui atti vengono trasvalutati dal loro significato simbolico che è meta-politico. L‟elemento ultroneo legato a tale rappresentazione simbolica, di carattere meta-politico, non interesse la precipua dinamica oppositiva del politico, ossia i contenuti dei concreti rapporti di forza sociali, ma investe quell‟area valoriale trascendente a sua volta non oggettivabile che riduttivamente, ossia simbolicamente, negli atti politici, la quale è la fonte significativa di quegli atti. Questo orizzonte di valore in-esistente e solo rappresentabile per atto di fede degli attri politici che lo adottano come orizzonte di senso simbolicamente significativo, è quello del Mito, la fonte archetipa di ogni valore simbolico. Proprio nel contesto della realtà democratica avviene l‟immanentizzazione del trascendente attraverso l‟identità di governati e governanti che elimina la necessità della rappresentanza dei primi da parte dei secondi, e con essa, a seguito della sistematica determinazione universale valevole per ogni atto politicamente significativo, elimina anche il carattere eccezionale dalla decisione politica, ossia la dialettica stessa del principio politico. L‟atto politico, privato così della sua originaria opposizione, si risolve in funzione amministrativa, in prassi legale, conseguenza della contrattazione privata tra le parti concorrenti, divenute, da nemiche, avversarie. La decisione politica per l‟unità, pertanto, come atto fondativo della costituzione statuale, se considerato dalla prospettiva valoriale, è un atto di fede nella realtà di ciò che è effettualmente in-esistente e solo simbolicamente rappresentabile, mentre, dal punto prospettico della

560 Ivi, pagg. 310-311. Sulla questione della società liberale come “società astratta”, ved. C. Marco, L’ordine pigro, cit., vol. I, cap. III, pagg. 189-196 e vol. II, l‟intero cap. X, pagg. 627-735.

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processualità della vita giuridico-istituzionale, essa, manifestandosi, si determina come volontà di potenza. E poiché ogni atto volitivo è consustanziale a quello di ogni altro interno allo Stato omogeneo democratico, l‟alternativa alla neutralizzazione amministrativa delle prerogative politiche diventa la lotta paritetica di ognuno contro ogni altro e di tutti contro tutti, ossia il ritorno allo stato belluino pre-civile e naturalistico per il suo superamento del quale si era costituita l‟unità politica. per superare questa paradossale eterogenesi dei fini, lo Stato democratico deve ricorrere alla rappresentazione unitaria del politico, ma non più come dinamica nello Stato, le cui componenti sociali sono state qualitativamente (espressione di Schmitt) omogeneizzate, ma come dinamica dello Stato verso altri Stati. In questa rappresentazione surrogatoria dell‟unità dello Stato democratico, l‟identità politica del popolo e la rappresentanza ideale dello Stato convergono nello stesso simbolo oggettivato del Capo carismatico, la cui immagine esistenziale è quella del rappresentante totale, sulla falsariga dell‟Imperatore secondo Eusebio, mediatore tra i sudditi razionali e l‟Ente supremo trascendente.561 L‟imperialismo cristologico eusebiano, al pari del logocentrismo platonico, è la forma teologico-politica derivata dal parricidio metafisico, perpetrato rispettivamente, dalla teologia cristiana, verso il Padre della religione ebraica, e dall‟idealismo razionalistico verso la sua scaturigine mitica, e consistente nella astratta oggettivazione dei contenuti della credenza ontologica del Mito per mezzo della tecnica logico-dialettica. Questi contenuti, astratti dal loro fondamento mitopoietico e distinti in virtù della loro consustanzialità logico-razionale, affermano come reale soltanto l‟ente di essenza razionale, mentre rimuovono ontologicamente quanto di quei contenuti sia insussumibile entro le categorie universali, destinandolo al Negativo, al non-essere, all‟irreale. La affermazione di realtà ontologica non è altro che la posizione di fede nella esistenza di ciò che viene affermato come realmente essente, ossia consiste nella credenza nell‟identità di essenza ed esistenza nel sinolo, considerato come l‟intera realtà, l‟Uno. Ora, poiché questa realtà onto-

561 Ved. R. Farina, L’Impero e l’Imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea, cit., pagg. 167 sgg.

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logica non comprende nella sua unità la rimanenza residuale distinta dialetticamente come irreale, essa non può costituire la Totalità, ma solo rappresentarla, e pertanto la rappresentazione della Totalità come Unità ideale è una con-venzione intellettuale, un pre-giudizio fideistico, ma non costituisce la verità, che trascende quindi la realtà in senso onto-logico. La forma politica di rappresentanza dell‟unità ideale della molteplicità singolare è lo Stato, la cui realtà dunque è affermata razionalmente come il Tutto, pur non essendolo esistenzialmente per i suoi membri. La condizione di tale assunzione di realtà politica è la determinazione degli elementi personali in enti ideali di ragione politica, in soggetti politici. Tale determinazione-negazione afferma come razionalmente (ossia politicamente) reali soltanto gli enti politici idealmente assimilabili (gli amici), dichiarando negativi gli altri (i nemici). La rappresentazione universale del principio di realtà politica è la democrazia, che omologa ogni membro sociale all‟unità sostanziale dello Stato inteso come la rappresentazione del Tutto esistenziale dell‟uomo animale sociorazionale. Questa unità razionale, astratta dalla vera Totalità originaria del Mito, deve affermarsi lottando contro il residuo negativo della sua esclusione logica, per affermarsi come l‟unica ed intera realtà. Ma poiché l‟affermazione della parte per il tutto può costituirsi come la realtà ideale ma non come la verità eterna, per affermare universalmente la propria parzialità contro il negativo osteggiato come nemico, deve determinarsi con una esclusiva immagine positiva, creduta come vera ma che però è falsa. In tal senso, i regimi di credenza totalitaria si fondano sulla menzogna (mendacium). Come chiarisce Agostino, “non chiunque dice il falso mente, se crede o stima che sia vero ciò che dice”. Infatti, “chi ha un‟opinione pensa di sapere quel che non sa”, per cui è “dall‟intenzione dell‟animo e non dalla verità o falsità delle cose in sé che bisogna giudicare se uno mente o non mente”.562 Da queste premesse, derivano due questioni molto rilevanti per il nostro discorso. La prima, è se la “decisione” politica, quale fondamento di ragione che sostiene l‟immagine della unitaria struttura istituzionale dello Stato, possa paragonarsi analogicamente a una credenza personale (animi sui sententia), essendo cristallizzata nella forma giuridica quella tensione spirituale che alimenta ogni fede umana.

562 Agostino, De mendacio, 3.3, tr. it. di M. Bettetini, Milano, 2010, pag. 31.

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La seconda questione verte sulla analogia tra le credenze religiose che hanno miticamente sostenuto l‟opinione (dòxa) politica dei sistemi sociali pagani, e il fondamento di fede cristiano (l‟Incarnazione) che ha sorretto per oltre un millennio la teologia politica dello Stato dei cristiani. Circa la prima questione, l‟idealismo politico, pagano e cristiano, ha risposto sostanzialmente in senso affermativo, essendo la sua rappresentazione della realtà dello Stato razionale l‟unità mistico-ideale del corpo sociale. E proprio dall‟universalizzazione idealistica del principio politico esclusivo nasce l‟aspirazione alla identità sostanziale del corpo politico, ossia la la democratica omogeneità dei governanti coi governati, e la conseguente proiezione della sua unità nella figura carismatica del Capo. Venendo alla seconda questione, la risposta è decisamente negativa, in quanto, come si è più volte ribadito, la fede cristiana si fonda sulla fatticità esistenziale dei contenuti di credenza e non già su una ipotesi epistemologica da rielaborare per discernere l‟elemento reale-razionale da quello mitico-fantasioso. Ma proprio per questo al fondamento di verità cristiano non è applicabile il metodo dialettico della gnosi idealistica, a cui si rifanno l‟istanza unitaria e la modalità rappresentativa che sorreggono la dottrina schmittiana dello Stato. Ne consegue che lo stesso criterio di legittimità (nomos) che sostiene la struttura giuridica statuale (Potestas legislativa), ossia l‟Incarnazione di Dio in Cristo, non può essere creduto alla stregua di un Mito, né essere rappresentato alla stregua di una Idea. Ciò comporta che il fondamento di fede che legittima l‟istituzione cristiana è trascendente, e non può perciò coincidere con una Idea di Stato, né tanto meno l‟immagne simbolica della trascendenza divina può realizzarsi compiutamente in una esistenza politica concreta come lo Stato, la cui realtà assoluta richiede invece il valore universale del suo Potere. Questo valore ideale non è la verità testimonianta e predicata da Cristo, il quale non intendeva riformare lo Stato idolatrico in senso cristiano, come invece avvenne in virtù della trascrizione romanoalessandrina della Verità trascendente come Logos razionale. E a questa interpretazione razionalistica si rifà appunto Schmitt per la sua teoria del politica e dello Stato. Ma, come afferma Agostino, poiché “tutte le bugie sono radicalmente da abolire dalla dottrina religiosa e da quei discorsi che si enunciano in favore della dottrina religiosa, quando la si insegna e

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quando la si impara”,563 essa, al di là della fede personale e della sincerità delle sue opinioni scientifiche, non può ascriversi alcuna paternità cristiana, come giustamente suggerito da Voegelin. Anzi essa registra con perizia magistrale gli stessi termini della crisi del paradigma teologico-politico cattolico-romano, di cui l‟Autore non sa darsi ragione comprendente in quanto la sua analisi è ancora interna a “l‟orizzonte delle idee del XIX secolo” in cui si muoveva la sua coscienza storica.564 Ciò che di originale era intervenuto nel sec. XX era stato il compimento dell‟immanentizzazione del fondamento veritativo della fede cristiana, non come mondanizzazione della santità ma, al contrario, come santificazione del mondo, con un rovesciamento dialettico parallelo alla conversione positiva della negatività del liberalismo anti-autoritativo in democrazia totalitaria, il cui decisionismo assoluto, privo della mediazione della veritas trascendente, segnava l‟apogeo dell‟antropologismo ateistico. La neutralizzazione dello spazio pubblico incentrato sul fondamento fideistico del Verbum caro aveva corroso ogni delimitazione autoritativa dell‟unità politico-statuale, consentendo alla auto-determinazione della potestas secolare di costituirsi in funzione katechontica, assumendo interamente su di sé la ormai moralmente irresponsabile responsabilità politica di arginare la dissoluzione rivoluzionaria, intesa appunto come oggettivo, ossia razionale, attentato all‟auto-determinazione politica. Il nemico non è dunque che il negativo oggettivato in realtà positiva, dichiarato irrazionale in relazione alla propria politica positività. La decisione politica metafisicizzata e affermata come realtà totalitaria segna l‟esito estremo della dissoluzione del sincretismo fideo-razionalistico dell‟onto-teo-logia politica eusebiana, iniziata nel IV secolo, ma non ancora del tutto conchiusa. Resta infatti ancora a testimoniarne i fasti teoretico-politici l‟assolutezza del Logos immanentizzato e ridotto a mera tecnica, non più solo dialettico-retorica, ossia sofistica del consenso democratico, ma tecno-logia applicata, economia di mercato finanziaria. A questo punto ci è possibile comprendere che l‟affermazione dell‟autodeterminazione immanentistica della volontà di essere ciò che si vuole essere, e dunque assoluta, emancipata da ogni limite morale, si stabilisca

563 Agostino, De mendacio, 10.17, tr. it. cit., pag. 63. 564 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 311.

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attraverso la lotta contro quello stesso limite, interpretato come la Negatività anch‟essa assolutizzata, e rappresentata dall‟Altro, dal nemico oggettivo, la cui esistenza nega l‟assolutezza della realtà totalizzata dell‟Unità ideale realizzata storicamente. Ma questa negazione della realtà razionalizzata in senso assoluto e osteggiata politicamente come l‟Altro irrazionale, il Niente che minaccia l‟Essere posizionale della fede ontologica nel mondo rappresentativo dell‟Io umanistico, è appunto quel Limite trascendente ogni umana potestas, che è l‟auctoritas di Dio-Padre creatore del Logos-Figlio, considerato dalla cristo-logia ellenisticoromana come Persona abscondita, la cui realtà in-esistente potevasi solo rappresentare come immagine antropomorfica, come Persona nel Figlio e come Corpo mistico nella Chiesa: il . L‟elemento in-rappresentabile, ma esistenzialmente reale, dell‟unità etico-politica o di quella mistico-ecclesiale è la fede nel fondamento autoritativo, la quale, pur non oggettivabile, costituisce il vero presupposto di ogni validità in quanto decisiva nella determinazione della volontà. L‟elemento fideistico, tributario dell‟auctoritas carismatica del Potere, è il pathos che trasforma la potestas in Diritto. Esso costituisce il fondamento legittimante del Potere, ciò che lo determina come rappresentativo dell‟unità simbolica. Tale fides fondamentale collega la volontà dei governati alla potestas dei governanti: fa da “mediazione” (logos) tra la sovranità e l‟istituzione. Ma questo logos è la ratio del Potere, non nel senso della forza della voluntas ma nel senso della sua intentio come télos, che, come abbiamo visto a proposito della mendacio in Agostino, non può consistere indifferentemente in una o altra opinione (doxa) ma avere per contenuto la verità. Pertanto, la fides costituisce il fondamento di verità dell‟atto politico, della funzione istituzionale, del Potere statuale; che non può essere posto dalla volontà politica ma ne è invece il pre-supposto, senza il quale il dominio diventa arbitrio. Non essendo oggettivabile, in quanto non è l‟oggetto della volontà ma il presupposto, la fede non è neppure manipolabile e custodita in interiore homine come verità trascendente ogni manifestazione della volontà. Ed è questa che Agostino chiama l‟intentio dell‟agente. A differenza di una disposizione normativa di vigenza erga omnes emanata dal Potere in considerazione dell‟unità politica come forza necessaria al suo indirizzo pubblico, il fondamento autoritativo della fides è di natura strettamente personale, ossia individuale e soggettivo, e come tale in-disponibile dal Potere. Ciò vuol dire, non che ogni soggetto al diritto può liberamente 219

aderire alle disposizioni normative del Potere, rendendo facoltativa l‟ubbidienza all‟ordine potestativo, ma che il Potere non può controllare l‟intentio di chi ubbidisce, che perciò può anche essere mendace. Ma escludendo il controllo delle intentiones soggettive dei governati, il Potere stesso deve limitarsi al controllo dei fenomeni della volontà, alle azioni, e dunque non può aspirare ad essere totale ma solo a costituire l‟unità politica. da qui sorge la necessità per il Potere di riconoscere il suo limite di esercizio, che non può valicare i termini dell‟ ordine giuridicopolitico, e con quel limite riconoscere così anche il carattere di finitezza della sua essenza rappresentativa, cioè della rappresentanza dell‟unità politica. Una volontà politica, avente cioè una ratio ordinis rei publicae, che voglia affermarsi in difformità con i fondamenti fideistici del gruppo sociale, opera nel senso della dissoluzione dell‟equilibrio sociale e per lo stabilimento di un ordine razionalmente allotrio a quello originario. Quando la ratio politica diverge dai fondamentali fideistici del gruppo sociale, non sussiste più alcuna rappresentanza esistenziale dell‟unità politica, ma soltanto una di carattere formale. Le due nature della rappresentanza politica sono compresenti nei sistemi democratici moderni, i quali deliberatamente hanno inteso prescindere dalla considerazione dei fondamentali religiosi dei popoli per affermare in sostituzioni d‟essi una supposta fede comune di carattere civile, idonea a far ammettere la validità universale della volontà maggioritaria, la quale esprime una rappresentanza esistenziale che per la parte minoritaria è solo formale. Perché la rappresentanza formale potesse coincidere in valore con la rappresentanza esistenziale, occorreva rimuovere dalla rilevanza pubblica la considerazione dei fondamenti religiosi dei popoli, che ne determinavano in origine l‟appartenenza identitaria, sostituita con l‟appartenenza politica all‟identità statuale. Ciò implica che la convertibilità della sovranità regale nella sovranità popolare doveva presupporre una omogeneità dei fondamenti di fede nei due ambiti di sovranità convertibili, la quale venne smentita dal principio politicistico del cuius regio, eius religio uscito dalla Pace di Augusta (1555) e confermato a Vestfalia nel 1648 dopo la Guerra dei trent‟anni, col quale principio si stabiliva l‟assolutezza del Potere, emancipato da ogni appartenenza fideistica, ossia da ogni limitazione dell‟auctoritas morale, rappresentata istituzionalmente dalla Chiesa. Il processo di assolutezza del Potere, e quello parallelo di omogeneizzazione politica della società 220

iniziato con la Riforma, viene a compimento con la democratizzazione della società civile, nei totalitarismi del XX secolo, ovvero con la socializzazione della politica nella versione liberal-capitalistica. Con i regimi democratici si universalizza il principio dell‟autonomia politica del Potere, la cui rappresentanza, in una società omogeneizzata e unitaria, può incarnarsi volta in volta nel Popolo o nel Capo, entrambi depositari omogenei della sovranità entro lo spazio-mondo dello Stato. E‟ improprio asserire che “la veritas poggiava su un presupposto dogmatico”, mentre è vero che “l‟auctoritas istituiva una corrispondente legittimità”.565 Infatti, la natura fideistica della veritas era trascendente ogni razionale determinazione, per cui la sua definizione dogmatica non poteva stabilirla autoritativamente, alla stregua di una normativa legale, per atto d‟imperio, mentre nei concilii avvenne proprio questo. I concilii sono i prototipi dei moderni parlamenti legislativi, nei quali si deliberava a maggioranza la definizione dogmatica dei contenuti di fede, circoscrivendo la fides nei termini concettuali del Logos naturalistico greco, cioè di quel sapere che secondo Paolo per il cristianesimo era “stoltizia” perché pretendeva di racchiudere nei termini della ragione umano-naturale l‟in-finitezza spirituale di Dio. E pertanto l‟espressione dogmatico non era il “presupposto” della fede, così come l‟editto imperiale lo era per la legge, ma viceversa era la fede il presupposto del riconoscimento della formula dogmatica. Nel momento in cui l‟organo esegetico-legislativo, il Concilio oppure la Chiesa, assume in sé la rapraesentatio della potestas fidei, essa stabilisce un rapporto identitario, e non solo più simbolico, tra il Logos-Christos e il corpus Christi, e conseguentemente tra la persona storica di Cristo e il corpus mistycum dell‟unità ecclesiale, per cui la Chiesa, rappresentante del corpus christianum ecclesiale diventava rappresentante del Logos stesso, ossia una quarta Persona ipostatica analoga a quella del Cristo. Orbene, tale pretesa era assolutamente indebita, in quanto lo Spirito, proprio perché consustanziale alla Persona di Cristo lo è anche di DioPadre, e come tale non è rappresentabile che da se stessa, ovvero appunto solo da Cristo Verbum caro, e non anche da una istituzione storica, Chiesa o Impero che sia, né da nessun ente ideale, quale a es. il Popolo o

565 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 329.

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lo Stato democratico quale sua forma razionale. La rappresentanza spirituale di Cristo risiede nella fede soggettiva nella sua Persona, nel Suo ruolo di mediazione tra Creatore e creature, non in una istituzione storica oggettiva. Esattamente questo transfert è all‟origine della rimozione della fides a favore di una ratio ordinis di natura politica, che trova nella Chiesa il suo prototipo istituzionale e nello Stato assolutistico moderno la sua versione secolaristica, emendata di ogni riferimento all‟auctoritas divina. Pertanto il Cristo, quale “fondamento visibile della verità”, non poteva dunque determinare ”l‟unità politica”, ossia lo Stato, come invece pretendeva la teologia politica alla quale si ispirava Schmitt, ma solo l‟unità ecclesiale, che su di esso “poggiava la sua autorità”.566 L‟unità politica, quale forma ideale del , era una determinazione puramente razionale se astratta dal suo fondamento autoritativo di natura religiosa. Ma proprio perciò essa non poteva determinarsi per atto di volontà costituente, come preteso da Hobbes e dal contrattualismo moderno e come riteneva anche Schmitt, ma solo a seguito, come conseguenza, di una pre-supposta unità di fede () di cui la forma politica era una rappresentazione oggettiva del suo Gestaltungsprinzip. E se atto con-seguente non poteva essere originario, sicché lo Stato razionale derivava per generazione () da una rappresentazione fideistica della realtà, ossia mitica, della quale era una rappresentazione razionalmente rielaborata () in forma istituzionale unitaria. Il passaggio () dalla rappresentazione mitico-fideistica () alla rappresentazione formale-razionale () comportava la lacerazione dialettica ( ) del politico, la distinzione operata sul piano esistenziale tra la positività dell‟amico () e la negatività () del nemico (). In altri termini, la rappresentazione politica era il risvolto civile del ludus drammaturgico della dialettica filosofica quale appare nei dialoghi platonici, ovvero la messa in scena dell‟agone politico del Potere dei ruoli assegnati nello spazio pubblico dallo Stato. Un gioco delle parti sociali in cui s‟intrecciano e si scontrano la cruda ragione della forza e il sortilegio dell‟immaginazione creativa. Ma, così come l‟aspirazione filosofica a dare evidenza al fondamento ideale finiva per esaltare il ruolo

566 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 329.

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tecnico della strumentalità politica, parimenti l‟istanza costruttivistica della teologia politica assegnava al Potere una funzione demiurgicokatechontica che esonerava il governo provvidenziale di un mondo compiutamente umanizzato, lasciandolo alla mercé della tecno-logia, intesa come economia del danno e politica dell‟utile. L‟universalità del metodo tecnico, la sua polifunzionalità e versatilità nel servizio a diversi padroni, traduce in termini d‟immanenza l‟in-finitezza del principio trascendente, la sua in-determinatezza entro uno spazio determinato, consentendo così la sua rimozione. Con la rimozione del trascend-ente, si compie l‟assoluta razionalizzazione del mundus, dello spazio antropizzato, all‟interno del quale ogni processo creativo può essere preventivato e pertanto controllato e dominato. La liberazione dall‟autorità divina si converte dunque nella weberiana “gabbia d‟acciaio” della illibertà di un Potere senza più limiti perché senza più appelli trascendenti, puro . L‟apoteosi della voluntas politica socializzata è la nazione, intesa come “entità personale”, ossia una Idea fornita di attributi divini, “ordinatrice di un nuovo diritto internazionale” rispetto a quello universalistico dell‟Empire capitalistico propugnato dalle democrazie occidentali. Una nuova ideo-logia fondata sulla oggettivazione razionalistica di un ente empirico idealizzato, comprensivo di una moltitudine di soggetti esistenziali unificati da una forma politica, lo Stato-Reich nazionale. L‟elemento vizioso, ossia l‟incongruenza teorica, delle rappresentazioni dello Stato democratico consiste nella razionalistica identificazione del trascendente con l‟universale, e dunque della comunità mistico-spirituale (ekklesia) riunità nella Persona di Cristo, con l‟unità politico-istituzionale (Stato) rappresentata dal Capo. L‟esistenza storica della Chiesa, paradigma dell‟unità mistica dei credenti istituzionalmente rappresentativa, non poteva essere rimossa da un‟altra entità oggettivata che ambisse all‟universalità se non politicamente, ma non sul piano della rappresentazione, dal momento che quello inerente alla dimensione ecclesiale non era sovrapponibile al piano della dimensione politica, secondo le stesse indicazioni evangeliche. La costituzione, pertanto, di un Impero esclusivamente politico avrebbe dovuto presupporre il suo fondamento di fede, o riconoscendo la realtà storica della sua rappresentazione istituzionale, la Chiesa, ovvero assumendolo in proprio avendone negato la rappresentazione nella Chiesa. L‟opzione imperiale continentale, da Costantino fino all‟ultimo zar russo, ammetteva che la 223

rappresentazione del fondamento di fede fosse pertinente all‟istituzione ecclesiastica, parallela all‟istituzione rappresentativa dell‟unità politica dei credenti. L‟opzione imperiale del commonwealth britannico, invece, assunse sulla rappresentazione politica anche quella ecclesiale, facendo del monarca anche il capo della Chiesa nazionale, anglicana e non più cattolica. E‟ chiaro che l‟identificazione delle distinte rappresentazioni in un unico simbolo istituzionale presupponeva anche la coincidenza della universalità cristiana (cattolicità) con l‟universalismo politico (imperialismo), per cui l‟incidenza del fondamento spirituale della fede cristiana veniva commisurato al grado di espansionismo politico del Potere imperiale. Questo criterio teologico-politico immanentistico fu esportato nelle colonie britanniche del Nuovo Mondo e divenne, dopo la loro secessione dall‟impero, la cultura politica del nuovo Stato democratico americano. Con l‟instaurazione della civil religion nello Stato democratico universale d‟oltre oceano, la fonte teologico-politica della nuova entità politicoistituzionale non è più (storico-) trascendente ma (storico-) immanente, rappresentata dalla corona britannica, il cui topos originario diventa il sostrato mitologico del quale l‟esperienza democratica americana è l‟elaborazione razionalizzata. Sorge una nuova religione immanentistica rispetto a quella ebraico-cristiana cattolico-romana, fondata su una cristologia etico-politica. La processualità del fondamento cristologico comune al cattolicesimo e all‟anglicanesimo, si sviluppa a partire dalla secessione americana dalla madre patria europea come settarismo territoriale di libere chiese in liberi Stati, col quale”si realizzava l‟attualizzazione dell‟”.567 La detronizzazione del Dio trascendente avveniva appunto con l‟auto-referenzialità del politico come spazio sacrale attraverso la sua rappresentazione istituzionale. La distinzione stabilita da Schmitt tra una interpretazione “filosofica” e una “religiosa” della Storia,568 nella prospettiva ideo-logica democraticototalitaria viene a perdere la pregnanza teoretica che aveva avuto nei secc. XVIII-XIX, in quanto il processo storico veniva comunque considerato

567 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 344.

568 C. Schmitt, L’unità del mondo (1951), cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pagg. 344-345.

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alla luce della fenomenologia del Logos incarnato, non più nella Chiesa romano-imperiale né nella Corona britannica ma nel Sacro Impero Democratico Americano, fautore culturale e propugnatore politico di una nuova unità etico-politica mondiale di tipo religioso, quale non riuscì a Federico II né al Sacro Romano Impero tedesco per l‟opposizione della Chiesa, e che Dante aveva teorizzato per il cattolicesimo romano. L‟elemento trascendente della tradizione cattolica europea veniva surrogato dal messianismo di origine ebraica e di segno democratico, con una tensione soteriologica declinata in chiave utilitaristica, il cui stigma elettivo era il welfare consumistico. La razionalizzazione del mondo veniva a coincidere, nella prospettiva democraticistica della salvezza, con la socializzazione della politica, ossia con la sua riduzione a economia di mercato, in cui il conflitto veniva trascritto nei termini edulcorati della concorrenza. L‟occidentalismo acquistava dalla sponda americana una accezione di distanza emancipativa dal centro originario della civiltà europea, il cui declino appariva anche topograficamente come la terra di mezzo tra un Ovest liberalizzato e un Est militarizzato, lacerato da opposte tensioni demagogiche eversive, privo più di identità culturale e politica. Entrambe le ali annunciavano la rivoluzione, cioè la trasvalutazione dell‟Altro oggettivato nel proprio Sé universalizzato e interpretato come Tutto, mentre l‟Europa, dai tempi della Roma imperiale, aveva sempre inteso la sua espansione come l‟esportazione dell‟ordine, della pax. La tecnocrazia mercatistica e quella militaristica delle ideologie democratiche non esporta pace ma rivoluzione sociale, sia nel senso del sovvertimento dei ceti tradizionali, sia sul piano dei valori civili dei popoli e delle nazioni assoggettate, sconvolgendone l‟equilibrio organico da esse raggiunto storicamente in lunghi secoli o millenni. La novità rivoluzionaria di tali ideologie consiste nel voler unire identicamente e identitariamente ciò che Gesù chiedeva di mantenere divisi: cielo e terra, trascendenza e finitezza, Dio e Cesare, assumendo nella propria rappresentazione universale dell‟umanità il simbolo stesso del divino incarnato, all‟infuori del cui orizzonte etico-esistenziale non c‟è alcuna possibilità di una dialettica ma solo di uno scontro radicale tra i rappresentanti dell‟Essere e quelli del Niente.569

569 Ved. C. Schmitt, La tirannia dei valori (1967), tr. it., Roma, 1987. 225

Ma proprio nell‟assolutezza di tale prerogativa etico-messianica si gioca lo scontro preventivo tra omologhi concorrenti in corsa per il primato universale, la cui posta in gioco è il Potere mondiale sull‟intera umanità, l‟estrema semplificazione democratica dell‟identità dei governati coi governanti, rappresentata da una élite oligarchica che nomina il Capo supremo, godendone quindi dei favori di casta rispetto all‟universale sudditanza comune. La rivoluzione dunque come la conversione speculare della libertaria volontà in volontaria cattività, secondo la confermata realizzazione esistenziale dell‟opposto ideale, la cui specularità trasfigura la stessa fisionomia personale del Capo, che sotto le mentite spoglie dell‟incarnazione divina lascia intravvedere l‟immagine dell‟Anticristo. Nazionalismo, nell‟accezione di Schmitt, voleva significare radicamento territoriale, topicità politica, identità culturale contro ogni forma di neonomadismo astrattamente umanitario, legato al commercio mondiale e ai grandi imperi. Un vincolo etico astratto dal suo fondamento topico è la idealizzazione del vincolo amicale astratto dal suo rapporto politico, ma costituisce anche il risvolto polare della opposta oggettivazione del nemico astratta da ogni relazione esistenziale, per cui, l‟antitesi tra l‟ “imperialismo economico” delle democrazie anglo-sassoni, e l‟ “imperialismo politico” delle democrazie militariste, che ha costituito la “peculiarità dell‟imperialismo americano [sin] dall‟inizio, dal primo secolo della sua esistenza”, ossia a partire dal discorso di commiato di G. Washington del 1796, ubbidisce a una stessa logica razionalistica con cui le due versioni giustificano il loro rispettivo “principio di legittimità”.570 Con essa l‟uno e l‟altro imperialismo si attribuisce il compito di assolvere a una sorta di dovere umanitario nel dominare i popoli assoggettati. A proposito dell‟imperialismo europeo, Schmitt ricorda che il diritto internazionale moderno, a partire dal sec. XVI e fino al sec. XIX, distingueva i popoli a seconda della loro religione, regolando su tale discrimine le relazioni internazionali tra gli Stati. Solo a partire dal sec. XIX, simbolicamente dall‟inserimento nel 1856 della Turchia nel novero delle nazioni riconosciute, la distinzione venne secolarizzata in “popoli civilizzati, non civilizzati e semicivilizzati”. In questo contesto

570 C. Schmitt, Voelkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus (1932), tr. it. in Posizioni e concetti, cit., pagg. 266-267.

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rievocativo, Schmitt, commentando la disciplina del mandato stabilito all‟art. 22 dello Statuto della Società delle Nazioni come “l‟esempio più conciso della funzione legittimante della distinzione fra popoli civilizzati e popoli non civilizzati, sulla cui base i popoli civilizzati si attribuiscono il diritto di educare, cioè dominare, i popoli meno civilizzati nella forma di mandati, protettorati e colonie”.571 Notevoli in questa esposizione sono due aspetti, riguardanti, l‟uno, la identificazione dei “popoli” con i loro governi, e l‟altro la identificazione del compito di educare i popoli protetti o colonizzati col loro dominio, dove “educare” diventa sinonimo eufemistico di “dominare”. La prima indistinzione produce l‟altra, poiché assume l‟identità democratica di governati e governanti come un dato razionale anziché storico, e tale quindi da rimuovere la differenza qualitativa, cioè concreta, tra il controllo politico di uno Stato, ossia di un potere istituzionale, su un determinato territorio, e il governo civile di un popolo non civilizzato da parte di un insediamento umano civilizzato. Sono aspetti non soltanto formalmente distinti, ma soprattutto esistenzialmente diversi, che però vengono identificati dal presupposto teorico della unitaria rappresentanza istituzionale della molteplicità empirica del gruppo politico. In virtù di tale presupposto di natura politica, ogni altro aspetto della “civilizzazione” europea viene semplicemente rimosso, non perché storicamente inesistente e sociologicamente non argomentabile, ma in quanto inafferente alla determinazione politica del concetto di Governo in termini di puro dominio, ossia appunto di Potere politico. Ed è a seguito di questa reductio a una dimensione del rapporto internazionale tra Stati e popoli che il movimento di civilizzazione degli Stati europei è stato identificato, non solo nei rapporti internazionali, col processo di razionalizzazione del Potere di dominio dei popoli deboli da parte dei popoli più forti, a prescindere da ogni apporto di carattere culturale ed extra-politico che costituisce il contenuto di ogni autentica “egemonia”,572 che Schmitt collega inscindibilmente quale tratto caratteristico di “ogni

571 Ivi, pag. 268.

572 Sul concetto di “egemonia culturale” e “morale” distinta dal concetto di puro “dominio”, ved. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di F. Platone, Torino, 19481951, q. 19 § 24.

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imperialismo”.573 A questa logica imperialistico-politica, che divide i popoli tra dominanti e dominati, corrisponde quella imperialisticoeconomica che li distingue in “creditori e debitori”.574 Cosa hanno in comune le due distinte dottrine? La comune sconsiderazione di una fondazione trascendente limitativa dei loro rispettivi principii di legittimità, che ne stabilisca il senso direttivo e teleologico, assegnando loro una validità circoscritta per luogo e per condizione. Solo infatti in considerazione di una comune fondazione autoritativa è possibile pervenire ad accordi internazionali tra Stati rappresentativi di nazioni che siano garantiti in senso solidale per tutti i contraenti, altrimenti penalizzati verso gli Stati più forti.575 In questo senso, il “diritto” internazionale trova la sua ragion d‟essere, non sul deterrente bellico della reazione militare o economica alla sua infrazione, ma sul comune fondamento solidale degli Stati, che non impegna la loro potenza ma la loro credibilità etica. Un tale principio è trascendente proprio in quanto la sua validità non è determinata dalla forza chi di vi si ispiri, ma dalla fede comune a cui si aderisce, per intima scelta politica dei governi e disposizione morale dei popoli. Con l‟inserzione della Turchia nel consesso delle nazioni cristiane, il fondamento solidale degli Stati cristiani viene a mancare, surrogato da una pattuizione giuridica garantita dai rapporti di forza in gioco. Nello stesso senso, la “dottrina Monroe” del 1823 del governo americano pro tempore non è un “principio imperialistico” privo di autorità in quanto “unilaterale” e “non concordato con altri Stati”,576 ma lo è in considerazione della assoluta autoreferenzialità etico-politica, la cui legittimità è dettata solo ed esclusivamente dall‟interesse alla potenza della federazione americana. Un interesse economico-politico la cui legittimità è posta dalla stessa possibilità di renderlo effettivo. Ed è questa esigenza di effettività, comprovantene la giustezza, ad escludere ogni razionale limitazione di quel principio che non sia intrinseca alla sua stessa efficacia, per cui di fronte ad esso ogni appello che non incida in senso deterrente sulla sua

573 C. Schmitt, Voelkerrechtliche Formen, tr. it. cit., pag. 277. 574 Ivi, pag. 269. 575 Nel saggio cit., Schmitt illustra il caso eclatante di “svolta dialettica” nelle relazioni tra USA e Cuba: Ivi, pagg. 277 sgg. 576 Ivi, pag. 273.

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potenza non può essere presa in considerazione, pena la sua stessa sconfessione. Il passaggio dal peccato morale alla colpa giuridica si accompagna alla possibilità di una sanzione, e non alla minaccia di una scomunica. Ciò comporta che il fondamento di legittimità dei rapporti internazionali tra Stati coincida con la loro forza economico-politica, che determina anche la natura storica di quei rapporti. A questo punto, rimossa la determinazione trascendente, la specificità “economica” ovvero “politica” è solo terminologica. Differentemente da questa concezione imperialistica, che chiamiamo “immanentistica”, è quella teologico-politica di Dante, che poneva a presupposto della costituzione dell‟Imperium la cristianizzazione dello spazio universale, la quale non comportava necessariamente e direttamente la conversione forzata dei popoli - per la semplice ragione che una conversione “forzata” sarebbe un ossimoro moralmente inaccettabile, e che comunque la conversione riguarda i singoli e non gli enti collettivi né le unità politiche -, ma il riconoscimento delle diverse culture religiose del comune fondamento trascendente. E‟ appena il caso di aggiungere che, in concorde considerazione delle ragioni qui espresse, a fronte della globalizzazione del principio economico di legittimità perorato dall‟imperialismo anglo-americano attraverso la sua politica egemonica, le religioni storiche si stanno muovendo nel senso dell‟ecumenismo del fondamento trascendente (che non equivale al sincretismo delle confessioni particolari). In che consisterebbe dunque, a fronte del principio imperialistico di “egemonia” economico-politica, la “cristianizzazione dello spazio universale”? Appunto nel riconoscimento dell‟identità religiosa delle culture nazionali come fondamento trascendente della costituzione delle loro identità etico-politiche, le quali pertanto acquisterebbero un significato anch‟esso trascendente e non ascrivibile ai soli termini riduttivi del loro potenziale latamente economico, comprensivo della produttività industriale e della capacità militare. E in questa convergenza teologico-politica, stabilizzare i territori abitati e controllati dall‟uomo nel senso di una coesistenza pacifica finalizzata dal comune motivo escatologico, che per i cristiani è già inscritto nell‟evento dell‟Incarnazione. A quel punto, il dialogo tra le diverse culture teologiche e tradizioni religiose e civili, costituirebbe l‟orizzonte comunicativo dei popoli della Terra, alternativo alla dialettica delle relazioni politiche.

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Rispetto a questo orizzonte di coscienza, che porterebbe ogni determinazione razionale dei valori particolari e storici al loro centro verbale, ossia alla loro comune matrice originariamente legoica (da lègein) comprensiva di ogni possibile elaborazione logica (del logos filosofico) e dunque archeo-logica o mitica; rispetto ad esso, la dottrina internazionalistica schmittiana di Grossraumordnung, ossia “l‟idea di una terra ripartita in grandi spazi continentali” unificati politicamente e quindi in stato di guerra permanente,577 appare una variante topologicopolitica578 di imperialismo immanentistico declinata in chiave nazionalistica. Il nazionalismo, dalla prospettiva americana stabilita dal patto Kellogg del 1928, recepito all‟art. 21 della Società delle Nazioni di Ginevra, era considerato sinonimo di “guerra”, condannata appunto in quanto “strumento della politica nazionale”, per cui, come obietta Schmitt, “le guerre che sono strumento di politica internazionale sono eo ipso giuste”. E poiché “l‟imperialismo non fa guerre nazionali, queste vengono piuttosto bandite; [e inoltre, dal momento che] esso fa soprattutto guerre che servono ad una politica internazionale, [l‟imperialismo stesso] non fa nessuna guerra ingiusta, solo guerre giuste”.579 La questione di “cosa sia una guerra”, al di là delle conseguenze pratiche scaturite dalla decisione circa la sua insorgenza, è rilevante nell‟economia del presente discorso poiché la determinazione autonoma – cioè superiorem non recognoscentem - da parte di un ente politico sulla definizione, interpretazione e applicazione di una dottrina o di un principio politico stabilisce implicitamente che venga assegnato allo Stato sovrano il monopolio dell‟attività esegetica dei trattati, ossia delle costituzioni formali aventi un contenuto politico stipulate in termini giuridici. La giuridicizzazione dei rapporti politici comporta che ogni trascrizione in termini normativi di principi di valore morale, fondativi della legittimità dei comportamenti politici degli Stati contraenti, sia

577 C. Schmitt, L’unità del mondo (1951), cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 351. 578 E‟ lo stesso C. Schmitt ad ammettere che “il punto di partenza” della sua dottrina del Grossraum risiedeva nel “concetto di spazio”, che della teoria del “grande spazio” costituiva “il criterio di scientificità”: Id., Antworten in Nuernberg (scritti del 1947, raccolti e pubblicati nel 2000), tr. it., Roma-Bari, 2006, pag. 94. 579 Ivi, pag. 287.

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“difficile”, cioè razionalmente incongrua e politicamente inefficace, in quanto non comporta “nessuna sanzione, nessuna organizzazione e nessuna definizione”,580 ossia nessuna conseguenza omogenea, il che vuol dire nessun controllo limitativo dello stesso genere politico-potestativo. Si stabilisce così l‟emancipazione della sfera politica da quella morale, eterogenea e non giuridicizzata, per cui dal principio che Caesar dominus et supra grammaticam, deriva che “in un imperialismo storicamente è essenziale non soltanto l‟armamento militare e marittimo, non soltanto la ricchezza economica e finanziaria, ma anche questa capacità di stabilire da sé il contenuto dei concetti politici e giuridici”.581 L‟auto-nomia degli enti politici imperiali si determina quindi anche sul piano dei valori fondativi la prassi politica, e non solo sulla scelta dei mezzi economici per realizzarli, confermando in tal modo che il servizio strumentale destinato ai principii della politica è lo stesso utilizzato per realizzare i suoi fini, per cui chi controlla i fondamenti dell‟azione politica ne determina anche la destinazione. Rispetto al tradizionale referente spirituale, riconosciuto dallo Stato politico europeo come appannaggio della Chiesa, la nuova logica imperiale post-moderna, prodottasi dalla dissoluzione dello jus publicum europaeum di origine cristiana, si afferma come assoluta immanentizzazione del fondamento del Potere e la sua risoluzione nella totalità del suo assoluto esercizio, ossia nella riduzione della stessa politica nella determinazione dei suoi strumenti economici, segnando per tal verso l‟apoteosi della voluntas absoluta come libertà illimitata della sua affermazione, non più circoscritta allo spazio “pubblico” della regio cuius religio, ma aperta a in-finite determinazioni auto-poietiche. Una ratio che diventa inventio delinea un orizzonte mitologico del tutto arbitrario, perché privo di fede: il mito nichilista soreliano. Ed è questo il percorso auspicato da Schmitt per la Germania.582 Quando il giurista di Plettenberg scrive che “in un imperialismo storicamente è essenziale non soltanto l‟armamentario militare e marittimo, non soltanto la ricchezza economica e finanziaria, ma anche la

580 Ivi, pag. 290. 581 Ivi, pagg. 291-292. 582 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 352. 231

capacità di stabilire da sé il contenuto dei concetti politici e giuridici”,

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teorizza l‟assolutezza della posizione politica rispetto ad ogni altra considerazione che potrebbe con la sua autonomia limitarla. Ma è propriamente questa assolutezza che nega in radice lo spirito del Cristianesimo, della conoscenza cristiana dell‟uomo. Infatti, se noi consideriamo la differenza essenziale tra l‟ “amico” e il “nemico” in senso politico, troviamo che il carattere “pubblico” del rapporto politico consiste nella determinazione della appartenenza come partecipazione o meno a un bene comune. Se tale Bene è interno al gruppo politico, ogni membro del gruppo ne è partecipe; se viceversa tale Bene è esterno, cioè non fruibile dal gruppo, non essendo comune non è neppure partecipabile. La stessa determinazione simbolicamente spaziale del Bene, come “interno” ovvero “esterno” al gruppo politico, implica che la natura topica del Bene lo destina a una sua insuperabile limitatezza e contestualità non partecipabile all‟esterno, almeno allo stesso titolo e modo che all‟interno del gruppo, ossia che si tratta di un Bene relativo, non universalizzabile extra moenia, e come tale non fruibile da tutti, a prescindere dalla loro appartenenza politica. L‟appartenenza locale, la fruibilità circoscritta al gruppo politico e il suo valore interno è quanto Schmitt indica con il concetto empirico di “nazione”, per cui nazionale è ciò che appartiene, vale ed è interno al gruppo politico. Ciò che è interno al gruppo politico, il comune valore partecipabile, è il contenuto pubblico della “amicizia” politica. Ma qual è il principio razionale che stabilisce tale valore, e di conseguenza distingue anche l‟appartenenza politica? Essendo un principio relativo al gruppo, non è universale anche se comune ai membri del gruppo, ma empirico e di natura finita, non trascendente. Esso, pertanto, non è un principio morale ma economico, e l‟essenza razionale dell‟economico è l‟utilità. Il nazionalismo, come principio razionale di appartenenza a un gruppo politico determinato, consiste nel valore dell‟utilità relativa all‟esistenza del gruppo. Utile al gruppo è ciò che consente la sua esistenza; dis-utile, quanto la nega. Chi è apportatore di utilità per l‟esistenza del gruppo, chi è politicamente utile, è appunto “amico” politico; chi, viceversa, ostacola l‟esistenza del gruppo gli è “nemico” politico.

583 Ibidem.

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Il Bene in senso nazionale è dunque quello utile al gruppo politico, il cui orizzonte valoriale si determina politicamente, e non secondo altri principii, come quello morale o religioso, essenzialmente universali. E la determinazione politica del principio di appartenenza, fa sì che la sua affermazione implichi una negazione, per cui si è “amici” di un gruppo politico in quanto esistono dei “nemici” esterni al gruppo, che non partecipano al suo Bene interno. La differenza rispetto alla determinazione del principio di appartenenza a un gruppo religioso è che, seppure non tutti i gruppi umani né tutti i membri di ogni gruppo umano siano di una sola religiosa, ossia compongano uno stesso e solo gruppo, quegli stessi gruppi e membri che non appartengono allo stesso gruppo religioso potrebbero in teoria costituirlo, mentre nessun gruppo politico, presupponendo il nemico per la sua stessa determinazione, potrebbe costituire un unico comprensivo di tutti i membri degli altri gruppi. In altri termini, la determinazione economica del gruppo politico implica una realtà molteplice, e per sua natura intrinsecamente conflittuale, cioè esclusiva dell‟Altro dal godimento del suo utile, e perciò di natura egoistica (sia pure di un Ego collettivo) e non altruistica, ossia morale in senso cristiano. La ragione politica, per la sua essenza utilitaristica, è pertanto, in quanto ragione economica particolare, alternativa alla ragione morale universale, che fa capo a Dio, non al padrone economico, che è Cesare. Tutti i popoli possono sottostare all‟Imperium romano, ma non possono diventare romani, poiché l‟identità romana non è riducibile all‟appartenenza politica. Allorquando infatti la cittadinanza romana fu estesa a tutti i sudditi di Roma, l‟unità politica venne a perdere il suo concreto significato esistenziale per assumerne uno astrattamente giuridico. Ora, l‟intento profondo di Schmitt è quello di collegare strettamente l‟unità giuridica a quella politica, concependo un‟unità congiunta di tipo spaziale, il cui topos terraneo segna i confini del valore politico e giuridico, la loro finitezza, indicata appunto come nazionale. La determinazione del valore nazionale del principio politico sta a indicarne la sua finitezza, la sua determinazione empirica e non universale. Potenzialmente inclusiva dell‟amico ma in quanto contestualmente esclusiva del nemico, la cui opposizione al gruppo politico ne definisce l‟appartenenza. L‟Impero, nella accezione americana recepita da Schmitt, esprime l‟ammissione etica del principio politico, ossia l‟assunzione del principio utilitaristico-nazionalistico come valore universale, il riconoscimento 233

della legittimità etica del conflitto (pòlemos) come ragione di carattere universale. L‟incongruenza di tale pretesa universalistica o imperiale, e dunque il carattere capzioso della sua natura giuridica, consiste nella pretesa del suo riconoscimento universale come indicativo del suo carattere etico, facendo coincidere l‟eticità del contenuto politico con l‟universalità del suo riconoscimento, e questo riconoscimento universale con la reciprocità che è la condizione fondamentale per la definizione dell‟etica.584 Ma proprio Schmitt, a proposito della dottrina Monroe applicata ai piccoli Stati sud-americani, aveva rilevato come il riconoscimento giuridico di una condizione politica potesse anche essere estorto, concernendo così una voluntas priva affatto di veridica intentio, per cui la stessa dottrina imperialistica ne risulta inficiata ponendo la fictio juris che ne stabilisce il principio interno come ragione di pretesa universalità legata non già al suo contenuto ma al suo riconoscimento. Lo spostamento dal contenuto universale del valore al suo universale riconoscimento indica appunto il formalismo di tale pretesa imperiale, e dunque il suo carattere arbitrario e politico. Ma proprio contro il formalismo della Legge e l‟assolutezza del principio politico si espresse la dottrina morale di Gesù, che stabilisce appunto la insuperabile differenza tra il principio naturalistico del Potere (potestas) di Cesare, e il carattere spirituale del Governo (auctoritas) di Dio. Se la potestà politica si determina attraverso la fattualità delle azioni umane considerate nel loro significato pubblico, per cui il giudizio politico ha come oggetto le actiones e non le intentiones, l‟autorità morale si stabilisce nella considerazione delle azioni umane in riferimento alla totalità della personalità che le ha intenzionalmente o meno poste in essere, e le cui determinazioni storiche, non essendo preventivabili in quanto legate non a una costante necessità naturale ma all‟imponderabile libero arbitrio di ogni uomo, non sono umanamente giudicabili in sé ma solo in riferimento al valore morale meta-temporale, che in quanto eterno non può essere quello prescritto dalla legge, che è universale solo nel senso di comune al gruppo. Da qui la differenza tra la

584 Ved. J. Habermas, La sostanzialità contraffatta (1970), in Profili politico-filosofici, tr. it., Milano, 2000.

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fittizia universalità della vigenza erga omnes della lex politica e la vera universalità del nomos morale, trascendente ogni determinazione politica particolare. Ma da qui anche la radicale differenza tra la conoscenza dell‟Altro in senso morale, e il riconoscimento dell‟Altro in senso giuridico-politico. La conoscenza morale inerisce alla intierezza della esistenza dell‟Altro come persona spirituale, creativa di storia e quindi come agente di libertà, mentre il riconoscimento politico dell‟Altro riguarda i soli aspetti del gruppo riconosciuto legati alla sussistenza economica del gruppo riconoscente, a esclusione di ogni altro aspetto, politicamente inafferente. La conoscenza morale è inclusiva del riconoscimento politico, laddove questo è esclusivo della conoscenza morale. La conoscenza che, per statuto epistemologico, è “esclusiva di valori” (Wertfrei) è quella della logica scientifica, la conoscenza razionale per definizione, il cui oggetto di giudizio sono i “fatti”, cioè la realtà fenomenica. I fatti della realtà umana sono le “azioni” (res gesta), espressioni della volontà, e non le “intenzioni”, le quali includono sia la volontà che la nolontà, ossia tanto la voluntas che l‟intentio. La conoscenza razionale considera i soli dati di fatto, che, acquisiti come se fossero uguali e costanti, li unisce secondo una ipotetica legge universale. Questa ipotesi non è possibile formularla nel caso delle azioni umane, le quali, essendo libere di determinarsi secondo l‟arbitrio singolare, no sono prevedibili. L‟accertamento di una condotta umana, legale come politica, è subordinato sempre alla prescrizione della sua fenomenologia nel senso della sua rilevanza ovvero della sua irrilevanza rispetto al modello prescritto come valido, come rilevante. La prescrizione di cui si tratta è dunque un punto di vista sul tutto: una opinione razionalizzata come realtà valida distinta da quella invalida e perciò indifferente al giudizio prescrittivo. Dal punto di vista morale, invece, nessuna azione o volizione o intenzione è indifferente al giudizio sulla persona, cioè alla sua valutazione totale. Ciò comporta che il giudizio morale non distingue né esclude il valore rilevate dall‟irrilevante nella persona, essendo valore rilevante non ciò che fa la persona ma ciò che essa è in quanto storia spirituale in fieri. Il giudizio razionale essendo relativo ai facta inerisce sempre al passato, il quale costituisce la dimensione di certezza del valore considerato, laddove il giudizio morale è aperto al futuro, alla speranza, al mistero e all‟incognito. E proprio la considerazione dell‟esperienza umana come mistero dell‟esistenza dell‟uomo, fa di quella esperienza esistenziale una storia spirituale intessuta dello stesso Mistero divino, 235

inconoscibile all‟uomo ma la cui consapevolezza lo costituisce come la fonte medesima della Verità. La Verità come mysterium Dei è la cifra spirituale della conoscenza umana in senso cristiano. In questo senso, possiamo ben intendere la radicale differenza tra la conoscenza razionale della realtà delle opere umane, ossia la realtà del mondo, e l‟intuizione cristiana dell‟esistenza umana come storia spirituale. La conoscenza razionale interessa l‟Essere del mondo, è cioè una onto-logia, laddove la conoscenza cristiana dell‟uomo è l‟intuizione del suo Mistero, la veritas che abita in interiore homine. Considerare come rilevante rispetto al valore razionale il solo Essere dell‟uomo, a scapito dell‟ignoranza del Mistero che comprende la sua esistenza, significa ridurre la conoscenza alla sola fatticità, alla sola produzione fattuale, la quale, rimossa da essa ogni rilevanza intenzionale ossia morale, non è giudicabile sotto la luce eterna ma solo distinguibile in relazione al giudizio politico, ossia all‟utilità relativa al gruppo giudicante. Tale criterio politico, universalizzato nel senso dell‟unica rilevanza di conoscenza scientifica dell‟uomo, istituisce convenzionalmente il principio utilitaristico come il solo universalmente riconosciuto come valido nelle relazioni pubbliche fra gli uomini e fra i gruppi umani. In questa globale convenzione giuridica circa l‟unicità del valore economico-politico come valore universale dell‟umanità consiste l‟idolatria elettiva dell‟Anticristo, ossia dell‟ideologia democratica mondialista, fautrice dell‟origine popolare anziché divina della Verità intesa come opinio communis e del Potere. All‟interno dell‟orizzonte democratico, cioè della dottrina per la quale omnia potestas a populo, le diverse e confliggenti interpretazioni del principio mitico si scontrano per l‟egemonia della propria versione razionalizzata e, come al tempo delle sentite tensioni teologiche del cristianesimo dei primi secoli, cercano tenacemente e cruentemente di affermarsi a scapito e ad esclusione delle ideo-logie concorrenti. Esse sono l‟ideologia nazionalistica del fascismo politico, l‟ideologia comunistica del socialismo politico e l‟ideologia capitalistica del liberalismo politico. Tutte queste ideologie democraticistiche di cultura immanentistica hanno un comune nemico, la religione trascendente universale che ha dominato la cultura e la politica mondiale per oltre un millennio. Con l‟eliminazione della fascistica e della socialistica, a competere il campo alla dottrina cristiana è rimasta l‟ideologia capitalistica, con la sua religione civile democratico-eudemonistica, che a fronte della massimizzazione della produzione e dei consumi promette a 236

ognuno il massimo della disponibilità del mondo e di se stessi, cioè della libertà da ogni dovere che non sia quello della miglior vita possibile per tutti. Seduzione subdola quanto penetrante, diabolicamente duttile e pervasiva, che s‟insinua tra le pieghe di ogni civiltà e ogni cultura, trasformandone per mezzo della funzionale razionalità della tecnica la tradizionale potenza spirituale del sapere che le governava con l‟antico retaggio sapienziale, in superflua archeologia sovrastrutturale, allo scopo di inaugurare un nuovo eone post-cristiano all‟insegna dell‟homo technicus democraticus di modello americano, che segnerebbe la fine dell‟identità di Cristianesimo e Storia umana e l‟instaurazione del nuovo Regno dell‟umanità pleromatica dell‟homo homini deus. Contro la minaccia del pleroma democratico-capitalistico concorrente alla Weltanschauung cattolica e subentrante nella pretesa mondialistica, la teologia politica cristiana, dalla cui crisi si è sviluppata, per un verso, la secolarizzazione delle culture politiche dell‟orizzonte cristiano-europeo, e per l‟altro la sacralizzazione del sistema sociale democraticocapitalistico, non può che ripartire dal pensiero di Agostino, la cui intuizione della verità della fede ha fondato una lettura del mondo e dell‟esistenza umana in esso diversa da quella alessandrina che si definì nella teologia politica di Eusebio di Cesarea e che entrò in crisi a partire della Riforma consumandosi nel XX secolo nell‟estremo appello di Schmitt. Ciò che entrò in crisi di quella teologia politica fu la pretesa teocratica di “ridurre la persona divina alla vigenza del mondo”,585 dalla cui reazione sorse l‟opposta tendenza scissionista, lo spiritualismo protestantico e il liberalismo politico. Agostino, con la sua teoria insuperabilmente dualistica, offrì una rappresentazione del divino nel mondo che non lo confuse col mondo, e dunque non lo risolse nell‟immagine mitizzata del mondo, ma istituì la autorità divina sul mondo mantenendola nella sua differenza dal mondo; differenza in cui risiede la sua autorità: l‟autorità della “differenza ontologica” (Heidegger) di ciò che permane rispetto a ciò che diviene.586

585 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 381. 586 “Agli occhi di Agostino, tutta la storia si deve leggere come un incessante conflitto tra due forme di socialità, l‟una fondata sul bene e sull‟amore dell‟uomo per Dio, l‟altra sull‟egoismo e sull‟amore dell‟uomo per se stesso. Questa distinzione separa l‟umanità in due città distinte, ma invisibili e contemporaneamente presenti nel mondo”, di cui una sola, “la più importante delle due” è “destinata a durare oltre l‟orizzonte del tempo”. 237

Una questione che rimane essenziale, perché prioritaria rispetto a ogni determinazione teologico-politica, è quella inerente alla natura singolare ovvero collettiva dell‟attesa escatologica, sulla cui base è possibile pervenire a una concreta teoria dell‟azione cristiana nel mondo. A seconda infatti della definizione della modalità di quella natura escatologica, ne dipende la relativa considerazione della funzione della Chiesa e dello Stato. Solo una declinazione soggettiva della salvezza dell‟anima può pervenire a risoluzione politica di tipo contrattualistico, rientrando nella disponibilità di ogni contraente del patto civile la libertà di testimoniare la sua singolare identità spirituale. Viceversa, una determinazione collettiva dell‟attesa escatologica nel tempo intermedio stabilisce la fondamentale e imprescindibile realtà istituzionale della Chiesa, la cui funzione politica storicamente coincide con la sua stessa rappresentatività del corpo mistico cristiano. E se la prospettiva individualistica giunge alla costituzione dello Stato in assenza o in alternativa alla non necessaria istituzione ecclesiale, la affermazione della prospettiva collettiva postula il riconoscimento della necessità escatologica della sola Chiesa, rispetto alla cui necessaria esistenza la formazione storica degli Stati, ossia della forma politica di convivenza umana, appare un‟opzione secondaria e transeunte, ossia accidentale. La secolarizzazione della cultura moderna, e dunque della definizione razionale delle diverse e contrastanti prospettive politiche del tempo, si riflette nella preventiva rimozione ideologica di questo discrimine teologico, senza il quale la questione religiosa viene a perdere ogni rilevanza “pubblica”. La perdita della rilevanza pubblica, ossia politica in senso schmittiano, della questione teologica è la condizione della assolutizzazione della posizione politica, priva di ogni fondamento teologico al pari di ogni sapere razionalistico moderno, privato del suo fondamento mitico-veritativo. Questa rimozione razionalistica del fondamento ha consentito l‟affermazione culturale delle ideologie totalitarie, e la stessa posteriore occupazione dello spazio pubblico da parte della versione capitalistica, la quale appunto postula l‟origine

“Agostino vedeva con molta più chiarezza di Ippolito e Girolamo che quello di Roma era solo uno dei tanti regni di questo mondo, destinato a passare e a essere sostituito, come tutti quelli che l‟avevano preceduto”: M. Rizzi, Anticristo. L’inizio della fine del mondo, Bologna, 2015, pagg. 51 e 57.

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popolare e non divina della sovranità politica in conseguenza della negazione protestantica dell‟istituzione che presidia la realtà collettiva dell‟identità spirituale, alla quale l‟ideologia democratica sostituisce l‟identità politica assolutizzata. Le due diverse prospettive teologiche disegnano due rispettive antropologie, l‟una costruita sulla possibilità di ogni uomo di conformarsi liberamente alla giustizia divina sulla base di una oggettiva razionalità che priva il giudizio divino nel secondo avvento di ogni arbitrarietà, rendendolo in qualche modo umanamente prevedibile e legittimo, mentre l‟altra ripone ogni salvezza umana sull‟imponderabile intervento salvifico dello Spirito santo, verso il quale l‟uomo deve disporsi ad accoglierlo, senza alcuna certezza di tempo né di contenuti. Nel primo caso, l‟accento cade più sulla modalità del giudizio che sulla condizionatezza esistenziale dell‟avvento, laddove nell‟altro caso la sua imponderabilità ispira una solidale disposizione fraterna che nella propria condizione di fragilità riflette la condizione comune a ogni uomo. Nel primo caso, la socialità è una deliberata opzione di opportunità economica, che non determina l‟identità spirituale singolare dell‟uomo, nell‟altro invece la condivisione dell‟attesa della compiutezza escatologica induce nell‟interim ad affidarsi alla guida pastorale del magistero apostolico. Inoltre, l‟individualismo soteriologico sposta il paradigma storico della vita collettiva dell‟uomo sulla socialità politica, quale atteggiamento volontaristico dell‟agire razionalmente predisposto dal libero accordo degli uomini, laddove la seconda prospettiva riconosce nella stessa condizione spirituale dell‟uomo l‟essenza della sua storicità come dato esistenziale originario e consustanziale al suo agire nel tempo. La possibilità di assimilarsi a Dio (homòiosis) attraverso l‟esercizio delle virtù e della contemplazione era prevista sin dalla tradizione alessandrina, che riteneva di poter pervenire alla vita eticamente perfetta. Ma, rispetto alla prospettiva antica della beatitudine, la teoria moderna non si concentra sulla perfezione morale e gnoseologica, ma sull‟intelligenza pratica e sul progresso nella perfezione delle possibilità tecniche dell‟homo oeconomicus. Non si assomiglia più a Dio attraverso la sapiente esegesi del Suo logos, ossia in ambito teoretico, ma nel potere di modificare l‟immagine, se non proprio la struttura, del mondo. La “convinzione che un mutamento nell‟ordine dell‟essere rientri nell‟ambito dell‟azione umana” è il tratto immanentistico tipicamente gnostico della cultura del fare che caratterizza il nostro tempo, in cui “la 239

conoscenza – gnosi – del metodo per trasformare l‟essere costituisce la preoccupazione centrale”.587 La relativa “formula della salvezza dell‟io e del mondo” è, nella forma ideologica residuale dopo la fine del nazionalismo e del comunismo storici, la democrazia capitalistica. Essa è la forma più radicale di immanentizzazione dell‟éschaton cristiano, sostituito con una salvezza mondana a portata della volontà umana. Immanenza significa inversione dell‟ordine valoriale nella concezione antropologica, per cui non è l‟orizzonte spirituale, incentrato sulla ricerca e il perseguimento del Bene, quello di riferimento per l‟ azione umana ma l‟orizzonte naturalistico, dominato dagli istinti della sopravvivenza e della paura della morte. “Lo stato „naturale‟ della società dev‟essere quindi concepito come la guerra di tutti contro tutti [e] il solo modo per gli uomini di uscire dalla guerra di questo stato di natura condizionato dalla passione è di sottomettersi a una passione più forte di tutte le altre, che domerà la loro aggressività e il loro impulso di dominazione e li indurrà a vivere in un ordine pacifico”.588 Da qui il primato della prassi sulla contemplazione, e della politica e dell‟economia, quali scienze mondane, sulla metafisica e sulla teologia, ridotte a saperi privati. Ma da qui anche l‟inevitabile decadenza della civiltà in progressione della potenza sociale, che sviluppandosi fuori di ogni controllo governamentale rischia di introflettersi provocandone la auto-dissoluzione per mancanza di finalità trascendenti l‟acquisizione della potenza stessa. L‟esito di questo processo dissolutivo è la guerra indiscriminata, prodotta dalla inconoscibilità dell‟uomo da parte dell‟altro uomo a seguito della mancanza di un Logos comune al quale ognuno partecipi e sia consustanziale alla propria natura. L‟alterità quale condizione naturale ed esistenziale dell‟uomo domina l‟orizzonte fisiologico della guerra universale, del principio politico nel senso di Schmitt. Questa ritorsione irrazionalistica e anti-cristiana di una ratio assolutizzata e priva di ogni tèlos trascendente è la conclusione superstiziosa dell‟emancipazione dalla fede nei fondamenti del sapere patrocinata dalla secolarizzata scienza tecnologica moderna; un sapere frantumato nelle sue molteplici direzioni particolari, prive di metafisica unità.

587 Ved. E. Voegelin, Ersatz Religion (1960), tr. it., Milano, 1990, pag. 9. 588 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 28.

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7. La logica stabilisce la sua unità sul fondamento del rapporto formacontenuto. Questa correlazione concettuale costituisce una forma d‟essere che insieme determina un modo d‟essere del suo contenuto esistentivo. Il modo d‟essere di ciò che è, interessa nel contempo il modo d‟essere di ciò che esiste, per cui ciò che esiste nel modo d‟essere del suo essere, esiste come ciò che è. Esistere come essere, significa essere contenuto di una forma. Nell‟ambito del rapporto logico, l‟essere del contenuto coincide con l‟essere della forma, per cui l‟esistenza di ciò che logicamente è viene identificata con l‟essenza ideale, e l‟essenza ideale identificata con l‟esistenza reale. Ma la realtà logica non è la realtà spazio-temporale propria dell‟essere fisico, per cui la determinazione formale dell‟essere contenuto della forma logica non determina anche l‟esistenza spaziotemporale dell‟essere concettuale. Questa determinazione reale è esterna al concetto d‟essere formale, il quale, senza tale determinazione reale, stabilisce col suo contenuto una correlazione assoluta, che è la realtà propria della forma artistica. L‟opera d‟arte è una realtà in sé conchiusa, il cui contenuto è giustificato soltanto dalla sua forma. Questa relazione assoluta consente all‟opera d‟arte di non sottostare ad alcun giudizio di realtà conseguente ad altro criterio che non sia quello formale suo proprio, per cui nell‟arte non c‟è errore perché non è possibile stabilire la correlazione tra l‟essere ideale formale e l‟essere reale in senso spazio-temporale o esistentivo. Correlazione che stabilisce il criterio di verità di ogni concetto logico, il quale o è oppure non è vero. Criterio del tutto estraneo all‟arte, per cui assumere l‟essere dell‟arte come modello d‟essere del concetto logico di realtà è una aristotelica “metabasi in altro genere”, che confonde la realtà dei contenuti di coscienza, prodotto della nostra immaginazione creativa, con la realtà degli enti fenomenici. L‟arte, infatti, rappresenta la realtà, ma non la sua essenza della realtà, la quale a sua volta è diversa dalla sua esperienza reale. Un botanico può conoscere quasi tutto dei girasoli, ma non alla maniera di Van Gogh, il quale dipingendoli li rappresenta, ma non ne esprime l‟essenza ideale, che è univoca, bensì l‟essenza formale, che è simbolica. Il contenuto dell‟arte è creato dalla sua forma simbolica, mentre la conoscenza logica dei fenomeni tratta della loro esistenza reale o fenomenica. Il che vuol dire che nella sfera logica l‟esistenza precede l‟essenza: la realtà è cioè indipendente dalla conoscenza. Questa realtà 241

indipendente, non è distinta da quella teoretica, cioè pratica, ma è altra. Ed è tale alterità dalla forma conoscitiva a fare del mondo-della-vita un contenuto simbolico della conoscenza, e cioè possibile. Ed è questo contenuto ad essere l‟oggetto dell‟arte. La possibilità della conoscenza è dovuta all‟Essere della coscienza, determinabile in relazione al suo orizzonte di senso. Se infatti il contenuto, non essendo determinato dalla forma conoscitiva se non nel concetto o atto conoscente, esso non è pertanto pre-determinato logicamente, ma aperto a diverse possibili determinazioni conoscitive. E se il contenuto logico è un contenuto determinato necessariamente, tale cioè che il suo essere implica l‟esclusione di ogni suo non-essere, il contenuto che nn-è logico è disponibile ad altre determinazioni, per cui il suo essere proprio è la Possibilità, e non l‟essenza, che è la forma esclusiva dell‟essere logico. Il mondo-della-vita è la realtà possibile di molteplici determinazioni formali e perciò aperto alla trascendenza. Infatti, la realtà de-terminata in senso logico è de-finita dal suo concetto ideale, che è immanente al suo oggetto reale. La finitezza della de-finizione è quella della realtà del suo oggetto, per cui l‟immanenza dell‟idea nell‟oggetto di pensiero costituisce la loro corrispondenza ideale-reale, ossia la correlazione della realtà alla sua idea. Questa correlazione è intesa come certezza della coscienza razionale, che è la dimensione della necessità in cui si muove la conoscenza logica, per cui ciò che è così com‟è, non può essere altro da ciò che è. Da questa necessità deriva ogni etica, che in essa trova il suo fondamento deontologico. La realtà simbolica, invece, inerisce alla possibilità d‟essere di ciò che nonè determinato logicamente, e che esiste in quanto altro da ciò che è. Ciò che è, ossia l‟ente, è determinato dalla sua necessità d‟essere così com‟è, ossia dalla sua attualità. L‟attualità è la modalità d‟essere di ciò che è necessitato di essere ciò che è, cioè un ente logicamente de-finito, laddove ciò che non-è definito, è consegnato alla possibilità d‟essere altro da ciò che è necessario, e quindi alla sua libertà, la quale è la dimensione propria della realtà del mondo-della-vita, e quindi dell‟arte. Ma la libertà, che è l‟essenza dell‟Essere possibile, cioè la realtà della Possibilità, è l‟orizzonte di senso simbolico della fede, la quale dunque si rappresenta nella forma della possibilità, non della necessità, e quindi nella forma dell‟arte e non della logica. La fede nell‟Essere, in cui consiste l‟affermazione della sua esistenza, non esclude la sua determinazione logica, cioè la sua definizione, ma è la definizione logica che esclude la 242

possibilità della fede in nome della necessità della certezza. E pertanto, se l‟orizzonte di senso della fede include il livello di coscienza logico, la coscienza logica esclude sempre, per de-finizione, la possibilità della fede. In tal senso, la realtà esclusa dalla definizione logica dell‟Essere, ossia la realtà possibile, è l‟orizzonte di senso della fede, ossia esclude la rappresentazione simbolica del mondo-della-vita, che è rappresentata dall‟arte. I contenuti simbolici dell‟arte sono gli stessi contenuti simbolici della fede, per cui la realtà del sacro è la realtà rappresentata dall‟arte. E non già la realtà oggetto della conoscenza logica. Aver determinato logicamente i contenuti simbolici della fede, è equivalso ad aver rappresentato l‟Essere possibile nei termini della necessità, anziché della libertà, che è l‟essenza della fede. Questo ha costituito l‟errore fondamentale della coscienza religiosa cristiana, che si è determinata attraverso le forme teoretiche della logica greca, e da cui è nato il formalismo razionalistico del mondo moderno. La possibilità, quale dimensione aperta a una pluralità di determinazioni di pensiero, e quindi libera, si traduce in necessità di ciò che è così e non altrimenti, nel concetto, il quale attribuisce al suo contenuto un significato determinato. Ciò vuol dire che nella definizione concettuale la determinazione logica rappresenta una necessità valida solo nell‟ambito di quella determinazione, ma non è costitutiva dell‟essere del suo contenuto extra-categoriale. Tale “essere”, fuori del concetto, è un essere esistenziale, aperto alla possibilità d‟essere altrimenti da ciò che è. L‟essere esistenziale e l‟essere essenziale coincidono solo nel concetto, ma non nel mondo-dellavita, che è l‟orizzonte ontologico della possibilità. Poiché i fenomeni mondani, gli enti, si manifestano in una relazione che non è temporale ma di senso, il “dato” fenomenico si presenta alla coscienza logica in un ordine di senso empirico che è “sistemico” in relazione alla comprensibilità razionale presupposta dal “sistema”. Ed è questa struttura empirica del “sistema” di senso a variare storicamente nel tempo in relazione alle forme di cultura di un‟epoca o di una civiltà. Ma questo ordine sistematico, empirico, è ben diverso da una “sistemazione” propria di un ordine trascendentale, originario e costitutivo quanto l‟altro sia riflesso. Per cui “si deve considerare la sistemazione come una forma costitutiva, perché un oggetto teorico non sistematizzato è addirittura

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inconcepibile”.589 Ciò significa che il “dato” dell‟esperienza appartiene a una “sistemazione”, prima di appartenere a un eventuale “sistema” di relazioni empiriche riflesse razionalmente. La sistemazione logico-trascendentale è un ordine puramente formale, oggettivo e indipendente da ogni attività concettualizzante soggettiva.

Un teorema, un giudizio, un concetto, la soluzione di un problema, hanno un senso soltanto se si presuppone che c‟è una soluzione corretta, per quanto provvisoria ed erronea possa essere quella momentanea, che c‟è una verità valida indipendentemente dal nostro contributo che non sorge nel nostro pensiero, ma al contrario viene da esso cercata, voluta e in caso positivo raggiunta. Per formare comunque un concetto, si deve emettere un giudizio, si devono presupporre le sistemazioni nelle loro forme postulate come completamente chiuse e valide in sé.590

Solo in relazione alla sua “forma” un contenuto può essere giudicato vero o falso. Ma la forma può essere vera o falsa solo in rapporto alla verità in sé, ossia alla relazione che il concetto ha col suo contesto sistematico. I problema della conoscenza come “teoria” formale, presuppone che la conoscenza abbia di necessità un carattere “razionale”, confondendo la “conoscenza” con il “sistema” razionale. Ma la conoscenza razionale è conoscenza non di realtà, ma di relazioni, sicché essa opera astraendo dalla concreta realtà dei fenomeni per assumerne il solo valore di senso, e cioè, appunto, di relazione. La considerazione dei fenomeni si sposta dal loro essere evidente al loro essere in relazione ideale, il quale è perciò relativo al processo entro il quale i fenomeni vengono inscritti. Nella conoscenza razionale, dunque, non sono i fenomeni ad avere valore ma la loro relazione di senso. Ciò implica che i fenomeni oggetto della conoscenza, astratti del loro valore assoluto, proprio alla loro singolarità esistenziale, possano essere intercambiabili senza che venga a perdersi il loro valore di senso, cioè il valore conoscitivo della relazione razionale. In questa trasposizione della realtà propria con la realtà ideale consiste la astrattezza della conoscenza scientifica,la quale non considera i suoi oggetti quali

589 K. Mannheim, La logica della sistemazione filosofica, in L’analisi strutturale della epistemologia (1922), tr. it., Milano, 1967, pag. 45. 590 Ivi, pag. 48.

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appaiono all‟esperienza concreta, ma in quanto realtà relativa al loro nesso razionale, sistemico. Il “relativismo” è il carattere proprio della conoscenza scientifica, che considera dello stesso valore oggettivo tanto l‟evento meramente temporale (Ereignis) – la presa della Bastiglia o la morte di Cesare – che l‟evento escatologico (Dòkema). La conoscenza della realtà nella sua dis-formità concretamente in divenire, è percezione intuitiva, non razionale. L‟intuizione conosce i fenomeni nella loro apparenza mondana, per cui, mentre la ragione astrae da questa intuizione del mondo per stabilire tra i fenomeni una relazione di tipo logico, l‟intuizione aderisce completamente alla realtà come essa appare all‟esperienza immediata. Immediatezza ed apparenza sono i caratteri dell‟intuizione, ma anche della conoscenza razionale, per cui non è da essi che questa astrae per affermarsi. Infatti, il carattere ulteriore e fondamentale dell‟intuizione, in quanto originario, e dal quale la conoscenza razionale astrae per stabilire i rapporti causali tra i fenomeni, è la Possibilità dell‟essere di divenire altro da ciò che appare, ossia di essere altro da ciò che attualmente è. L‟intuizione coglie il divenire della possibilità dell‟Essere, e quindi anche l‟elemento negativo che la conoscenza razionale non considera a favore della sola positività attuale del tempo presente. Il presente è il tempo della storia, in cui tutto è ciò che è in relazione alla sua attualità fenomenica, ossia entro la realtà di senso logico, esclusivo di ogni altro. Ed è l‟evento storico quello che sorge e termina dal Negativo opposto alla positività dell‟attualità, e non già il fenomeno intuito secondo la sua possibilità d‟essere nell‟Essere possibile, ulteriore a quello esclusivamente attuale. Nell‟orizzonte di senso della Possibilità va intuito l‟evento escatologico fondativo del senso stesso della Storia, il Dòkema di Cristo, che sussiste nella storia umana come la Storia significativa della possibilità di essere sempre altro da ciò che è, e quindi di essere oltre l‟effettualità del solo presente. Tale alterità ontologica e tale ulteriorità temporale costituiscono i caratteri essenziali della trascendenza dalla attualità della storia e della conoscenza razionale. Il fondamento di realtà della conoscenza intuitiva del mondo non è lo stesso fondamento di realtà della conoscenza razionale. Questa differenza fondamentale è la stessa che distingue la libertà della Possibilità dalla necessità dell‟Attualità. Ed è la stessa differenza che distingue l‟intuizione dell‟Essere possibile dalla conoscenza dell‟Essere certo. La certezza non appartiene all‟intuizione, ma alla cognizione razionale, che appunto non è 245

libera di determinarsi ma soggetta alla necessità. Se questo è chiaro, si comprende bene l‟impossibilità, o improprietà, di conoscere razionalmente l‟Evento escatologico, e quindi l‟impossibilità o improprietà di giustificare la fede nel Dòkema con la ragione. La conseguenza di tale coscienza è che la stessa libertà umana sussiste solo entro l‟orizzonte di senso ontologico della possibilità, per cui ogni forma di relazione razionale tende a convertirla in necessità. Sicché la forma di socialità definita attraverso il patto politico di società è fondamentalmente illiberale, in quanto determinata secondo i senso della necessità razionale. La forma di socialità predicata da Cristo non è, dunque, quella politica derivata dalla conoscenza razionale del mondo, ma bensì quella della verità che libera da tale costrizione razionalistica. La “verità che rende liberi” è quella che afferma che l‟essenza dell‟Essere sia la Possibilità, e non la necessità, per cui l‟essenza della realtà sia l‟amore e non già la legge. Amore vuol dire anzitutto a-more, ossia differenza dalle convenzioni sociali, dalle regole di condotta stabilite secondo prescrizione legale. Il modo d‟essere della relazione libera è di costituirsi fuori della costrizione legale, fuori del pactum societatis, ma per libera adesione. Aderire alla comunità di fede significa convertirsi alla libertà. E “conversione” non significa “rivoluzione”, cioè passaggio dalla condizione concreta a quella razionale, ma l‟opposto, ossia considerazione della insuperabile finitezza della condizione umana. Come aveva ben intuito Chateaubriand il fondamento dottrinario della socialità razionalisticamente intesa è il “sistema di perfezione”,591 consistente nel principio secondo il quale i governi sono predisposti a conseguire il bene comune dei governati. In base a tale principio, la politica diventa il sostituto razionale della Provvidenza, agendo sulla realtà razionalizzata della società con la tempestività e giustizia relativa alla certezza della sua cognizione morale. Conoscenza razionale e politica stanno in un rapporto logico molto stretto, chiaramente colto da Mannheim, per il quale “alla base di ogni pensiero politico stanno certi assunti filosofici, mentre in ogni filosofia sono impliciti un certo modello d‟azione

591 F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française (1797 e 1826), tr. it., Milano, 2006, pag. 82. 246

e un dato modo di vedere il mondo”.

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Esisterebbe dunque una corrispondenza logica necessaria tra pensiero e azione che, sia pure inconsapevolmente, consente la leggibilità razionale della prassi politica attraverso il riferimento (implicito) ai suoi principi ispiratori di natura ideale. ciò vuol dire che la prassi è orientata sulla falsariga di una necessità logica che la sovrasta e che la costituisce come senso tendenziale del suo processo razionale. Prosegue Mannheim:

Dal nostro punto di vista, tutta la filosofia non è che un‟elaborazione più profonda di un dato tipo d‟azione. Per comprendere la filosofia, si deve comprendere la natura dell‟azione (dell‟approccio pratico al mondo) che ne è alla base. Questa „azione‟ è un modo speciale, specifico di ogni gruppo, di penetrare la realtà sociale; le sue forme più tangibili sono quelle politiche. La lotta politica esprime i fini e gli scopi che danno vita inconsciamente, ma coerentemente in tutte le interpretazioni coscienti o pre-coscienti del mondo, proprio di un gruppo determinato.593

Il “punto di vista” assunto è quello del sistema razionale che cerca nessi coerenti e li trova nel “rispecchiamento” ideale del sistema d‟azione nel modello formale. La forma è una “elaborazione” dell‟azione, ossia la sua sistematica spiegazione razionale secondo un “sistema” di corrispondenze razionalmente coerenti. Su questo schema Pareto ha derivato la sua teoria delle “derivazioni”. In essa la filosofia ha solo una funzione pragmatica, ovvero, come in Hegel, una funzione esplicativa della prassi, a seconda che il punto di osservazione sia, rispettivamente, ex ante ovvero ex post. Spostato modernamente il senso unitario dalla religione alla politica, il pensiero diventa funzionale alla prassi, da funzione ancillare che quest‟ultima aveva in origine. Finché ci si poneva all‟interno dell‟orizzonte di senso metafisico tradizionale, era impossibile almeno affrontare la crisi nei termini di una corretta presa di coscienza, tale cioè che non rinviasse, come proponeva Husserl, a un ritorno ai fondamenti del Logos interni allo stesso filosofare. In verità, l‟appello ai fondamenti poteva trovare una qualche plausibilità solo se auspicava un trascendimento dell‟orizzonte noetico

592 K. Mannheim, Il pensiero conservatore (1927), tr. it. in Id., L’analisi strutturale della epistemologia, Roma, 1967, pag. 148. 593 Ibidem.

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tradizionale, giunto appunto inequivocabilmente alla crisi estrema nel luogo stesso del suo rispecchiamento esistenziale, lo spazio politico. Trascendere lo spazio politico significava tornare alla pienezza del Verbo, allo spazio del legein in cui originavano le stesse determinazioni del logos razionale, cioè di quel pensiero filosofico che aveva suscitato e ispirato la téchne politiké. Il legein quale capacità umana di comunicare con gli altri costitutiva secondo Aristotile dell‟essenza dell‟uomo, non è originariamente il ragionare sui principi, ossia il distinguere l‟Essere dal non-essere, ma il rappresentare la realtà stabilendo un legame verbale –un legein appunto – tra la posizione dell‟uomo (la sua coscienza) e le cose. Solo dopo interverrà il bisogno di stabilire una relazione anche tra le cose, distinguendole, e pertanto di stabilire le differenze nominali e le relazioni razionali tra esse. Il logos è funzionale all‟agire comunicativo, ossia all‟attività politica, mentre il legein non aveva una finalità pratica, cioè trasformativa, ma rappresentativa, cioè contemplativa, del mondo. Aristotile stesso aveva fatto iniziare il filosofare dal thaumazein, che è l‟atteggiamento della meraviglia verso quanto accade fuori dell‟uomo e della sua portata materiale. Ciò che appare e resta fuori della portata manipolatrice dell‟uomo suscita meraviglia, che si riassume negli atteggiamenti essenziali del fascino e della paura. Per scongiurare la dipendenza ovvero l‟impotenza dell‟uomo da questi fenomeni, la coscienza sviluppa un discorso di relazione con l‟evento meraviglioso che lo rappresenta come un accadimento verbale, un racconto. Il modo propriamente umano di entrare in relazione con l‟evento in-dipendente da lui e fuori quindi della sua portata è di assumerlo come vento rappresentativo di una stria verbale, come racconto narrato, ossia Mito. Il Mito dunque è la narrazione della relazione dell‟uomo, ovvero della coscienza umana, con ciò che non dipende dall‟uomo, col divino. Il divino, nella rielaborazione razionale del Mito, diventa l‟Essere, cioè la fonte originaria oggettivata dell‟evento, l‟arché dell‟ente, di ciò che appare. La modalità di relazionarsi del logos col mondo e di emanciparsi quindi dal legein è la scrittura, con cui istituzionalizziamo la nostra relazione con il mondo. Il mondo non viene più soltanto “chiamato”, ma anche “de-finito”, ossia ordinato secondo il suo essere-ciò-che-è anziché altro. La determinazione dell‟essere dell‟ente consiste nell‟attribuirgli un ordine nel mondo. Pensare all‟ente significa assegnargli un posto, il suo posto nel mondo, e quindi organizzare il mondo. Assegnare un posto all‟ente comporta anche il garantirgli la sua stabilità, 248

la persistenza nel suo essere ciò che è anziché altro. La garanzia dell‟ordine mondano appella l‟esercizio della forza garante della stabilità. Ma l‟appello alla forza, ossia la garanzia della stabilità dell‟ordine del mondo, non deriva immediatamente, cioè necessariamente, dall‟appello, dalla nominazione degli enti (Nennen). Essa è la conseguenza della volontà di affermare l‟ordine nominale come una determinazione universale, riconoscibile da tutti, e quindi de-finitiva. Definire l‟ente nel suo ordine mondano significa stabilire la sua relazione con gli altri enti in maniera stabile e duratura, de-finitiva. Ed è a garanzia di tale di-finitività che il pensiero si appella alla forza garante, la quale altro non è che l‟organizzazione della vita in comune in relazione all‟ordine definitorio degli enti. In questo senso, la definizione aristotelica dell‟uomo come essere politico è collegata strettamente al suo potere di nominazione degli enti. Le due condizioni antropologiche si richiamano a vicenda e si integrano nella reciproca legittimazione. E‟ allorquando le due qualità antropologiche fanno a meno del riconoscimento della loro derivazione mitica che avviene lo strappo logoico dal legein. La parola unita alla forza si sostengono a vicenda nel costituire l‟orizzonte significativo per l‟uomo. Assumendo l‟Essere come oggetto del pensiero inizia la filosofia, il legein viene reinterpretato alla luce del logos, cioè del discorso logico che distingue all‟interno della rappresentazione mitica l‟ente reale-razionale dalla rappresentazione non reale, fantastica, che diventa l‟elemento negativo dell‟Essere razionalmente conosciuto. Ed questa in-realtà della rappresentazione mitica originaria che viene rimossa dalla rappresentazione razionalistica della realtà. Ed è da questa rimozione dell‟originaria totalità paterna a ispirare il sentimento dell‟angoscia e il senso di colpa per il parricidio metafisico della ragione, perpetrato per confermare l‟ordine razionale, definito dalla ragione. L‟ordine della ragione emancipata dal semplice legein originario e stabilito in modo definitivo è il Potere. Dall‟indistinto mitico eviene qualcosa (tò sumpipton), che si distacca dalla eterna durata del Tutto ed assume una sua realtà reale-temporale: l‟hic et nunc è anche istante temporale, attualità. Ciò che è, è tempo. L‟ente è in quanto presente. La temporalizzazione ontica di ciò che è, indica una origine dalla pura durata, e quindi dall‟Eterno, che per i teologi greci come Anassimandro era il luogo degli dèi, che governavano il Tutto. In questo senso, la determinazione dell‟ente dall‟Essere divino 249

originario si costituisce come evento della temporalità presente che si distingue dall‟ambito dell‟eterno Governo divino. L‟organizzazione definitoria degli enti mondani stabilisce un ordinamento temporale la cui de-finizione attuale si stabilisce in termini di durata di ciò-che-è, ossia del presente, quale semper del nunc. La stabilizzazione de-finitiva di ciòche-è, dell‟ente, è la de-finizione razionale del concetto operata dal logos. Logico è ciò che viene nominalmente stabilito per durare: la de-finizione universale, l‟Idea. Ma ciò che viene idealmente stabilito è appunto l‟ente, ciò-che-è, ossia l‟evento attuale. E pertanto la definizione concettuale o ideale o categoriale dell‟universale è la determinazione de-finitiva dell‟ente, la stabilizzazione di ciò-che-è presente assunto in termini di durata. L‟Idea è l‟ente in senso universale, ossia il presente assunto (nominato) in termini di durata in-finita. E quindi come se fosse evento in-definito, ossia mitico. Ma rispetto alla durata mitica, la durata universale è puramente ideale, ossia ipoteticamente simile a quella vera, la originaria, e perciò la concettualità razionalistica è in sé puramente convenzionale. La con-venzionalità della de-finizione razionale è il carattere della opinione socializzata, ossia della asserzione definitoria creduta vera nell‟ambito ideale della sua stessa credenza. E poiché l‟ambito della credenza è quello sociale del convivenza umana, ecco il carattere politico di ogni opinione di valore pubblico. Razionalità e pubblicità sono gli aspetti concomitanti del logos, rispetto al cui orizzonte de-finitorio la verità archetipa originaria del legein mitico è trascendente. La verità trascende l‟Idea, la forma razionale del mondo, il cui topos è la polis. Entro la “differenza ontologica” tra enti ed Essere s‟insinua la libertà quale spazio della possibilità di trascendere la finitezza della condizione politica e accedere, attraverso il suo richiamo, all‟Essere. Fondamentale alla libertà è dunque l‟attesa per l‟ascolto, la vocazione. Condizione dell‟ascolto, e quindi della libertà umana, è la fede nella realtà dell‟Essere, che per Heidegger, è ciò che non-è ente, cioè fenomeno, e perciò, come insegnava S. Paolo, può raggiungersi solo attraverso la credenza nella sua esistenza, la fede, che accede all‟Eterno, al luogo del divino. La fede nella realtà dell‟evento non deriva dall‟evento stesso quale sua necessità razionale, ma dal libero convincimento del soggetto conoscente. Senza tale convincimento di fede, l‟evento non è una realtà razionale ma tutt‟al più una realtà fenomenica. In tal senso sarebbe più opportuno 250

asserire che all‟inizio di ogni discorso razionale sulla realtà, c‟è la fede nella realtà. La colpa, quale sentimento morale, è il portato dell‟oblio dell‟Essere, ossia dell‟abbandono della coscienza alla realtà fenomenica, al mondo della finitezza. La colpa morale nasce dalla consapevolezza della riduzione dell‟esistenza umana alla dimensione della finitezza naturalistica, in cui regnano le relazioni di dominio. La libertà è la gratuità della fede ovvero dell‟oblio. L‟Essere e gli enti, ossia il Non-essere e il Molteplice, sono in relazione di differenza, ma tale relazione li costituisce entrambi come coappartenenti a un orizzonte di realtà che solo la parola (logos) può attingere e a cui può pervenire. Questa regione “legoica”, cioè del lègein comprensivo sia dell‟Essere che degli enti, distinta da quella “logoica” o del logos filosofico, è quella del Mito, dove l‟in-definizione del logos inesistente (e perciò fantastico) e la determinazione ontica propria del logos razionale coesistono nella stesso orizzonte del linguaggio. L‟Essere per la metafisica greca è l‟unità di ciò che è, l‟universalità degli enti, la loro sostanza costante nel divenire della loro alterità e temporalità. L‟Essere, nel senso di Heidegger, è ciò da cui gli enti si distinguono come determinazioni particolari. Se tali determinazioni molteplici sono dell’Essere, sono sue determinazioni, allora l‟Essere ne è l‟unità substanziale, e in tal caso viene confermata l‟unità sia ontologica che gnoseologica. A un Essere corrisponde una conoscenza dell‟unica verità. Se, invece, l‟Essere è il Negativo dell‟ente, la loro differenza apre uno spazio ontologico che solo la fede può collegare. L‟esito di questo collegamento è la rappresentazione del loro rapporto, il racconto della differenza e della relazione. Questa rappresentazione (Vor-stellung) e questo racconto (Dar-stellung), inerendo a dimensioni eterogenee, o procedono alla rimozione delle differenze a favore dell‟omogeneizzazione ontologica, riducendo l‟altro al sé; ovvero operano nel senso della radicalizzazione della differenza attraverso l‟eliminazione del ponte della fede, intendendo questa come mera contemplazione dell‟assolutamente Altro. La terza possibilità di contemplare la con-presenza dei due elementi costitutivi della differenza entro l‟esistenza dell‟uomo, la cui rappresentazione si avvale di un linguaggio che non è quello razionalistico della prima opzione o quello mistico della seconda, ma che è simbolico, tale ciò da rimandare dall‟una all‟altra dimensione attraverso la polisemia delle cifre simbolico251

rappresentative. Questa strada è quella perseguita sia dal linguaggio dell‟arte che dal linguaggio religioso, forme entrambe espressive del linguaggio mitopoietico. Esso, nondimeno, fu anche il linguaggio del primo grande filosofo della tradizione occidentale, Platone, nei cui dialoghi la poesia era commista alla ragione. Il maggiore dei filosofi fu perciò anche uno dei maggiori mitologi. Ma la rappresentazione narrativa più ricca di significati simbolici è quella che s‟incentra sulla vicenda esistenziale di Gesù il Cristo, la cui mito-logia costituisce il paradigma antropologico dell‟uomo pneumatico. L‟evento cristico unisce la verità del divino e la realtà del finito. Il Logos del Christos, pertanto, non è quello convenzionale del razionalismo greco che la tran-sumptio ellenistica ha lasciato credere, ma la cifra mondano-temporale della kénosis della paternità divina, la quale la costituisce nel suo significato escatologico. Tale significato era emerso storicamente con la crisi moderna della teologia politica cattolica, che aveva messo in discussione la sintesi tra cristianesimo e cultura razionalistica che in Eusebio di Cesarea e in Agostino trovava i due campioni teologici principali. Il loro intento, nella diversità delle rispettive prospettive, era stato quello di far convergere su uno stesso piano di realtà il tempo e l‟eternità, di cui Kierkegaard aveva denunciato, prima di Overbeck e di Barth, la insuperabile diversità.594 La diastasi tra fede e cultura si rifletteva in campo filosofico come mancanza di fondamenti veritativi e declinazione del sapere in senso scientifico e tecnologico, mentre nel campo politico si rifletteva come mancanza di legittimità del Potere. In modi diversi, in entrambi i casi si metteva in risalto la condizione di in-dipendenza dell‟esistenza umana da vincoli e da limiti incontrovertibili che, se in un clima di ingenuo ottimismo positivistico potevano far supporre fosse scaturigine di libertà, in realtà attestavano l‟alienazione spirituale moderna di cui aveva parlato Hegel e la “gettatezza” (Geworfenheit) esistenziale chiarita da Heidegger, che richiamavano l‟analogo concetto gnostico tramandatoci da Clemente alessandrino o da Ireneo di estraneazione dell‟uomo pneumatico dal

594 Sulla scorta della posizione kierkegaardiana, Barth “interpreta l‟evento di Cristo attraverso il concetto di istante, che egli intende come quell‟invisibile punto di intersezione di due piani, che in quanto tale non possiede alcuna estensione sul piano a noi noto del mondo storico”: G. Essen, Storia, escatologia, teologia, in Il Cristianesimo. Grande atlante, vol. III cit., pag. 1286. 252

mondo, che solo la gnosis poteva salvare.595 L‟aspetto culturalmente più rilevante di questa situazione critica è che la sua insorgenza interveniva proprio a seguito della dissoluzione di quella teologia cristiana che aveva costituito la risposta all‟analoga crisi del mondo antico. Il dubbio era se la dissoluzione teologica fosse dovuta al logoramento morale della sua rappresentanza istituzionale ovvero al superamento intellettuale della sua forza katechontica, ma che la fede nei fondamenti cristiani della civiltà europea non fosse più il sostegno della vita pubblica e privata era palese. La posizione più nichilistica di fronte a tale constatazione insisteva sulla impossibilità per la coscienza moderna di una nuova soluzione religiosa, almeno nei termini trascendenti tradizionali. Ciò nondimeno non escludeva che lo spazio lasciato vuoto dalla fede tradizionale potesse essere riempito da altre fedi secolari e da utopie palingenetiche surrogatorie, quali le ideologie neo-gnostiche appunto propugnavano. Ma l‟insorgenza delle ideologie è nella loro possibilità d‟essere della loro temporalizzazione. Tale possibilità è insita nella determinazione razionale dell‟Essere quale latenza del logos. L‟Essere che eviene e si determina come ente presente, è ciò che era in potenza d‟essere sin dall‟origine del suo costituirsi e si attualizza, cioè si oggettiva onticamente come storico. La maggiore rappresentazione che il nostro sapere ha elaborato al fine di giustificare razionalmente la determinazione dell‟Essere nell‟ente è quella cristiana del Logos, all‟interno del cui orizzonte ontologico si è costituito il senso, cioè il movimento, del processo storico della nostra civiltà. L‟Uno è il discorso (legein) che non esce da se stesso, che rimane in se stesso, che non si determina attraverso distinzioni di senso decisivo. Il legein si determina quando esce dalla sua in-distinzione e si mostra per ciò che è, come Essere. L‟Essere che è, è l‟ente. Il mostrarsi dell‟Essere come ciò che è, come ente, è la sua oggettivazione. Il dire (legein) diventa cosa che è detta (logos), e si mostra nel suo essere distinta dal fluire del dire, separata, objectum. L‟Essere Uno esce dalla sua unità e di-viene, cioè diventa due. L‟Uno si finitizza ossia si temporalizza e di-viene presente a sé, immagine di sé. Il presente è il doppio dell‟essere nella sua presenza, in ciò-che-è immagine

595 E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis (1959), tr. it. in Il mito del mondo nuovo, cit., pagg. 54-57.

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di sé. Immagine finita, che la parola de-finisce, cioè de-limita come altro dall‟Essere in-finito che di-viene suo oggetto. L‟in-finitezza dell‟Essere è la sua in-determinatezza, la sua inlimitatezza, la sua in-temporalità. Nell‟atto della sua finitezza presente, l‟Essere si dispiega temporalmente, escludendosi dall‟ente che-è sia come passato originario dell‟ente stesso presente, sia come futuro, ossia come dinamicità dell‟ente, come divenire. Da qui, dalla sua de-finizione, l‟Essere acquisisce una triplice fisionomia temporale, la cui unità dinamica costituisce la sua eternità. E-terno significa appunto che proviene dal suo essere trino. La e-ternità è la in-determinazione temporale di ciò che proviene dalla trinità del passato-presente-futuro. Le personae ossia le immagini della e-ternità sono il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Esse sono in quanto l‟Essere originario si è de-terminato nel presente, si è finitizzato in realtà ontica. Si è “incarnato”. Ma perché l‟Essere originario (Dio) ha voluto uscire da sé e determinarsi? La ragione ontologica della determinazione dell‟Essere in trinità temporale va cercata nella necessità insita nella in-finitezza di mostrare la sua potenza attraverso la possibilità di uscire da sé manifestandosi a se stessa. La possibilità di manifestare la propria potenza consiste nel rappresentarsi come un altro se stesso a se stesso, di-venendo perciò due, ossia immagine di sé, di procreare un suo Figlio costituendosi come Padre originario. La dualità dell‟Essere originario dalla sua immagine consiste nella sua diferenza, cioè nel suo esistere cme altro dall‟Essere, dal suo essere due. Il Figlio di-ferisce dal Padre in quanto è portatore (ferente) della sua dualità. Ma la differenza è dy-namismo, cioè movimento, dy-venire, diventare appunto due, ovvero Molteplice rispetto all‟Uno. Questo dinamismo, questo diventare altro rispetto all‟Uno,e dunque due, è lo Spirito dell‟Essere, che accomuna sia l‟Uno che l‟Altro. Ed è in questa comunanza dinamica o spiritualità della tri-nità che si dispiega tanto la potenza quanto la temporalità dell‟Essere. Lo Spirito dell‟Essere è la sua Potenza. Il prodotto della Potenza spirituale dell‟Essere è la sua creazione finita, il Figlio, la sua immagine presente. Il Padre è presente a se stesso come Figlio, e lo è per mezzo della sua potenza, cioè del suo Spirito. La potenza spirituale dell‟Essere consiste nel farsi immagine di sé stessa, di du-plicarsi come Altro da sé che è sé stesso. Il sé stesso come immagine, come Altro, è potenza poietica, creazione, ossia possibilità d‟essere presente a sé stessi.

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