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Immigrazione italiana 19701990 La seconda generazione (2)
from L'ECO
by Laltraitalia
a cura di Giovanni
Longu
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L' eccezionalità del fenomeno della «seconda generazione» di italiani sul finire degli anni Sessanta era dovuta sia alla sua straordinaria portata e sia all’impreparazione delle istituzioni soprattutto svizzere a fronteggiarla. La combinazione di questi due elementi rendeva qualsiasi soluzione particolarmente complessa e difficile. Si è già parlato della gravità del fenomeno per il numero elevato di bambini interessati (cfr. articoli precedenti), ma anche l’impreparazione delle istituzioni merita qualche spiegazione. Tanto più che nell’ormai secolare storia di Paese d’immigrazione, non è pensabile che la Svizzera abbia dovuto affrontare il tema dei figli degli stranieri per la prima volta solo a cavallo del 1970.
La seconda generazione fino al 1931
Effettivamente già in passato la Svizzera aveva dovuto occuparsi della seconda generazione di stranieri presenti sul suo territorio. Lo faceva nel suo interesse quando, negli accordi bilaterali con gli Stati vicini, per dovere di reciprocità accettava che gli stranieri e i loro figli continuassero a restare tali finché volevano e i propri cittadini e i loro figli continuassero a restare svizzeri anche vivendo in Germania, in Italia o altrove. Lo faceva pure suo malgrado, come nel Trattato di domicilio e consolare del 1868 tra l’Italia e la Svizzera, quando la Confederazione accettò che anche gli italiani naturalizzati in Svizzera, quindi svizzeri, non potessero sottrarsi all’obbligo del servizio militare in Italia. La seconda generazione degli immigrati era divenuta un problema politico serio quando agli inizi del secolo scorso si cominciò a vedere nel crescente numero di stranieri (specialmente tedeschi e italiani) e dei loro figli nati in Svizzera un pericolo e per indicarlo s’inventò nel 1900 la parola Überfremdung, «inforestierimento». Per evitare che si diffondesse tra la popolazione un forte sentimento antistraniero, il dibattito politico si concentrava sulla ricerca del metodo più semplice e realizzabile per ridurre la crescita e possibilmente il numero totale di stranieri. Poiché a causa dei vari accordi bilaterali era quasi impossibile intervenire direttamente sulla prima generazione, decisamente tedesca, italiana o francese e pressoché insensibile all’attrazione della cittadinanza svizzera, si pensò di agire quasi esclusivamente sui giovani stranieri, ritenendoli già sufficientemente integrati perché nati in Svizzera (benché frequentassero ambienti, scuole comprese, quasi esclusivamente non svizzeri). Si giunse persino ad approvare una legge federale (1903) che dava ai Cantoni, competenti in materia di cittadinanza, la facoltà di introdurre nell’ordinamento cantonale una sorta di jus soli, ossia la naturalizzazione automatica per gli stranieri di seconda generazione nati in Svizzera. La legge rimase inapplicata per la contrarietà dei Cantoni (ma anche della popolazione immigrata interessata) e la Confederazione, di fronte a tali ostacoli, rinunciò per oltre un decennio a nuovi tentativi di soluzione generale, anche se il tema dell'Überfremdung era sempre presente nella agenda del Consiglio federale. Da allora, tuttavia, cominciò a farsi strada il pensiero che alla naturalizzazione ciascuno dovesse arrivarci attraverso l’ «assimilazione» individuale (il termine «integrazione» era ancora se non inesistente, scarsamente usato).
La legge sugli stranieri del 1931
Poiché nell’opinione pubblica svizzera la paura degli stranieri non era stata scacciata nemmeno dalle avversità della prima guerra mondiale e dalla vistosa diminuzione della popolazione straniera dal 14,7 per cento (nel 1910) all’8,7 per cento (nel 1930), l’Assemblea federale pensò di dare una soluzione pressoché definitiva al problema dell’inforestierimento attraverso una nuova legge federale sulla dimora (di durata limitata) e il domicilio (di durata illimitata) degli stranieri, approvata il 26 marzo 1931 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1934. L’importanza di questa legge è facilmente comprensibile se si pensa che essa ha fissato i principi fondamentali della politica immigratoria svizzera per oltre settant’anni, ossia fino all’entrata
in vigore della nuova legge sugli stranieri il 1° gennaio 2008. La sua durata e i principi in essa contenuti spiegano anche in larga misura l’impreparazione della Svizzera a gestire l’emergenza della seconda generazione alla fine degli anni Sessanta. Essi meritano pertanto di essere richiamati, almeno sommariamente. Anzitutto, però, occorre ricordare che la legge sugli stranieri del 1931 doveva costituire per il Consiglio federale e per il legislatore una specie di muro contro l’ «inforestierimento» , ossia il pericolo che una massa di stranieri ritenuti «ospiti» , Gastarbeiter, rimanesse in Svizzera a tempo indeterminato. La legge non era dunque destinata, come qualcuno potrebbe pensare, a contenere l’afflusso di stranieri (contro cui sarebbe stata largamente inefficace a causa dei trattati bilaterali con i Paesi vicini da cui provenivano nella stragrande maggioranza), ma a scoraggiare la loro permanenza in territorio svizzero.
I cardini della politica migratoria dal 1931 al 2008
Per raggiungere tale obiettivo non occorreva introdurre nuove modalità d’ingresso in Svizzera, ma bastava disciplinare le condizioni d’ingresso e della permanenza degli stranieri. Per esempio, vincolando l’ingresso e il soggiorno dei lavoratori stranieri non solo a un permesso di lavoro e a un permesso di soggiorno, ma anche a un reale interesse della Svizzera ad ospitarli. Per questo la legge prescriveva all’articolo 16 che «nelle loro decisioni, le autorità competenti a concedere i permessi terranno conto degli interessi morali, economici del paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». In altre parole, le nuove ammissioni dovevano avvenire unicamente in funzione della situazione del mercato del lavoro, del clima sociale, della situazione degli alloggi, della lotta all’ «inforestierimento». Inoltre, venivano introdotte per la prima volta nella legge due caratteristiche determinanti per la successiva politica federale degli stranieri, la discrezionalità dei permessi e la precarietà. Con la prima si riconosceva un potere pressoché assoluto agli organi dello Stato di concedere o meno i permessi e di revocarli in base a criteri già allora ritenuti da taluni poco oggettivi. Con la seconda si stabiliva il principio della durata limitata dei permessi e della possibilità che venissero revocati o non venissero rinnovati. L’articolo 4 precisava, a scanso di equivoci e di pretese ingiustificate che «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio». Pertanto si stabiliva anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati. Si sa infine che a vigilare sull’osservanza della legge e dei regolamenti c’era un’attenta Polizia degli stranieri, che solo a nominarla incuteva timore. Del resto doveva apparire singolare che a presiedere alla sorveglianza di decisioni essenzialmente amministrative ci fosse una «Polizia» speciale. Il perché è invece chiaro: la nuova legge e tutte le misure ad essa collegate dovevano scoraggiare che molti stranieri prolungassero a tempo indeterminato il loro soggiorno in Svizzera.
L’emergenza della seconda generazione
Il risultato è stato che effettivamente la legge, le ordinanze e la polizia degli stranieri hanno consentito che milioni di lavoratori stranieri dimorassero in questo Paese per qualche sta
gione o anno finché l’economia ne aveva bisogno e poi se ne tornassero definitivamente al loro Paese d’origine, perché la Svizzera non voleva essere un Paese d’immigrazione senza ritorno. Finché questa politica ha funzionato non c’è mai stato un serio problema della «seconda generazione» perché il continuo movimento di arrivi e partenze rendeva difficile anche solo pensare a costituire qui una famiglia, crescere dei figli, farsi una casa, integrarsi. Solo nella seconda metà degli anni Sessanta, quando questo movimento incessante di migranti ha cominciato a rallentare perché l’economia aveva bisogno di personale stabile e fidelizzato all’azienda in cui lavorava, gli immigrati hanno cominciato dapprima a prolungare il loro soggiorno in Svizzera e poi a prendere il domicilio a tempo indeterminato, a costituire una famiglia, a fare figli o farsi raggiungere dai figli minorenni rimasti in Italia. In breve, l’emergenza della seconda generazione era inevitabile, soprattutto dopo che l’Italia durante il negoziato per un nuovo accordo di emigrazione/immigrazione (nella prima metà degli anni Sessanta) aveva chiesto espressamente alla controparte svizzera di prendere in considerazione i bisogni di formazione dei piccoli italiani. Solo allora, ufficialmente nel 1970, come si vedrà nel prossimo articolo, la Confederazione prese coscienza del
fenomeno in crescita della seconda generazione senza poter invocare leggi e regolamenti ormai travolti da una nuova generazione di stranieri, non più riconducibili alla categoria degli «immigrati» e più simili ai coetanei svizzeri che ai coetanei del Paese d’origine. (Segue).
Allievi elettronica
a cura della
Redazione
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Ibianchi viottoli in pietra, le case antiche ed il Santuario. La quiete del rione Junno ed il traffico di turisti, pellegrini ed abitanti del luogo lungo il corso principale. Monte Sant’Angelo sorprende per le sue atmosfere medievali, per il fantastico panorama sul Golfo di Manfredonia e per la sua antica storia di destinazione religiosa.
Il borgo sorge nel Parco Nazionale del Gargano, in provincia di Foggia, arroccato su un’altura che affaccia sulle vallate sottostanti. Monte Sant’Angelo è un affascinante borgo non solo dal punto di vista storico e culturale, ma
Grotta San Michele
anche da un punto di vista religioso. Il Santuario di San Michele, dichiarato Patrimonio dell’Umanità UNESCO, è difatti meta di pellegrinaggi fin dall’epoca delle crociate.
Viene definita anche la città dei due siti UNESCO per i suoi due siti di importanza storica e naturalistica: uno religioso, ossia il Santuario di San Michele per le sue tracce di epoca longobarda, ed uno naturalistico, con le faggete vetuste della Foresta Umbra.
Basilica Santuario San Michele
Ha ottenuto inoltre altri importanti riconoscimenti come l’inserimento della Grotta di San Michele Arcangelo tra le 10 grotte sacre più belle al mondo da parte di National Geographic, l’inserimento tra le 20 città più belle
d’Italia da parte di Skyscanner, e le tre stelle della guida Verde Michelin al suo centro storico.
Sicuramente uno dei borghi pugliesi più affascinanti. Monte Sant’Angelo merita di essere visitato sia per la sua bellezza, che per la sua vicinanza ai laghi di Lesina e Varano ed alla Foresta Umbra, in cui è possibile fare rilassanti passeggiate nel verde.
Con oltre mille anni di storia e varie vicende che lo legano soprattutto a San Michele Arcangelo, Monte Sant’Angelo è una meta turistica omai internazionale e, ogni anno, ospita migliaia di visitatori che soggiornano tra il centro storico e la costa.
La città è stata costruita attorno alla Sacra Grotta in cui l’Arcangelo è apparso più volte nei secoli. Ma la sua fama non finisce qui. Oltre a essere stato un possedimento normanno e longobardo, Monte Sant’Angelo si è espanso – soprattutto negli ultimi due secoli – fino a diventare la città visitabile d'oggi.
Il Santuario di San Michele è preziosa testimonianza dell’arte longobarda in Italia. Una scalinata scavata nella roccia conduce nella Sacra Grotta, mistico luogo dell’apparizione dell’Arcangelo.
Situato anche lungo la Via Francigena, esso è parte anche della curiosa linea retta che collega i luoghi di culto di San Michele, che va da Monte Sant’Angelo alla Sacra di San Michele a Torino fino a Mount Saint Michel in Normandia.
Con un’architettura molto suggestiva e costruita lungo il corso di vari secoli, la visita al santuario è un viaggio storico tra le sue epoche artistiche e di vita. La facciata e la chiesa su due piani sono – principalmente – in stile statue presenti – la principale è quella dell’Arcangelo in marmo di Carrara, realizzata da Sansovino – sono per lo più del Rinascimento.
Ma monte Sant'Angelo non è solo spiritualità. ll Rione Junno è il quartiere più antico e caratteristico di Monte Sant’Angelo. Le piccole e bianche casette del “Rione” sembrano far parte
di un presepe. In queste piccole casette vivevano famiglie di 10 persone in spazi di meno di 30 metri quadri. Il più delle volte le persone condividevano lo stesso tetto con animali, neanche troppo domestici (cavalli, ciuchini, ecc..). Alcune case del Rione Junno si sono trasformate in alloggi per turisti, ideali per respirare “aria di Puglia” .
Il castello normanno svevo di Monte Sant’Angelo rappresenta il secondo monumento più importante del paedi Orso I, Vescovo di Benevento. L’interno delle mura merita sicuramente una visita.
Con la sua Torre dei Giganti alta 18 metri e con mura di ben 3 metri, la
struttura del castello negli anni ha subito varie modifiche, di cui sono rimasti alcuni accenni ancora visibili. Al suo interno si possono intravedere le carceri e la suggestiva Sala del Tesoro.
Non può mancare poi una passeggiata lungo la via principale, soffermandosi a sbriciare le vetrine delle attività locali.